1 Tesi di abilitazione Le porte lignee di Santa Sabina La zona liminare del nartece e l’iniziazione cristiana Ivan Foletti BRNO 2014 2 3 Indice Introduzione 5 I. Status quaestionis – alcune riflessioni storiografiche 11 I.1. Primi studi 12 I.2. La storia dell’arte universale: Seroux d’Agincourt, Burckhardt, Schnaase, Cavalcaselle e Crowe 14 I.3. Il metodo iconografico, gli studi monografici e la questione orientale: Kondakov, Berthier, Wiegand e Strzygowski 18 I.4. Cinque decenni di “vuoto”, l’Italo-Gallic School e Félix Darsy 24 I.5. Sahoko Tsuji: una tesi celata dalla storia? 33 I.6. Alla ricerca del “programma”, Gisela Jeremias e Jean-Michel Spieser 36 I. 7. Nuove domande tra Cultus et decor e Seeing medieval art 41 II. Porta, luogo passaggio, di iniziazione e di protezione 43 II.1. Spazio liminare 43 II.2. L’atrio tardoantico, quali funzioni? 45 II. 3. Sono la porta 51 III. Le porte e l’atrio di Santa Sabina: quali funzioni? 54 IV. Immagini, liturgia e omiletica 66 IV. 1. L’eclissi di Roma e la scelta di Ambrogio 67 IV. 2. Lo sguardo battesimale 69 IV. 3. Una sinfonia interpretativa? 139 IV. 4. Come si costruisce un racconto? 143 V. Stile e Retorica 151 V. 1. Stili e maniere: problema storiografico e realtà materiale 151 V. 2. La nuova retorica cristiana? 160 V. 3. Stile e iconografia 173 V. 4. Un “ordine” nuovo 179 Conclusioni 183 Corpus iconografico e critico 188 1. “Crocifissione” 189 4 2. Le pie donne al sepolcro 195 3. Adorazione dei Magi 197 4. Trasfigurazione (Traditio Legis) 201 5. I miracoli del Cristo 208 6. I miracoli di Mosè 214 7. Assunzione di Enoch (Ascensione) 222 8. La Teofania (Parusia) 230 9. Apparizione del Cristo risorto agli apostoli 237 10. Il Cristo incontra le pie donne nel giardino 239 11. Annuncio del tradimento di Pietro 242 12. Il ratto di Abacuc 246 13. La vocazione di Mosè e il dono della legge (vocazione di Mosè sull’Horeb) 250 14. Il cosiddetto pannello dell’Acclamatio 258 15. L’assunzione di Elia 264 16. Il miracolo dei serpenti e il passaggio del Mar Rosso 268 17. Il Cristo davanti a Pilato e la Via Crucis 272 18. Il Cristo davanti a Caifa 275 Bibliografia 278 1. Letteratura secondaria 278 2. Fonti antiche e testi inediti 303 5 Introduzione Chi visita oggi l’Aventino e giunge alla basilica di Santa Sabina si avvicina a questo elegante edificio tardoantico dal lato sud-est, quello della facciata laterale, sulla quale un’entrata moderna gli permetterà poi di accedere all’interno (fig. 1). Fig. 1. Giuseppe Vasi, Basilica di Santa Sabina (vista dalla piazza di Pietro d’Illirico), Roma, 1761. In questo modo, chi penetra nella basilica non si accorge neppure dell’esistenza di un nartece – confondibile con l’entrata del chiostro domenicano – e dell’originale ingresso principale (fig. 2). Il visitatore accorto vi accederà solo in un secondo momento, quando andrà ad ammirare l’antica porta lignea e, negli ultimi anni, un’imago murale della Theotokos (fig. 3-4). Con ogni probabilità lo spazio del nartece non lo colpirà: si tratta di un ambiente scuro e stranamente sproporzionato. Per poter ammirare bene la porta e l’affresco, è addirittura necessaria un’illuminazione 6 artificiale. A prima vista, insomma, non vi sono ragioni per dedicare attenzione a questo luogo, che appare come contenitore, privo d’interesse, di opere eccezionali. Fig. 2. Nartece, basilica di Santa Sabina, Roma, 421-431. Quanto descritto per il semplice curioso riflette, paradossalmente, la fortuna critica del nartece di Santa Sabina negli studi. Eccetto pochissimi lavori, che perlopiù gli hanno dedicato soltanto brevi descrizioni, lo spazio d’accesso alla basilica di Santa Sabina è stato di fatto ignorato dalla ricerca. Molta più fortuna hanno avuto le celebri porte lignee e, dopo la sua scoperta, recentissima, anche l’immagine della Theotokos. La storiografia appare così determinata dalle mutilazioni subita da questo luogo nei secoli. L’originale ed elegante portico antico, zona di transito tra le due grandi arterie dell’Aventino – il vicus Altus e il vicus Armilustrii –, è diventato marginale dopo la scomparsa del vicus Altus. Nei secoli il nartece è stato inoltre tagliato dalla costruzione del campanile nel suo lato settentrionale, dall’edificazione di un 7 dormitorio per i frati nella sua parte superiore, che ha radicalmente abbassato il soffitto e, infine, dalla chiusura delle polifore originali. Sono progressivamente scomparsi gli affreschi che decoravano questo spazio e l’antica anticamera, riccamente ornata, ha perso non solo la sua funzione ma anche il suo brio. È proprio a causa di questa progressiva riduzione – e forse in parte anche per l’attenzione conferita dalla tradizione storiografica alle immagini figurative – che il nartece ha cominciato a essere percepito anche negli studi come un luogo a servizio delle immagini che ospitava. Fig. 3. Porta lignea, basilica di Santa Sabina, Roma, 421-431. 8 Questo libro parte proprio da questo stato dei fatti e vorrebbe cercare invertire il paradigma: il nartece non è stato concepito per le immagini, ma sono le immagini a essere nate per ornarlo. In altri termini, l’interesse, il prestigio e l’importanza di queste ultime non sono che il riflesso della funzione di tutto un ambiente dove architettura, immagine e performance liturgica vivevano in naturale sinergia. Fig. 4. Theotokos con i committenti, basilica di Santa Sabina, Roma, 600. Le pagine che seguiranno saranno dedicate soltanto alla prima parte della storia di questo luogo, quella immediatamente successiva alla costruzione della basilica voluta da Pietro d’Illiria negli anni di Celestino I (421-431) e di Sisto III (432-440). La gran parte del volume sarà inoltre occupata dallo studio della più antica immagine del nartece, quella della porta lignea. La porta non sarà però più guardata come oggetto indipendente, ma studiata come parte integrante di uno spazio architettonico e comprensibile soltanto al suo interno, nelle dinamiche che lo caratterizzavano. Più precisamente, non si cercherà di focalizzarsi sulle caratteristiche architettoniche del nartece, quanto piuttosto di riflettere sulla sua funzione e attraverso essa comprendere il contesto culturale della nascita delle immagini che lo ornano. 9 Nel primo capitolo si ripercorreranno i principali studi sul nartece di Santa Sabina focalizzandosi sul monumento che ha ricevuto maggiore attenzione, la celebre porta lignea. L’obiettivo è comprendere non solo in che modo la storiografia ha interpretato questo monumento, ma anche le ragioni storiche che hanno guidato le diverse interpretazioni. In questo capitolo si tenterà con poche brevissime osservazioni anche di delineare le basi metodologiche di questo volume. Il secondo capitolo sarà dedicato a una riflessione sulla funzione degli spazi d’accesso, di “zone liminari”. Partendo dagli studi antropologici, ma anche dalla storia architettonica tardoantica, lo scopo di questo capitolo sarà di riconoscere le funzioni peculiari dei luoghi di passaggio: dalla protezione e dalla difesa dal male all’iniziazione, nel senso più vasto di questo termine. La terza parte di questo libro sarà un tentativo di trasportare al caso concreto quanto osservato sull’uso dei narteci in senso generale. Attraverso uno studio della liturgia stazionaria romana, della funzione battesimale di Santa Sabina, fino a una valutazione della personalità del committente della chiesa, l’intenzione è quella di vedere quanto l’uso di una nozione di “zona liminare” possa essere applicata all’Aventino. Il capitolo successivo – il più esteso di tutto il lavoro – sarà uno studio iconologico dei rilievi della porta. Incrociando dati omiletici, liturgici e visuali, si cercherà di comprendere questa grande e complessa imago, proprio attraverso la prospettiva dell’uso – iniziatico e penitenziale – di tutto il nartece. Il quinto e ultimo capitolo sarà ugualmente dedicato alle porte per capire i meccanismi attraverso i quali un oggetto così polimorfo può essere stato composto. Incrociando i dati visivi con quelli iconologici del capitolo precedente si tenterà di ipotizzare quale era la disposizione originale dei diversi elementi di questa immagine. Dopo le conclusioni sarà quindi dato spazio a un corpus iconografico dei diciotto rilievi noti e conservati oggi delle porte. Lo scopo di quest’ultima parte è di 10 dare al lettore la possibilità di comprendere le scelte iconografiche cruciali del quarto capitolo senza appesantire inutilmente il testo. La speranza di chi scrive è che questo libro possa gettare una luce nuova su uno dei luoghi più interessanti e spettacolari del mondo tardoantico, rimasto ingiustamente in ombra per secoli. Allo stesso modo l’ambizione è di valutare da un punto di vista il più completo e complesso possibile il significato di un artefatto unico e straordinario come lo sono le porte della basilica di Santa Sabina. 11 I. Status quaestionis – alcune riflessioni storiografiche Le pagine che seguiranno non sono uno status quaestionis in senso classico. Il mio desiderio non è infatti soltanto di presentare una sintesi degli studi sulle porte e sul nartece di Santa Sabina, ma anche di riflettere sul contesto storico e culturale in cui sono nati. Considerata la storiografia delle porte – che ha più di 420 anni – una semplice enumerazione degli studi, magari anche interpretata in chiave “evolutiva”, mi pare semplicemente inadeguata. Attraverso i secoli, le porte di Santa Sabina hanno suscitato grande curiosità, la loro analisi è però stata anche l’occasione per proiettare, in un artefatto antico, questioni e problematiche attuali al momento della loro redazione. In questo senso non si tratta di indicare solo in che modo l’uno o l’altro erudito abbia analizzato le porte ma anche e soprattutto quante delle loro conclusioni sono rilevanti per il dibattito odierno e quante lo sono invece per comprendere la storia della nostra disciplina. Per rendere questa discussione più scorrevole è stata fatta la scelta di prendere in considerazione soltanto gli studi che sono stati recepiti negli anni come i più significativi, oltre ad apparire come i più rappresentativi per il loro contesto critico. In questo capitolo saranno inoltre analizzati esclusivamente i testi che si occupano delle porte nel loro insieme lasciando da parte quelli dedicati all’uno o all’altro pannello, raccolti nel corpus iconografico e critico in fondo al volume. Vorrei comunque ricordare i lavori di Félix Darsy e di Gisella Jeremias che – rispettivamente nel 1954 e nel 1980 – hanno cercato di raccogliere l’insieme del materiale critico relativo alle porte di Santa Sabina1 . Va inoltre menzionata la bibliografia degli studi sulle porte in appendice alla tesi di dottorato di Sahoko Tsuji, discussa a Parigi nel 1961 e mai pubblicata2 . Riguardo al nartece, il suo posto in questa discussione sarà limitato in quanto, eccetto pochi accenni assolutamente secondari, i soli studi che ne contemplino l’esistenza in 1 Cfr. Darsy, Bibliographie chronologique; Jeremias, Die Holztür, pp. 13-14. 2 Tsuji, Étude iconographique, pp. 367-370. 12 maniera strutturata sono stati quelli di Richard Krautheimer e di Félix Darsy3 . In entrambi i casi, però, si tratta soprattutto di una descrizione dello spazio architettonico senza interrogarsi sulle sue funzioni. In tempi recenti è tornata sulla questione Manuela Gianandrea che ha pubblicato la scoperta della favolosa icona dipinta nel corso del VII secolo e quindi quella dei falsi marmi, eseguiti probabilmente al momento della consacrazione della basilica 4 . Infine l’unica riflessione che si soffermi sull’insieme dello spazio comprendendo il nartece e le sue immagini e la loro funzione sono due articoli scritti da Manuela Gianandrea e dall’autore di queste righe e recentemente pubblicati5 . Le pagine che seguiranno saranno quindi incentrate attorno alla storia critica delle porte. I.1. Primi studi La prima menzione delle porte di Santa Sabina tra gli eruditi moderni è quella di Pompeo Ugonio che, nel 1588, scrive: “Ma l’entrata che principale diciamo esser stata ha il portico ancor lei dinanzi maggiore, ornato di colonne à traverso scannellate, & una bellissima porta di molti lavori, & figure con grande manifattura intagliate”6 . Una prima descrizione delle porte, che faccia riferimento ai vari episodi, è conservata manoscritta presso la Biblioteca Apostolica Vaticana7 , mentre il primo testo con 3 Darsy, Recherches archéologiques, pp. XY. Krautheimer, Corpus basilicarum, v. IV, pp. XY. 4 Gianandrea, “Un’inedita committenza”. Cfr. anche la pubblicazione destinata ad un più largo pubblico: L’icona murale di Santa Sabina. 5 Gianadrea, “Nel lusso della tradizione”; Foletti, “Le porte lignee di Santa Sabina”. 6 Ugonio, Historia Delle Stationi Di Roma, p. 8. Per la figura di Ugonio cfr. Heid, “Pompeo Ugoni(o)”, pp. 1256-1257. 13 ambizioni più importanti fu composto nel 1756 da padre Tommaso Maria Mamachi (1713-1792)8 . Nato a Chios, in Grecia, questo teologo e studioso domenicano fu affiliato al convento dei Santi Pietro e Paolo di Gala a Costantinopoli prima d’essere trasferito a Firenze, dove discusse il suo dottorato, e di passare quindi, nel 1739, a Roma9 . Nell’Urbe fece un’importante carriera, pubblicando numerosi testi eruditi tra cui spicca l’Origines et antiquitates christianae10 . Nel 1756, in una monografia dedicata alla storia dell’ordine domenicano, Mamachi ricorda anche i monumenti di proprietà dei padri predicatori, tra cui il convento di Santa Sabina. Mamachi si sofferma sia sulla chiesa sia sulle porte che data al periodo precedente al VII secolo, più probabilmente al secolo VI. Dopo aver individuato le scene dell’Antico e del Nuovo Testamento, egli propone di leggere l’insieme come un dialogo tipologico tra i due testamenti11 . La pubblicazione è accompagnata anche dalla prima illustrazione grafica delle porte12 . I due battenti sono raffigurati nello stato attuale e – eccetto per qualche dettaglio – il solo pannello significantemente diverso dalla situazione odierna è quello del passaggio del mar Rosso. Dalla stampa è evidente che il pannello era rovinato nella sua parte centrale e quindi più difficile da leggere per il disegnatore (per il restauro ! 16). L’ordine dei pannelli è però quello attuale, come pure il numero dei rilievi conservati. Queste prime menzioni sono marcate da un interesse antiquario o religioso per le porte, chiaramente, però, la loro importanza nei volumi sulla storia dell’ordine è secondaria. In quanto oggetti antichi, le porte meritano attenzione e curiosità, 7 Joannis Antonii Brutii, Theatrum Romanae Urbis, fol. 95v. Per quest’opera mai pubblicata cfr. Neveo, “Bruzio, Giovanni Antonio”; Heid, “Giovanni Antonio Bruzio”, pp. 236-237. 8 Mamachi, Pollidori, Badetto, Christianopulus, Ferretti, Annalium ordinis Praedicatorum, pp. 569-571. 9 De Luca, “Mamachi” ; Heid, “Tommaso Maria Mamachi” pp. 854-856. 10 Mamachi, Origines et antiquitates. 11 Mamachi, Pollidori, Badetto, Christianopulus, Ferretti, Annalium ordinis Praedicatorum, p. 569. 12 Mamachi, Pollidori, Badetto, Christianopulus, Ferretti, Annalium ordinis Praedicatorum, pp. 570-571. 14 dall’analisi è però assente qualsiasi forma di struttura storica, che farebbe entrare i rilievi in un processo di storia artistica. I.2. La storia dell’arte universale: Seroux d’Agincourt, Burckhardt, Schnaase, Cavalcaselle e Crowe La percezione delle porte di Santa Sabina cambia radicalmente nel corso del XIX secolo: a partire dal 1800 la storia dell’arte comincia infatti a profilarsi come disciplina autonoma e soprattutto accademica 13 . In concomitanza con questo fenomeno nascono le prime sintesi generali che hanno la chiara ambizione di costruire una storia dell’arte completa e universale. Non è perciò un caso che il primo studio a inserire i rilievi dell’Aventino in un contesto culturale più ampio – anche se dedica loro per la verità soltanto qualche riga – è un’opera storico artistica di sintesi, la monumentale Histoire de l’art par les Monuments, depuis sa décadence au IVe siècle jusqu’à son renouvellement au XVIe di Seroux d’Agincourt (1730-1814)14 . Il secondo volume della serie, destinato a studiare più specificatamente la scultura, appare nel 1823, quasi dieci anni dopo la morte del suo autore, fatto che trasforma il frutto di un lavoro e di una riflessione della fine del Settecento in uno dei primi volumi dell’inizio del nuovo secolo15 . Non a caso il punto di vista dello studioso – chiaramente declinato già nel titolo – è quello di studiare il Medioevo con un’ottica ben precisa, quella che da Vasari a Winckelmann caratterizza la ricezione questo periodo come un’epoca di decadenza, arretrata e oscura16 . Non sorprende quindi che Seroux 13 Per la nascita della storia dell’arte come disciplina moderna cfr. le sintesi di Kultermann, The History of art History, pp. 59-94; Podro, The critical historians ; Kroupa, Školy dějin umění, pp. 121 s. 14 Seroux d’Agincourt, Histoire de l’Art. Per la biografia dell’autore cfr. Heid, “JeanBaptiste-Louis-Georges Seroux d’Agincourt”, pp. 1157-1158. 15 Per una sintesi sulla costruzione di una nuova e più completa visione del medioevo cfr. Mondini, “Séroux d’Agincourt”. 16 Per la ricezione moderna del medioevo crf. Il classico storiografico Kultermann, The History of art History; ma anche il più recente volume Arti e storia nel Medioevo. 15 d’Agincourt inserisca le porte di Santa Sabina nel capitolo sulla decadenza della scultura. Lo studioso caratterizza brevemente l’iconografia delle porte – menziona le storie dei due Testamenti e il fatto che alcuni episodi non possono essere ascritti alle narrazioni bibliche – e procede quindi alla valutazione stilistica. Rispetto al periodo di massima decadenza ascrivibile agli anni “barbarici” del Medioevo, le porte si situano secondo Seroux d’Agincourt in una fase di leggero progresso. Il periodo nel quale va collocato questo artefatto è perciò, secondo il critico francese, l’inizio del XIII secolo17 . Seroux d’Agincourt giustifica questa scelta cronologica considerando le porte di Santa Sabina un’imitazione delle porte bronzee prodotte nei due secoli precedenti. Rispetto agli studi precedenti di Ugonio o Mamachi la prospettiva di Seroux d’Agincourt è però semplicemente capovolta: un oggetto antiquario e religioso si trasforma in una tappa dello sviluppo formale della storia dell’arte. Una datazione simile è ripresa anche nel leggendario volume di Jacob Burckhardt (1818-1897), Der Cicerone. Eine Anleitung zum Genuß der Kunstwerke Italiens, nel quale si posticipa l’esecuzione delle porte fino alla fine del Duecento18 . Il giudizio che esprime lo studioso riguardo alla qualità del rilievo delle porte non è però troppo dissimile da quello formulato da Seroux d’Agincourt: “Sterben nach lebendigster Bewegung in äusserst befangenen Formen”19 . Nel 1864 esce a Londra un volume che sembra costruito sulla falsariga di quelli precedenti, si tratta di A new history of painting in Italy from the second to the sixteenth century, firmata da Giovanni Battista Cavalcaselle (1820-1897) e da Joseph Archer Crowe (1825-1895)20 . In questo loro testo – che conoscerà un grande successo, con diverse riedizioni, e che sarà anche tradotto in italiano e in tedesco – i due studiosi 17 Seroux d’Agincourt, Histoire de l’Art par les Monumens, vol. II, p. 50. 18 Per la figura del Burckhard cfr. Teuteberg, Wer war Jacob Burckhardt?. 19 Burkhard, Der Cicerone, pp. 562-663. 20 Cavalcaselle, Crowe, History of painting in Italy. Per la biografia di Cavalcaselle, vero figlio del movimento risorgimentale cfr. “Cavalcaselle, Giovanni Battista. Per Crow/ Crowe cfr. Chisholm, “Crowe, Sir Joseph Archer”. Per l’opera di entrambi cfr. Kultermann, The History of art History, pp. 111-114. Cfr. anche lo studio di Levi, “Crowe e Cavalcaselle”. 16 non cambiano la datazione generalmente accettata per le porte, che mantengono tra il XII e il XIII secolo, la loro attenta analisi li porta però a proporre diversi paralleli con il panorama tardoantico21 . Cavalcaselle e Crowe ricordano anche il testo di Mamachi ma respingono la sua proposta di datazione spiegando le somiglianze con il mondo paleocristiano per effetto di un’imitazione di monumenti antichi sia a livello del contenuto che a quello della forma con una sorta di “rinascimento”. L’idea centrale è pertanto molto simile alle conclusioni di Seroux d’Agincourt e di Burckhardt: dopo il momento più buio della scultura assistiamo a una ripresa del valore e dell’estetica antichi22 . Nello stesso anno della pubblicazione di A new history of painting in Italy dedica qualche riga alle porte di Santa Sabina anche Carl Schnaase (1798-1875). Diversamente dai testi citati finora, lo studioso berlinese ne dà una valutazione tutto sommato positiva: “die recht lebendig und ausdrucksvoll, aber ganz abweichen von dem Style der gleichzeit malerei in kurzen, derben, selbst etwas plumpen Figuren darstellend sind”23 . Schnaase sottolinea la diversità di forma rispetto alla pittura duecentesca contemporanea e confuta l’identificazione di Seroux d’Agincourt del papa Celestino, nominato nell’iscrizione dedicatoria della basilica, come Celestino III (1191-1198). Basandosi sui dati stilistici, egli non ribalta la datazione del monumento e si attesta su conclusioni tutto sommato simili a Burckhardt: lo stile deve essere associato alla produzione dell’anno 120024 . La figura di Carl Schnaase è troppo importante per la storiografia artistica per essere qui affrontata anche soltanto in maniera superficiale25 . La diversa valutazione che lo studioso dà delle porte di Santa 21 Cavalcaselle, Crowe, Geschichte der italienischen Malerei; Id., Storia della pittura in Italia. 22 Cavalcaselle, Crowe, Storia della pittura in Italia, pp. 82-84. 23 Schnaase, Geschichte der bildenden Künste, p. 284. 24 Schnaase, Geschichte der bildenden Künste, p. 284, n. 3. 25 Cfr. la recente sintesi di Karge, “Franz Kugler und Karl Schnaase”, pp. 83-104, con la relativa bibliografia. 17 Sabina rispetto a chi lo aveva immediatamente preceduto può essere spiegata con una delle sue tesi centrali: opponendosi alla visione di Hegel, che vedeva nell’arte un’ancella della religione, Schnaase considera l’arte come un’entità autonoma con un proprio e logico sviluppo26 . Questo postulato gli dà gli strumenti teorici per una nuova e diversa visione dell’arte medievale, che lo studioso rivaluta – in armonia con il pensiero nazionalista del tempo – soprattutto per quanto riguarda il romanico e il gotico27 . Da questo breve panorama appare legittimo osservare che nei grandi scritti con ambizioni universaliste, fino agli anni sessanta dell’Ottocento, la considerazione delle porte di Santa Sabina segue a ruota quella di tutto il “Medioevo”. Soprattutto nella prima metà del secolo, in eredità alle tesi di Vasari e Winckelmann e sulla scia di un lavoro ancora settecentesco come lo scritto di Seroux d’Agincourt, le porte vengono perciò percepite come frutto di una cultura decadente – anche se in leggera ripresa visti i loro tratti ellenistici –. I rilievi sono in parte “rivalutati” da chi, come Schnaase, considera l’arte medievale, romanica e gotica, una delle tappe centrali per l’identità dei “popoli” e delle nazioni. Quanto nella visione illuministica è motivo di disprezzo diventa nell’ottica del discorso nazionalistico – soprattutto dei paesi a nord delle Alpi – una ragione di vanto. Il dato interessante è che, di fronte alla maniera delle porte di Santa Sabina, le due tendenze arrivano a conclusioni simili per quanto riguarda la datazione: per gli uni i tratti antichizzanti dei rilievi sono il segno dell’inizio di una ripresa che sboccerà nel Rinascimento, per gli altri sono espressione dell’estetica “romanica”, uno dei principali poli della gloriosa identità medievale. 26 Al riguardo, cfr. tra gli altri Podro, The critical historians, pp. 31-43. 27 Podro, The critical historians of art, p. 31. 18 I.3. Il metodo iconografico, gli studi monografici e la questione orientale: Kondakov, Berthier, Wiegand e Strzygowski La vera svolta per la considerazione delle porte di Santa Sabina arriva nel 1877 quando viene loro dedicato un primo saggio monografico: l’articolo Les sculptures de la porte de Sainte-Sabine à Rome del giovane studioso russo Nikodim Pavlovič Kondakov (1844-1925) 28 . Fondatore della storia dell’arte moderna in Russia, Kondakov mette a confronto, a livello formale, i rilievi delle porte con la scultura dei sarcofagi e dei mosaici ravennati e romani tra V e VI secolo29 . Soprattutto però lo studioso accenna al parallelismo – considerato tutt’ora come il più convincente – con il cofanetto eburneo del British Museum30 . Kondakov si sofferma lungamente sui vari dettagli iconografici indicando come i “tipi” presenti nei pannelli scolpiti di Santa Sabina siano rappresentativi per il panorama tardoantico31 . Le conclusioni di Kondakov confermano le intuizioni di Mamachi, situando le porte tra V e VI secolo. Particolarmente interessanti sono alcune sfumature dell’argomentazione dello studioso russo. In primo luogo lo stile di alcuni pannelli – come il ratto di Elia, con peculiarità formali più ellenistiche rispetto alle proporzioni tozze che caratterizzano la maggior parte dei rilievi – porta Kondakov a concludere di essere in presenza di un restauro moderno32 . Nella sua ottica lo stile dei secoli tardoantichi non può essere a tal punto raffinato; implicitamente lo studioso integra così la tesi vasariana sulla decadenza estetica negli anni successivi a Costantino. Il dato interessante è che Kondakov è, come dimostrano i suoi scritti di quegli anni, cosciente della presenza di 28 Kondakov, “Les sculptures de la porte”, pp. 361-372. Recentemente è stata pubblicato in Russia il manoscritto originale in russo con alcune lievi variazioni rispetto alla versione tradotta in francese. Questo testo non dà però informazioni nuove circa la percezione del monumento da parte di Kondakov cfr. Kondakov, “Bareliefi (V-VI stol. Po. Khr.)”. 29 Per la biografia e il metodo di Kondakov cfr. Foletti, Da Bisanzio alla Santa Russia. 30 Kondakov, “Les sculptures de la porte”, pp. 362-363. 31 Kondakov, “Les sculptures de la porte”, pp. 363-372. 32 Kondakov, “Les sculptures de la porte”, p. 371. 19 ellenismi nella pittura medievale bizantina. Questi ultimi erano riscontrabili però, a suo parere, soprattutto, se non esclusivamente, nell’ambiente di corte e nei momenti di fioritura economica e politica33 . Poiché la corte era – secondo l’opinione comune alla fine dell’Ottocento – assente da Roma nel corso del V secolo, e vista la crisi profonda che viveva l’Occidente, Kondakov considera impossibile che rilievi di tale qualità ellenizzante potessero essere stati prodotti in un simile contesto. Merita d’essere presa in considerazione anche la scelta di Kondakov di utilizzare ampiamente il metodo iconografico per datare il monumento. Dell’iconografia Kondakov ha una visione evoluzionistica: i vari “tipi” si conservano nei loro elementi essenziali, ma allo stesso tempo si sviluppano in maniera lineare. La concentrazione di determinati elementi compositivi permette perciò di precisare secondo lo studioso, meglio di qualsiasi altro strumento, il momento della creazione di un’opera34 . In altri termini è il “contenuto” che, in modo ben più convincente della forma, permette di circoscrivere cronologicamente un’opera artistica perché è espressione di un determinato Zeitgeist. In sintesi – incrociando l’analisi formale con quella iconografica – Kondakov propone per il monumento una datazione simile a quella oggi prevalente. I criteri che gli permettono di giungere a tali conclusioni sono però condizionati sia dalla visione di un Medioevo decadente che da tesi hegeliane dello spirito del tempo. Il primo volume monografico dedicato alla porta di Santa Sabina è pubblicato a Friburgo in Svizzera nel 1892 e porta la firma del domenicano Joachim Berthier (1848-1924)35 . Alla stessa maniera delle due monografie che seguiranno questo testo si confronta con il difficile equilibrio tra l’analisi dei diciotto pannelli conservati e una lettura più sintetica d’insieme. La soluzione di Berthier è quella di suddividere il 33 Cfr. Foletti, “Tra classicismi e avanguardie”, pp. 217-222. 34 Per il metodo di Kondakov cfr. Foletti, Da Bisanzio alla Santa Russia, pp. 177-190 ; per l’uso del metodo “iconografico” cfr. in part. pp. 184-186 35 Berthier, La porte de Sainte-Sabine. 20 volume in due parti. Nella prima lo studioso si pronuncia sulla questione della datazione dell’opera e su quella della sua paternità artistica mentre la seconda, più ampia, è dedicata a una minuta analisi di ogni singola formella. Considerata l’ampiezza dello studio di Berthier è sorprendente che aggiunga relativamente pochi elementi rispetto alle ricerche precedenti, limitandosi di fatto a riattribuire alcuni pannelli36 . Nella parte dedicata alla datazione si può addirittura avvertire un certo disagio poiché Berthier si limita spesso a citare, per esteso, le conclusioni di Kondakov alle quali si allinea senza esitazione. È anche argomentata con poca convinzione l’attribuzione dei rilievi a un artista di ambito greco: Berthier porta come unico elemento a sostegno il fatto che le rare iscrizioni sulle porte siano in greco. Lo studioso aggiunge quindi: “Les artistes de Rome étaient généralement grecs; et rien n’est plus vrai que ce fait tant de fois constaté que si Rome a vaincu la Grèce par la force brutale, la Grèce a vaincu Rome par l’esprit”37 . La spiegazione di questo orientamento può essere cercata nella formazione di Berthier: teologo tomista e storico, egli si era avvicinato agli studi di storia dell’arte in maniera autodidatta durante il suo soggiorno a Fiesole alla fine degli anni ottanta dell’Ottocento38 . Da teologo egli aveva una notevole cultura scritturistica, ragione per cui nell’attribuzione delle diverse scene e nella loro interpretazione si basa ampiamente non solo sui testi biblici ma anche sulla tradizione letteraria patristica. Nelle questioni prettamente storico artistiche, però, in fondo con un certo giudizio, Berthier si affida in questo suo primo volume a Kondakov, un professionista dell’ambito e suo coetaneo. 36 Al proposito cfr. il Corpus in fondo a questo volume. 37 Berthier, La porte de Sainte-Sabine, p. 18. 38 Dillmann, “Joachim Berthier O.P”, p. 168. 21 La pubblicazione di Berthier viene seguita pochi anni dopo, nel 1900, da una seconda monografia firmata da Johannes Wiegand (1872-1924)39 . Accompagnato da ventuno tavole a tutta pagina e di grande qualità, il volume contiene una lettura molto completa del monumento. Wiegand si concentra sui restauri subiti dalle porte nel corso dell’Ottocento, si esprime sull’origine geografica dei loro autori, ed elabora un’analisi complessiva del manufatto. Malgrado un tono a volte polemico nei confronti dei suoi predecessori – soprattutto Kondakov e Berthier – Wiegand conferma la datazione al V secolo40 . Più problematica è la questione dell’origine orientale delle sculture: lo studioso condivide l’impressione di Berthier, ma a suo parere, vista la pessima conoscenza delle origini dell’arte bizantina, è impossibile accertarla. Egli conclude quindi che, considerati i riferimenti iconografici, nonché la sua localizzazione a Roma, fino a prova contraria il monumento deve essere considerato romano41 . Rispetto alla critica precedente Wiegand è però il primo a proporre un’analisi d’insieme dei pannelli in un senso tipologico, considerando la porta come un’immagine della Concordia Veteris et Novi Testamenti42 . Lo studioso dà così ai rilievi un “programma” generale. Come Berthier, Wiegand era un ecclesiastico – era membro del capitolo del duomo di Treviri – ma era anche il primo direttore del Diözesan-Museum della città43 . Pubblicato un anno prima del fondamentale Orient oder Rom? 44 di Josef Strzygowski (1862-1941), il volume di Wiegand si schiera, anche se più prudentemente, sulle posizioni che lo studioso viennese aveva annunciato per il caso di Santa Sabina in un breve articolo apparso nel 189345 . Wiegand e Strzygowski concordano con Berthier sul fatto che la matrice estetica dei rilievi andasse cercata in 39 Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal. 40 Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, pp. 110-126. 41 Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, pp. 101-110. 42 Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, pp. 126-134. 43 Handbuch des Bistums Trier, Trier 1927, p. 306. 44 Josef Strzygowski, Orient oder Rom? Beiträge zur Geschichte der spätantiken und früchristlichen Kunst, Leipzig 1901. 45 Strzygowski, “Das Berliner Moses-Relief” pp. 65-81. 22 Oriente, rispetto a quest’ultimo, però, i due precisano che gli autori delle porte dovevano essersi formati a Costantinopoli. A dire il vero, Wiegand polemizza con gli argomenti di Strzygowski, sostenendo che la tesi di quest’ultimo è impossibile da dimostrare, e tuttavia finisce per aderirvi46 . Un’adesione che stupisce, visto che Wiegand ammette di non avere argomenti in tal senso a favore. Tale atteggiamento si può riportare, credo, nel quadro dei dibattiti sull’origine dell’arte cristiana particolarmente animati attorno al 190047 . In una delle discussioni più celebri per la storia dell’arte tardoantica e altomedievale le due più importanti posizioni vengono formulate, proprio al tournant du siècle, nella stessa città città, a Vienna. Da una parte ci sono Franz Wickhoff (1853-1909) e Alois Riegl (1858-1905) che con i loro scritti Die Wiener Genesis (1895) e Die spätrömische Kunst-Industrie (1901)48 danno una visione romanocentrica del mondo tardoantico49 . I due studiosi leggono i monumenti artistici tardoantichi come una produzione diversificata, ma unita e plasmata dalla posizione centrale di Roma, che determinava sia la scultura che la pittura dell’impero d’Occidente. Si tratta un punto di vista che Margaret Olin ha spiegato, tra le righe, come una difesa del multiculturalismo dell’impero asburgico, in opposizione all’ideologia pangermanica50 . Elsner, dal canto suo, vi ha anche intravisto una prospettiva tradizionalista, derivata dagli studi sull’antichità, nei quali Roma era ovviamente il centro indiscusso51 . Dall’altra parte c’è Strzygowski, il quale cerca le origini dell’arte cristiana in Oriente non solo in base a dati culturali, ma anche a quelli razziali52 . Successivamente, a causa di queste 46 Wiegand, Das Altchristilche Hauptportal, pp. 101-110. 47 Elsner, “The Birth of Late Antiquity”, pp. 358-379. 48 Die Wiener Genesis ; Riegl, Die spätrömische Kunst-Industrie. 49 Per inciso il concetto di tardoantico è, secondo Bianchi Bandinelli ed Elsner, invenzione dello stesso Riegl. Cfr. Bianchi Bandinelli, “Spaetantike”, pp. 426-427; Elsner, “The Birth of Late Antiquity”, p. 358. 50 Olin, “Alois Riegel: The Late Roman Empire” , pp. 107-120; Id., “Art History and Ideology: Alois Riegl and Josef Strzygowsky”, pp. 151-70 51 Elsner, “The Birth of Late Antiquity”, p. 361. 52 Strzygowski, Orient oder Rom, pp. 37, 39; Jäggi, “Ex oriente lux”. 23 asserzioni, egli è stato accusato di essersi allineato a una visione protonazista della storia, un dato provato anche dei suoi testi posteriori al 1920, quando ha aderito a tesi esplicitamente razziste53 . Se estrapolate dal contesto nel quale sono nate, con la loro matrice anticlassica le tesi di Strzygowski sono in realtà, come giustamente osservato da Jaś Elsner, una delle basi degli studi policulturali attualmente in vigore54 . È però proprio questo contesto che può spiegare le riflessioni di Wiegand e di Strygowski circa le porte di Santa Sabina: aderire a una loro origine orientale significava prendere posizione rispetto a una visione ampia della storia, una visione determinata anche dagli umori sociali. È soltanto con questo retroscena culturale che può essere spiegata l’argomentazione di Wiegand che crede in un’origine orientale pur ammettendo di non averne le prove. Costantinopoli è quindi per questi studiosi il filtro attraverso quale l’arte cristiana d’Oriente arriva in Occidente. Non si tratta, però, della sola arte ellenistica, bensì delle sue più profonde radici orientali, semitiche che, dopo la parentesi greca, ripresero il dominio sulla forma artistica55 . Nel caso di Wiegand, viene da chiedersi se non abbia avuto un ruolo in questa visione del mondo un ulteriore elemento, presente forse anche nelle tesi di Berthier. Se cioè il concetto della presunta “superiorità spirituale” della cultura orientale rispetto a Roma possa essere interpretato alla luce della loro appartenenza confessionale. Per dei chierici cattolici l’idea di un’origine semitica e orientale della nuova estetica, può infatti essere uno degli argomenti che provano la superiorità di tale cultura e quindi della religione che sorse in Oriente prima di conquistare l’impero: il cristianesimo. 53 Elsner, “The Birth of Late Antiquity, p. 361. In questo senso anche Kultermann, The History of the Art History, pp. 164-165. 54 Elsner, “The Birth of Late Antiquity, p. 361. 55 Strzygowski, Orient oder Rom, p. 147, lo studioso chiarisce la sua visione l’anno successivo Id., “Hellas in des Orients Umarmung”, p. 313. Al riguardo cfr. Olin, “Art History and Ideology: Alois Riegl and Josef Strzygowsky”, pp. 163-166. 24 Gli studi apparsi negli ultimi decenni dell’Ottocento, soprattutto quelli di Berthier e di Wiegand, sembrano chiudere una tappa del dibattito sulle porte di Santa Sabina, quella sulla loro datazione. Con argomenti diversi questi scritti finiscono per creare l’unanimità circa la loro attribuzione al periodo tardoantico, e più precisamente al V secolo. Essi aprono però anche un dibattito nuovo, quello relativo alla loro origine o meglio al milieu culturale della loro produzione. Quest’ultima domanda appare chiaramente debitrice del contesto della stesura dei diversi testi, nati in un momento cruciale per l’identità culturale europea, quando con Josef Strzygowski, studiosi di tutte le nazioni stavano cercando di rispondere all’interrogativo Orient oder Rom? I.4. Cinque decenni di “vuoto”, l’Italo-Gallic School e Félix Darsy Dal 1900 – data della pubblicazione del volume di Wiegand – e fino al 1954, momento della stesura del primo studio completo di Félix Darsy, non vi è un testo che cerchi di affrontare la tematica delle porte in maniera sistematica. Certo, vi sono numerosi scritti dedicati ai singoli pannelli, inoltre prosegue il dibattito sullo “stile” del V secolo e sulle sue origini56 . Prima di Darsy, però, eccetto per un’interessante sintesi di Henry Leclercq, le porte di Santa Sabina sembrano vivere una sorta di eclissi. Merita forse d’essere ricordata in questa rassegna la breve menzione che fa delle porte Adolfo Venturi (1856-1941) nella sua Storia dell’arte italiana. Nel primo volume, apparso nel 1901, Venturi descrive le porte e si pronuncia anche – con grande chiarezza – circa l’origine dei pannelli scolpiti57 . A suo parere non vi sono dubbi per quanto riguarda la loro paternità culturale. Dopo aver elencato le principali tesi dell’Ottocento Venturi scrive: 56 Per gli studi sui vari pannelli, sui quali torneremo, cfr. soprattutto Callisen, “The Iconography of the Cock”, pp. 160-178; Kantorowicz, “The ‘King’s Advent’”, pp. 207- 231; Delbrueck, “The Acclamation Scene”), pp. 215-217; Id., “Notes on the Wooden Doors”, pp. 139-145; Cecchelli, “Revisioni iconografiche”, pp. 259-272. 57 Venturi, Storia dell’arte italiana, pp. 475-484. 25 “Però è forza ammettere che l’intaglio della porta è opera di mani differenti, ma contemporanee, le quali lavorando intorno alla stessa trama sullo stesso fondo di motivi cristiani, riflessero le stesse forme classiche ed animarono ad un tempo le tavole di cipresso per la porta di Santa Sabina (…) Mentre nelle catacombe aleggia la speranza, sulla porta di Santa Sabina si afferma la vittoria e il predominio della chiesa. All’arte primitiva concreta era succeduta un’arte concreta. Sorta sotto l’influsso dello spirito latino e delle tendenze partiche di Roma”58 . In poche righe Venturi afferma la modernissima tesi della coesistenza – in un unico momento e monumento – di modelli simili. Allo stesso modo egli riconosce in questa nuova estetica cristiana chiari parametri della creazione romana latina59 . La posizione di Venturi è complessa da leggere: da una parte le sue tesi sembrano logiche, dall’altra il suo tono apologetico lascia supporre che dietro a tanta determinazione possa anche celarsi altro. Senza relativizzare la grande preparazione di Venturi e voler essere troppo semplicistici, mi chiedo se nel retroscena dei suoi argomenti – insoliti rispetto agli altri studi d’inizio Novecento – non vi sia la stessa ragione che ha motivato tutta stesura di tutto il suo opus monumentale: quella di scrivere una storia dell’arte nazionale60 . Mi sembra legittimo supporre che il disegno generale dell’opera abbia condizionato lo studioso nei suoi ragionamenti. Roma è la capitale del giovane regno e la sua posizione artistica contribuisce a costruire l’identità dello stato nazionale. 58 Venturi, Storia dell’arte italiana, pp. 476-477. 59 La tesi circa la coesistenza di stili diversi in un unico momento storico – dove ellenismi sarebbero vissuti in parallelo a una produzione meno illusionista – sarebbe stata sviluppata con forza nel secondo dopoguerra da Ernst Kitzinger. Cfr. Kitzinger, “The Hellenistic heritage”; Nordhagen, “The use of antiquity”. 60 Al riguardo cfr. Dalai Emiliani, “Il progetto e l’azione istituzionale”, pp. 26-27 e Valeri, “I volumi della Storia dell’Arte”. 26 A quanto qui scritto è interessante aggiungere un ultimo dato: la coesistenza di stili diversi – tutti romani – in seno ad un unico monumento sostenuta da Venturi nel 1901 diventerà paradigma comune negli studi dagli anni settanta del Novecento in poi. Nel periodo tra le due guerre le porte di Santa Sabina sono state coinvolte – come uno degli esempi importanti – in un fenomeno storiografico di primario interesse, che non ha ancora ricevuto negli studi recenti l’attenzione che credo si meriti: si tratta della cosiddetta Italo-Gallic school61 . Il primo a postularne l’esistenza è, nel 1918, Earl Baldwin Smith (1888-1956). Egli ha raccolto nel suo volume Early Christian iconography and a school of ivory carvers in Provence una serie di importanti avori tardoantichi e di sarcofagi provenzali – in particolare quello di San Vittore a Marsiglia – e formulato l’ipotesi della nascita di una scuola artistica, in Provenza, a opera di artigiani romani fuggiti dalla città dopo il sacco di Roma da parte di Alarico. L’esistenza di tale scuola era provata secondo Smith non solo da ragioni formali, ma anche da motivi iconografici e ornamentali. L’idea di Smith è stata raccolta, una decina d’anni più tardi, da Edward Capps (1866- 1950)62 , ma il suo maggior teorizzatore è stato certamente Alexander Coburn Soper (1904-1993) che, nel 1938, scrive il suo epocale saggio The Italo-Gallic School of Early Christian Art63 . Partendo da tre esempi chiave – il cofanetto di Samagher di Pola, la lipsanoteca di Brescia e le porte lignee di Santa Sabina – Soper delinea una scuola articolata tra la Lombardia e la Provenza, con un importante centro di produzione a Milano. Tale scuola avrebbe proseguito una tradizione nata a Roma, completandola però con significativi apporti orientali. Uno degli argomenti di maggior peso che Soper aggiunge a quelli iconografici e formali è quello degli sfondi decorati a 61 Non vi sono ad oggi, a mia conoscenza, studi che contemplino questo fenomeno dal punto di vista della storia della storia dell’arte. 62 Edward Capps, The Style of Consular Diptychs 63 Soper, “The Italo-Gallic School”. 27 mattonelle che si trovano nei monumenti chiave del gruppo64 . Secondo lo studioso, fin dalla fine del IV secolo, quando Milano era ancora capitale, la produzione cittadina avrebbe completamente eclissato quella romana, che avrebbe addirittura ricorso ad artigiani milanesi per le proprie committenze importanti. Tale presenza sarebbe stata, secondo Soper, testimoniata anche dal Liber Pontificalis che fa riferimento alle committenze romane di Valentiniano III, mentre quest’ultimo risiedeva a Ravenna. La tesi di una scuola regionale tra la Lombardia e la Provenza è stata messa una prima volta in discussione, nel 1951, da Richard Delbrueck (1975-1957), per poi cadere progressivamente nel dimenticatoio, con l’affermarsi sempre più chiaro dell’importanza della scuola scultorea romana all’inizio del V secolo65 . Come accennato, non vi sono studi che permettano di comprendere il retroscena che ha favorito la creazione di questa tesi storiografica. I suoi due più importanti sostenitori – Smith e Soper – sono personaggi tutto sommato marginali negli studi sul mondo tardoantico e sono stati perciò oggetto di poco interesse critico66 . Appartenenti a due generazioni diverse – Smith nasce nel 1888, Soper è nel 1904 –, i due studiosi hanno anche una relazione con il mondo tardoantico decisamente diversa: Smith gli dedica la maggior parte delle sue ricerche dal 1914 fino alla sua morte nel 1956. Soper, invece, esordisce con ricerche sul mondo tardoantico per poi dedicare la maggior parte della sua carriera a studi sull’Estremo Oriente, campo nel quale diventerà uno dei ricercatori americani di maggior rilievo. Quanto invece li accomuna è il passaggio da Princeton, il primo vi insegna fin dal 1915, mentre il secondo vi arriva come studente fine degli anni venti. Anche se Soper è seguito nella sua formazione da Charles Rufus Morey, è molto probabile che i due abbiano avuto delle relazioni scientifiche e che perciò l’impatto del primo sul secondo fosse 64 Soper, “The Italo-Gallic School”, p. 169. 65 Richard Delbrueck, Das fünfteilige Diptychon in Mailand 66 Per la bibliografia cfr. Dennert, “Earl Baldwin Smith”; Dennert, “Alexander Coburn Soper III”. 28 determinato anche da una sorta di filiazione accademica. Possiamo quindi supporre che, per la concezione della Italo-Gallic School, o piuttosto della scuola provenzale, è la figura di Smith ad avere il ruolo chiave. Riguardo a Smith è importante ricordare un momento fondamentale nella sua biografia: si tratta del suo soggiorno in Europa dove, nel 1913, studia a Parigi da Émile Mâle (1862-1954)67 e Charles Diehl (1859- 1944)68 , visitando anche Joseph Strzygowski a Vienna69 . Al corrente della situazione europea egli propone, nell’anno della conclusione del primo conflitto mondiale, un modello che mantiene alcune delle tesi forti di Strzygowski – quella di Roma come “periferia” artistica e dell’importanza dell’Oriente – cercando però l’epicentro culturale in Francia. L’atteggiamento di Smith è simile a quello de suo maestro Diehl che, già nel 1904, relativizzava in parte le tesi di Strzygowski, dando a Costantinopoli, e non al vicino Oriente, il ruolo chiave per la nascita dell’arte bizantina70 . Rispetto a Diehl Smith si spinge però più in là, spostando appunto l’epicentro della produzione artistica a cavallo dell’anno 400 in Provenza. Trattandosi di uno studioso americano è difficile sospettarlo di nazionalismo, è però possibile supporre che la sua convinzione dell’esistenza di una scuola provenzale, e quindi francese, fosse in parte determinata dalla sua esperienza parigina e, forse, anche dalla figura del suo altro maestro europeo, Émile Mâle. L’opera di quest’ultimo è, secondo Sauerländer: “une admirable apologie de la vieille France catholique, de l’ordre mais aussi de la poésie de ses grandes cathédrales”71 . Mâle e Smith dovevano avere molti punti in comune, visto per esempio il loro impegno per la promozione degli studi di storia dell’arte nelle università72 . Mi chiedo quindi – ma si dovrebbe verificare con un’attenta analisi dei documenti d’archivio, impossibile da eseguire in questa sede – 67 Sauerländer, “MÂLE, Émile”. 68 Soria-Spieser, “DIEHL, Charles”. 69 Dennert, “Earl Baldwin Smith”, p. 1174. 70 Diehl, “Les Origines asiatiques”; al riguardo cfr. anche Soria-Spieser, “DIEHL, Charles”. 71 Sauerländer, “MÂLE, Émile”. 72 Mâle, “L’Enseignement de l’histoire de l’art”; Aronberg Lavin, “Il carteggio Venturi-Marquand”, pp. 78-80. 29 se le tesi di Smith non debbano essere interpretate proprio in questa ottica, come cioè un aggiornamento delle tesi di Strzygowski, filtrato attraverso Diehl, arricchito dal patriottismo francese di Mâle, così attuale negli anni del primo conflitto mondiale. Ovviamente è stato l’avanzare della scoperte a mettere in crisi il dualismo proposto dallo studioso austriaco, che non bastava più a spiegare lo sviluppo dell’arte tardoantica. Da qui la necessità di articolare un sistema che mantenesse intatto il postulato di base della marginalità di Roma, pur mantenendo un largo spazio a un intervento orientale. Smith e la sua scuola provenzale devono quindi essere compresi come un aggiornamento francofilo della questione orientale formulata da Strzygowski. La voce “Porte” di Leclercq, contenuta nel quattordicesimo volume del Dictionnaire d’achéologie chrétienne et de liturgie nel 1939, merita d’essere ricordata malgrado il suo carattere di sintesi73 . Se, in sostanza, riguardo a Santa Sabina Leclerq si allinea sulle posizioni di Kondakov e Wiegand circa la datazione e l’attribuzione dei vari pannelli, è importante menzionare una delle sue premesse: “Nous avons eu, au cours du dictionnaire, l’occasion de montrer l’indépendance des artistes chrétiens à l’égard des sujets qu’ils interprètent et plus souvent encore nous le avons vus invertir la chronologie des faits historique dont ce compose un soi-disant cycle historique. Qu’on cherche à retrouver un fil conducteur dans les fresques de la cappella greca au cimetière de Priscille ou dans les chambres des sacrements au cimetière de Calliste, il faut y renoncer. Ces artistes ne se font pas la même idée que nous de la succession des faits, notre porte de Sainte-Sabine en présente une preuve”74 . 73 Leclerq, “Porte”, coll. 1504-1523. 74 Leclerq, “Porte”, coll. 1510. 30 Leclerq dà in questo passaggio una notevole importanza al carattere individuale della creazione artistica. Dietro questa considerazione vi è però, credo, un’idea che sarà sviluppata due decenni più tardi da Félix Darsy in merito a una certa “semplicità” del pensiero tardoantico, per certi versi incapace di elaborare un sistema, un ciclo – per riprendere il termine di Leclerq – complesso e logico. Torneremo sulla questione in questo capitolo, ma mi pare fin d’ora essenziale sottolineare quanto quest’idea faccia parte di una visione evolutiva del pensiero occidentale e che essa nasconde (e conserva?) un certo “disprezzo” verso il mondo tardoantico. Si arriva così Félix Darsy (1907-1967) che dal 1954 al 1968 ha dedicato alla basilica di Santa Sabina, alle sue porte e a tutta la zona archeologica sei testi75 . Darsy ha apportato alcuni contributi essenziali allo sviluppo delle conoscenze sulle porte. Si tratta, prima di tutto, del fatto che le porte sono, con ogni probabilità, situate nella loro collocazione originale76 . Tale proposta era già stata formulata da Berthier, ma Darsy la prova con misurazioni più precise77 . Inoltre, Darsy fornisce alcuni dati importanti circa la situazione specifica di tutto l’atrio, luogo di passaggio tra le due principali arterie del colle, il vicus Altus e il vicus Armilustri78 . Infine, elemento essenziale per le nostre ricerche, il frate domenicano propone di interpretare le porte come conseguenza dell’omiletica tardoantica79 . Egli constata in particolare la stretta aderenza della scelta delle scene raffigurate con il De Sacramentis di Ambrogio da Milano. L’insieme delle porte va quindi compreso, sulla scia dei testi dei dottori della patristica, come una visione del piano salvifico della Chiesa, “il cui tema culminante, 75 Darsy, Bibliographie chronologique; Id., “Stratigraphie générale”, pp. 113-122; Id., “Le portes de Sainte-Sabine dans l’archéologie”, pp. 471-485; Id., “Les portes de Sainte Sabine : méthode d’analyse, pp. 5-49; Id., Santa Sabina; Id., Recherches archéologiques. 76 Darsy, “Le portes de Sainte-Sabine dans l’archéologie”, p. 473. 77 Berthier, La porte de Sainte-Sabine, pp. 5-7. 78 Darsy, “Le portes de Sainte-Sabine dans l’archéologie”, pp. 475-476. 79 Darsy, Santa Sabina, p. 69. 31 e chiave dell’interpretazione dell’opera, è tutto contenuto nel pannello raffigurante il trionfo di Cristo e della Chiesa”80 . Darsy propone inoltre un’interpretazione, molto ermetica per il lettore contemporaneo, delle linee di forza di tutti i pannelli che hanno, a suo modo di vedere, una logica simbolica interna81 . Secondo lo studioso, per comprendere l’iconografia delle porte, è inoltre necessario abbandonare la struttura logica e coerente del pensiero, propria della cultura attuale, poiché essa è soltanto difficilmente applicabile alla forma mentis tardoantica non aristotelica: “Nous sommes ici en présence d’un mode de raisonnement prélogique, symbolique, dont le fil se déroule sans jamais s’épuiser parceque fondé sur le parallélisme”. Liturgista e teologo di formazione, frate domenicano a Santa Sabina, specializzato negli studi patristici, Darsy aveva già una formazione completa quando diventa storico dell’arte e archeologo82 . L’istruzione di Darsy, in particolar modo il suo interesse per la liturgia in epoca patristica – la sua tesi di licenziato, discussa nel 1934, è intitolata Essai sur la liturgie sacramentaire du “De Mysteris” –, ha un impatto importante sul suo modo di avvicinarsi alla porta e a tutto il complesso. La riflessione sulla funzione dell’atrio denota un chiaro interesse per l’uso pratico degli spazi, una riflessione logica per un liturgista, assente dal dibattito fino a quel momento. Pur se in maniera soltanto allusiva, l’attenzione alla performance liturgica è in parte presente anche nel corpus iconografico della pubblicazione Santa Sabina, destinata al largo pubblico e apparsa nel 196183 . Studiando i vari episodi raffigurati 80 Darsy, Santa Sabina, p. 69. 81 Darsy, “Les portes de Sainte Sabine : méthode d’analyse formelle”; Id., Santa Sabina, p. 71. 82 Stefan Heid, “Félix-Gaton-Joseph Darsy O.P. Christlicher Archäologie”, in Personenlexikon zur Christlichen Archäologie, v. I, pp. 357-358. 83 Darsy, Santa Sabina, pp. 75-83. 32 sulla porta, accanto ad alcune schede, lo studioso elenca le feste liturgiche nelle quali il testo dal quale prendeva spunto il rilievo veniva letto. Darsy non inserisce questi indizi in un discorso analitico, la relazione tra episodio e liturgia è però estremamente innovativa. Essa può essere compresa alla luce del generale interesse per la liturgia antica che caratterizza gli anni del Concilio Vaticano II (1962-1965)84 . Tale relazione appare tanto più plausibile e convincente se si considera che lo stesso Darsy ha collaborato attivamente alla riforma liturgica, partecipando alla commissione sulla liturgia antica presso la Congregazione dei riti85 . Merita d’essere richiamata anche la questione della nozione di “pensiero prelogico e simbolico” che Darsy vede nella composizione delle porte. Si tratta di un concetto proveniente dalla sociologia religiosa di Lucien Lévy-Bruhl (1857-1939)86 . Tale idea, che presuppone una visione evoluzionista dello sviluppo del pensiero umano dal prelogico al logico, è stata pesantemente criticata negli anni 87 . Secondo Jean Cazeneuve, inoltre, nei suoi studi posteriori, più strutturalisti, lo stesso Lévy-Bruhl ha ammesso la coesistenza dei due sistemi mentali in contemporanea88 . In questo senso la scelta di Darsy appare ancorata a un concetto preciso, ma discutibile e anacronistico già al momento della sua redazione. In sintesi gli studi del periodo tra le due guerre e fino agli anni sessanta si concentrano in un primo momento ancora sull’origine geografica degli artigiani che eseguirono le porte. La tesi orientale viene abbandonata a favore di quella della Italo- 84 Di questo interesse è certamente rappresentativa la monumentale pubblicazione, uscita in versione trilingue, diretta da Aimé-Georges Martimort, La chiesa in preghiera. Introduzione alla liturgia, Roma – Parigi – Tournai – New-York 1963. Al riguardo cfr. il recente volume Benoît-Marie Solaberrieta, Aime-Georges Martimort : Un promoteur du Mouvement liturgique (1943-1962), Paris 2011. 85 Heid, “Félix-Gaton-Joseph Darsy”, p. 358. 86 Lévy-Bruhl, Les fonctions mentales. 87 Cfr. la sintesi di Bedin, Fournier, “Lucien Lévy-Bruhl”. 88 Cazeneuve, “Note sur la sociologie religieuse”; Lévy-Bruhl, Le surnaturel et la nature. 33 Gallic School, a sua volta messa da parte per la tesi considerata ancora oggi la più plausibile, quella di una produzione romana. La datazione riconosciuta in modo unanime è quella del V secolo. Si fanno inoltre sempre più attuali le tesi che vogliono circoscrivere questa datazione agli anni della costruzione della basilica – tra gli anni di Celestino I (421-431) e di Sisto III (432-440). Da Leclerq a Darsy viene messa in discussione una struttura “logica” della concezione delle porte. La ragione di tale presa di posizione appare però determinata da tesi di sociologia religiosa considerate già allora problematiche. Infine, gli studi di Félix Darsy introducono nel dibattito, anche se molto discretamente, la questione della funzione liturgica. I.5. Sahoko Tsuji: una tesi celata dalla storia? Nel 1961 fu discussa da Sahoko Tsuji (? – 2011), presso l’École pratique des Hautes études a Parigi, una tesi di dottorato dedicata alle porte di Santa Sabina. Ancora più di dieci anni dopo l’autrice ne annunciava l’imminente pubblicazione, in realtà mai avvenuta89 . L’opera della studiosa nipponica è così nota al pubblico soltanto da tre brevi articoli – pubblicati rispettivamente nel 1962, 1970 e 1972 – che analizzano in maniera isolata in tre pannelli delle porte90 . Nei tre saggi – dedicati al passaggio del mar Rosso, all’assunzione di Elia e alla presunta Ascensione – Tsuji ha una metodo iconografico fortemente ispirato da quello del suo maestro, André Grabar91 . Partendo dalle esegesi patristiche la studiosa tenta di ricostruire la percezione di uno o dell’altro episodio in ambito tardoantico. Le conclusioni di questi tre saggi sono interessanti ma non lasciano intuire al lettore quale fosse la sua visione generale. 89 Tsuji annuncia tale pubblicazione per il 1973 nella collezione “Bibliothèque des Cahiers Archéologiques” presso l’editore Libairie C Klincksieck cfr. Tsuji, “ ‘Le passage de la mer rouge’”; p. 77, n. 1. 90 Tsuji, “Le portes de Sainte-Sabine”, pp. 13-28; Id., “ ‘L’enlèvement d’Élie’”, pp. 73- 96; Id., “ ‘Le passage de la mer rouge’. 91 Cfr. la sintesi Foletti, “André/Andrej Nikolajevič Grabar”. 34 Il manoscritto della tesi di Tsuji è conservato oggi presso la Bibliothèque de l’École pratique des hautes études a Parigi, dove è accessibile al pubblico e dove ho potuto consultarlo. Nel suo ampio lavoro – il dattiloscritto ha 395 pagine – la studiosa dedica le prime venticinque pagine a una riflessione generale sulle porte lignee decorate, ricordando gli esempi più celebri come le porte di Santa Barbara al Cairo, quelle di Sant’Ambrogio o ancora quelle del Sinai. Nelle successive trecento pagine svolge un’analisi puntuale dei diciotto pannelli conservati. Ogni pannello è passato attraverso il filtro della tradizione iconografica del soggetto, quindi attraverso quello di una larga rassegna di testi patristici dal II al VI secolo. La studiosa procede con venticinque pagine di lettura iconografica d’insieme, proponendo di interpretare le porte come esemplificazione visiva della concordanza tra Antico e Nuovo Testamento. Seguono venticinque pagine dedicate alla questione stilistica – Tsuji riconosce ben quattro mani diverse – e alla questione dell’origine delle porte. In questo ambito le sue tesi sono innovative rispetto agli studi precedenti: i pannelli dei primi due gruppi stilistici – caratterizzati da personaggi tozzi e con grandi capi – sarebbero originari di Roma e databili alla prima metà del V secolo. Due pannelli – i ratti di Elia e Abacuc – sarebbero anteriori. Mentre gli ultimi due pannelli – quello della Teofania e il pannello della Trasfigurazione (! 4), tradizionalmente considerato come immagine della cosiddetta Traditio Legis – sarebbero posteriori alla prima metà del V secolo, poiché secondo la studiosa essi sono formalmente molto vicini agli avori della cattedra eburnea di Massimiano a Ravenna. La conclusione aggiunge un ultimo elemento importante: per varie ragioni iconografiche, Tsuji è convinta che le porte non siano state in origine concepite per la basilica di Santa Sabina dove sarebbero approdate soltanto in un secondo momento. Come appare anche da questa breve descrizione, il lavoro di Tsuji è incentrato attorno alla questione iconografica. Relativamente ridotto è lo spazio concesso a un’analisi generale, mentre vengono completamente marginalizzate – per non dire ignorate – le questioni della funzione dell’oggetto e della sua unità. Pur supponendo 35 un’origine esterna a Santa Sabina, Tsuji non formula inoltre neppure un’ipotesi circa questa primitiva localizzazione. Il metodo della studiosa è in questo senso sensibilmente determinato dalle ricerche iconografiche del suo maestro, ma anche della scuola russa dalla quale quest’ultimo proveniva. L’iconografia è per Tsuji, come lo era già per Kondakov quasi un secolo prima, parte di un albero genealogico che permette di costruire la storia con una logica naturale e, per certi versi, immutevole92 . È esemplare, in questo senso, l’approccio con il quale Tsuji interpreta l’episodio della vocazione di Mosè/ dono della legge (! 13)93 . La costruzione della scena – con il profeta che sale di profilo su un colle ricevendo, nelle mani velate, un rotolo dalla manus Dei – è il più delle volte usata nella tradizione figurativa tardoantica per descrivere il dono della legge al profeta. Tsuji non è però d’accordo e propone invece di interpretare l’episodio come la vocazione di Mosè sull’Horeb basando la sua argomentazione sul fatto che in una maniera molto simile sono rappresentate anche le vocazioni divine nella Topografia Cristiana (Vat. Gr. 699) di Cosmas Indicopleustes, datata al terzo quarto del IX secolo94 . Nella logica di Tsuji il manoscritto – che è effettivamente la copia di un originale del VI secolo – è una testimonianza sicura di una seconda variante antica di interpretazione del gesto95 . Non è questo il luogo per confutare tale tesi – messa in discussione nel III capitolo e soprattutto nel corpus iconografico (! 13) –, mi sembra però importante osservare il modo in cui si costruisce il pensiero della studiosa nipponica. L’esistenza di un’iconografia presuppone un prototipo, una volta identificato il quale, essa evolve mantenendo però, nel suo tipo, la radice del modello originale. Un documento visivo di alcuni secoli posteriore, e prodotto in un ambito culturale completamente diverso, può quindi allora diventare un argomento altrettanto importante quanto un monumento contemporaneo romano. 92 Foletti, Da Bisanzio alla Santa Russia, pp. 180-182. 93 Letta invece in questa sede come il dono della legge ! 13 94 Cfr. Cantone, Ars Monastica, p. 133, n. 9, con relativa bibliografia. 95 Tsuji, Étude iconographique, pp. 41-48. 36 Altro elemento notevole è il lavoro con i testi. Il postulato sottointeso dal lavoro della studiosa è che – da Clemente Alessandrino a Leone Magno – la patrologia è un unico serbatoio che può essere usato per interpretare l’immagine. Tsuji sembra in sintesi far uso del testo patristico come se avesse a disposizione un repertorio iconografico. Si tratta di un dato interessante considerato il fatto che siamo negli anni in cui in Francia nasce L’iconographie de l’art chrétien di Louis Réau96 , alla cui struttura Tsuji sembra essere almeno in parte debitrice. Per costruire la sua argomentazione la studiosa incrocia dati testuali, emersi da un’analisi su una lunga durata, con la storia del tipo iconografico, percepito anch’esso come un fenomeno sulla longue durée. Il risultato di tale prassi è un tentativo di “ricostruire” la percezione e la storia dell’immagine fuori dal suo contesto storico. Anche in questo senso si ha l’impressione che il peso delle tesi di Réau – e la sua opera monumentale – debba aver inciso sulla forma mentis della studiosa97 . Considerata l’infelice destino di questo volume, mai pubblicato, è impossibile esprimersi circa la sua fortuna critica. In molti punti – soprattutto riguardo all’analisi di alcuni pannelli – l’autrice giunge a conclusioni interessanti. Nel suo insieme, però, il volume appare determinato dalla storiografia iconografica francese di quegli anni, apportando pochi elementi innovativi sia dal punto di vista del metodo che da quello delle questioni formulate. Circa i punti nodali discussi negli studi precedenti – la datazione e il luogo di produzione – Tsuji si attiene alla linea dominante. I.6. Alla ricerca del “programma”, Gisela Jeremias e Jean-Michel Spieser Nel 1980 è pubblicata la monografia più ampia – 166 pagine di testo, di formato A4, accompagnate da 80 pagine di illustrazioni – dedicata integralmente alla porta di 96 Réau, Iconographie de l’art chrétien. 97 Per la questione dell’iconografia in Francia cfr. Barral i Altet, Xavier, “Introduction”, pp. 29-31. 37 Santa Sabina. Si tratta della versione rielaborata di una tesi di dottorato, discussa dieci anni prima, sotto la direzione di Erich Dinkler (1909-1981), presso l’università di Heidelberg da Gisela Jeremias98 . La prefazione, datata al giugno 1977, ci informa del fatto che il manoscritto era pronto alla fine del 197499 . Di conseguenza, pur uscendo nel 1980, il volume è in realtà il frutto di studi svolti essenzialmente dieci anni prima. La sua pubblicazione è salutata da un grande interesse della critica sottolineato dal fatto che, nei tre anni successivi, sono apparse ben sette recensioni100 . Il volume è suddiviso in cinque parti: dopo l’introduzione dedicata a un rapidissimo status quaestionis è sinteticamente presentato l’edificio, segue una altrettanto celere presentazione dei pannelli all’interno della chiesa. La parte più ampia del volume – 77 pagine – è rappresentata da un corpus iconografico di tutte le scene conservate. La studiosa si dedica quindi a un’analisi stilistica dell’insieme, seguita dalla discussione sull’origine delle porte. L’ultimo capitolo infine si occupa della questione del “programma” delle porte. Il libro di Jeremias fa certamente, in maniera molto completa, il punto della situazione. Tuttavia lascia il lettore un po’ deluso rispetto alle sue conclusioni. Il dettagliato ed esaustivo corpus iconografico aggiunge in realtà poco alle tesi formulate in precedenza101 . Altrettanto va detto dell’analisi formale da cui deriva un tentativo di localizzazione e datazione: conformemente agli studi del secondo Novecento la studiosa opta, vista anche la polimorfia stilistica, tipica per la Roma di quegli anni, per una provenienza locale. Si schiera quindi anche a favore di una datazione agli anni della consacrazione della basilica102 . Infine, riflettendo su una generale interpretazione del monumento, Jeremias conclude – non senza un certo 98 Jeremias, Die Holztür der Basilika S. Sabina, p. 11. 99 Jeremias, Die Holztür der Basilika S. Sabina, p. 11. 100 Recio Veganzones, “[Recensione di:] Jeremias”; Buschhausen, “[Rezension von:] Jeremias”; Testini, “[Recensione di:] Jeremias”; Frattini Gaddoni, “[Recensione di:] Jeremias”; Brenk, “[Rezension von:] Jeremias”; Maser, “[Rezension von:] Jeremias”. 101 Jeremias, Die Holztür, pp. 20-96, per le diverse scene cfr. il corpus in fondo a questo volume. 102 Jeremias, Die Holztür, pp. 105-106. 38 fatalismo – che, vista l’assenza di dieci pannelli, e considerato che non vi sono reali confronti possibili, una lettura d’insieme è di fatto impossibile103 . Nell’ultimo paragrafo del volume la studiosa accenna alla possibilità di vedere nei vari episodi l’eco di una prassi omiletica, forse catecumenale, o delle diverse letture della liturgia, come indicato anche da Darsy. Anche in questo caso, però, Jeremias scarta in fondo tale possibilità poiché, a suo parere, all’inizio del V secolo l’ordine delle letture non era ancora stato fissato104 . In sintesi l’onesto e ricco lavoro di Jeremias costituisce certamente una pietra miliare per gli studi, ma soprattutto come dottissima ed erudita sintesi. In termini metodologici l’approccio è quello di un interessante lavoro iconografico e di una rapida analisi stilistica. Anche sotto questo profilo, però, Jeremias aggiunge ben poco. Nel 1991 è pubblicato, nel Journal des Savants, lo studio di Jean-Michel Spieser, allora professore presso l’Université des Sciences Humaines a Strasburgo105 . Spieser parte nella sua riflessione dove Jeremias si era fermata, ma con un postulato decisamente diverso: anche se mancano dieci delle ventotto scene originali, incrociando le informazioni fornite dai pannelli superstiti, è possibile ricostruire la struttura semantica che dovevano avere in origine le porte. Secondo lo studioso la presenza di tre tipi di episodi, Antico Testamento, Nuovo Testamento e visioni del Cristo “divino”, fa supporre una gerarchia verticale106 . Dei possibili sedici piccoli pannelli si conservano otto episodi del Nuovo Testamento, uno dell’Antico e due immagini “celesti”. L’ipotesi di Spieser è che, in origine, partendo dal basso in alto, vi fossero 103 Jeremias, Die Holztür, pp. 108-109. 104 Jeremias, Die Holztür, p. 110. 105 Per un breve CV di Spieser e la lista attuale delle sue pubblicazioni cfr. http://lettres.unifr.ch/fr/hist/histoire-de-lart-et-archeologie/collaborateurs- archeologie/archeologie-des-mondes-paleochretiens-et-byzantins/abp-jean-michelspieser.html [12.01.2013]. 106 Jean-Michel Spieser, “Le programme iconographique des portes de Sainte-Sabine”, Journal des savant, 2 (1991), pp. 47-81; p. 74. 39 quattro episodi dell’Antico Testamento in basso, otto del Nuovo Testamento e, infine, quattro raffigurazioni di visioni escatologiche. I tre registri occupati dai pannelli grandi lasciano, secondo lo studioso, supporre una gerarchia molto simile107 . In questa ipotesi è difficile inserire l’episodio “storico” detto dell’Acclamatio. Spieser propone però di aggiungerlo alle scene di visione accanto al pannello della parusia. Lo studioso tenta quindi, nei limiti del possibile, di completare per analogia i registri mancanti. Soprattutto, però, egli considera questa tripartizione rappresentativa di una tipica decorazione di una chiesa tardoantica108 . Spieser evita di pronunciarsi sul fatto se le decorazioni delle porte annunciassero o meno la decorazione all’interno della chiesa stessa. La sua tesi centrale è però che, dal punto di vista del loro significato metaforico, le porte avessero la stessa valenza delle immagini all’interno di una chiesa tardoantica indicando le tre tappe che portano alla salvezza109 . Riferendosi agli studi di Herbert Kessler, fin dall’inizio del suo articolo, Spieser sottolinea quanto la nozione di “programma” sia essenziale per un’analisi delle decorazioni della porta110 . Si tratta effettivamente di un aspetto storiografico notevole la cui pertinenza è stata messa in discussione in questi ultimi anni. Hanno tentato di rispondere alla legittimità dell’uso di questo termine due convegni organizzati nel 2006 e nel 2008 a Nantes da Jean-Marie Guillouët e Claudia Rabel111 . Fondamentale, per una riflessione più vasta in questo senso, è certamente l’articolo di Michel Pastoureau, che ne studia lo sviluppo semantico. Lo studioso osserva l’anacronismo del concetto per il mondo medievale, nel quale tale parola semplicemente non veniva utilizzata112 . Pastoureau sottolinea come questa nozione faccia la sua comparsa soltanto nel corso del Seicento, essendo applicata alla storia dell’arte solo negli anni 107 Spieser, “Le programme iconographique”, p. 75. 108 Spieser, “Le programme iconographique”, p. 79. 109 Spieser, “Le programme iconographique”, pp. 78-81. 110 Kessler, “Pictures as Scripture”. 111 Le Programme : une notion pertinente. Cfr. anche l’ottima recensione di Zaru, [Compte rendu de:] Le programme, che contestualizza il volume nella riflessione attuale. 112 Michel Pastoureau, “Programme : histoire d’un mot”. 40 trenta del Novecento con lo sviluppo degli studi iconologici. Nato in un contesto di stretta relazione tra testo e immagine, l’uso del termine si è allargato nei decenni successivi. Pastoureau ricorda quindi i limiti ma anche l’utilità dell’uso di questo concetto per gli studi di storia dell’arte medievale. La scelta di Spieser deve essere pertanto, prima di tutto, contestualizzata come il risultato degli studi iconologici del Novecento113 . L’approccio dello studioso francosvizzero dimostra tutto l’interesse per la costruzione di una logica strutturata, che dà significato e unità all’insieme delle decorazioni. Rispetto a quasi tutta la ricerca precedente, Spieser esce inoltre dal paradigma tipologico. Ai due Testamenti, che non devono per forza essere letti in come una concordatio, lo studioso aggiunge la dimensione escatologica. Nei due decenni successivi al lavoro di Spieser viene pubblicata una serie di testi puntuali sui vari pannelli e una articolo più generale, quello di Lorenza de Maria, sulle porte come insieme metaforico di protezione e di salvezza114 . Eccetto per il breve testo della de Maria – interessante soprattutto nella prima parte come spunto di riflessione, viste le sue dimensioni ridotte – questi interventi aggiungono poco a una comprensione dell’insieme delle porte115 . Dal numero relativamente ridotto degli studi si ha però l’impressione che lo slancio critico si sia in parte esaurito, come se le principali domande avessero ormai trovato delle risposte convincenti116 . 113 Kroupa, Školy dějin umění, pp. 236-240. 114 de Maria, “Il programma decorativo” 115 de Spirito, “La cosiddetta scena dell’”Acclamatio”; Id., “Per interpretare la scena”; Tuminello, La crocifissione; Ballardini, “La ‘crocefissione’”. 116 È per esempio l’impressione che si ha leggendo la brevissima sintesi di Hugo Brandemburg, probabilmente l’unico testo sintetico sulle porte, cfr. Bandemburg, Le prime chiese di Roma, pp. 175-176. 41 I. 7. Nuove domande tra Cultus et decor e Seeing medieval art Il presente volume parte invece proprio dal postulato che alcune tra le domande più importanti sono state semplicemente accantonate nei decenni precedenti. Si tratta, prima di tutto della questione della funzione delle porte nell’ambito del loro contesto architettonico e della funzione performativa liturgica. L’aspetto è stato accennato da Darsy, ma senza che un lavoro di fondo sia stato svolto in questo senso. La formulazione di questa prima domanda strappa, per certi versi, le porte da una loro storiografia “personale” e le trasforma in un’imago in seno a una hierotipia plurimediatica, quella dello spazio del nartece, della “zona liminare” che qui si vuole studiare. Il secondo aspetto riguarda la questione della forma: usata per secoli come argomento di datazione e di localizzazione delle porte, sarà di seguito interrogata come elemento di comprensione della retorica figurativa tardoantica. Il terzo quesito, intrinsecamente legato ai primi due, sarà quello riguardante la ricezione di questa imago – da parte del suo pubblico – in seno allo spazio semisacro del nartece. Queste tre domande sono, ovviamente, il frutto della particolare storicità – per riprendere un termine caro a Martin Heidegger117 – di chi scrive. L’idea di una relazione tra immagine, spazio e performance liturgica sarebbe impensabile senza gli studi fondamentali di Sible de Blaauw118 e i non meno importanti convegni svolti a cavallo del 2000, Kunst und Liturgie e Art, cérémonial et liturgie119 . Per un concetto fertile come quello della hierotopia bisogna riconoscere il debito nei confronti della riflessione di Alexej Lidov120 . La relazione tra immagine e retorica non è stata indagata molto negli studi di storia dell’arte medievale. Va però ricordata 117 Heideger distingue tra la storia universale da una parte e la “storicità” interna all’esistenza dell’uomo dall’altra. Prima di incastrarsi in una storia oggettiva esterna e universale, l’uomo si iscrive in una struttura storica propria, la “storicità” appunto. Cfr. Heidegger, L’être et le temps, cap. X. 118 Per Roma ricordiamo soprattutto l’epocale de Blaauw, Cultus et Decor. 119 Kunst und Liturgie; Art, cérémonial et liturgie. 120 Lidov, Ierotopia. 42 l’essenziale pubblicazione di Tonio Hölscher, che indica la strada seguire su un materiale archeologico121 . La questione della ricezione e la percezione delle immagini è, infine, al centro dell’attenzione degli studiosi in questi ultimi decenni, basti ricordare i fondamentali Das Bild und sein Publikum im Mittelalter e Bild und Kult di Hans Belting e Seeing medieval art di Herbert Kessler122 . 121 Hölscher, Il linguaggio dell’arte romana. 122 Belting, Das Bild und sein Publikum; Belting, Bild und Kult; Kessler, Seeing medieval art. 43 II. Porta, luogo passaggio, di iniziazione e di protezione II.1. Spazio liminare Da più di un secolo gli studi antropologici hanno dimostrato che narteci, atrii o sale d’ingresso hanno lo stesso valore semantico della porta alla quale introducono. Questi spazi sono infatti considerati, nel linguaggio simbolico, un’estensione della soglia: una zona tra due mondi, che non appartiene a nessuno dei due. Si tratta perciò di luogo di passaggio interpretato – per riprendere la definizione stabilita nel 1908 dal grande antropologo Arnold Van Gennep – come una “zona di margine”, una sorta di no man’s land, indissolubilmente legata ai riti di passaggio123 . Nel mondo arcaico la funzione sacra di tali zone – che fossero ingressi di città, di templi o di semplici case – era quella di delimitare il mondo spirituale al quale si poteva accedere soltanto mediante un rito iniziatico. Per Van Gennep, infatti, “…‘passer le seuil’ signifie s’agréger à un monde nouveau. Aussi est-ce un acte important dans les cérémonies du mariage, de l’adoption, de l’ordination et des funérailles”. Soprattutto, però, partendo da un’analisi transculturale lo studioso approfondisce e distingue i “riti di margine”: “On notera que les rites accomplis sur le seuil même sont des rites de marge. Comme rite de séparation du milieu antérieur, il y a des rites de ‘purification’ (…) puis des rites de agrégation (présentation du sel, repas commun, ect…). Les rites du seuil ne sont donc pas des rites ‘d’alliance’ à proprement parler, mais des rites de préparation à l’alliance, précédés eux-mêmes de rites de 123 Cfr. Van Gennep, Les rites de passage, pp. 21-26. Per la ricezione contemporanea delle tesi di Van Geppen cfr. Goguel D’Allondans, Rites de Passage, Rites D’initiation. 44 préparation à la marge (…) Je propose en conséquence de nommer rites préliminaires les rites de séparation du monde antérieur, rites liminaires les rites exécutés pendant le stade de marge, et rites postliminaires les rites d’agrégation au monde nouveau124 ”. Questa descrizione ha canonizzato, nella storiografia moderna, la lettura rituale dell’atto di passaggio della soglia, dandole un significato archetipico, la cui ampia gamma semantica ruota attorno al concetto di nascita125 , al quale si associa – paradossalmente per la cultura contemporanea – anche quello della morte, interpretato fin dall’antichità come momento di una seconda nascita126 . In parallelo a questi significati iniziatici – di porta come accesso a un mondo nuovo – vi è una seconda dimensione associata alla funzione pratica della porta che, oltre ad aprire, chiude: è quella di proteggere 127 . Nei monumenti medievali, presi in considerazione da un recente studio di Jean-Michel Spieser, graffiti popolari, tituli dedicatori e immagini istituzionali – del Cristo, dell’arcangelo Michele e della Theotokos – sembrano confermare questo dato: la porta d’ingresso a uno spazio sacro era percepita come una barriera di protezione contro le forze del male. Entrambe queste percezioni della porta sono, ovviamente, la conseguenza delle sue funzioni concrete e, per quanto sappiamo, una loro interpretazione in chiave metaforica non è valida soltanto per le civiltà antiche. In uno studio, dedicato alla Galizia attuale, Anxo Fernández Ocampo ha mostrato che l’interpretazione della soglia come luogo di passaggio è ancora oggi attuale nelle culture rurali128 . Il saggio di Ocampo è importante, per il presente volume, per una ragione ulteriore: lo studioso riflette infatti sul fatto che uno spazio di passaggio è quasi sempre associato 124 Van Gennep, Les rites de passage, p. 27. 125 Bruno Bettelheim, Les blessures symboliques. Essai d’interprétation des rites d’initiation, Paris 1971 [1946], pp. XY. 126 Goldman, The Sacred Portal, pp. 69-124. 127 Spieser, “Réfléxion sur le décor et fonctions des portes monumentales”, pp. 65-79. 128 Ocampo, “Devins sur le pas de la porte”. 45 a immagini. Lo scopo di tali figurazioni – poco importa se espressioni di una cultura popolare o istituzionalizzata – è certamente quello di proiettare sulla soglia, sulla porta, un’immagine che sia emblematica per le persone nel cui “territorio” si entra. Secondo Ocampo tali segni visivi trasformano anche lo spazio della porta, sul piano simbolico, in una “persona” che prepara il visitatore a passare la soglia129 . II.2. L’atrio tardoantico, quali funzioni? La domanda sulla quale vorrei soffermarmi in questa sede è se un luogo di accesso a uno spazio sacro tardoantico, come le porte e il nartece di Santa Sabina, partecipi a una tale gamma di significati. In questo senso mi sembra importante distinguere due livelli di analisi che, però, inevitabilmente finiranno per incrociarsi e confondersi, quello della dimensione “costruita”, cosciente e razionale, della percezione cristiana delle porte come luogo di passaggio rituale e quello del complesso significato antropologico di questo atto. Come osservato da Jean-Michel Spieser, per la funzione protettiva delle porte è probabilmente sbagliato cercare di distinguere tra segni spontanei, risultato di una superstizione apotropaica, e progetti iconografici dei committenti130 . Partecipi a un’unica cultura antropologica, con maggiore o minore grado di razionalità, tutti questi aspetti proiettano sulle porte un auspicio di difesa e di protezione. Allo stesso modo l’elemento istintivo e quello istituzionale sembrano mischiarsi nella funzione iniziatica del passaggio della soglia. La questione della funzione dello spazio d’ingresso nelle basiliche tardoantiche non ha trovato spiegazione univoca. Jean-Charles Picard, dopo aver analizzato le rare fonti conservate, ha concluso che la funzione di questo spazio era soprattutto funeraria131 . Partendo dalle stesse fonti, in tempi più recenti, Sible de Blaauw è giunto a conclusioni in parte divergenti che fanno dell’atrio un luogo plurifunzionale con 129 Ocampo, “Devins sur le pas de la porte”, § 4. 130 Spieser, “Réfléxion sur le décor et fonctions des portes monumentales”, p. 66. 131 Picard, “L’atrium dans les églises paléochrétiennes”, pp. 505-542; 532-534. 46 una forte impronta battesimale e catecumenale132 . Entrambi gli studiosi citano la tredicesima epistola di Paolino da Nola in cui si narra di un banchetto funebre svoltosi in onore di Paola, la figlia di Pammacchio, nel 386 nell’atrio di San Pietro in Vaticano e sono concordi nel vedervi l’esempio di un uso funerario dello spazio133 . De Blaauw, però, precisa che a San Pietro bisogna aspettare la fine del V secolo perché l’atrio cominci ad accogliere sepolture134 . Fondamentale per comprendere le divergenze tra i due studiosi è soprattutto l’interpretazione della descrizione della basilica di Tiro, fatta da Eusebio da Cesarea, in onore della consacrazione, probabilmente nel 315. Nel testo leggiamo: “Questo primo luogo [l’atrio] attraverso il quale passano quelli che entrano, offre piacere a tutti; a coloro che necessitano della prima iniziazione dona una dimora concepita per le loro esigenze”135 . Picard interpreta il passaggio osservando che “coloro che necessitano della prima iniziazione” non possono che essere i pagani poiché i catecumeni erano ammessi, come noto da altri testi, nella basilica fino all’eucaristia136 . De Blaauw legge invece questa stessa espressione in maniera più ampia includendovi, oltre ai pagani, anche i catecumeni passati attraverso un primo grado di iniziazione. Entrambi gli studiosi sono d’accordo sul fatto che alcuni penitenti gravi erano certamente espulsi dalla 132 de Blaauw, “The church atrium as a ritual space”, pp. 30-43. 133 Paolino da Nola, Le lettere, 13, 11, v. I, pp. 410-415. 134 de Blaauw, “The church atrium as a ritual space”, p. 41. 135 Eusèbe de Césarée, Histoire Ecclésiastique, X, 4; p. 94. 136 Picard, “L’atrium dans les églises paléochrétiennes”, p. 528 ricorda il testo di Vogel, La discipline pénitentielle en Gaule, pp. 36, 43, oltre alla Tradition Apostolique, 18, pp. 46-47, e le Consitutions apostoliques, II, 57, 14, pp. 316-317. In entrambi i testi i catecumeni sono invitati a lasciare la chiesa, fatto dal quale di deduce che fosse all’interno. 47 basilica e dovevano perciò radunarsi nell’atrio 137 . Sia Picard che de Blaauw individuano una dimensione retorica nel testo di Eusebio che, con ogni evidenza, presentava la chiesa di Tiro come un’imitatio spirituale del tempio di Salomone – così come descritta da Flavio Giuseppe – nel quale la funzione dell’atrio era di accogliere i non circoncisi che non potevano spingersi oltre 138 . Quanto Picard omette di menzionare è la fontana, destinata alla purificazione, che Eusebio dice aver visto a Tiro139 . Si tratta di un elemento assente dalla descrizione del tempio di Gerusalemme. De Blaauw usa questo argomento per dimostrare che, pur calcato sulle parole di Flavio Giuseppe, il testo di Eusebio si riferiva a un luogo reale, ma anche per sottolineare la dimensione iniziatica e battesimale dello spazio dell’atrio, vera tappa intermedia tra il mondo esterno e la “casa del Padre”. Parlando dell’atrio di San Pietro de Blaauw ricorda quindi le probabili processioni battesimali che dovevano attraversarlo, ma anche, semplicemente, la funzione di “sagrestia” che lo spazio doveva avere nella preparazione delle processioni liturgiche, prima della loro solenne entrata nella chiesa. Il saggio di de Blaauw si conclude con un’osservazione importante: forse lo spazio dell’atrio non è stato concepito per una funzione liturgica specifica. Naturalmente, però, esso ha finito per assumere quella più logica data la sua posizione liminare: accogliere segni chiari di un rito di passaggio140 . 137 Picard, “L’atrium dans les églises paléochrétiennes”, p. 529; de Blaauw, “The church atrium as a ritual space”, p. 39. 138 Flavius Josephus, The Jewish Ware, V, 184-237, pp. 254-275. 139 “È in quel luogo che ha posto i simboli di purificazione sacra, costruendo di fronte al tempio delle fontane per fornire in abbondanza dell’acqua viva, dove possono lavarsi coloro che entrano nella cinta del tempio, Questo primo luogo, attraverso il quale passano tutti coloro che entrano, offre a tutti bellezza e ristoro”. Eusèbe de Césarée, Histoire Ecclésiatique, X, 4, p. 94. 140 “There was no predetermined ritual to take place in the atrium, but in brought about a ritual of inner experiences for every Christian approaching the house of God. Hardly anywhere could a rite de passage, in the most literary way, more effectively by given a physical stage in the church atrium. This space was not created by rituals, but it produces rituals, tank to its expressive architectural qualities”. De Blaauw, “The church atrium as a ritual space”, p. 43. 48 Mi sembra che le divergenze tra i due studiosi siano meno importanti di quanto possa sembrare: le fonti menzionano, infatti, come giustamente sottolineato da Picard, il fatto che i catecumeni erano invitati a lasciare la chiesa al momento della consacrazione. La Costituzione apostolica, scritta in ambito siriano attorno al 380, ci informa, inoltre, che i catecumeni erano suddivisi in tre gruppi che uscivano progressivamente dalla chiesa – comunque prima del mistero eucaristico – a seconda del loro grado di iniziazione141 . Questo significa che, dopo le letture, penitenti gravi e catecumeni si trovavano di fronte alla chiesa, di fronte alle porte chiuse della chiesa. In questo senso le analisi di Picard e de Blaauw sono quindi complementari: i catecumeni potevano entrare in chiesa ma, per la parte essenziale dei misteri cristiani, il loro posto era nello spazio antistante alla chiesa – atrio o nartece che fosse – che indicava chiaramente il loro statuto “marginale”. Inoltre, se prendiamo in considerazione il testo di Eusebio e accettiamo l’interpretazione di Picard circa la presenza nell’atrio di pagani, dobbiamo chiederci quale fosse – tra il IV secolo e l’inizio del V – il numero di coloro che frequentavano già le liturgie pur non essendo ancora ufficialmente catecumeni. L’inizio del catecumenato avveniva infatti circa tre anni prima del battesimo, con un rito che consisteva in una sommaria catechesi, seguita da una formula di esorcismo, nell’imposizione di un segno di croce e nella benedizione e degustazione del sale142 . A Roma questa pratica era più complessa visto che, dopo l’inizio del catecumenato, venivano imposte ai neofiti tre unzioni e altrettanti esorcismi143 . Nel corso del IV secolo il periodo di preparazione si era progressivamente ridotto144 . Considerata la tradizione di un battesimo in tarda età, aspramente criticata dai Padri della Chiesa, le 141 Salamito, Cristianizzazione vita sociale, p. 642; Les constitutions apostoliques, VIII, 6, 1- 13; 7, 4-9; 8, 1-6, pp. 151-157 (uscita gli uditori e catecumeni); 156-159 (uscita dei posseduti); 161 (uscita degli illuminati). 142 Victor Saxer, Les rites d’initiation chrétienne du IIe au VIe siècle. Esquisse historique et signification d’après leurs principaux témoins, Spoleto 1988. 143 Saxer, Les rites d’initiation, p. 567-592; Salamito, Cristianizzazione vita sociale, p. 642. 144 Saxer, Les rites d’initiation, p. 567-592; Salamito, Cristianizzazione vita sociale, p. 642. 49 lunghe attese prebattesimali devono essere considerate come una forma di protocatecumenato145 . Leggendo le parole di Agostino, “Ancora adesso si sente dire da ogni parte a proposito di questi o di quelli: ‘Lascialo fare: non ha ricevuto ancora il battesimo’”146 , e vista la tradizione di un catecumenato di circa tre anni, la situazione appare contraddittoria. In realtà, in alcuni casi, il catecumenato era prolungato fin sul letto di morte, mi sembra perciò legittimo immaginare che alcuni componenti delle assemblee frequentassero le chiese e fossero anche considerati parte della comunità pur non avendo in realtà superato neppure il primo grado d’iniziazione al cristianesimo147 . Il numero delle persone che restavano fuori dalle chiese durante la liturgia doveva quindi essere superiore ai pochi penitenti immaginati da Picard. Ad ogni modo credo che sia legittimo concludere che gli spazi d’accesso alle prime basiliche cristiane – atrio, nartece o semplicemente soglia – fossero il luogo destinato a chi non era ancora battezzato o era provvisoriamente allontanato dalla comunione: al più tardi al momento della liturgia eucaristica, infatti, neofiti e penitenti uscivano dall’aula per trovarsi davanti a una porta chiusa. Che questa prassi si estendesse con ogni probabilità anche ai penitenti è forse attestato ugualmente da un altro importante monumento tardoantico, messo in relazione con la committenza personale di Sant’Ambrogio. Si tratta della porta lignea che – malgrado i pesantissimi restauri del 1750, che ne hanno radicalmente modificato la morfologia – orna tutt’ora l’atrio della basilica ambrosiana di Milano148 . La porta è decorata da un complesso ciclo davidico, ricostruito – in base a disegni 145 Salamito, Cristianizzazione vita sociale, p. 643. 146 Agostino, Le confessioni, 1, 11, 18, pp. 20-23. 147 “Il catecumenato antico scomparve come struttura pastorale per cedere il posto ad uno ‘status’ catecumenale più o meno definito” (Groppo, “Catecumenato Antico”, p. 135). Cfr. anche Pasquato, “Catechesi”, col. 915-916. 148 Per le porte lignee della basilica milanese cfr. la sintesi con la bibliografia precedente Vay, Cacitti, “Le porte lignee di Sant’Ambrogio”. 50 precedenti ai restauri e ai pannelli antichi conservati – da Teresa Mroczko149 . La sua interpretazione non è univoca, ma con ogni probabilità la porta deve essere compresa come un eco visivo dell’omiletica ambrosiana150 . In questo senso va l’interpretazione di Carlo Bertelli, che considera il ciclo davidico come una riflessione circa le virtù del santo vescovo fondatore 151 . Sempre in questo senso, però, una seconda interpretazione è stata proposta152 . Nella vita di Ambrogio, scritta da Paolino da Milano, a esse confrontata con Davide è la figura di Teodosio153 . In un celebre momento degli ultimi decenni del IV secolo, dopo il massacro di Salonicco del 390, Ambrogio aveva scomunicato Teodosio al quale era stato negato l’accesso allo spazio esigendo una sua pubblica penitenza. L’imperatore finì per cedere riconoscendo così la superiorità spirituale del vescovo154 . Il parallelo usato per giustificare la sua ammissione nella comunità fu appunto quella di Davide: come il re veterotestamentario, che aveva peccato e si era pentito, anche l’imperatore sarebbe stato ammesso nella comunità dopo pubblica penitenza155 . Considerata l’insistenza sulle porte, della figura di Davide peccatore e penitente, la porta Milanse potrebbe perciò essere interpretata anche in questo senso: di fronte al peccato, tutti, compreso il re o l’imperatore, sono uguali. Davide diventa l’exemplum del peccatore che, grazie alla penitenza, trova la via del perdono. La porta milanese potrebbe così “parlare” proprio a chi, penitente, si trova fuori dalla porta chiusa. La scelta del ciclo di Davide ricorda perciò a Milano l’episodio di Teodosio, che si è sottomesso all’autorità episcopale. In linea generale, però, essa può essere compresa come una prova del fatto che, le immagini di una porta potevano essere destinate a un pubblico 149 Mroczko, “The Original Programme”. 150 Mroczko, “The Original Programme”, p. 87. 151 Bertelli, “Percorso tra le testimonianze figurative più antiche”, pp. 353-355. 152 Reinhard-Felice, Ad sacrum lignum pp. 103-106. 153 Paolino da Milano, “Vita di Ambrogio”, 24; pp. 52-55. 154 Paolino da Milano, “Vita di Ambrogio”, 24 ; pp. 54-55. 155 Reinhard-Felice, Ad sacrum lignum, pp. 104-105. 51 penitente, riunito fuori dalla porta nell’attesa, che fossero loro rimessi i loro peccati alla fine della quaresima. II. 3. Sono la porta Da quanto fin qui asserito credo che si possa concludere, in prima battuta, che il significato antropologico del gruppo nartece-porta come luogo di passaggio iniziatico sembra corrispondere alla prassi tardoantica. Malgrado la scarsezza di documenti in nostro possesso tutti gli indizi sembrano indicare che, anche in questo caso, il primo cristianesimo integrasse segni e immagini propri delle culture che lo avevano preceduto. In questo senso possiamo anche chiamare in causa la stessa retorica cristiana, per la quale un significato iniziatico delle porte è intrinseco: il vangelo di Giovanni ci riporta le celebri parole del Cristo: “Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo” (Gv. 10, 9). Considerata la chiara valenza paradisiaca di cui è rivestito il tempio cristiano – basti ricordare il già citato passo di Eusebio da Cesarea –, il passaggio della porta diventa un gesto iniziatico di comunione con il Cristo, che garantisce l’entrata in un mondo nuovo. Nel suo commento al decimo capitolo di Giovanni, Agostino insiste proprio su questo significato iniziatico della porta. Spiegando il verso “Io sono la porta”, Agostino interpreta il passaggio dalla porta-Cristo come un gesto dell’appartenenza al Padre e ne precisa poi il significato come una chiara adesione alla legge divina. In tensione tra profezia, prefigurazione e realtà, Agostino collega infine il passaggio della porta con l’episodio veterotestamentario del passaggio del mar Rosso. “Il Mar Rosso significa il battesimo; Mosè che guida Israele attraverso il Mar Rosso è figura dal Cristo; il popolo che attraversa il mare sono i fedeli; la morte degli Egiziani è l’abolizione dei peccati156 ” 156 Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni, 45, 9, vol. 1, pp. 902-903. 52 Nel pensiero stratificato di Agostino risulta quindi evidente che entrare dalla porta significa aderire al Cristo in maniera simbolica, ma anche in maniera molto concreta, attraverso il battesimo, alla Chiesa. Per Agostino non vi è, in questo caso, netta distinzione tra la realtà paradisiaca e la Chiesa. Il passaggio della porta come segno di appartenenza alla Chiesa risulta però ancora più evidente quando distingue tra l’unico ovile ortodosso, al quale si accede dal Cristo-porta, e quello eretico di Donato: “Continuamente avete sentito parlare dell’unico ovile e dell’unico pastore; con insistenza vi abbiamo ricordato che esiste un unico ovile, predicandovi l’unità, in modo che tutte le pecore vi si raccolgano, passando per Cristo e nessuna di esse segua Donato”157 . Si tratta di un’idea condivisa anche da Ambrogio che considera l’edificio della chiesa come “immagine della dimora celeste”158 . L’esegesi patristica dà quindi un background culturale a quanto qui asserito: la porta delle basiliche, dalla quale solo gli iniziati possono passare, è immagine del Cristo. Passare attraverso di Lui è che come attraversare il mar Rosso, essere cioè battezzato. Con tutte le precauzioni del caso credo che si possa pertanto concludere che, in generale, lo spazio tra il nartece, l’atrio e la porta ha, in un linguaggio metaforico, un senso iniziatico. Si tratta di una dimensione intrinsecamente legata a questa zona fin dalle culture primitive, che, però, in ambito cristiano si arricchisce grazie a una complessa esegesi che fa della porta un’immagine di Cristo, unico garante dell’accesso alla vita eterna paradisiaca. Nel linguaggio tardoantico la realtà escatologica e quella terrestre sembrano – per lo meno nella retorica dei Padri – 157 Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni, 47, 4, vol. 1, pp. 936-937. 158 Ambrogio, Rimostranze di Giobbe e di Davide, IV, 2, 9, pp. 230-233. 53 confondersi. In questa maniera gesti rituali o paraliturgici legati allo spazio “marginale” della soglia sono rivestiti di un significato iniziatico evidente. 54 III. Le porte e l’atrio di Santa Sabina: quali funzioni? Prima di entrare in merito alla questione della funzione propria dello spazio del nartece della basilica di Santa Sabina è importante osservare che la sua morfologia è unica in ambito romano. Diversamente dalle soluzioni tradizionali – come le trifore, note per esempio dalla basilica dei Santi Giovanni e Paolo sul Celio, tipica introduzione nello spazio del nartece, e i larghi atrii come quello della basilica di San Pietro in Vaticano – quella adottata a Santa Sabina è, per lo meno in Occidente, un unicum159 : nei due casi ricordati l’atrio o il nartece permettevano di accedere alla porta della basilica attraverso una via centrale. Come dimostrato recentemente da Manuela Gianandrea, a Santa Sabina, invece, il nartece era chiuso sul lato occidentale da un muro alto circa tre metri, sopra il quale si apriva una polifora160 . La ragione di questa scelta deve in parte essere imputata alla morfologia dell’Aventino, la cui cresta doveva essere allora a pochi passi verso ovest. L’accesso allo spazio era quindi possibile soltanto dai lati brevi che collegavano il nartece direttamente, come indicato da Félix Darsy, alle due principali arterie del colle, il vicus Altus e il vicus Armilustrii161 . In origine le tre entrate principali della basilica – due tutt’ora esistenti e una attestata162 – si aprivano perciò su un vestibolo chiuso, che assumeva pertanto i connotati di una strana aula di passaggio. Paolino Nola ci informa che, di regola, le tre diverse porte di una basilica cristiana erano destinate ciascuna a un pubblico diverso: una per gli uomini, una per le donne, 159 Per i narteci tradizionali cfr. Krautheimer – Leclercq, “Narthex”; Thesis, “Narthex”. Per l’atrio di San Pietro cfr. de Blaauw, “The church atrium as a ritual space”. 160 Gianadrea, “L’atrio di Santa Sabina I”. 161 Darsy, “Le portes de Sainte-Sabine dans l’archéologie et l’iconographie”; Darsy, Recherches archéologiques à Sainte-Sabine, pp. 103-104. 162 Per l’esistenza della terza porta cfr. Darsy, “Le portes de Sainte-Sabine dans l’archéologie”, p. 483; Id., Recherches archéologiques sur l’Aventin, p. 104 e Krautheimer, Corpus basilicarum christianarum Romae, vol. IV, pp. 83-85 55 mentre l’ingresso centrale, il più importante, era usato dal solo clero163 . Vista la presenza delle tre porte a Santa Sabina, possiamo dedurre che anche sull’Aventino il nartece aveva come prima funzione quella “catalizzare” la folla, separandola nei tre diversi gruppi. Come suggerito da Sible de Blaauw per la basilica vaticana, si deve immaginare inoltre che proprio nel vestibolo si preparassero le processioni del clero prima di entrare nella basilica164 . Questo avveniva, però, di regola soltanto una volta alla settimana165 . La celebrazione quotidiana della messa era infatti ancora un avvenimento eccezionale a Roma alla fine del IV secolo. Al di fuori di festività e domeniche, la liturgia veniva celebrata con poca solennità, in piccole assemblee, forse addirittura in oratori familiari166 . Questo significa che la maggior parte del tempo, con ogni probabilità, la porta principale della chiesa era chiusa. In questo senso, rispetto alle due funzioni principali di una porta menzionate nel capitolo precedente, a momenti di regolare e solenne, ma relativamente rara, apertura erano opposti lunghi periodi di chiusura. Lo spazio del nartece appare così un luogo relativamente poco frequentato, mentre la porta principale, chiusa per la maggior parte del tempo, doveva essere il più delle volte una sorta di un’immagine immobile. Con ogni probabilità, inoltre, la porta era stata pensata proprio con questa funzione: costruita su battenti che si aprivano verso l’interno, i suoi pannelli erano di fatto illeggibili una volta aperta. Nel contesto di un atrio decorato con falsi marmi bianchi e rossi la porta doveva perciò spiccare per la sua natura plastica, ma anche per la brillantezza del suo colore giallastro, quasi aureo, proprio del legno di cipresso di cui è fatta167 . La lettura dei piccoli pannelli, allora come oggi, non doveva certo risultare semplice, viste le loro 163 È quanto si può intuire dal poema sulla porta: Paolino da Nola, Le lettere, XXXII, 15, vol. 2, pp. 258-259. 164 De Blaauw, “The church atrium as a ritual space”, p. 40. 165 Callam, “The Frequency of Mass”, pp. 633-637. 166 Callam, “The Frequency of Mass”, pp. 629-633. 167 Che il legno non fosse originalmente policromo se non, forse, in alcuni elementi minori mi è stato confermato da Roberto Saccuman che ha recentemente partecipato al restauro della basilica e che vorrei pertanto ringraziare. 56 dimensioni ma anche considerata la complessità della maggior parte delle composizioni. Si tratta di un’ipotesi che cercherò di sviluppare nel corso del testo, ma credo sia fin d’ora importante chiedersi le motivazioni della scelta di immagini dalla comprensione non immediata. Di regola questo tipo di decorum è motivato da due ragioni: la prima è quella di un committente per il quale è più importante la magnificenza dell’opera, che si esprime proprio con il fatto che l’immagine può solo difficilmente essere decifrata – viste le sue dimensioni ridotte – e perciò compresa dal pubblico168 . La seconda, che si addice forse meglio alla situazione delle porte di Santa Sabina, è quella di “occupare” lo spettatore che, di fronte a un ciclo tanto complesso, deve attivare la propria riflessione per cogliere quanto vede. In questa maniera si rallenta il ritmo dello sguardo e, di conseguenza, viene creato uno spazio di quiete169 . Il nartece di Santa Sabina si delinea così come uno spazio longitudinale e vasto, con un uso regolare tutto sommato limitato e provvisto di un’immagine complessa e perciò capace di catturare l’attenzione del fedele. Si tratta di elementi importanti che, però, più che chiudere il dibattito lo aprono. È infatti soltanto difficilmente credibile che uno spazio così finemente decorato come quello del nartece di Santa Sabina sia stato creato per un uso molto sporadico. Soprattutto, però, la fruizione fin qui descritta delle porte sarebbe poco spiegabile se si considerasse che, nei rari momenti in cui lo spazio veniva usato, esse dovevano essere aperte e perciò invisibili. Per capire meglio la ragione di quest’opera eccezionale bisogna quindi chiedersi quali ulteriori funzioni avesse l’atrio. Come indicato nel capitolo precedente le sole assemblee che potevano svolgersi con regolarità in questo spazio intermedio erano quelle dei non iniziati, dei catecumeni e dei penitenti che vi si raccoglievano al più 168 Cfr. Brenk, “Visibility and (Partial) Invisibility”, pp. 139-183; Foletti, “Il trionfo della figura”. 169 L’idea di immagini appositamente complesse per intrattenere lo spettatore è stata studiata, in tutt’altro contesto, da Nicolas Bock per spiegare le tappezzerie quattrocentesche create, secondo lo studioso, per occupare i visitatori nella noiosa attesa di un’udienza cfr. Bock, “Vedere, raccontare, immaginare”, pp. 305-317. 57 tardi dopo l’inizio della liturgia eucaristica. In questo spazio isolato potevano meditare sui misteri che erano loro ancora (o di nuovo, nel caso dei penitenti) celati. Questa potrebbe essere la chiave per intendere anche la complessa e articolata decorazione della porta, un’ispirazione per la meditazione dei catecumeni e penitenti, ma anche un modo per intrattenerli mentre dovevano aspettare l’uscita degli iniziati. Nella stessa direzione – che cioè l’atrio e la porta fossero concepiti prima di tutto per i non iniziati – va anche un secondo elemento: quello dell’esistenza a Santa Sabina, fin dai tempi di Sisto III, di un battistero170 . Lo attesta il Liber pontificalis, insieme alla promozione di Pietro d’Illiria – definito presbyter nell’iscrizione dedicatoria – al ruolo di vescovo ausiliare171 . La presenza del battistero farebbe di Santa Sabina uno dei luoghi battesimali importanti della città, dove sono noti, oltre al Laterano, una ventina di battisteri urbani172 . Credo, però, che anche il cambiamento di statuto di Pietro vada letto in questa stessa prospettiva. Dalle fonti di quegli anni – mi riferisco in particolare alla decima epistola di Siricio (384-399), attribuita a Damaso (366-384), e alla lettera di Innocenzo I (402-417) a Decezio da Gubbio 173 – sappiamo infatti che a Roma il battesimo era eseguito solo eccezionalmente da presbiteri – nelle parrocchie extra muros – e che la cresima era già allora amministrata soltanto da vescovi174 . Augusto Cosentino ha proposto di interpretare le due lettere come reazioni a una situazione in cui i presbiteri e i diaconi avevano usurpato l’autorità di battezzare175 . Se questa ipotesi è corretta, si potrebbe spiegare l’assenza di documenti simili negli anni successivi al pontificato di 170 Per quanto riguarda le altre fonti su questo battistero cfr. Gianadrea, “L’atrio di Santa Sabina I”. 171 “Et huius [= Xysti] temporibus fecit Petrus episcopus basilicam in urbe Roma santae Savinae, ubi et fontem construxit”. Cfr. Liber Pontificalis, XLVI, 8, t. I, p. 235. 172 Falla Castelfranchi, “L’edificio battesimale”, p. 275. 173 Siricius, “Epistulae”, 10, PL 13, col. 1188-1189, per l’attribuzione a Damaso e la relativa bibliografia cfr. Saxer, Les rites d’initiation, p. 570, n. 445; La lettre du pape Innocent Ier a Décentius de Gubbio. 174 Saxer, Les rites d’initiation, pp. 570-571. 175 Cosentino, “Il battesimo a Roma”, pp. 126-128. 58 Innocenzo I come prova del fatto che la situazione a Roma era tornata nei ranghi, con il primato dei vescovi nuovamente assicurato. Una lettera di Siricio a Imero, vescovo di Tarragona, datata 11 febbraio 385, ci informa inoltre del fatto che a Roma – eccetto per casi di pericolo di morte – il battesimo era proibito fuori dal periodo di Pasqua176 . Anche in questo caso poteva trattarsi di una reazione normativa a prassi un po’ anarchiche. Il dato certo è però che, negli ultimi anni del IV secolo, è stabilita chiaramente a Roma la regola dell’amministrazione del battesimo durante la notte di Pasqua. Per coloro che fossero stati indisposti per ragioni di salute in quella data – era soprattutto il caso delle donne alle quali era proibito il battesimo qualora avessero il ciclo mestruale – era possibile avere una seconda occasione prima della Pentecoste a patto, naturalmente, d’esser stati regolarmente iscritti e preparati nel corso della quaresima177 . A queste osservazioni merita d’essere aggiunto un elemento che completa il quadro: la glossa di Ratisbona, datata all’VIII secolo, fornisce una precisazione al primo Ordo romano178 . Il testo – interpretato da Antoine Chavasse – ci informa che, la notte di Pasqua, era legittimo celebrare il battesimo solo laddove vi fosse un battistero e che, per quella notte, il presbyter locale poteva eccezionalmente occupare il trono pontificio situato nell’abside della basilica. Si tratta, evidentemente, di una fonte di molto posteriore al periodo che ci interessa. Mi chiedo però se questo costume non debba essere interpretato come l’eredità di una prassi sviluppata proprio nel corso del V secolo, quando si moltiplicavano a Roma i battisteri titolari179 . In tal caso troverebbe forse spiegazione la promozione di Pietro al titolo episcopale: secondo la prassi vigente, intra muros, soltanto un vescovo poteva infatti completare il rito battesimale. La memoria di questo costume sarebbe quindi rimasta almeno fino all’VIII secolo poiché la glossa di Ratisbona autorizzava i preti delle parrocchie con un battistero ad atteggiarsi, almeno la notte di pasqua, a vescovi. 176 Siricius, “Epistulae”, 1, PL 13, col. 1133-1136. 177 Saxer, Les rites d’initiation, pp. 575-576. 178 Chavasse, La liturgie de la ville de Rome du Ve au VIIIe siècles, pp. 66-67. 179 Février, “Baptistère et ville”, pp. 211-220. 59 Grazie alla consacrazione di Pietro al rango episcopale, e vista la presenza di un battistero a Santa Sabina, vi era la necessità di uno spazio dove potessero aver luogo la preparazione al battesimo, amministrata dal vescovo, e quindi anche i riti prebattesimali. In questo senso Jean-Charles Picard ha proposto che, laddove – come in Vaticano – l’atrio della basilica era unito al battistero, proprio lì si svolgessero i riti prebattesimali180 . A Santa Sabina non vi sono dati archeologici per dire con certezza assoluta dove si trovasse il battistero. Alcuni indizi molto importanti – tra cui il prolungamento verso sud del muro dello stesso nartece e la presenza della quattrocentesca porta laterale, probabile spolia di un ingresso primitivo – hanno fatto supporre a Manuela Gianandrea che fosse situato nell’angolo nord-orientale dell’attuale piazza di Pietro d’Illiria181 . Dal battistero si poteva accedere direttamente alla basilica, mentre il suo ingresso orientale era probabilmente direttamente collegato con il nartece, che doveva prolungarsi fino a lì. Se questa era la situazione, appare molto plausibile che fosse proprio il nartece di Santa Sabina, similmente all’atrio di San Pietro, ad accogliere i riti precedenti al battesimo. Torneremo ancora sulla questione – poiché credo che le porte di Santa Sabina possano essere un argomento forte in tal senso –. Considerato però l’elegante arredo dell’atrio, ma anche la sua condizione di aula semichiusa, credo che a questo punto della discussione sia importante fissare un dato fondamentale: almeno una parte dei rituali prebattesimali si svolgevano proprio in questo ambiente. A confermare che l’atrio di Santa Sabina potesse essere un luogo di preparazione al battesimo può giungere un ulteriore elemento. Si tratta della tradizione romana – ricordata da Sozomeno e ribadita da Celestino I182 – che non fosse comune, se non 180 Picard, “L’atrium dans les églises paléochrétiennes”, p. 531. 181 Gianadrea, “L’atrio di Santa Sabina I”. 182 Sozomène, Histoire de Ecclésiastique, 7, 19, XY; Celestinus, “Epistula” 21, 2, PL. 60 eccezionalmente, predicare nel corso della liturgia183 . A questa costatazione Celestino I aggiunge, però, che istruire i suoi fedeli è uno dei doveri del pastore184 . Sono infatti note alcune omelie pronunciate nel corso della prima metà del V secolo, ma soprattutto si è conservata un’imponente serie di predicazioni di Leone Magno (440- 461)185 . Charles Pietri si è chiesto se quest’ultimo fatto non fosse legato a una radicale inversione di prassi verso la metà del secolo186 . Considerati i dati in nostro possesso, è però forse più semplice immaginare che la predicazione avesse luogo immediatamente dopo la liturgia. Le prediche conservate a Roma del periodo quaresimale nel V secolo, tutte di Leone Magno, sono state pronunciate la domenica187 . Infatti, rispetto ai soggetti più importanti per la quaresima cristiana – conversione, battesimo e riconciliazione –, le predicazioni domenicali sembrano concentrarsi soprattutto sull’idea di conversione dei cuori, un tema comune a tutti, battezzati, penitenti e catecumeni188 . Inversamente questo lascia supporre una predicazione più “specialistica” destinata ai soli catecumeni. Infatti vi erano celebrazioni anche il lunedì, il mercoledì e il venerdì destinate alla meditazione e al digiuno189 . Visto che a Roma non venivano celebrate messe il mercoledì e il venerdì, questi incontri dovevano certamente essere aliturgici190 . I dati raccolti da Daniel Callam confermano quindi quanto supposto e cioè che queste riunioni 183 Charles Pietri, Roma Christiana. Recherches sur l’église de Rome, son organisation, sa politique, son idéologie de Miltiade à Siste III (311-440), Roma 1976, p. 581. 184 Celestinus, Epistula 21, 2, PL. 185 Per le omelie note nella prima metà del V secolo cfr. Pietri, Roma Christiana, pp. 582-583. Riguardo ai sermoni di Leone Magno cfr. la nuova edizione italiana Leone Magno, I sermoni quaresimali e sulle collette, a cura di Elio Montanari, Marco Pratesi, Silvano Puccini, Bologna 1999. 186 Pietri, Roma Christiana, p. 583. 187 Marco Pratesi, “Introduzione”, in Leone Magno, I sermoni quaresimali, pp. 9-42; p. 26. 188 Infatti Leone menziona esplicitamente tutte tre le categorie cfr. Leone Magno, I sermoni quaresimali, 32, 1, 2, p. 195; Pratesi, “Introduzione”, p. 8. 189 Pratesi, “Introduzione”, pp. 26-27. Il digiuno è attestato anche da Leone Magno, I sermoni quaresimali, 29, 6, 3-4, p. 195 190 Callam, “The Frequency of Mass”, p. 627. 61 infrasettimanali dovevano essere destinate in maniera prioritaria ai catecumeni, che il vescovo preparava ai misteri pasquali191 . La predicazione in questi giorni non doveva, inoltre, svolgersi in relazione alla liturgia pubblica, un dato certamente attestato a Milano in epoca ambrosiana192 . Trattandosi di un insegnamento più personalizzato e meno solenne, si potrebbe allora immaginare che, nel caso di Santa Sabina, fosse lo spazio dell’atrio ad accogliere questo tipo di assemblee, essendo esso stesso non propriamente liturgico, più raccolto, ma sufficientemente solenne ed elegante. Vi è quindi un quarto e assolutamente fondamentale elemento a sostegno della tesi che l’atrio di Santa Sabina sia stato concepito come luogo destinato in maniera prioritaria ai neofiti. Si tratta della struttura della liturgia stazionaria a Roma. Il primo testo a conservare una chiara struttura di questa liturgia urbana è il così detto Comes di Würzburg, generalmente datato agli inizi dell’VIII secolo193 . Con ogni probabilità, però, il testo registrava lo stato della liturgia romana tra il 600 e il 650194 . Secondo le ricerche di John Baldovin si potrebbe addirittura far risalire alcuni gesti della liturgia al periodo pregregoriano, ossia agli anni 520195 . Nel Comes si parla di una tappa della liturgia stazionaria romana a Santa Sabina il mercoledì delle ceneri196 . Un dato che può essere con ogni probabilità ulteriormente anticipato se prendiamo in considerazione una processione che portava da Santa Anastasia a Santa Sabina e che si svolgeva lo stesso mercoledì prima della quaresima probabilmente fin dalla seconda metà del V secolo197 . 191 Callam, “The Frequency of Mass”, pp. 627-628. 192 Ambrogio, Dei misteri 1, 1 (SC 25bie, 156). 193 Baldovin, The urban character of Christian worship, pp. 125-126. 194 Comes Romanus Wirziburgensis ; Baldovin, The urban character of Christian worship, pp. 125-126. 195 Baldovin, The urban character of Christian worship, p. 125; Chavasse, “Les plus anciens types du lectionnair”, pp. 84-88. 196 Ms. Würzburg Cod. 62, § XXXVII. 197 Baldovin, The urban character of Christian worship, p. 160. 62 Allo stato attuale degli studi è impossibile risalire più indietro nel tempo per definire le tappe della liturgia stazionaria. Con ogni probabilità, però, agli inizi del V secolo essa era oramai ben costituita: la Pasqua si svolgeva principalmente in Laterano198 , mentre le altre feste erano sparse per la città199 . È quindi molto probabile che Santa Sabina fosse, per lo meno nella seconda metà del V secolo, il luogo dove aveva inizio il periodo del grande digiuno alla presenza del pontefice. Molto complessa è la questione del ruolo del mercoledì delle ceneri rispetto alla data d’inizio della quaresima. Gregorio Magno la fissava solo la prima domenica successiva alle ceneri200 . Fernand Cabrol e Roger Pierret hanno però cercato di dimostrare l’esistenza di una doppia tradizione di preparazione alla Pasqua: una di digiuno, che iniziava il mercoledì, destinata ai penitenti e ai catecumeni, e una seconda che dava ufficialmente inizio alla quaresima la domenica201 . Antoine Chavasse ha provato che le due date hanno finito per convergere all’inizio del VII secolo202 ma ha messo in dubbio che già nel V secolo la settimana della quinquagesima – quando oltre alla stazione di Santa Sabina era prevista anche una stazione ai Santi Giovanni e Paolo – avesse un ruolo liturgico precisamente definito203 . Lo studioso, però, non ha fornito nessun argomento contrario alle tesi di Cabrol e di Pierret. Inoltre egli non pare colpito dalla costruzione quasi contemporanea di questi due edifici – Santi Giovanni e Paolo, basilica fondata nel 410, e Santa Sabina, costruita tra il 421 e il 431 – che, viste le loro dimensioni monumentali, sembrano pensati per accogliere assemblee molto vaste204 . Mi sembra invece che la loro concezione – pur trattandosi di fondazioni presbiteriali e private – s’iscriva perfettamente nel disegno generale delle stazioni, così come fu concepito dai pontefici romani nel corso del V secolo e come 198 de Blaauw, Cultus et decor, p. 42. 199 Baldovin, The urban character of Christian worship, pp. 147-156. 200 Gregorio Magno, Omelia XVI, in Evangelia, 5, PL, t. LXXVI, coll. 113. 201 Cabrol, “Caput jejunii”, coll. 2134-2137; Pierret, “Carême”, coll. 136-140. 202 Chavasse, La liturgie de la ville de Rome, p. 53. 203 Chavasse, La liturgie de la ville de Rome, p. 245, n. 10. 204 Krautheimer, Corpus basilicarum christianarum Romae, v. 1, pp. 265-300. 63 efficacemente è stato spiegato dallo stesso Chavasse205 . Non va inoltre dimenticato la parte da protagonista recitata in questa realizzazione da Leone Magno (440-461), il cui ruolo centrale alla corte dei suoi due predecessori è solidamente attestato206 . In questo senso mi sembra difficile immaginare che la monumentalizzazione di questi due siti sia avvenuta in modo del tutto casuale. Il mercoledì prima della quaresima il pontefice si recava quindi con ogni probabilità a Santa Sabina per celebrarvi la stazione del mercoledì. Come già detto, sappiamo che, eccetto per la settimana santa, a Roma non si celebrava la liturgia eucaristica il mercoledì e il venerdì207 . È almeno quanto possiamo intuire dalle parole di Innocenzo I nella sua epistola 25. D’altra parte queste assemblee quaresimali infrasettimanali, come provato da Callam, dovevano essere indirizzate quasi esclusivamente ai catecumeni208 . Messe insieme, a rigore di logica, queste considerazioni portano a immaginare che a Santa Sabina si svolgesse, il mercoledì di inizio digiuno, un ufficio destinato prioritariamente ai catecumeni e ai penitenti209 . Con esso cominciava la preparazione al battesimo per gli uni e di riammissione alla comunione per gli altri. Forse, in quell’occasione il pontefice imponeva loro le mani e teneva loro un discorso importante sui quaranta giorni che li aspettavano210 . In questo sermone dovevano certo essere menzionati sia la necessità di rinunciare al demonio – che sarebbe stata fortificata poi con tre unzioni di esorcismo, applicate per tre domeniche di seguito – sia di riflettere sui digiuni e sulle opere caritatevoli che li avrebbero aiutati a prepararsi ai misteri che li attendevano in fondo al loro cammino211 . In questa maniera troverebbe, però, anche una possibile spiegazione la differenza tra l’inizio 205 Chavasse, La liturgie de la ville de Rome, pp. 231-246. 206 Cavalcanti, “Leone I, santo”. 207 Callam, “The Frequency of Mass”, p. 627. 208 Callam, “The Frequency of Mass”, pp. 627-628. 209 Ambrogio ricorda queste assemblee quotidiane di preparazione nel De mysteriis cfr. Ambrogio, Dei misteri, 1, 1 ; p. 137 210 Per la questione delle unzioni e degli esorcismi pre-battesimali cfr. Saxer, Les rites d’initiation, pp. 377; 574; 591-592. 211 Pasquato, “catecumenato/discepolato”, coll. 945-955. 64 del digiuno e quello della quaresima che si apriva solennemente soltanto la domenica successiva: ognuno di questi due momenti era destinato a un pubblico diverso. Nel corso della stazione a Santa Sabina i catecumeni potevano quindi, forse, riunirsi proprio nel nartece attorno al pontefice. Visto il significato del battesimo come accesso a una nuova vita, mi sembra plausibile supporre che la cerimonia si svolgesse a porte chiuse. Sarebbe una maniera per sottolineare teatralmente che ai catecumeni era ancora chiuso l’accesso ai più grandi misteri del cristianesimo, ma anche che questa condizione sarebbe di lì a poco cambiata. Oltre a queste quattro funzioni menzionate – catecumenale, battesimale, penitenziale e clericale – è importante ricordarne un’altra, forse più banale, ma che risulta ugualmente notevole per il seguito di questo volume. Si tratta di una funzione quotidiana, almeno in apparenza, assolutamente aliturgica. Come già ricordato, anticamente, il nartece di Santa Sabina univa le due arterie principali del colle, il vicus Altus e il vicus Armilustrii. Esso doveva certamente essere un luogo di passaggio. Ovviamente, vista la sua natura di spazio semisacro non dovevano transitarvi carichi di merci, ma poteva essere un luogo di rapido raccoglimento per un cristiano che doveva attraversare il colle. Alla maniera in cui ci si sofferma passando di fronte a un cappella aperta, attraversare il nartece poteva essere un momento di devozione privata. In conclusione di questo breve capitolo credo si possa affermare che la questione della funzione dell’atrio di Santa Sabina è complessa: luogo di passaggio accidentale, ma anche accesso solenne alla basilica esso aveva, prima di tutto, una serie di funzioni pratiche. Vista però la sua situazione eccezionale – rispetto all’asse tradizionale spazio pubblico-nartece-basilica – emerge chiaramente un suo uso dominante, quello catecumenale. Considerata la regolare uscita dei catecumeni dalla chiesa prima della liturgia eucaristica, tutti gli spazi d’ingresso alle basiliche 65 tardoantiche dovevano svolgere, in un certo modo questa funzione. La presenza a Santa Sabina di un battistero rafforza però questa dimensione poiché questo significa che nel nartece dovevano svolgersi tutte le tappe del complesso rito iniziatico cristiano. Infine, il fatto che il giorno in cui il pontefice giungeva a Santa Sabina nell’ambito della liturgia stazionaria fosse strettamente legato alla preparazione battesimale, sembra confermare ulteriormente la funzione iniziatica del nartece. L’uso del nartece di Santa Sabina è perciò diverso da quella dell’atrio di San Pietro e mostra lo sviluppo compiuto dall’organizzazione ecclesiastica romana a poco più di un secolo da Costantino. Sible de Blaauw ha concluso che l’atrio di San Pietro non era stato costruito per la liturgia, ma che questa vi aveva naturalmente trovato sede212 . A mio parere, invece, il caso di Sabina è un esempio convincente di un nartece concepito e ornato per rispondere a delle esigenze rituali precise. 212 De Blaauw, “The church atrium as a ritual space”, p. 43. 66 IV. Immagini, liturgia e omiletica Per comprendere il significato e la percezione della porta di Santa Sabina al momento della sua esecuzione è necessario inserirla nel contesto polifunzionale di tutto lo spazio del nartece, legato ai riti iniziatici prebattesimali e a un più generale uso catecumenale e penitenziale. Questo capitolo sarà perciò incentrato intorno alla domanda chiave se la decorazione delle porte – unica immagine figurativa presente nel nartece al momento della sua concezione – sia stata altrettanto da questi tre usi, catecumenale, penitenziale e prebattesimale. In questo senso, in prima battuta, i rilievi conservati saranno studiati dal punto di vista della retorica iniziatica cristiana. Per quanto attiene al metodo si tratterà di considerare le informazioni visive nel contesto della produzione artistica tardoantica. Parallelamente le immagini saranno esaminate alla luce dei più importanti testi patristici, fonte primaria per capire la forma mentis della Roma dei primi decenni del V secolo. Saranno presi in considerazione anche vari testi liturgici per cercare di comprendere se e come le immagini della porta possano essere considerate espressione di una prassi cultuale. Nella seconda parte del capitolo – molto più sintetica – si analizzerà la maniera in cui l’iconografia della porta interagisce con le funzioni regolari del nartece: essere la via d’accesso alla basilica e la zona di passaggio tra le due più importanti arterie dell’Aventino. Si cercherà quindi di riflettere sull’impatto che le immagini della porta potevano avere sul clero, sui fedeli e sui semplici passanti che attraversavano lo spazio in maniera “accidentale”. Infine si proverà, anche in questo caso molto rapidamente, a delineare una possibile spiegazione delle anomalie della narrazione presente sulle porte che non risponde a una precisa struttura cronologica. 67 IV. 1. L’eclissi di Roma e la scelta di Ambrogio Prima di proseguire è importante soffermarsi brevemente sulle fonti testuali da usare in questa analisi. Considerata la situazione estremamente frammentaria dei testi liturgici romani d’inizio V secolo, come pure la quasi totale assenza di sermoni e omelie antecedenti alla metà del V secolo, è di fatto impossibile basarsi sulle fonti locali, le più pertinenti per qualsiasi forma di studio213 . Questa situazione può essere spiegata dalla parziale eclissi che vive la città di Roma nell’ultimo quarto del IV secolo. Con la capitale imperiale a Milano e con Ambrogio alla guida della metropoli lombarda, Roma si trova in secondo piano non solo a livello amministrativo ma anche a quello ecclesiale214 . Vi saranno, all’interno dell’Urbe, tentativi di ridare smalto alla città – si consideri a titolo d’esempio l’enfasi posta sulla ripresa del culto di san Paolo, con la ricostruzione della sua basilica215 –, in realtà però Roma resta indiscutibilmente nell’ombra di Milano. Dopo la morte di Ambrogio nel 397 e il successivo spostamento della capitale da Milano a Ravenna, gli equilibri torneranno a ristabilirsi216 . Bisognerà tuttavia aspettare i forti pontificati di Sisto III (432-440) e soprattutto di Leone Magno (440-461), contemporanei ai periodici ritorni degli imperatori in città, perché Roma riprenda a recitare un ruolo principale217 . Quindi, pur avendo Roma una propria e solida tradizione liturgica, gli spunti più innovativi da un punto di vista esegetico sono prodotti altrove. Per la situazione rituale romana mi riferirò perciò al quadro che è stato ricostruito – con le pochissime informazioni a 213 Per uno spoglio sistematico delle fonti conservate – soprattutto lettere – cfr. Saxer, Les rites d’initiation, pp. 567-624 e Johnson, The Rites of Christian Initiation, pp. 159-169. 214 Cfr. Rebecchi, “Milano, rivale di Roma”, pp. 105-112. 215 Cfr. Pietri, Roma Christiana, pp. 514-519, 1537-1626; Liverani, “La cronologia della seconda basilica di S. Paolo”, pp. 107-123. 216 Per la figura di Ambrogio cfr. i recenti studi monografici di Paredi, S. Ambrogio e la sua età; McLynn, Ambrose of Milan; Pasini, Ambrogio di Milano; Dassmann, Ambrosius von Mailand. 217 Per il ritorno degli imperatori a Roma cfr. Gillet, “Rome, Ravenna, and the last western emperors”, pp. 131-167; Chrysos, “Conclusions”, pp. 1059-1068. 68 disposizione – da Victor Saxer e da Maxwell Johnson, avvalendosi delle testimonianze dei secoli precedenti, ma anche dei decenni successivi218 . Per quanto riguarda l’interpretazione dei vari gesti liturgici, nonché dei passaggi evangelici, bisognerà basarsi, per forza di cose, su scritti esterni, in particolare a quelli prodotti in area milanese. La fonti alle quale attingerò con maggior costanza saranno gli scritti di Ambrogio da Milano. Oltre al suo indiscusso credito come vescovo della capitale imperiale e alla sua figura carismatica, Ambrogio ha relazioni con Roma solidamente attestate, che ci permettono di individuare nella sua opera uno spunto importante per la riflessione teologica e normativa romana219 . Per il nostro proposito è inoltre anche fondamentale il legame che unisce papa Celestino I – in carica durante il periodo in cui furono con ogni probabilità concepite le porte di Santa Sabina – a Milano220 . Nonostante le informazioni note sulla vita di Celestino siano poche, sappiamo che egli trascorse – prima di salire sulla cattedra episcopale romana – un periodo prolungato a Milano221 . Nei frammenti dei suoi sermoni egli cita inoltre l’opera di Ambrogio, facendone uno dei fondamenti della cristologia latina antinestoriana222 . I dati a nostra disposizione sono quindi limitati ma attestano una famigliarità certa del vescovo romano con l’opera – e forse la persona – di Ambrogio. Assumere che le sue idee fossero conosciute e citate dal pontefice o che questi ne facesse addirittura uso durante le sue omelie è perciò lecito. Dalle nostre informazioni sulla committenza della basilica di Santa Sabina, sembra improbabile che il papa abbia avuto un ruolo attivo nella costruzione e nella decorazione di 218 Saxer, Les rites d’initiation, pp. 567-624; Johnson, The Rites of Christian Initiation, pp. 159-169. 219 Siniscalco, “San’Ambrogio e la Chiesa di Roma”, pp. 141-160. 220 Gori, “Celestino I”, pp. 406-415. 221 Arnobio il Giovane, Conflictus Arnobii catholici, II, 13, 9-16, pp. 166-176. 222 Il sermone fu pronunciato nel 430, al concilio organizzato a Roma. Cfr. Arnobio il Giovane, Conflictus Arnobii catholici, II, 13, pp. 166-176. A proposito della ricezione dei testi di Ambrogio da parte di Celestino cfr. Cesare Pasini, “Ambrogio nella teologia posteriore greca”, pp. 375-376. 69 questa chiesa223 . Con tutte le precauzioni del caso mi sembra però legittimo postulare che la predicazione di Celestino dovette avere un impatto rilevante sulla riflessione teologica di tutta la città. Nel solo corpus cospicuo di prediche romane conservate del V secolo, quello di Leone Magno, possiamo costatare che il pontefice ripropone gli stessi concetti ogni anno, dando addirittura a volte l’impressione di ripetersi224 . Le idee del vescovo erano quindi con ogni probabilità largamente diffuse. Considerata tale prassi credo che si possa dedurre che, pochi anni dopo l’elezione di Celestino I, le sue idee e i suoi autori favoriti dovessero essere conosciuti in tutta Roma. L’analisi iconografica e iconologica che seguirà sarà quindi costruita in tensione tra gli elementi liturgici romani a noi pervenuti tra il III e l’VIII secolo e i testi di Ambrogio. Il quadro sarà completato con scritti di altri importanti esegeti e con testi liturgici orientali. IV. 2. Lo sguardo battesimale Molti dei tipi iconografici presenti sulla porta sono relativamente frequenti nell’arte tardoantica, come attesta il corpus in fondo al volume. È però altresì vero che sulle porte di Santa Sabina episodi comuni dal punto di vista della prassi figurativa cristiana sono spesso rappresentati in maniera molto diversa dalla tradizione oppure sono arricchiti con dettagli insoliti e importanti in termini iconologici. Inoltre, alcune scene sono, malgrado la banalità del soggetto rappresentato, dei veri e propri unica iconografici. Infine, il modo in cui determinati episodi sono associati a un livello più 223 A proposito di Pietro d’Illiria e del suo ruolo nella committenza della basilica cfr. Manuela Gianandrea, “Tra ‘figura’ e ‘non figura’”. 224 Il pontefice invita i fedeli a immaginare la Crocefissione con parole pressoché identiche nel 443 (Leone Magno, I sermoni sul mistero pasquale, 47, 4, 4-7; pp. 230-31) e nel 444 (Leone Magno, I sermoni sul mistero pasquale, 59, 1, 1; p. 363), viene diverse volte ripetuta anche la predica sulla disgrazia di Giuda (Leone Magno, I sermoni sul mistero pasquale, 41, 3, 1; p. 147; 49, 4, 2; p. 251), ma anche l’orazione sul pentimento di Pietro (Leone Magno, I sermoni sul mistero pasquale, 41, 5, 1-4; pp. 149-151; 47, 4, 4-7; pp. 230-31). 70 generale si rivela essere l’indizio di un pensiero orientato da parte di chi ha concepito le decorazioni delle porte. Vorrei quindi verificare, nelle pagine che seguiranno, la validità dell’ipotesi di base di questo lavoro, cioè che la scelta del soggetto e della forma nelle decorazioni delle porte di Santa Sabina è stata ideata in un dialogo stretto tra immagine, prassi liturgica e retorica iniziatica. a) L’acqua di vita L’elemento, per ovvie ragioni, intrinsecamente legato all’esegesi battesimale e agli spazi in cui essa avveniva è certamente l’acqua225 . Sono entrate nella storiografia quasi come un luogo comune le parole di Tertulliano che nel suo De Baptismo scrisse: “Quale figura più evidente del sacramento del battesimo? I pagani sono liberati dal mondo tramite l’acqua e lasciano immerso nell’acqua il diavolo loro dominatore di un tempo. In maniera simile l’acqua è guarita dalla sua amarezza per recuperare la sua consueta dolcezza dal legno di Mosè. Quel regno era Cristo, che guarisce lui stesso le acque prima avvelenate e amare e le trasforma in un’acqua estremamente salutare, quella del battesimo, si capisce. Questa è l’acqua che sgorgava per il popolo dalla roccia che l’accompagnava: se infatti la roccia è Cristo possiamo constatare senza dubbio che il battesimo riceve la sua consacrazione in Cristo tramite l’acqua. Mai c’è Cristo senza l’acqua, se davvero lui stesso viene battezzato con l’acqua! Invitato a delle nozze, tramite l’acqua offre le prime prove della sua potenza. Quando parla invita gli assetati a bere la sua acqua eterna (…)”226 . 225 Cfr. La sintesi sulla percezione significativa di questo elemento da parte dei Padri della Chiesa: F. Cocchini, “Acqua”, in Nuovo dizionario patristico di antichtà cristiane, diretto da Angelo di Bernardino, Genova – Milano 2006, I, col. 60-64. 226 “Quae figura manifestior in baptismi Sacramento? liberantur de saeculo nationes per aquam scilicet, et diabolum dominatorem pristinum in aqua oppressum derelinquunt. Item aqua de amaritudinis vitio in suum commodum suavitatis Mosei ligno remediatur. lignum illud erat Christus venenatae et amarae retro naturae venas 71 Il tema è ripreso copiosamente dai Padri della Chiesa i cui testi sono molto ricchi di riferimenti simili a quelli di Tertulliano227 . Questa sorta di koinè concettuale di prefigurazioni del battesimo si riflette quindi negli spazi battesimali. Nei battisteri di cui sono ancora note le decorazioni – si pensi in particolare ai tre battisteri monumentali con immagini ancora conservate, quello di Doura Europos, quello di San Giovanni in Fonte a Napoli e il battistero degli ortodossi a Ravenna – la presenza dell’acqua è, infatti, un topos228 . La situazione delle porte di Santa Sabina è in questo senso più complessa: l’acqua appare soltanto in quattro casi, si tratta, però, di episodi significativi proprio per la maniera in cui si discostano dalla prassi figurativa tradizionale. Il primo pannello è quello raffigurante i tre miracoli compiuti da Mosé nel deserto (! 6). Nella parte inferiore si trova l’episodio che ci interessa maggiormente: il patriarca è raffigurato mentre fa scaturire l’acqua dalla roccia (fig. 5). in saluberrimam aquam, baptismi scilicet, ex sese remedians. Haec est aqua quae de comite petra populo profluebat: si enim petra Christus, sine dubio aqua in Christo baptismum videmus benedici. quanta aquae gratia penes deum et Christum eius ad baptismi confirmationem. Nunquam sine aqua Christus: siquidem et ipse aqua tinguitur, prima rudimenta potestatis suae vocatus ad nuptias aqua auspicatur, cum sermonem facit sitientes ad aquam suam invitat sempiternam…” Tertulliano, “Il Battesimo”, IX, 2-4, pp. 174-177. 227 Cfr. Cyrille de Jérusalem, Cathéchèses mystagogiques; Jérôme, “Lettre à Océanus”, 69, 6; pp. 200-201, in generale cfr. Cocchini, “Acqua”, coll. 61-64. 228 Al riguardo cfr. Korol, Rieckesmann “Neues zu den alt- und neutestamentlichen Darstellungen, pp. 1611-1854; Gandolfi, “Les mosaïques du baptistère de Naples”, pp. 21-34 e Foletti, “Ambroise de Milan et le baptistère des Orthodoxes”, pp. 121-155. 72 Fig. 5. Il miracolo della roccia, porta lignea, basilica di Santa Sabina, Roma, 421-431. Rispetto all’iconografia tradizionale – più ampiamente analizzata nel corpus iconografico (! 6a) – si è sorpresi da un elemento assolutamente eccezionale. Solitamente l’acqua che scaturisce dalla rupe è raffigurata come una fonte regolare ma relativamente esile che cade dall’alto in basso formando, in alcuni casi, una piccola pozza ai piedi di Mosè. Qui, invece, siamo in presenza di un vero e proprio fiume che ha l’aspetto di una piscina di acqua mossa. Già nel III secolo la scena era stata messa in relazione con il battesimo da Cipriano di Cartagine e dallo stesso Tertulliano 229 e la sua composizione fa pensare che il suo esecutore volesse indirizzare verso questa lettura: Mosè non è ritratto, come di costume sui sarcofagi cristiani (fig. 6), di profilo e con il bastone in mano ma frontalmente, indicando semplicemente la fonte con il palmo aperto della mano destra. 229 Cipriano, Lettere 51-81, 63, 8, 1-3; pp. 146-149; Tertullien, “Il battesimo”, IX, 2; pp. 174-175. 73 Fig. 6. Il miracolo della roccia, pittura murale, Cubicolo C, Ipogeo di Via Dino Compagni, Roma, 350 c. Il suo gesto sembra riprodurre quello della mano divina alla sua sinistra, quasi a confermare che si tratti dell’operato di Dio. La scelta della frontalità stabilisce un contatto visuale tra la figura del patriarca e lo spettatore, il cui sguardo è quindi guidato da Mosè in direzione della fonte-piscina. Questa insolita composizione pare allora confermare l’esegesi patristica: l’acqua che sgorga dalla roccia è in realtà la fonte di vita del battesimo. Un elemento ulteriore può corroborare questa interpretazione: basandosi sulle parole di Paolo (1 Cor. 10, 4) l’esegesi considera frequentemente la roccia dalla quale sgorga l’acqua come una delle immagini del Cristo230 . Nel discorso patristico il Cristo è quindi colui che permette l’accesso al battesimo ma contemporaneamente Egli è anche il mezzo, la porta, attraverso la quale il neofita deve passare. La valenza battesimale dell’episodio della fonte è così 230 Cfr. a titolo d’esempio Gregorio di Nissa, La vita di Mosè, a cura di Manlio Simonetti, Torino 1984, II, 136, pp. 136-137. 74 potenziata da un’esegesi cristologica che indica in termini metaforici quanto il battesimo sia in realtà una doppia comunione con il Cristo. A conferma di questo stretto legame tra il racconto del miracolo della roccia e il periodo di preparazione al battesimo vi è poi anche un dato liturgico: nel corso della terza domenica di quaresima veniva letto a Roma il passaggio dei Numeri 20, 1-13231 . Questa lettura è menzionata nel Vaticanus Reginensis 360, uno dei manoscritti più importanti che compongono il Sacramentario gelasiano, composto soltanto nel 750. Secondo Chavasse, curatore della sua edizione moderna, la tradizione di questo libro liturgico deve risalire almeno alla seconda metà del V secolo232 . Visto lo stretto legame tra la scena e il battesimo, però, è possibile che tale associazione fosse presente anche nella liturgia precedente. Chavasse suggerisce inoltre che la seconda parte del sacramentario – quella contenente i dettagli sui riti prebattesimali – fosse stata concepita proprio a uso delle parrocchie battesimali, tra le quali si annovera Santa Sabina233 . In altri termini, l’immagine sulla porta della basilica potrebbe essere, anche in questo caso, una rappresentazione visiva di un elemento di una prassi rituale. Nell’intenso periodo di preparazione al battesimo, quindi, il tema messo in risalto sulle porte di Santa Sabina era proposto con ogni probabilità anche nella liturgia romana. 231 Cfr. Chavasse, La liturgie de la ville de Rome, pp. 51-53. 232 Le Sacramentaire gélasien (Vaticanus Reginensis 316); Textes liturgiques de l’Eglise de Rome. 233 Chavasse, La liturgie de la ville de Rome, p. 10-11. 75 Fig. 7. Il passaggio del mar Rosso, porta lignea, basilica di Santa Sabina, Roma, 421-431. Restando in ambito veterotestamentario la seconda scena in cui predomina l’acqua è quella del passaggio del mar Rosso (fig. 7). Uno dei pannelli più grandi, dove la distesa dell’acqua occupa quasi un terzo dello spazio disponibile (! 16). La scena è ripresa nel momento in cui il faraone viene sommerso dal mar Rosso con il suo esercito, mentre gli israeliti sono già in cammino verso la Terra promessa. Se il restauro ottocentesco è corretto, come sembra probabile, Mosè è ancora rivolto verso 76 il mare, da poco richiusosi, e osserva la disfatta dell’esercito egizio. È plausibile che sia questa la versione originale della composizione dato che questo è l’atteggiamento di Mosè nella maggior parte dei monumenti con la stessa iconografia234 . Fig. 8. Il passaggio del mar Rosso, ipogeo di Via Dino Compagni, Roma, 370 circa. Nella tradizione iconografica questo episodio viene narrato infatti in due maniere distinte. Nella quasi totalità delle scene conosciute – datate tra il III e il V secolo – il racconto si svolge in tre tappe raffigurate in successione lineare: gli egizi escono dalla città per cominciare l’inseguimento, il mar Rosso e infine gli israeliti in salvo 235 . Mosè è quasi sempre rappresentato nell’atto di chiudere il mare. Questa rappresentazione è presente su diversi sarcofagi, nell’ipogeo di via Dino Compagni (fig. 8), ma anche 234 Tsuji, “ ‘Le passage de la mer rouge’”; Jeremias, Die Holztür, pp. 26-32; Von Stritzky, “Bemerkungen zur Darstellung”. 235 Cfr. Tsuji, “‘Le passage de la mer rouge’”, pp. 57-60; Jeremias, Die Holztür, pp. 26- 32; Von Stritzky, “Bemerkungen zur Darstellung”; Sanmorì, “Passaggio del Mar Rosso”. 77 nella sinagoga di Doura Europos 236 . Solo in due occasioni è stata scelta un’impaginazione narrativa diversa: proprio nel pannello della porta di Santa Sabina e nella navata della basilica sistina di Santa Maria Maggiore (fig. 9)237 . Fig. 9. Il passaggio del mar Rosso, basilica di Santa Maria Maggiore, Roma, 432-440. In entrambi i casi è stato usato un formato in cui la narrazione non può svolgersi linearmente. Tsuji, ripresa anche da Jeremias, spiega questa anomalia comparandola 236 Per i vari sarcofagi cfr. Tsuji, “‘Le passage de la mer Rouge’”, pp. 57-60 e Rizzardi, I sarcofagi paleocristiani. Per l’ipogeo di Via Dino Compagni cfr. la sintesi di Mazzei, “Storie veterotestamentarie nel cubicolo C”, pp. 149-153. Per gli affreschi della sinanoga di Dura cfr. i classici studi di Weitzmann – Kessler, The Frescoes of the Dura Synagogue. 237 Menna, “I mosaici di Santa Maria Maggiore”, pp. 320-325. 78 con il passaggio tra rotolo e codice238 . In entrambi i casi, un’attenzione particolare è accordata alla figura del faraone agonizzante che si trova al centro della composizione. Sono inoltre paragonabili anche le strategie figurative, come per esempio la rappresentazione della folla in un radicale scorcio prospettico. Malgrado il formato simile, però, l’iconografia nei due pannelli è diversa. Il pannello di Santa Maria Maggiore resta ancorato alla tradizione mantenendo le tre tappe narrative, a Santa Sabina, invece, i momenti descritti sono soltanto due: l’esercito egizio annegato e il popolo d’Israele salvo. Tsuji e Von Stritzky, le due studiose che si sono occupate in dettaglio del pannello di Santa Sabina, sono giunte alla stessa interpretazione: la scena ha un significato battesimale. Entrambe hanno insistito sul fatto che questa percezione fosse largamente diffusa tra i Padri della Chiesa e ancorata nell’esegesi di Paolo (I Cor. 10, 1-2)239 . La tesi è plausibile e particolarmente pertinente a Roma dove il significato battesimale dell’episodio era attestato anche dalle scomparse decorazioni della navata di San Pietro in Vaticano: il passaggio dal mar Rosso vi concludeva il ciclo dell’Antico Testamento. La sua collocazione presso l’entrata della basilica, come pure l’iscrizione che l’accompagnava, non lasciavano dubbi riguardo all’interpretazione battesimale e iniziatica della scena, potenziata dalla sua posizione proprio di fronte all’immagine del battesimo del Cristo240 . Aperta resta la questione della data delle prima stesura di questo ciclo: Manuela Viscontini pensa agli anni di Leone Magno (440-461)241 , mentre Herbert Kessler e, con qualche dubbio, Jean-Michel Spieser hanno proposto una datazione alla seconda metà del IV secolo242 . Questa ipotesi, per 238 Tsuji, “‘Le passage de la mer rouge’”, p. 65; Jeremias, Die Holztür, pp. 28-32. Per questo meccanismo cfr. il classico Kessler, “Narrative Representations”, pp. 449-456 e il recente Grafton, “From roll to codex”, pp. 15-20. 239 Tsuji, “‘Le passage de la mer rouge’…”; Von Stritzky, “Bemerkungen zur Darstellung…”. 240 Kessler, “La decorazione della basilica”, pp. 263-277; Id., Old Saint Peter’s. 241 Viscontini, “I cicli vetero e neo testamentari”, pp. 411-415. 242 Kessler, “Passovers in St. Peters”, pp. 168-178; Spieser, “Le décor figuré des édifices ecclésiaux”, pp. 95-108., in part. p. 102. 79 altro convincente, crea un precedente significativo alle decorazioni delle porte di Santa Sabina. Considerata infine la posizione del battistero della basilica vaticana, adiacente all’atrio, la prossimità degli episodi all’entrata e la loro tematica battesimale dovevano corrispondere, credo, a un preciso dialogo tra decorazioni e liturgia battesimale. Se tale interpretazione generale si inserisce bene nel dibattito critico corrente, alcuni dettagli essenziali sono sfuggiti all’attenzione degli storici per quanto riguarda la composizione del pannello di Santa Sabina243 . Non è sufficientemente spiegata l’assenza della prima fase del racconto e viene letteralmente ignorata l’insolita posizione della folla degli israeliti che sono raffigurati di spalle. Un elemento assente in tutti gli altri monumenti in cui è raffigurato il passaggio del mar Rosso. Se la presenza personaggi rivolti di spalle è relativamente comune nell’arte romana, l’immagine di un’intera folla in questa posizione è veramente eccezionale. Infine, è stata prestata soltanto pochissima attenzione alla presenza in contemporanea della scena del miracolo dei bastoni e di quella del passaggio del mar Rosso. Queste tre anomalie sono, invece, a mio parere, come spesso accade, la chiave di lettura per una più completa interpretazione del pannello. La scelta di uscire dalla tradizione, aggiornata efficacemente a Santa Maria Maggiore, non può infatti essere frutto del caso. L’ipotesi che vorrei qui indagare è quella di vedere nella scena qualcosa di più di un generico rinvio al battesimo: essa fu concepita per interpretate il battesimo da un punto di vista molto preciso. Lo spettatore presente nell’atrio, davanti alle porte chiuse, aveva di fronte agli occhi il miracolo dei serpenti, il mare e, dietro di esso, il popolo che lo ha attraversato mentre prosegue il cammino. L’impressione era dunque quella di essere sullo stesso lato del miracolo dei serpenti ma soprattutto di non appartenere al gruppo che ha attraversato l’acqua. L’esegesi 243 Si sono occupati di questa notissima relazione anche Wessel, “Durchzug durch das Rote Meer”, col 370-359 ; Dölger, “Der Durchzug durch das rote Meer”, pp. 63-69 ; Daniélou, “Traversée de la Mer Rouge et baptême”, pp. 402-430; Lundberg, La typologie baptismale; Sanmorì, “Passaggio del Mar Rosso”, pp. 245-247. 80 patristica ha insistito sul significato diabolico della figura del faraone che, come il demonio, è sconfitto dal battesimo244 . Nelle catechesi prebattesimali, addirittura, Cirillo e Giovanni di Gerusalemme confrontano la rinuncia al demonio nel momento immediatamente precedente al battesimo e la sconfitta del faraone, inghiottito dal mar Rosso245 . Allo stesso modo i serpenti dei maghi del faraone divorati dal serpente di Mosè sono considerati una metafora del peccato246 . Per lo spettatore queste due immagini devono fungere da memento: è solo attraversando miracolosamente le acque, unendosi a quel popolo in marcia, che si è certi di sfuggire alla presa del Maligno ed essere liberati dal peccato. La consuetudine iconografica è quindi qui rotta per una ragione ben specifica: l’immagine è destinata a uno spettatore che non ha ancora attraversato il mare del battesimo, che non appartiene a quel popolo – per riprendere le parole di Paolo – “rinato” e che deve pertanto ancora temere le insidie del nemico, ossia il catecumeno. L’insistenza sulla figura del faraone-demonio assume, poi, un’importanza centrale se pensiamo ai tre esorcismi che il catecumeno doveva subire nel corso della sua preparazione247 . Non a caso il battesimo aveva come compito esplicito quello di proteggere dalle forze del male oltre, ovviamente, a garantire il perdono dei peccati. Il faraone annegato ma anche i serpenti – come vedremo qui sotto – ricordavano al neofita la minaccia che ancora incombeva su di lui. Affinché il pannello potesse essere visto, le porte dovevano essere chiuse. Rispetto al significato “protettivo” dell’immagine vengono quindi a incrociarsi due livelli: oltre a quello appena menzionato vi è quello, ricordato nel primo capitolo, di porta come difesa contro le forze del male. In questo senso non è soltanto il battesimo che, dal 244 Tsuji, “‘Le passage de la mer rouge’”, p. 71 ricorda Giovanni Crisostomo, PG, 51, 248. Nel suo ampio studio sulla tipologia battesimale Per Lundberg, La typologie baptismale dans l’ancienne église, p. 116-135, cita in questo senso i testi di Cipriano e di Agostino. 245 Cirillo e Giovanni di Gerusalemme, “Catechesi mistagogiche”, I, 2; pp. 582-583. 246 Von Stritzky, “Bemerkungen zur Darstellung”, p. 176. 247 Saxer, Les rites d’initiation, pp. 377; 574; 591-592; Pasquato, “catecumenato/discepolato”, coll. 945-955. 81 profilo spirituale, protegge il cristiano dalle insidie del male, ma è anche la porta che, a un livello più apotropaico, protegge chi entra nella chiesa, figurazione del paradiso 248 . In entrambi i casi, però, la chiave d’accesso è rappresentata dall’iniziazione. Fig. 10. Il miracolo del serpenti, porta lignea, basilica di Santa Sabina, Roma, 421-431. A completare questo panorama vi è la scena del miracolo dei serpenti di fronte al faraone (fig. 10), un episodio chiaramente distinto nella narrazione biblica (! 16). Paradossalmente, se si considera il modo in cui quest’immagine interagisce a livello compositivo con quella del passaggio del mar Rosso, si nota che la cesura tra i due episodi, a differenza del resto dei pannelli, non è marcata in modo netto. Non vi è traccia di una linea di separazione e anzi le teste dei due personaggi del registro inferiore sfiorano le onde del mare nel quale sta annegando il faraone. Si ha l’impressione che chi ha allestito questo rilievo volesse sottolineare la continuità tra i 248 Per la funzione di protezione apotropaica delle porte di chiese cfr. Spieser, “Portes, limites et organisation”, pp. 433-434. 82 due episodi. Quest’insolita soluzione potrebbe trovare una spiegazione nei testi dei Padri: alcuni fanno del miracolo dei serpenti dei magi del faraone sconfitti da quelli di Mosè una prefigurazione della sconfitta del demonio e del peccato249 . Dall’altra vi è poi l’esegesi di Ambrogio che interpreta il miracolo stesso – un bastone che diventa serpente e torna bastone – come una delle più efficaci immagini del cambiamento di natura attraverso la Grazia divina. Secondo il vescovo milanese si tratta di uno degli esempi più chiari per mostrare quanto avviene al neofita con il battesimo: grazie alla parola divina, la sua natura è trasformata ed egli diventa un uomo nuovo250 . L’abbinamento con questo episodio avrebbe quindi potuto consolidare la valenza iniziatica e battesimale della scena del passaggio del mar Rosso. Siamo così di fronte a un rilievo leggibile, allo stesso tempo, come rappresentazione della vittoria del Cristo sul male, ma anche come prefigurazione del battesimo. Fig. 11. I miracoli del Cristo, porta lignea, basilica di Santa Sabina, Roma, 421-431. 249 Irenée, Contre les hérésies, III, 21, 8; pp. 366-367. 250 Ambrogio, I misteri, 51-52; pp. 162-165. 83 La terza immagine significativa in cui è raffigurata – anche se invisibile – l’acqua è l’episodio inferiore del pannello che rappresenta i miracoli del Cristo (fig. 11), quello cioè delle nozze di Cana (! 5a). Rispetto agli altri casi presi in considerazione l’iconografia di questo episodio non ha nulla d’eccezionale: il Cristo è rappresentato in questa scena giovane e glabro, nella mano destra tiene la sua bacchetta magica, mentre si volge a sinistra dove si trovano le sette giare che contengono l’acqua che sta per essere trasformata in vino. Tradizionalmente questa scena è stata interpretata, basandosi su Cipriano 251 , come un miracolo che allude all’eucaristia e, più precisamente, all’idea della transustanziazione252 . Di recente, Jean-Michel Spieser ha però relativizzato tale spiegazione: secondo la sua analisi l’interpretazione di Cipriano è minoritaria almeno per tutto il IV secolo e torna in auge nei primi decenni del V secolo, tra Torino e Ravenna253 . Nel contesto del nartece di Santa Sabina deve, secondo me, essere preso in considerazione il secondo significato attribuito dalla letteratura tardoantica a questo episodio. Dagli scritti di Ireneo, passando per le Costituzioni Apostoliche e fino a Girolamo il miracolo dell’acqua trasformata in vino è interpretato come un’anticipazione del battesimo254 . È inoltre importante ricordare un trattato di Gaudenzio da Brescia, uno dei vescovi consacrati da Ambrogio e molto 251 Cipriano, Lettere, 63, 12, 1-2; pp. 152-153. “Quanto è invece contraddittorio e assurdo che, mentre il Signore durante le nozze trasformò l’acqua in vino, noi trasformiamo il vino in acqua (…) Cristo invece (…) trasformò l’acqua in vino, e questo significa le nozze di Cristo con la Chiesa (…). Capiamo che questo significato è contenuto anche nel simbolo del calice”. 252 Cfr. La sintesi di Anna Maria Giuntella, “Nozze di Cana”, in Nuovo dizionario patristico di antichità cristiane, diretto da Angelo di Bernardino, Genova – Milano 2006, II, col. 3563-3564. 253 Spieser, “Des images eucharistiques dans l’art paléochrétien ?”, pp. 649-670. 254 Tertulliano, “Il Battesimo”, IX, 4; pp. 174-177; Jérôme, “Lettre à Océanus”, 69, 6; p. 201; più velato è il concetto nelle Costituzioni Apostoliche dove le nozze di Cana sono uno delle garanzie della risurrezione promessa dal Cristo. Nel contesto di tutta l’opera, però, la relazione tra i due concetti – risurrezione e battesimo – è molto stretta cfr. Les constitutions apostoliques, V, 7, 28; v. II, pp. 236-237. 84 vicino a lui255 : Gaudenzio non solo fa delle nozze di Cana una prefigurazione del battesimo, ma promuove addirittura i servi, chiamati per portare l’acqua, a prefigurazione dei vescovi delle singole chiese256 . Fig. 12. Le nozze di Cana, battistero di San Giovanni alle fonti, Napoli, fine del IV secolo. Una forma mentis simile traspare anche nei mosaici del battistero di Napoli (fig. 12): nella parte orientale della cupola, sulla larghezza su circa un sedicesimo dell’insieme 255 Banterle, “Introduzione”, pp. 13-18. 256 Gaudenzio di Brescia, Trattati, IX, 32; pp. 342-343. 85 musivo, è raffigurato il gesto dei servi mentre versano l’acqua nelle grandi giare257 . In un movimento spettacolare l’acqua trabocca dai recipienti e continua – apparentemente senza essere stata trasformata – a scorrere verso il basso. L’illusione prodotta è quella di un flusso che dall’alto prosegue in direzione della piscina dove si svolge il battesimo reale dei catecumeni. Anche senza l’esegesi patristica il significato di quest’immagine teatrale sembra non lasciare dubbi: l’acqua del miracolo delle nozze di Cana è la stessa che fa “rinascere” il neofita durante la liturgia battesimale la notte di Pasqua258 . Questo significato metaforico acquista ancora maggiore forza se prendiamo in considerazione alcuni dati propri della liturgia prebattesimale. Si tratta, prima di tutto, del fatto che nella liturgia milanese e in quella gallicana la preghiera di benedizione delle acque del battesimo è accompagnata proprio dalla lettura del miracolo di Cana259 . Soprattutto, però, il miracolo dell’acqua trasformata in vino è citato nella prefazione alla benedizione delle acque battesimali nel già menzionato Sacramentario gelasiano, nel manoscritto del Vaticanus Reginensis 316260 . Nel contesto liturgico romano, il miracolo delle nozze di Cana è perciò semplicemente parte integrante della liturgia battesimale. 257 Cfr. qui sopra n. 7. 258 Cfr. Gandolfi, “Les mosaïques du baptistère de Naples”, pp. 25-26. 259 “Manuale ambrosianum”, pp. 134-135; per la liturgia gallicana cfr. The Bobbio Missal. Liturgy and Religious Culture in Merovengian Gaul, Yitzhak Hen, Rob Meens eds., Cambridge 2004, p. 73. 260 Textes liturgiques de l’église de Rome, XLIV, 445; pp. 114-115. 86 Fig. 13. Il miracolo di Mara (?), porta lignea, basilica di Santa Sabina, Roma, 421-431. Resta aperta la questione di un episodio, ritenuto in passato il miracolo delle acque amare di Mosè (! 6d)261 . Da ultimo Spieser ha confutato questa lettura basandosi su un’idea di ordine narrativo-storico, ma anche sulla composizione del rilievo dove non vi è traccia di acque (fig. 13)262 . La composizione della scena nonché la costruzione di tutto il pannello sembrano contraddire questa opinione: la posizione di Mosè è infatti identica a quella del pannello con l’acqua scaturita dalla roccia, molto simile è anche il gesto della mano divina che esce dalle nuvole alla sinistra del profeta. Sembra pertanto legittimo dedurre che anche in questo caso siamo in presenza di un episodio sovrannaturale, che necessita un diretto intervento di Dio tramite il suo profeta. I miracoli più noti compiuti da Mosè nel deserto – se si esclude la battaglia con gli amaleciti, in questo caso improponibile vista l’assenza di altri personaggi – sono quattro come gli episodi raffigurati sul pannello dei miracoli di Mosè. Essendo identificati il miracolo della fonte, quello della manna e quello delle quaglie (! 6), l’episodio mancante deve con ogni probabilità essere quello delle acque amare. Inoltre, anche nelle altre scene del pannello, lo scultore dà prova di grande libertà rispetto alle fonti testuali. E in questo senso si spiegherebbe la volontà 261 Jeremias, Die Holztür, pp. 33-34. 262 Spieser, “Le programme iconographique”, p. 61. 87 di raffigurare l’episodio delle acque amare in modo diverso dal solo altro caso noto, quello di Santa Maria Maggiore, che è al contrario molto aderente al testo. Spieser ha ragione quando mette in dubbio l’eccessivamente sofisticata spiegazione della scena come miracolo di Mara avanzata dalla Jeremias basandosi sul fatto che in ebraico una sola parola abbia il significato di albero e legno263 . D’altro canto, però, con una semplice figura di stile un albero può essere facilmente considerato una sineddoche del legno. Credo quindi che, malgrado l’episodio sia raffigurato in maniera estremamente allusiva, si tratti del quarto miracolo di Mosè nel deserto e che quest’interpretazione diventi ancora più plausibile inserendola nell’ipotesi generale qui formulata dell’insieme della porta carico di significato battesimale. Il significato che attribuiscono i Padri della Chiesa a questo racconto va infatti chiaramente in questa direzione: la lettura di Gregorio da Nissa è metaforica, ma riguardo all’interpretazione che il vescovo dà all’episodio non vi sono dubbi: siamo in presenza di una prefigurazione battesimale264 . La stessa esegesi è proposta anche da Tertulliano e265 , in maniera molto esplicita, anche dallo stesso Ambrogio: “Ecco un altro prodigio (…) quando Mosè venne nel deserto e il popolo assettato, giunto alla fonte di Merra, volle bere, allora Mosè gettò un legno nella fonte, e l’acqua, che prima era amara, cominciò ad addolcirsi. Che cosa significa questo prodigio se non che ogni creatura soggetta a corruzione è un’acqua amara per tutti? (…) L’acqua è dunque amara; ma quando riceve la croce di Cristo, quando riceve il sacramento celeste, comincia ad essere dolce e gradevole. E a buon diritto è dolce l’acqua nella quale viene eliminata la colpa”266 . 263 Jeremias, Die Holztür, pp. 33-34. 264 Gregorio di Nissa, La vita di Mosè, II, 133-135; pp. 134-135. 265 Tertulliano, “Il Battesimo”, IX, 2; pp. 174-175 266 “Moyses cum venisset in desertum, et sitisset populus, et venisset ad Merrha fontem, et bibere vellet aquam: quia ubi primum hausit, amaritudinem sensit, et coepit bibere non posse; ideo Moyses misit lignum in fontem, et coepit aqua quae 88 Fig. 14. Pilato, porta lignea, basilica di Santa Sabina, Roma, 421-431. L’acqua è, però, presente anche in un ulteriore episodio. Si tratta della scena in cui Pilato si lava le mani dopo aver condannato il Cristo (fig. 14). In maniera inattesa questo episodio non è costruito attorno alla figura del Cristo, e neppure si concentra sul processo. Il Cristo legato sta uscendo dalla scena, mentre lo sguardo dello spettatore è attratto da Simone di Cirene, al centro, e da Pilato che compie l’abluzione con grande teatralità. Pur essendo situato all’estrema sinistra del rilievo, la sua gestualità ne fa il protagonista della narrazione. Ancora una volta, il gesto di Pilato è interpretato da Tertulliano in chiave battesimale: “[Il Cristo] porta la sua testimonianza in favore del battesimo fino alla passione: quando viene condannato alla croce, l’acqua interviene ancora: lo sanno bene le mani di Pilato!”267 . antea erat amara, dulcescere. Quid significat, nisi quia omnis creatura corruptelae obnoxia, aqua amara est omnibus. Etsi ad tempus suavis est, etsi ad tempus iucunda; amara tamen est, quae non potest auferre peccatum. Ubi biberis, sities: ubi potus coeperis suavitatem, iterum amaritudinem senties. Amara ergo aqua: sed ubi crucem Christi, ubi acceperis coeleste sacramentum, incipit esse dulcis et suavis: et merito dulcis, in qua culpa revocatur. Ergo si in figura tantum valuerunt baptismata, quanto amplius valet baptisma in veritate?” Ambrogio, Dei sacramenti, II, 12-13; pp. 64-65. 267 “[Christus] perseverat testimonium baptismi usque ad passionem: cum deditur in crucem aqua intervenit – sciunt Pilati manus.”. Tertulliano, “Il Battesimo”, IX, 4; pp. 176-177 89 L’interpretazione formulata dall’apologeta di Cartagine non è del tutto esplicita: l’interazione tra il battesimo e le mani lavate da Pilato è di difficile comprensione. L’idea di Tertulliano può però essere forse compresa se si prendono in considerazione anche le esegesi posteriori nonché i rilievi romani dell’inizio del V secolo. Ambrogio interpreta infatti l’episodio come una purificazione mancata, visto che non redime le colpe di Pilato268 . Nella stessa direzione, ma con maggiori dettagli, si spinge qualche anno dopo Leone Magno: “Le mani lavate, non rendono puro l’animo contaminato, né aspergendo le dita di acqua può essere espiato quanto si commette con un’empia mente asservita”269 . Nella scena raffigurata sulla porta il gesto di Pilato è in primissimo piano, ostentato allo spettatore. Se la scena va compresa come lasciano intuire i testi, cioè in ambito battesimale ma come purificazione mancata o travisata, Pilato può rappresentare colui che si accosta ai sacramenti senza esserne degno, perché non realmente pentito. 268 Ambrogio, Esposizione del vangelo secondo Luca, X, 100, pp. 464-465. 269 Leone Magno, Sermoni sul mistero pasquale, 46, 2, 5; p. 203. 90 Fig. 15. Rinnegamento di Pietro, porta lignea, basilica di Santa Sabina, Roma, 421-431. Tale lettura acquista un valore ancora più profondo se il rilievo viene associato al pannello del rinnegamento di Pietro, che lo precede a livello cronologico (fig. 15). Si tratta di una scena caratteristica per i monumenti tardoantichi che, però, a riprova della libertà inventiva degli artisti coevi, non trova un appiglio testuale preciso: i tre personaggi raffigurati – il Cristo, Pietro e il gallo – non appaiono mai in questa maniera nel racconto biblico270 . È perciò difficile stabilire se si tratti di uno strumento metaforico per annunciare il tradimento di Pietro – con il gallo visualizzato per rendere la scena comprensibile –, oppure un modo per sottolineare il rinnegamento già avvenuto. L’enfasi posta dagli autori cristiani su sul tradimento dell’apostolo fa 270 Stuhlfauth, Die apokryphen Petrusgeschichten, pp. 18-20; Callisen Sterling A., “The Iconography of the Cock on the Column”; Ramieri, “Negazione di Pietro”; DreskenWeiland, Bild, Grab und Wort, pp. 146-161. 91 propendere per questa seconda soluzione (! 11). In questo senso è emblematica l’esegesi che propone dell’episodio Leone Magno, condivisa anche da Ambrogio271 : “[Con uno sguardo] ne fece riprendere l’animo tremante e lo stimolò al pianto del pentimento. Felici le tue lacrime (…) che, per sciogliere la colpa del rinnegamento, ebbero la potenza del sacro battesimo. Mentre stavi scivolando, fu la destra del Signore Gesù Cristo ad afferrarti (…) abbondò il pianto (…) e la fonte di carità lavò le parole dettate dalla paura”272 . Pietro è presentato nel testo come l’esempio del buon pentito, colui le cui colpe sono lavate dalle lacrime del peccato riconosciuto. In questo senso l’opposizione tra Pietro e Pilato, entrambi peccatori ed entrambi aspersi dall’acqua, potrebbe avere una spiegazione appunto in chiave catecumenale e soprattutto penitenziale. Il primo rappresenterebbe la salvezza alla quale giunge il peccatore se sinceramente pentito, il secondo colui che si illude, senza successo, di ottenere il perdono con semplice abluzione ma senza il pentimento autentico. Quanto è a mio parere importante sottolineare è che è legittimo associare questi due episodi in ambito romano perché si ritrovano, unitamente alla via crucis presente ugualmente sul rilievo delle porte, in un’unica tavoletta eburnea, su uno dei lati del cosiddetto “cofanetto della passione” del British Museum, datato alla prima metà del V secolo e prodotto con ogni probabilità proprio a Roma (fig. 16)273 . 271 Ambrogio, Esposizione del vangelo secondo Luca, 100; pp. 464-465 272 Leone Magno, Sermoni sul mistero pasquale, 47, 4, 4-7; pp. 230-31. 273 Cfr. soprattutto Volbach, Elfenbeinarbeiten der Spätantike, Nr. 116; Kötzsche, “Four plaques with Passion scenes”, pp. 502-504; Id., “Die trauernden Frauen: zum Londoner Passionskästchen”, pp. 80-90; Harley, “Ivory Plaques with Passion and Ressurection of Christ”, pp. 229-232. 92 Fig. 16. Pilato e il rinnegamento di Pietro, cofanetto della passione, British Museum, Londra, 440-450 circa. In un recente saggio ho proposto di leggere quest’accostamento in rapporto a una delle cerimonie più importanti della liturgia quaresimale romana, quella del rito penitenziale del giovedì santo274 . Noto dalla celebre lettera di Innocenzo I a Decenzio da Gubbio esso avveniva, almeno fin dall’inizio del V secolo, nel battistero del Laterano275 . Nella cerimonia del giovedì santo venivano rimessi i peccati ai peccatori gravi che, dopo aver digiunato assieme ai catecumeni fin dall’Initium jejunii, vivevano una sorta di secondo battesimo. In quell’occasione il pontefice ricordava la figura di Pietro, il buon penitente, rinato dalle sue lacrime come nel battesimo, ma anche l’errore di Pilato, che aveva creduto potersi purificare con la sola acqua, ma 274 Foletti, “Il cofanetto con scene della Passione”, (in corso di pubblicazione). 275 La lettre du pape Innocent Ier , p. 49. 93 senza l’autentica fede. Nel principale battistero romano, in una delle più importanti tappe della liturgia stazionaria, il perdono dei peccati, la penitenza e il battesimo venivano così a sovrapporsi276 . Questa tradizione liturgica, come pure il cofanetto del British Museum, sono indizi importanti per comprendere questi due episodi come immagini liminari tra penitenza e battesimo, ma comunque solidamente ancorati nella funzione catecumenale e penitente dell’atrio e inoltre associati alla liturgia stazionaria di Roma. Considerato l’ampio spazio dato sulle porte all’elemento acqueo, ma anche la dimensione battesimale di questi pannelli, è certamente sorprendente che non vi sia un pannello che descriva il battesimo del Cristo. Considerando, però, che almeno una parte di tre grandi pannelli conservati tematizza (! 5a; 6a; 6d; 16) la relazione tra acqua, battesimo e salvezza, è plausibile proporre che uno dei grandi pannelli mancanti sia proprio quello del battesimo del Cristo. Tornerò ancora sulla questione dell’ordine di pannelli, ma gli indizi fin qui raccolti sembrano indicare questa direzione. b) una vocazione salvifica Il secondo aspetto presente sulle porte di Santa Sabina, al cuore del mistero battesimale e centrale anche nei dibattiti teologici dell’inizio del V secolo, è certamente quello della vocazione, della chiamata, come risultato della Grazia divina277 . Due pannelli sembrano toccare la questione: il pannello con le scene di Mosè che incontra Dio e riceve le tavole del Decalogo (fig. 17-18) e quello del ratto di Abacuc (! 13c; 12). In entrambi i casi il profeta è chiamato dal Signore per compiere 276 De Blaauw, Cultus et Decor, p. 148. 277 Circa il concetto della Grazia divina nella patristica cfr. Studer, “Grazia”, col. 2420- 2431. 94 una missione essenziale per la storia della salvezza, in entrambi i casi l’intervento divino è diretto e inequivocabile. Fig. 17. Il ratto di Abacuc, porta lignea, basilica di Santa Sabina, Roma, 421-431. 95 Fig. 18. Mosè riceve il decalogo, porta lignea, basilica di Santa Sabina, Roma, 421-431. L’episodio della vocazione di Mosè – secondo Michel Sauvage la sola vera “chiamata” dell’Antico Testamento278 – interessa ai Padri della Chiesa per diverse ragioni: il roveto ardente è interpretato come l’immagine della Vergine, ma anche come la luce divina che trasfigura il mondo 279 . Inquadrate nel significato catecumenale e penitenziale postulato per le porte, sono però particolarmente interessanti le osservazioni fatte da Ambrogio da Milano. Per quest’ultimo il gesto di Mosè, che si toglie i calzari di fronte al roveto ardente, è l’immagine della liberazione dell’anima dal corpo peccatore280 . Riflettendo sulla frase del Battista che, poco prima del battesimo di Cristo, si dichiarava indegno di sciogliergli i sandali, Ambrogio descrive il diverso stato tra i cristiani e gli ebrei. I primi possono portare la “calzatura nuziale”, mentre i secondi, a immagine di Mosè devono sciogliersi i calzari “affinché i passi dell’anima e della mente, liberi da impedimenti corporei, muovano spediti per 278 Sauvage, “Vocation”, col. 1086. 279 Cfr. Gregorio di Nissa, La vita di Mosè, I, 20-21; II, 19-21, pp. 20-23; 72-73 280 Ambrogio, Esposizione del vangelo secondo Luca, IX, 31, pp. 386-387. 96 il cammino spirituale”281 . Quest’idea trova quindi un significativo compimento nelle ultime righe del suo volume dedicato alla penitenza: “Abbiamo dunque imparato che bisogna fare penitenza, che deve essere fatta finché sbollisca l’ardore della colpa e che, mentre siamo schiavi del peccato, dobbiamo essere più sottomessi, non pretendere di più. Infatti, se a Mosè, che era impaziente di avvicinarsi per prendere conoscenza del mistero celeste, si dice: Sciogli i sandali dai piedi, quanto più noi dobbiamo liberare i piedi della nostra anima dai lacci corporali e sciogliere tutti i nostri passi dai legami di questo mondo”282 . Quindi il momento della vocazione di Mosè è interpretato come immagine della penitenza, liberazione dal corpo peccatore, che ne garantisce una rinascita. Visto anche il contesto in cui Ambrogio affronta questo tema, l’esegesi del vangelo secondo Luca a proposito del battesimo del Signore e del ruolo del Battista, l’attualità battesimale appare di per sé evidente. Il fatto che un’esegesi di questo tipo fosse diffusa tra gli autori cristiani è confermato dalle parole di Epifanio che considera il gesto di Mosè, essersi tolto i calzari, come l’inizio di quella spoliazione-purificazione che sarebbe diventata totale per ogni cristiano con il battesimo283 . A questa interpretatazione spirituale deve essere aggiunto un elemento molto più pratico: come attestato a Roma dalla lettera del diacono Giovanni – probabilmente il futuro Giovanni I (?-526) – a Senario di Ravenna, durante momenti precedenti al sacramento del battesimo, i catecumeni 281 Ambrogio, Esposizione del vangelo secondo Luca, II, 81, v. 1, pp. 218-219. 282 “Didicimus ergo et agendam poenitentiam, et eo agendam tempore quo culpae defervescat luxuria: et in captivitate peccati positos, reverentiores nos, non usurpatores esse debere. Nam si Moysi propius accedere gestienti, ut cognitionem mysterii coelestis hauriret, dicitur: Solve calceamentum pedum tuorum; quanto magis nos animae nostrae pedes exuere vinculis corporalibus, et gressus omnes mundi istius nexu debemus absolvere?” Ambrogio, La penitenza, II, 107, pp. 282-283. 283 Epiphanius, Ancoratus, 115; pp. 142-143. 97 dovevano togliersi i calzari e spogliarsi per entrare nella piscina284 . Il diacono insiste sulla somiglianza tra quanto vivrà il catecumeno al momento del battesimo e il gesto compiuto da Mosè prima di incontrare Dio per essere iniziato alla sua nuova vita. Questo ci lascia intuire che il paragone era formulato esplicitamente durante quei rituali prebattesimali che dovevano svolgersi proprio nell’atrio di Santa Sabina. Più complessa è la situazione del pannello di Abacuc, un unicum nell’iconografia cristiana, in cui non conosciamo una scena isolata con il suo ratto da parte dell’angelo (! 12)285 . Le esegesi patristiche sono molto ridotte anche in virtù del fatto che lo stesso Girolamo, commentando la sua traduzione, metteva a giusto titolo in dubbio l’autenticità del testo rispetto all’originale ebraico286 . Per Girolamo è però proprio la presenza di Daniele, in questo racconto, a dimostrare la verità storica dell’episodio, che diventa così l’immagine del profeta che accetta il volere di Dio. In altri termini l’esempio di una vocazione accettata. L’elemento che accomuna questi due pannelli è, però, come detto, proprio la loro dimensione vocazionale. La questione del battesimo inteso come chiamata a una vita più spirituale è ovviamente uno dei temi forti dell’omiletica battesimale287 . In questo senso la presenza di Dio che, attraverso i suoi angeli, ma anche con la sua mano o il roveto ardente manifesta la sua presenza come autore attivo della conversione è logica. Il dato interessante è che, rispetto alla tradizione del IV e V secolo, la presenza del Padre è nel caso delle porte di Santa Sabina eccezionalmente importante e 284 La lettera del Diacono Giovanni è stata pubblicata da André Wilmart, cfr. Wilmart Un florilège carolingien pp. 170-179. Per la discussione di questo testo cfr. Saxer, Les rites d’initiation, pp. 589-595. 285 Walker, “The iconography of the prophet Habakkuk”, pp. 252-253; Calcagnini, “Abacuc”, col. 3-4. 286 Cfr. Girolamo, “Commentario al profeta Abacuc”, pp. 246-247. La critica moderna ha riconosciuto che il testo sospettato da Girolamo fosse effettivamente un apocrifo al proposito cfr. Himbaza, “Daniel grec”, p. 738. 287 Cfr. Ambrogio, Dei Sacramenti, I, 1; pp. 42-43. 98 operosa288 . Questa dinamica può essere giustificata dal contesto iniziatico che stiamo tratteggiando. È perlomeno sorprendente che la mano divina, la colonna di fuoco, oppure gli angeli – con un esplicito significato di personificare il Padre – sono presenti in tutti i cinque pannelli dove è assente la figura del Cristo. È certo complesso trovare una risposta univoca a questo fenomeno. Se si considera però la politica ecclesiastica romana degli anni di Celestino, accusato d’esser stato partigiano di Pelagio, mi chiedo se una tale messa in scena dell’attività di Dio in Terra non sia anche da mettere in relazione proprio con la disputa circa il ruolo della Grazia nell’economia della salvezza289 . Un Dio tanto presente nel mondo sembra infatti corrispondere alla visione agostiniana in cui è la sola gratia a giocare il ruolo chiave nella salvezza del mondo290 . Dal punto di vista del neofita la vocazione va quindi letta come opera miracolosa ed esplicita di Dio, alla quale non ci si può sottrarre (è il caso di Abacuc): è proprio la Grazia il motore che ha portato i neofiti nell’atrio di Santa Sabina, come attesta anche Ambrogio nell’introduzione al De Sacramentis291 . Questa idea sembra confermata dall’interpretazione che danno della liturgia battesimale i partigiani “dell’intervenzionismo divino”. Si tratta, prima di tutto, di un fondamentale passaggio di Ambrogio: “Ascolta dunque come la parola di Cristo solitamente trasformi ogni creatura e trasformi, quando vuole, le leggi di natura (…). Di solito un uomo non è generato se non da un uomo e una donna e in seguito a un rapporto coniugale. Ma poiché il Signore ha voluto così, poiché ha scelto questo mistero, Cristo è nato dallo spirito Santo e dalla Vergine (…). Ascolta un altro esempio. Il popolo dei Giudei era incalzato dagli Egiziani, era bloccato in mare. Per ordine divino Mosè gettò un legno nella fontana, e la fontana che prima era amara, divenne 288 Utro, Mano Divina. 289 Per le posizioni del papa cfr. Gori, “Celestino I, santo”. 290 Riguardo la questione dell’impatto della questione pelagiana sulla teologia contemporanea cfr. Vopřada, “La morte del vescovo tra IV e V secolo”, pp. 333-345. 291 Ambrogio, Dei Sacramenti, I, 1; pp. 42-43. 99 dolce, cioè mutò la disposizione consueta della sua natura e accolse la dolcezza della grazia”292 . Il dato importante – oltre alla tesi centrale della superiorità della Grazia divina su ogni cosa – è che gli esempi dell’azione della Grazia sulla Terra, il parto, il passaggio del mar Rosso e il miracolo delle acque amare, sono altrettante prefigurazioni del battesimo. In altre parole il battesimo e le sue prefigurazioni diventano, così, immagini del trionfo della Grazia. “Anche tu, quando vieni al battesimo, sei invitato ad alzare le mani, ad avere un passo più rapido, per salire ai beni eterni. Questa è la danza alleata della fede, compagna della grazia”293 . Secondo Kannengiesser, infine, la crisi pelagiana aveva sottolineato la “necessità” della Grazia come nel caso di Elia, che per sola Grazia fu accolto nei cieli294 . Si tratta di un aspetto ugualmente enfatizzato sulla porta, proprio dall’immagine del ratto del profeta. 292 “Accipe ergo quemadmodum sermo Christi creaturam omnem mutare consueverit, et mutet, cum vult, instituta naturae (…). Consuetudo est ut non generetur homo, nisi ex viro et muliere, et consuetudine coniugali: sed quia voluit Dominus, quia hoc elegit sacramentum, de Spiritu sancto et Virgine natus est Christus, hoc est (…). Accipe aliud. Sitiebat populus, venit ad fontem: amarus erat fons, misit lignum sanctus Moyses in fontem, et factus est dulcis fons, qui amarus erat; hoc est, mutavit consuetudinem naturae suae, accepit dulcedinem gratiae”. Ambrogio, I sacrameti, IV, 17-18, pp. 94-95. 293 “Hoc est ergo mysterium: Cantavimus vobis, novi utique canticum Testamenti: et non saltastis, hoc est, non elevastis animam ad spiritalem gratiam”. Ambrogio, La penitenza, II, 44, pp. 252-255. 294 Kannengiesser, “Elia profeta”, col. 1630. 100 Fig. 19. Il miracolo della manna, porta lignea, basilica di Santa Sabina, Roma, 421-431. Fig. 20. Il miracolo delle quaglie, porta lignea, basilica di Santa Sabina, Roma, 421-431. 101 Fig. 21. Il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, porta lignea, basilica di Santa Sabina, Roma, 421-431. c) L’eucaristia, un mistero promesso Due scene raffigurate sui pannelli, rispettivamente dei miracoli di Cristo e di Mosè, devono essere menzionate in relazione a uno degli aspetti cruciali della preparazione al battesimo (fig. 19-21). Si tratta della maniera in cui i catecumeni sono preparati a uno dei misteri più importanti del cristianesimo: l’eucaristia. Dalle catechesi prebattesimali e mistagogiche si deduce che, durante il catecumenato, i neofiti venivano in parte istruiti sulla questione eucaristica. Questa preparazione avveniva però in maniera allusiva e velata295 . In questo senso meritano d’essere analizzati i 295 È in questo senso emblematica la differenza tra la maniera in cui l’eucaristia è descritta nelle catechesi prebattesimali e nelle catechesi mistagogiche, successive all’iniziazione, da Cirillo e Giovanni di Gerusalemme. Prima del battesimo si tratta di allusioni per lo più molto generiche e vi si annuncia che il mistero sarà spiegato dopo il battesimo, mentre nella settimana successiva al battesimo i diversi elementi 102 pannelli del miracolo della manna e delle quaglie e quello della moltiplicazione dei pani (! 6b; 6c). Per quanto riguarda il primo, la sua lettura come allusione prebattesimale è di matrice paolina ed è perciò ripetuta dalla maggior parte degli autori cristiani da Origene ad Agostino e Ambrogio, categorici nell’associare la manna con l’eucaristia (! 6b) 296 . Non dimentichiamo che, nella tradizione, l’interpretazione della manna come il pane di vita è parte integrante dell’esegesi del battesimo: è il caso, a titolo di esempio, in anni vicini all’edificazione della basilica di Santa Sabina, degli scritti di Rufino di Aquileia (345-411) ma anche, quasi due secoli più tardi, di Isidoro di Siviglia (560-636)297 . Al contrario il miracolo delle quaglie è preso in scarsa considerazione. (! 6c). Nel De Mystesiis, però, Ambrogio ne parla come di una sorta di analogo a quello della manna e interpreta entrambi come una prefigurazione dell’eucaristia298 . Le porte di Santa Sabina possono fungere da ulteriore argomento in questo senso: la composizione dei due miracoli è infatti molto vicina. Il gesto del personaggio centrale, con ogni probabilità Mosè, è identico. Uguale è però soprattutto la composizione ieratica e simmetrica dell’insieme – con Mosè al centro, dietro a un tavolo rotondo, attorniato simmetricamente da altre figure – come pure l’arredo, che fanno pensare a una situazione paraliturgica. Tutti gli indizi formali indicano che i due episodi devono essere compresi come due aspetti della stessa performance. Parimenti Agostino considera la manna e l’altare divino prefigurazioni del pane di vita299 . Altare, manna ed eucaristia entrano quindi, secondo il vescovo d’Ippona, in un unico spazio semantico. Non essendoci dubbi sulla maniera in cui deve essere interpretato il miracolo della manna, chi ha vengono ripresi con una cura molto particolare cfr. in questo senso Cirillo e Giovanni di Gerusalemme, “Procatechesi”, I, 6; XIII, 19; pp. 149; 404-405; Id., “Catechesi mistagogiche”, IV; pp. 603-622. 296 Per la manna cfr. Ambrogio, I misteri, 8, 47-49; Augustin, Homélie sur l’évangile de saint Jean, XVI, 12 ; pp. 512-513. 297 Rufini, “De Luminibus”, 17; p. 130 ; Isidori episcopi Hispalensis, De ecclesiasticis officiis, II, 25 (24), p. 102 298 Ambrogio, I misteri, 8, 44; pp. 158-159. 299 Augustin, Homélie sur l’évangile de saint Jean, XVI, 12 ; pp. 512-513. 103 concepito le porte di Santa Sabina interpretava perciò, al pari di Ambrogio, anche il miracolo delle quaglie come una prefigurazione eucaristica. Anche l’episodio della moltiplicazione dei pani è stato interpretato dalla storiografia come una scena a connotazione eucaristica300 . Tuttavia secondo Spieser, intervenuto a questo proposito nel suo recente articolo301 , questa esegesi, sostenuta da Ambrogio e Origene, non è univoca e la maggioranza dei Padri della Chiesa considera piuttosto l’avvenimento l’espressione del potere magico del Cristo. Leggendo attentamente il testo di Ambrogio, risulta chiaro che l’interpretazione proposta, anche qualora fosse minoritaria, dà all’episodio una dimensione chiaramente misterica. Il vescovo di Milano infatti scrive: “Dappertutto, pertanto, viene rispettato l’ordinato svolgimento del mistero: prima si provvede il rimedio alle ferite mediante la remissione dei peccati, successivamente l’alimento della mensa celeste viene dato in abbondanza, sebbene questa folla non sia ancora saziata da cibi più sostanziosi, né il quei cuori ancor digiuni di una fede più ferma siano nutriti con Corpo e col Sangue di Cristo. Vi ho dato da bere latte, dice, non cibo, perché ancora non ne eravate capaci; e neanche adesso lo siete. I cinque pani corrispondono al latte, il cibo sostanzioso è il corpo di Cristo, la bevanda più forte è il Sangue del Signore. Non cominciamo subito a mangiare ogni cosa né a bere ogni cosa. Bevi prima questo, dice. Vi è dunque qualcosa da bere per primo, e qualcosa in secondo luogo. Vi è 300 Barbara Mazzei, “Moltiplicazione de pani”, in Temi di iconografia paleocristiana, a cura di Fabrizio Bisconti, Città del Vaticano 2000, pp. 220-221. 301 Spieser, “Des images eucharistiques”, pp. 658-661. 104 anche un pasto iniziale, poi un secondo, poi un terzo. La prima volta i pani sono cinque, la seconda sette, alle terza ecco il Corpo stesso di Cristo”302 . Sciogliendo le parole del vescovo di Milano si intuisce che il miracolo è inteso non solo come una delle tappe della preparazione all’eucaristia ma anche come rimedio delle ferite subite a causa del peccato. La presenza di latte e miele, che Ambrogio menziona, è inoltre confermata anche da fonti testuali e liturgiche: in Oriente faceva parte della liturgia battesimale303 . L’esistenza di un rito prebattesimale con la somministrazione dei due elementi è inoltre ricordato dalla Tradizione apostolica304 . L’attribuzione di questo testo all’ambito romano d’inizio III secolo, considerata per anni convincente305 , è stata di recente confutata in particolare dagli studi di Paul F. Brandshaw, Maxwell E. Johnson, Edwards Phillips 306 . Questi ultimi hanno dimostrato che la composizione del manoscritto deve essere stata molto più complessa, certamente costruita attingendo a testi di diverse aree culturali e raccolta con ogni probabilità in diverse tappe redazionali. Per quanto riguarda il rito 302 “Ubique igitur mysterii ordo servatur; ut prius per remissionem peccatorum vulneribus medicina tribuatur, postea alimonia mensae coelestis exuberet: quamquam nondum validioribus haec turba reficiatur alimentis, neque Christi corpore et sanguine ieiuna solidioris fidei corda pascantur. Lacte, inquit, vos potavi, non esca; nondum enim poteratis, sed nec adhuc quidem potestis. In modum lactis quinque sunt panes. Esca autem solidior corpus est Christi, potus vehementior sanguis est Domini. Non statim a primo epulamur omnia, neque potamus omnia. Hoc primum, inquit, bibe. Est ergo primum, est etiam secundum quod bibas. Est et primum quod manduces, est etiam secundum, est tertium. Primum quinque panes sunt, secundum septem, tertium ipsum corpus est Christi”. Ambrogio, Esposizione del vangelo secondo Luca, 2, VI, 71; pp. 60-61. 303 Trois antiques rituels du Baptême, 10, 14; p. 62. 304 Hippolyte, La tradition apostolique, 21; pp. 92-93. 305 Cfr. in particolare le due edizioni del testo da parte di Bernard Botte: Hippolyte de Rome, Tradition apostolique, e Id, Tradition apostolique de Saint Hippolyte. Dello spesso parere sono anche Maldamé, Martimort, “Encore Hippolyte et la ‘tradition apostolique’ (II)”, pp. 275-279. 306 Brandshaw, The Search for the Origins, pp. 80-83 ; Brandshaw, Johnson, Phillips, Apostolic Tradition. 105 battesimale, però, considerando in particolare la presenza della doppia unzione postbattesimale amministrata dal vescovo, il testo sembra rispecchiare la situazione della Roma precostantiniana307 . Se ne può perciò dedurre che la prassi descritta fosse in vigore a Roma per lo meno fino all’inizio del IV secolo. Lo svolgimento sembra essere quello raccontato anche da Ambrogio: il neofita riceveva prima un calice con l’acqua, quindi quello con latte e miele e, infine, il calice con il vino consacrato. Incrociando queste due informazioni – la presenza di questa prassi nella Roma precostantiana e la sua persistenza in area ambrosiana alla fine del IV secolo – è molto probabile che questo rituale continuasse a svolgersi anche a Roma ancora nel corso del V secolo. A riprova, ancora all’inizio del VI secolo, il diacono Giovanni spiega a Senario le ragioni di questo rito iniziatico romano308 . Questo elemento trova un preciso riscontro anche nell’arredo liturgico delle basiliche, in particolare di quella lateranense, dove un altare speciale era destinato a conservare il latte e il miele309 . Oltre alla valenza eucaristica il rituale, considerando la sua aderenza al libro dell’Esodo, può essere interpretato anche come metafora dell’accesso del neofita alla Terra promessa (Es. 33, 1-3): “Il Signore disse a Mosè: ‘Va’, sali di qui, tu con il popolo che hai fatto uscire dal paese d’Egitto, verso il paese che promisi con giuramento ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe, dicendo: ‘Io lo darò alla tua discendenza’. Io manderò un angelo davanti a te e scaccerò i Cananei, gli Amorei, gli Ittiti, i Ferezei, gli Ivvei e i Gebusei. Egli vi condurrà in un paese dove scorre il latte e il miele; ma io non salirò in mezzo a te, perché sei un popolo dal collo duro, e potrei anche sterminarti lungo il cammino’”. 307 Saxer, Les rites d’initiation, pp. 110-119. 308 Diacono Govanni, Lettera a Senario, XII, 1-2, pp. 589-595. 309 de Blaauw, Cultus et decor, p. 143. 106 In sintesi, l’interpretazione data da Ambrogio del miracolo della moltiplicazione dei pani trasforma questo episodio in una riflessione metaforica sulle diverse dimensioni del rito eucaristico. Inoltre, tale esegesi fa dei rituali prebattesimali un’immagine della promessa paradisiaca tramite l’iniziazione battesimale. In questo caso, forse più che in quelli precedenti, sorge spontanea la domanda circa la ricezione di questo episodio, se cioè la sola visione di questo rilievo potesse suscitare tutte queste associazioni. È ovviamente difficile dare una risposta univoca in questo senso, la polisemanticità dell’esegesi patristica doveva però essere un fenomeno importante nella percezione delle decorazioni figurative. Se perciò, come sembra, il miracolo della moltiplicazione dei pani era frequentemente interpretato come metafora dei riti iniziatici, è plausibile ipotizzare che la scena venisse compresa in questi termini. In questo senso le scene “eucaristiche” hanno come comune denominatore l’allusività. In esse non si trova nessun riferimento esplicito al rituale liturgico, eucaristico e neppure all’Ultima cena310 . Destinate a chi ancora non era stato iniziato, a chi non aveva ancora ricevuto le catechesi mistagogiche, esse possono sottintendere ma non svelare il magico mistero che si svolge soltanto agli occhi di chi è passato attraverso piscina battesimale. La metafora della Terra promessa, dove scorre latte e miele, è uno degli strumenti per evocare la beatitudine che aspetta chi compie il passo dell’iniziazione. La promessa di tale beatitudine salvifica e la sua realizzazione misterica attraverso l’eucaristia erano ovviamente temi centrali nella preparazione al battesimo311 . 310 Secondo la già citata analisi di Spieser non conosciamo immagini, di epoche così antiche, che si riferissero chiaramente all’Ultima cena come inizio della tradizione eucaristica. Cfr. Spieser, “Des images eucharistiques”, pp. 649-670. 311 Cfr. Cirillo e Giovanni di Gerusalemme, “Procatechesi”, XVIII; pp. 549-578 107 d) Effatà? Per la lettura d’insieme della porte di Santa Sabina appare importante anche l’episodio scolpito nella parte superiore del pannello dei miracoli cristologici – come descritto nel corpus (! 5c) –, una scena la cui attribuzione iconografica non può essere definita in maniera univoca (fig. 22). A essere raffigurata è l’immagine di un – non meglio specificato – miracolo del Cristo. La critica si è formalizzata nel vedervi la guarigione del cieco nato, ma non vi sono in realtà elementi per affermarlo poiché non vi è nessun contatto tra il Cristo e gli occhi del “miracolato”. Sappiamo invece che l’arte tardoantica sapeva, volendo, mostrare con chiarezza tale contatto come dimostra, a titolo d’esempio, la lipsanoteca di Brescia (fig. 23). Fig. 22. Guarigione miracolosa, porta lignea, basilica di Santa Sabina, Roma, 421-431. 108 Fig. 23. Guarigione del cieco nato, lipsanoteca, museo di Santa Giulia, Brescia, ultimo quarto del IV secolo. È legittimo supporre, con Spieser, che per la posizione dei due personaggi deve essere esclusa la guarigione del paralitico e anche quella del posseduto312 . D’altro canto, però, l’episodio potrebbe rappresentare, senza alcuna difficoltà, anche la guarigione del sordomuto. Credo, in questo senso, che debba essere messa in dubbio la proposta “cronologica” di Spieser il quale cerca di ricostruire una dimensione storica nella narrazione di ogni singolo pannello. Tornerò ancora sulla questione ma è fin d’ora importante tenere presente che, piuttosto che uno schema narrativo-logico come poteva essere quello delle decorazioni delle navate313 , per le porte di Santa Sabina la struttura generale si avvicinasse più a una composizione concettuale come è quella dell’arco trionfale di Santa Maria Maggiore, dove le scene vengono associate senza tener conto della cronologia314 . Visto quanto osservato sulla polivalenza delle immagini in ambito battesimale, mi chiedo inoltre se una scelta “chiara” fosse nelle intenzioni di chi ha concepito questo pannello. Che fosse la guarigione del cieco nato 312 Spieser, “Le programme iconographique”, p. 55. 313 Kessler, “Pictures as scripture”, pp. 17-31. 314 Cfr. questo capitolo pp. XY. 109 o quella del sordomuto poteva non essere rilevante, visto che entrambe sono molto interessanti per il contesto che stiamo delineando. L’episodio della guarigione del cieco nato – in tutte le varianti presenti nei vangeli – è infatti compreso da un grande numero di Padri della Chiesa come la prefigurazione del battesimo315 . In questo senso possiamo ricordare le parole di Ambrogio che, così, commenta l’episodio di Giovanni (Gv. 9, 6-7): “Cosa ha detto Giovanni? Raccolse il fango e lo spalmò sui occhi e gli disse: Va’ a Siloe. Egli, levatosi, andò, si lavò, e se ne tornò vedente. Considera anche tu gli occhi del tuo cuore. Vedevi ciò che è corporale con gli occhi del corpo, ma non potevi ancora vedere con gli occhi del cuore ciò che appartiene ai sacramenti. Dunque, quando hai dato il tuo nome, il Signore ha raccolto del fango e lo ha spalmato sui tuoi occhi. Perché? Perché tu confessassi il tuo peccato, esaminassi la tua coscienza, facessi penitenza delle tue colpe, riconoscessi cioè la sorta del genere umano. (…) e ti ha detto Và da Siloe. Che significa Siloe? Ciò si interpreta, dice il vangelo, mandato. Cioè: va’ a quel fonte nel quale Cristo redime i peccati. Sei andato, ti sei lavato, sei venuto all’altare, hai cominciato a vedere quello che prima non vedevi (…), mediante il fonte del Signore (…) i tuoi occhi si sono aperti”316 . 315 Fabrizio Bisconti, “Gaurigione del ceco nato”, in Nuovo dizionario patristico di antichità cristiane, diretto da Angelo di Bernardino, Genova – Milano 2006, II. col. 2479- 2481. 316 “Alius dixit caecum curatum (…) solus Ioannes quid ait? Tulit lutum, et linivit super oculos eius, et dixit ei: Vade in Siloam. Et exsurgens ivit, et lavit, et venit videns. Considera et tu oculos cordis tui. Videbas quae corporalia sunt, corporalibus oculis: sed quae sacramentorum sunt, cordis oculis adhuc videre non poteras. Ergo quando dedisti nomen tuum, tulit lutum, et linivit super oculos tuos. Quid significat? Ut peccatum tuum fatereris, ut conscientiam tuam recognosceres, ut poenitentiam ageres delictorum, hoc est, sortem humanae generationis agnosceres (…) et dixit tibi: Vade in Siloam. Quid est Siloas? Quod interpretatur, inquit, missus, hoc est: Vade ad illum fontem in quo crux Domini praedicatur: vade ad illum fontem in quo omnium Christus redemit errores. Isti, lavisti, venisti ad altare, videre coepisti, quae ante non 110 Nella visione di Ambrogio l’episodio della guarigione del cieco nato sembra riassumere l’esperienza del catecumenato e del battesimo. Sappiamo che in area milanese il passaggio del vangelo di Giovanni veniva declamato il sabato della terza settimana di Quaresima317 . Ambrogio – oltre a dare una spiegazione battesimale di questo racconto biblico – allude anche a una cerimonia rituale, vissuta dai catecumeni milanesi, quando, con ogni probabilità, prima del battesimo essi dovevano partecipare a una performance che li faceva “rivivere” in prima persona l’episodio evangelico. Per il nostro ragionamento è però importante anche un secondo dato: si tratta del fatto che, nel già menzionato Comes di Würtzburg, la stessa lettura veniva fatta anche a Roma il mercoledì della quarta settimana di Quaresima, in occasione del secondo scrutinio dei catecumeni318 . Come visto, questo testo liturgico è datato al VIII secolo, ma secondo John Baldovin, la situazione descritta può risalire almeno agli anni 520319 . La prassi precedente è sconosciuta, data però la consuetudine milanese, è forse legittimo supporre che il richiamo del miracolo della guarigione del cieco alla piscina di Siloe fosse presente anche nella liturgia quaresimale romana nel corso del V secolo. Non si può perciò escludere che, come a Milano, anche a Roma la lettura fosse accompagnata da un rituale performativo. Il dato interessante è che anche il secondo episodio possibile, quello della guarigione del sordomuto, è carico di significati in ambito catecumenale. Una delle cerimonie prebattesimali attestate a Milano alla fine del IV secolo comprendeva infatti un rito che si riferiva esplicitamente al miracolo raccontato da Marco (Mc 7, 34)320 . Poco prima di entrare nel battistero, il sabato santo, i neofiti venivano riuniti, il vescovo videras; (…) per fontem Domini (…) tunc aperti sunt oculi tui”. Ambrogio, “I sacramenti”, III, 11-15, pp. 82-85. 317 “Manuale ambrosiano”, pp. 147-152. 318 Morin, “Liturgie et basiliques de Rome”, pp. 153-173. 319 Baldovin, The Urban Character, pp. 125-126. 320 Cfr. Saxer, Les rites de l’initiation, p. 343. 111 toccava loro le narici, le orecchie e gli occhi e pronunciava la parola effatà. Il rituale metteva in scena il miracolo della guarigione sordomuto, così come raccontato nel vangelo. Il vescovo prendeva il posto del Cristo e “apriva” i sensi al neofita affinché questi fosse pronto a partecipare ai misteri divini. Ambrogio introduce il De Sacramentis proprio raccontando questo rito, il cui significato è secondo il vescovo di Milano quello di rendere tutti i sensi partecipi alla Grazia che sarebbe arrivata con il battesimo321 . Ancora una volta a Roma tale liturgia non è attestata prima del VI secolo quando il rito – “rito di Effatà” – è menzionato nel Sacramentario gelasiano322 . In senso inverso, se l’immagine rappresentata fosse veramente quella della guarigione del sordomuto, potrebbe trattarsi della prova indiretta che una simile prassi esisteva anche Roma perlomeno dall’inizio del V secolo. In mezzo ai pannelli dalla più forte valenza battesimale, il sordomuto guarito poteva quindi rappresentare un’immagine del neofita che si preparava ad aprirsi ai misteri pasquali. Come detto, è oggi impossibile capire in maniera univoca quale scena fosse rappresentata sulle porte, con ogni probabilità, però, si trattava della guarigione del cieco o di quella del sordomuto. Questa dicotomia non modifica in nulla l’interpretazione generale da attribuire al rilievo che alludeva in ogni caso – a livello esegetico – al rito battesimale, ma era legato anche alla realtà liturgica della quaresima. In questo senso, prolungando il ragionamento di Spieser – che considera in fondo di importanza secondaria a quale fonte evangelica si fosse attinto per rappresentare per la guarigione del cieco nato – il dato essenziale era quello di attivare nello spettatore una serie di associazioni mentali e performative323 : i miracoli operati dal Cristo taumaturgo parlano al neofita perché annunciano, nel linguaggio degli insegnamenti ricevuti, ma anche dei riti a cui è stato sottoposto, la sua Pasqua 321 Ambrogio, “I sacramenti”, III, I, 2-4, pp. 42-45. 322 Textes liturgiques de l’église de Rome, XXLII, 420; pp. 104-105. Cfr. Saxer, Les rites d’initiation, p. 600; Chavasse, “Introduction”. 323 Spieser, “Le programme iconographique”, p. 55. 112 “personale” e la sua “guarigione spirituale”. L’essenzialità con cui l’episodio è raffigurato potrebbe perciò essere compresa come un voluto desiderio di polisemia, proprio del pensiero patristico. e) Vedere Dio Quattro grandi pannelli (fig. 24-27) – Mosè sul Sinai, il ratto di Enoch, l’assunzione di Elia e la Teofania (!13c; 7; 15; 8) – appaiono come una meditazione figurativa su quello che può essere considerato il fine ultimo dell’esistenza terrena, ma anche la promessa più seducente della Chiesa: la visione di Dio e la vita eterna324 . La scelta estetica di un linguaggio estremamente raffinato, prossimo alle immagini delle apoteosi pagane, testimonia una riflessione colta su questa particolare dimensione della fede cristiana325 . Anche in questo caso, però, la scelta degli episodi raffigurati non sembra frutto del caso. Vi è certamente una logica interna tra queste quattro scene che contengono due apoteosi, ma anche tre diverse visioni di Dio: quella sperimentata due volte da Mosè che vede il Dio dell’Antico Testamento in Terra; quella di Enoch e Elia che vengono rapiti in cielo e, infine, quella escatologica, fuori dal mondo umano. 324 Sulle visioni divine cfr. il recente e stimolante volume di Cantone, Ars monastica: iconografia teofanica. 325 Cfr. Cap. V : Stile e Retorica 113 Fig. 24. Mosè sul Sinai, porta lignea, basilica di Santa Sabina, Roma, 421-431. L’immagine di Mosè è quella di un uomo che, chiamato da Dio, va a incontrarlo per entrare in “comunione” con Lui (fig. 24). È un’esperienza di breve durata ma, secondo le parole di Ambrogio, una prova importante del fatto che un incontro fisico con Dio trasporta l’uomo in una realtà spirituale dove non ha più fame, essendo nutrito dal Verbo326 . L’esperienza di Mosè è quindi, secondo il vescovo milanese, un annuncio del mondo a venire 327 . L’episodio deve perciò essere considerato fondamentale perché descrive l’esperienza mistica di chi, incontrando Dio, sperimenta già in terra la realtà paradisiaca. 326 Ambrogio, Esposizione del vangelo secondo Luca IV, 20; t. I, pp. 314-315. 327 Ambrogio, Esposizione del vangelo secondo Luca VIII, 11; t. II, pp. 102-103. 114 Fig. 25. L’assunzione di Elia, porta lignea, basilica di Santa Sabina, Roma, 421-431. 115 Il caso di Elia è un passo ulteriore nella costruzione da parte dei Padri della Chiesa della “storia della salvezza” cristiana: quest’ultimo non perì, ma fu portato in cielo (fig. 25). Ambrogio confronta Elia con Giovanni Battista, mettendo i suoi gesti in relazione con il battesimo328 . Il vescovo milanese fa, però, soprattutto della sua assunzione una metafora del ruolo salvifico della Chiesa, che trascina il fedele in cielo329 . Un’interpretazione importante in chiave iniziatica è data alla figura di Elia anche da Cirillo di Gerusalemme che vede nel profeta il dispensatore dei doni dello Spirito Santo330 . Lo stesso vescovo di Gerusalemme interpreta inoltre il ratto di questo profeta – oltre all’annuncio dell’Ascensione del Cristo – come una delle prefigurazioni del battesimo. Il concetto sarà frequentemente ripreso in Occidente proprio da Ambrogio e da Massimo da Torino331 . L’assunzione di Elia non è, secondo Ambrogio, paragonabile nella sostanza all’Ascensione del Cristo, poiché l’uno è stato portato in cielo mentre l’altro vi torna per la propria decisione332 , d’altro canto il fatto che egli vinse la morte è una delle garanzie maggiori dell’immortalità promessa al neofita333 . Il parallelismo è ricordato anche da Crisostomo latino, un autore ignoto, attivo in Occidente tra la fine del IV e l’inizio del V secolo334 . Egli conclude la sua omelia sull’Ascensione di Elia con le seguenti parole: 328 Ambrogio, Esposizione del vangelo secondo Luca , I, 36-37; pp. 132-135. 329 Ambrogio, Esposizione del vangelo secondo Luca , II, 88; t. I, pp. 226-229. 330 Cirillo e Giovanni di Gerusalemme, “Procatechesi”, XVI, 28; pp. 509-510. 331 Cirillo e Giovanni di Gerusalemme, “Procatechesi”, III, 5; p. 192; Cyrilli, “Catechesis XIV”, 25; coll. 858; Ambrogio, Commento ai dodici salmi, introduzione, traduzione e note Luigi Franco Pizzolato, Milano – Roma 1980, 40, 26; pp. 64-65; Maximi episcopi Taurunensis, Collectionem sermonum antiquam, edidit Almut Mutzenbecher, Turnholti 1961, (CCSL 23), LXXX, 3,, p. 330. 332 Esposizione del vangelo secondo Luca , VI, 96; t. II, pp. 80-81 333 Il bene della morte, 11, 51; pp. 200-201. 334 Cfr. Chrysostome Latin, “Sermon sur l’ascension d’Élie”, p. 278. 116 “Et vous, qui approchez pour accueillir le don de Dieu, croyez de tout l’empressement de votre foi, et vous recevrez ce que Dieu le Père a promis de donner aux croyants, par le Christ, notre Seigneur”335 . Il concetto è evidente: Elia è la prefigurazione del Cristo, il suo ratto deve ricordare al fedele lo scopo finale del percorso cristiano, quello della salvezza, corpo e anima. A completare questo tessuto interpretativo si aggiungono due omelie molto importanti: una della catechesi prebattesimali di Cirillo da Gerusalemme e una predica di Pseudo Fulgenzio, autore di ambito nordafricano attivo nella prima metà del V secolo336 . Nell’omelia di Cirillo leggiamo: “È una grande cosa il battesimo: redenzione dei prigionieri, remissione dei peccati, morte della colpa, veicolo per il cielo”337 . Anche se in maniera velata, il battesimo è definito con gli stessi termini usati per descrivere l’assunzione del profeta. Più chiara ancora è l’interpretazione nella predica su Elia ed Eliseo di Pseudo Fulgenzio: il battesimo è descritto come un’iniziazione attraverso l’acqua e il fuoco, il ratto su un carro di fuoco è quindi un’esplicita immagine del sacramento che trasporta il fedele verso la beatitudine celeste338 . Soprattutto, entrambi i testi sono legati al periodo quaresimale e pasquale: il primo è una predica di istruzione per i catecumeni mentre il secondo è stato considerato dalla critica come un’omelia battesimale339 . Almeno in ambito africano la 335 “Quod & vos quide, qui ad consequendum dei munus acceditis, tota fidei devotione credetes, precipietis ea quae deus pater daturum se creditibus promisit, per Christum dominum nostrum”. Johannes Chrysostomos, “De ascensione Heliae”, VI, pp. 11-12. Per la traduzione francese e il commento cfr. Chrysostome Latin, “Sermon sur l’ascension d’Élie”, p. 284. 336 Grégoire, Homéliaires liturgiques médievaux, pp. 89-125. 337 Cyrilli, “Protocatechesis”, XVI; coll. 359-362; cfr. Tsuji, “‘L’enlèvement d’Élie’”, p. 24. 338 Pseudo-Fulgence, “Élie et Élisée”, pp. 302-303. 339 Grégoire, Homéliaires liturgiques médievaux, pp. 89-125. 117 lettura del ratto di Elia era quindi declamata durante la liturgia battesimale340 . Il quadro liturgico della figura di Elia è completato dall’omelia che, con ogni probabilità, Ambrogio pronunciava all’inizio della quaresima facendo del profeta uno dei modelli ideali del digiuno341 . La predica del vescovo milanese si concludeva con un’idea molto forte: così come Elia chiunque può salire in cielo a patto di ricevere la grazia del sacramento battesimale342 . La relazione tra il ratto di Elia e il battesimo ricorre negli scritti di tutti i più importanti pellegrini che si recarono in Terra Santa tra V e VI secolo. Il luogo dove fu battezzato il Cristo è nelle immediate vicinanze di quello dove ascese il profeta Elia343 . Questa notizia si può collegare con quanto ipotizzato da Sahoko Tsuji, che cioè nella parte inferiore del pannello fosse raffigurata l’ascia smarrita nel Giordano dai discepoli di Eliseo (2 Re 6, 5-7). L’episodio è ricordato dai pellegrini, ma è soprattutto interpretato in chiave battesimale da alcuni Padri della Chiesa344 . Più importante per questo ragionamento è il fatto che lo stesso Ambrogio menzioni l’episodio della scure di Eliseo come una figura del ruolo salvifico del Cristo anche nelle sue catechesi postbattesimali345 . A Roma non abbiamo testimonianze liturgiche che vadano in questa direzione. Visto, però, che in Occidente – in Africa settentrionale e a Milano – abbiamo due attestazioni importanti di letture dedicate alla figura di Elia come prefigurazione del battesimo, mi pare plausibile supporre che anche a Roma succedesse altrettanto e proprio l’immagine delle porte di Santa Sabina potrebbe essere la traccia di tale usus liturgico. 340 L’uso del termine competentes per designare i catecumeni indica chiaramente che la lettura e la breve omelia precedevano il battesimo stesso, Grégoire, Homéliaires liturgiques médievaux, pp. 89-125. 341 Ambrogio, Elia e il digiuno, 2, 2-3; pp. 46-47. Che l’omelia fosse pronunciata all’inizio della quaresima è attestato in Ambroise, “Élie et le jeune”, pp. 224-225. 342 Ambrogio, Elia e il digiuno, 22, 85; pp. 124-125. 343 Jeremias, Die Holtztür, pp. 43-44 ricorda i testi del pellegrino di Bordaux (“Itinerarium Burdigalese”, 596, p. 42) e quello di Piacenza (“Antonini Placentini Itinerarium”, 9-19; pp. 199) 344 Sahoko Tsuji, “‘L’enlèvement d’Élie’”, p. 92. 345 Ambrogio, Dei Sacramenti, II, 10; pp. 62-65. 118 Il pannello con raffigurato, a mio parere, il ratto di Enoch è stato a lungo considerato invece una rappresentazione dell’Ascensione del Cristo (! 7)346 . Tale lettura mi sembra molto problematica (fig. 26). In primo luogo, gli angeli innalzano il personaggio centrale verso il cielo tirandolo – letteralmente – per mani e capelli. Un atteggiamento poco reverente che, soltanto difficilmente, può essere immaginato per la persona del Cristo. Il secondo punto è l’insistenza dei testi contemporanei sul fatto che il Cristo fosse, a differenza dei profeti, salito in cielo senza l’aiuto dei messaggeri. Certo, nel celebre avorio di Monaco Egli, in cima a un colle, afferra la mano che rappresenta il Padre, ma il gesto non può essere in nessun modo paragonato a quello delle porte, dove il personaggio principale è trascinato nei cieli (fig. 28). Fig. 26*. Il ratto di Enoch, porta lignea, Fig. 28. Ascensione del Cristo, Bayerisches basilica di Santa Sabina, Roma, 421-431. Nationalmuseum, Monaco, 400 circa. 346 Cfr. la bibliografia commentata nel corpus ! 7. 119 Infine, se consideriamo il secondo apocrifo di Enoch, nel quale il profeta è innalzato da due angeli sotto gli occhi dei figli, credo che tutti gli elementi convergano per individuare nella scena il suo ratto. La conferma decisiva si può trovare nelle prediche prebattesimali di Giovanni e Cirillo di Gerusalemme: “Se dunque Abacuc, sollevato per i capelli, fu trasportato da un angelo, ben più facilmente il Signore dei profeti e degli angeli, salendo sulla nube dal Monte degli Ulivi, ha potuto, con la propria potenza aprirsi la strada del cielo (…) Ricordati che Enoch fu trasportato mentre Gesù ascese”347 . Interpretato come una prefigurazione dell’Ascensione del Cristo, l’episodio è considerato una delle prove della salvezza dell’uomo. Quest’attribuzione diventa ancora più solida nel contesto generale considerato, quello della preparazione al battesimo. Nell’apocrifo di Enoch – datato ai primi secoli della nostra era, in ambito giudaico-ellenistico, ma recepito anche in ambito cristiano348 – leggiamo infatti: “Il Signore disse a Michele: ‘prendi Enoch, spoglialo dalle sue vesti di tenebre, ungilo con del buon olio e rivestilo in abiti di Gloria’. E Michele mi spogliò delle mie vesti, e mi unse con del buon olio, (e) con del grasso come una rugiada benefica”349 . Il testo è stato messo in relazione con il battesimo da Gérard-Henry Baudry350 . Enoch – rivestito con gli abiti degli angeli – subisce infatti, secondo Baudry, le stesse tre tappe dei neofiti: spoliazione, unzione e rivestimento in abiti candidi. In altri termini l’assunzione, che fa vivere al profeta le stesse tappe iniziatiche di un neofita, mostra lo stretto legame nella letteratura apocrifa tra il “ratto” celeste e il battesimo. 347 Cirillo e Giovanni di Gerusalemme, “Procatechesi”, XIV, 25 ; pp. 448. 348 Denis, Introduction aux pseudépigraphes grecs, pp. 28-29. 349 Le livre des secrets d’Hénoch, IX ; p. 24-25. 350 Baudry, Le baptême et ses symboles, pp. 97-98. 120 A fare da sintesi ai primi tre episodi di questo gruppo vi è un’omelia di Ambrogio pronunciata in occasione della morte di suo fratello Satino, deceduto probabilmente nel 378351 . In questa lunga meditazione sulla morte e risurrezione il vescovo di Milano scrive: “La stessa cosa [il rapimento e l’incontro con Dio], infatti, leggiamo di Enoc e di Elia. Ma anche tu sarai rapito in ispirito. Ecco il carro di Elia, ecco i fuochi; anche se non si vedono, sono preparati perché chi è giusto salga in cielo, chi è senza colpa cambi dimora (…). Vive infatti chi non ha elementi che in lui possano morire, chi non ha un sandalo proveniente dall’Egitto come legame, ma se l’è tolto prima di lasciare il compito di questo corpo. Non vive il solo Enoc, che non fu il solo ad essere rapito (…) sono vivi anche i patriarchi (…). Vivremo anche noi a condizione che seguiamo le opere e i costumi dei nostri padri”352 . Le ascensioni di Enoch e di Elia sono quindi da considerare come la promessa di una salvezza estesa a tutti. Ambrogio completa il ragionamento nel suo volume sulla fede dove precisa che i corpi di Elia, Enoch e Mosè non furono lasciati sulla Terra. Il dottore della Chiesa aggiunge che la loro completa salvezza, la loro liberazione dalle catene, è però avvenuta soltanto con la risurrezione del Cristo353 . I tre pannelli sembrano quindi indicare in maniera sinergica che, grazie all’aiuto divino, a 351 Banterle, “Introduzione” (1985), pp. 9-11. 352 “Hoc enim [il rapimento e l’incontro con il Cristo] de Enoch legimus, aut Elia : sed et tu rapieris in spiritu. Ecce currus Eliae, ecce ignes, etsi non videntur, parantur; ut iustus ascendat, innocens transferatur (…). Vivit enim qui non habet, quod moriatur in eo, qui non habet ex Aegypto calceamentum aliquod aut vinculum: sed exuit illud priusquam corporis huius deponat officium. Non solus itaque Enoch vivit, quia non solus est raptus (…) Vivunt etiam patriarchae (…). Vivemus et nos, si gesta moresque maiorum voluerimus imitari”. Ambrogio, “Per la dipartita del fratello”, II, 94-95; pp. 130-133. 353 Ambrogio, La fede, 4, 1, 7-8; 260-261. 121 immagine dei profeti, è possibile giungere al suo cospetto. La condizione perché questo possa avvenire è quella di sciogliere, con Mosè, i calzari del peccato. Inoltre, tale ascesa sarebbe incompleta senza la Pasqua. La selezione di queste scene può trovare una spiegazione nella ritualità dell’anno liturgico. Come detto, i due episodi di ratto sono percepiti come annuncio dell’Ascensione. È certo curioso che un pannello non sia dedicato all’immagine del Cristo che sale verso il Padre. D’altro canto questa assenza dà forza alla lettura catecumenale qui condotta: il neofita, ma più generalmente l’uomo, è diverso dal Cristo. Come sottolineato giustamente nella patristica, egli non può accedere con le proprie forze al paradiso. A immagine dei profeti e dei patriarchi dell’Antico Testamento, il cristiano può essere assunto in cielo solo grazie all’intervento divino. L’ascensione è quindi il tema che unisce questo gruppo, ma la retorica figurativa insiste volutamente sui modelli umani, che possono ispirare e dar fede al catecumeno. In questo senso, la selezione degli episodi può essere considerata “pedagogica”. Detto ciò non è probabilmente un caso che siamo proprio negli anni in cui l’Ascensione entra nel calendario liturgico: attestata in Oriente fin dal IV secolo354 , questa festa è documentata a Roma la prima volta da Leone Magno355 . Il Liber Comicus, che conserva il primitivo ordine delle letture fatte durante questa celebrazione in Occidente, testimonia che veniva letto il Libro dei Re (2, 1-15), gli Atti degli apostoli (1, 1-11) e il vangelo di Luca (24, 36-53)356 . La presenza del racconto del ratto di Elia accanto alla descrizione dell’Ascensione nel Nuovo Testamento dà ancora più forza al parallelismo semantico accennato. L’Ascensione è inoltre uno dei momenti chiave per il periodo liturgico pasquale. La scelta di dedicare all’idea della salita in cielo diversi episodi può aver avuto quindi una doppia valenza: ricordare che l’apoteosi cristiana è effettivamente il fine ultimo del battezzato, ma anche sottolineare che dopo la Pasqua inizia il periodo di preparazione alla festa liturgica 354 Saxer, Heid, “Ascensione”, col. 569-570. 355 Dekkers, Gaar, Clavis patrum latinorum, pp. 540-541. 356 Liber Comicus, pp. 242-245. 122 dell’Ascensione. Il legame tra le ascensioni bibliche e quella del fedele è infine sintetizzato da Ambrogio nel suo volume sul paradiso terrestre, dove scrive: “I giusti spesso sono rapiti in paradiso, così come Paolo fu rapito in paradiso e udì parole ineffabili (…) Dunque chiunque sarà salito in paradiso trasportato dalla sua virtù, udirà quegli arcani e segreti misteri divini, udirà il Signore dire, come quel ladrone che stava convertendosi dal delitto della confessione, dal ladrocinio al fedele: Oggi sarai con me nel paradiso”357 . Le parole del vescovo milanese sembrano così completare l’indissolubile dialogo tra la salvezza pasquale e l’assunzione individuale: è grazie alla croce che ogni uomo può giungere al cospetto di Dio. 357 “Denique iusti in paradisum saepe rapiuntur, sicut et Paulus raptus est in paradisum, et audivit verba ineffabilia (…) Ergo quicumque fuerit in paradiso ascensione virtutis audiet mysteria Dei arcana illa atque secreta: audiet dicentem Dominum tamquam latroni illi a scelere ad confessionem, et ad fidem a latrocinio revertenti: Hodie mecum eris in paradiso”. Ambrogio, Il paradiso terrestre, 11, 53; pp. 122-125. 123 Fig. 27. Teofania, porta lignea, basilica di Santa Sabina, Roma, 421-431. Il pannello che completa questo ciclo è quello della visione del Cristo in gloria (fig. 27). Si tratta di un rilievo trionfale che rappresenta il Cristo in una mandorla adorato da Pietro e Paolo e da una figura enigmatica, con ogni probabilità Santa Sabina (! 8). L’iconografia del Cristo in piedi con la destra alzata e un rotolo aperto in mano è nota tra la seconda metà del IV secolo e l’inizio del secolo successivo. Molto probabilmente si tratta di una rappresentazione che – vista la sua postura eccezionale – sottolinea le qualità del Cristo in quanto cosmocrator358 . Originata probabilmente in un contesto antiariano per enfatizzare la consustanzialità divina del Cristo con il Padre, questa immagine completa bene la costruzione teologica delle porte 358 Foletti, Quadri, “Roma, l’Oriente e il mito della Traditio Legis”. 124 insistendo sulla divinità del Cristo359 e, nel contesto della polemica antinestoriana – assieme Madre di Dio sul trono innalzato su sette scalini – mostra chiaramente, secondo Félix Darsy, la posizione di Roma in questo dibattito360 . Soprattutto, però, questa raffigurazione svela la visione beata di Dio che è, per il neofita come per ogni cristiano, il fine ultimo della sua esistenza terrena. f) Sepolti come il Cristo, con il Cristo rinascono – dopo il digiuno Grazie a un manoscritto moderno è possibile conoscere uno dei dieci pannelli scomparsi delle porte: si tratta di un’immagine del profeta Giona gettato nella bocca del mostro marino361 . Il ruolo di questo personaggio nell’esegesi patristica è molto importante soprattutto in quanto Cristo stesso si paragona al profeta (Mt 12, 39-40)362 . Le parole del vangelo non lasciano dubbi sulla maniera in cui il parallelismo doveva essere compreso: “Ma egli rispose loro: ‘Questa generazione malvagia e adultera chiede un segno; e segno non le sarà dato, tranne il segno del profeta Giona. Poiché, come Giona stette nel ventre del pesce tre giorni e tre notti, così il Figlio dell’uomo starà nel cuore della terra tre giorni e tre notti”. Il paragone è esplicito: la permanenza di Giona nel ventre del mostro marino è la prefigurazione della morte e risurrezione del Cristo. La scena ebbe perciò una singolare fortuna in ambito funerario ma, visto lo stretto legame stabilito da Paolo tra 359 Per la matrice antiariana dell’immagine cfr. Spieser, Autour de la “Traditio Legis”, pp. 12-13. 360 Cf. Darsy, Santa Sabina, p. 79. Il fatto che l’ambiente romano degli anni di Celestino I fosse ostile alle tesi di Nestorio è, tra l’altro, chiaramente documentato dalla già citata omelia del pontefice pronunciata nel 430 al di Roma. Cfr. Arnobio il Giovane, Conflictus Arnobii catholici, II, 13, pp. 166-176. 361 cfr. Jeremias, Die Holztür, p. 47. 362 Pani, “Giona”, coll. 2161-2164. 125 morte e battesimo, anche in ambito battesimale. Ne è una dimostrazione il battistero neoniano di Ravenna dove la scena è rappresentata in stucco sopra una delle finestre363 . L’esegesi di questo passaggio si concentra su due aspetti tipologici: ovviamente, in primo luogo, la somiglianza tra Giona e il Cristo per quanto riguarda la passione e la risurrezione. Meno evidente è il secondo tema sviluppato dalla patristica che considera i quaranta giorni di penitenza che visse la città di Ninive per essere salvata come similitudine della quaresima364 . Lo stretto collegamento tra questo episodio e le celebrazioni pasquali è enfatizzato anche dal fatto che a Milano il racconto di Giona veniva letto il giovedì santo365 . Gisela Jeremias e Jean-Michel Spieser hanno supposto che uno dei pannelli mancanti fosse decorato da un’immagine di Daniele nella fossa dei leoni366 . Tale supposizione si basa sulla considerazione che non esiste, nei monumenti tardoantichi, un’occorrenza dove l’immagine di Abacuc sia raffigurata senza quella di Daniele. Senza aderirvi completamente – il pannello di Abacuc non ha certamente una funzione esclusivamente ancillare –, credo che questa tesi possa essere accolta. In questo caso troverebbe spazio sulle porte un secondo tema molto popolare nelle decorazioni catacombali e, soprattutto, nella plastica funeraria tardoantica367 . La lettura che meglio spiega il successo di questo tema si ritrova già in Origene che – 363 Per quanto riguarda la vastissima fortuna di Giona nell’arte paleocristiana cfr. Mazzoleni, “Giona”, pp. 191-193. A proposito del battistero di Ravenna cfr. la recente sintesi di Mauskopf Deliyannis, Ravenna, pp. 88-101; per un’interpretazione in chiave liturgica del monumento cfr. Foletti, “Ambroise de Milan et le baptistère des Orthodoxes”, pp. 121-155. Per una lettura d’insieme del monumento resta fondamentale la monografia di Kostof, The Orthodox Baptistery. 364 Per la lettura di Giona come prefigurazione della passione e della risurrezione cfr. Ambrogio, Esposizione del vangelo secondo Luca, VII, 96-97, t. II, pp. 164-167; Cirillo e Giovanni di Gerusalemme, “Procatechesi”, XIV, 17; 20; p. 439; 20. Riguardo alla confronto tra la penitenza di Ninive e la quaresima cfr. Jérôme, Commentaire sur Jonas, 3, 3-4; pp. 264-267. 365 Ce ne informa Ambrogio nella sua lettera alla sorella Marcellina cfr. Ambrogio, Lettera 76, 25; v. 2, pp. 150-151. 366 Jeremias, Die Holtztür, pp. 45-47; Spieser, “Le programme iconographique”, p. 76. 367 Cfr. Minasi, “Daniele”, pp. 162-164. 126 contrastando gli argomenti di Celso, che voleva divinizzare Daniele – considerava implicitamente l’avventura nella fossa dei leoni come la preconizzazione della morte e del successivo trionfo del Cristo368 . Agostino riprende questa idea interpretando la figura di Daniele come colui che, al pari del Cristo, innocente prende su di sé i peccati del mondo369 . Paradossale è per certi versi il fatto che la fortuna di questo episodio è relativamente ridotta tra i Padri della Chiesa, mentre la sua diffusione figurativa è molto importante. Come già per Giona, anche in questo caso un’immagine di Daniele nella fossa dei leoni si trova tra le decorazioni a stucco del battistero degli Ortodossi a Ravenna. È, a mio modo di vedere, una prova esplicita del groviglio di significati che si sovrapponevano attorno a questa figura: immagine della risurrezione del Cristo e quindi anche di quella che i suoi fedeli vivevano mediante il battesimo e che li attendeva alla fine dei tempi. Questi due pannelli possono quindi essere interpretati in due diverse maniere. Prima di tutto, come prefigurazioni tipologiche della promessa della risurrezione: come nel caso delle scene dell’assunzione nei cieli, gli esempi indicati sono quelli dei profeti dell’Antico Testamento, anticipazione del cuore del messaggio salvifico cristiano. Certo, la ricorrenza di queste immagini è tale che da solo il riferimento sarebbe assai generico. Nel contesto generale che si sta delineando per l’insieme dei pannelli delle porte, però, mi pare plausibile interpretarli come un tentativo di rendere concreta, attuale, raggiungibile, la promessa della risurrezione. Questa dimensione diventa allora anche lo spunto per una riflessione su tutta l’ultima parte – la più importante – per la preparazione al battesimo: la Settimana Santa. In questo periodo il catecumeno, mediante una rivisitazione rituale e performativa, era invitato a rivivere la morte del Cristo per poi, assieme a lui, la notte di Pasqua, rinascere dalle acque a nuova vita. Il carattere ascetico dell’avventura di Daniele nella fossa dei leoni e quello penitenziale vissuto dagli abitanti di Ninive apre però spazio a una seconda 368 Origène, Contre Celse, t. IV, 7, 53, 57; pp. 140-141, 146-149. 369 Augustin, De baptismo libri VII, IV, II, 3; pp. 236-237. 127 dimensione: gli episodi descritti possono essere compresi come un chiaro riferimento al digiuno e alla penitenza, temi centrali della preparazione al battesimo. g) Quaresima e catecumenato: a immagine della passione Arriviamo così all’ultimo gruppo – il più numeroso – di episodi raffigurati sulle porte di Santa Sabina: il ciclo di sette pannelli dedicati alla Passione e risurrezione del Cristo ai quali deve, credo, essere aggiunto il pannello dell’Adorazione dei magi (28- 35). Una simile soluzione è stata proposta anche da Spieser, il quale però inserisce il pannello in questo gruppo soprattutto per ragioni narrative370 . La presenza di questa scena in un ciclo completo sulla Pasqua può essere invece giustificata dal significato che le attribuiva la tradizione patristica. Ambrogio – parafrasando la nota esegesi di Origene – interpreta infatti la visita dei magi come un annuncio della morte e risurrezione del Cristo371 : “I magi, venuti dall’Oriente, erano in cerca di questo bambino, (…) e prostratisi lo adorano, e lo chiamano re, e ne confessano la futura risurrezione, offrendogli dai loro scrigni oro, incenso e mirra. Che cosa significano questi regali, portati da una fede verace? L’oro spetta al re, l’incenso a Dio e la mirra la defunto; altra cosa, infatti, sono le insegna proprie al re, altra il sacrificio dovuto alla potenza divina, e altra ancora l’onore alla sepoltura”. 370 Spieser, “Le programme iconographique”, p. 77. 371 “Istum igitur parvulum, quem tu quasi vilem, qui infidelis es, arbitraris, Magi ex Oriente venientes (…), et procidentes adorant, et regem appellant, et resurrecturum fatentur, offerentes de thesauris suis aurum, thus, et myrrham. Quae sunt ista verae fidei munera? Aurum regi, thus Deo, myrrha defuncto; aliud enim regis insigne, aliud divinae sacrificium potestatis, aliud honor est sepulturae, quae non corrumpat corpus mortui, sed reservet”. Ambrogio, Esposizione del vangelo secondo Luca, v. 1, II, 44; pp. 186-187; Origène, Homélie sur St. Luc, XIII, 7 pp. 212-215. 128 Le altre scene raffigurate – procedendo in ordine cronologico – sono il tradimento di Pietro, Cristo davanti a Caifa, la condanna di Pilato e, sullo stesso pannello la via crucis. Segue l’austero ed enigmatico pannello della crocifissione, l’episodio delle Pie donne al sepolcro mentre incontrano l’angelo, le stesse donne al cospetto del Cristo risorto e, infine, il Cristo che si manifesta agli apostoli. La scelta in queste delle scene è insolita per diverse ragioni. Bisogna ricordare, intanto, che siamo in presenza del più completo ciclo della Passione conservato tra IV e V secolo. Paragonabile per certi versi a quello del cofanetto del British Museum, datato da chi scrive a qualche decennio dopo le porte di Santa Sabina372 . Quanto è però soltanto accennato nel cofanetto viene qui spiegato con forza. Mi riferisco all’insistenza sulle tre distinte tappe: condanna ingiusta, Passione e soprattutto risurrezione. La qualità degli otto pannelli – certamente la più bassa di tutto il ciclo –, come pure la loro ridotta dimensione, non danno molto spazio a una raffinata riflessione estetica diversamente dal caso del cofanetto del British. Considerata la semplicità delle composizioni, nonché l’uso di artifici formali come i mattoni sullo sfondo di sei pannelli, si ha l’impressione che l’intenzione fosse quella di insistere sull’unità narrativa di questa serie, quasi a sottolineare un unico “messaggio” per tutto il ciclo373 . Quanto è messo in risalto non è perciò il dramma interiore di Pietro mentre rinnega il Cristo o la sofferenza della crocifissione, ma il fatto che le due prime tappe portano inevitabilmente verso una terza, fortemente enfatizzata, quella della risurrezione. Nello stesso modo va interpretata a mio parere anche la discussa scena della crocifissione: quello che conta è soprattutto la sua appartenenza all’insieme (! 1). Chiaramente riconoscibile perché parte di una narrazione, l’episodio è stato 372 Foletti, “Il cofanetto con scene della Passione del British Museum”. 373 La questione dei pannelli con mattoncini sullo sfondo è stata uno degli argomenti usati da Alexander Soper per definire la scuola italo-gallica di scultura (Soper, “The Italo-Gallic School”). Più che un marchio di bottega, credo si tratti di un modello molto popolare all’inizio del V secolo come attestato dalla diffusione di elementi simili su oggetti di varia provenienza. Cfr. Frantová, Heresy and Loyalty, (in corso di pubblicazione). 129 raccontato in maniera sorprendente, senza croci visibili e con i tre personaggi raffigurati come tre oranti. A lungo tale anomalia è stata spiegata con la volontà di negare la dimensione vergognosa e cruda dell’episodio374 . Di recente, dando rilievo alla visibilità dei chiodi, Antonella Ballardini ha messo in discussione tale lettura attribuendo l’anomalia della composizione all’assenza di modelli anteriori da imitare375 . A mio parere, tale spiegazione non è del tutto convincente soprattutto se si considera proprio l’esistenza di un oggetto come il cofanetto della Passione del British Museum, contemporaneo o di poco posteriore alle porte e con un’iconografia molto dettagliata (fig. 29)376 . Fig. 29. Crocifissione, cofanetto della passione, British Museum, Londra, 440-450 circa. L’ambiguità tra crocifisso e orante si può comprendere invece nel contesto della predicazione patristica che fa del gesto della preghiera – soprattutto liturgica – 374 A una simile conclusione giunge anche Jeremias, Die Holztür, p. 63. 375 Ballardini, “La ‘crocefissione’ nella porta della”, pp. 281-283. 376 Cfr. Foletti, “Il cofanetto con scene della Passione”, (in corso di pubblicazione). 130 un’immagine della crocifissione377 . Certo, l’assenza delle croci lascia intuire che ci fosse un certo timore a rappresentarle da parte di chi ha concepito quest’immagine, tuttavia il cofanetto londinese permette di supporre che a determinare questa soluzione sia stata una serie ben più ampia di argomenti378 . Ragionando all’inverso, la scelta operata a Santa Sabina diventa importante se confrontata agli episodi posteriori – pensiamo alla necessità di introdurre, probabilmente in epoca carolingia, una crocifissione su due registri nella narrazione della navata di San Pietro – anche per capire quanto diverso sarà in seguito lo status dell’episodio379 . Se in epoca tardoantica la croce era uno, e non forse non il più glorioso, degli episodi che portano alla risurrezione, pochi secoli più tardi, essa diventerà un’icona identitaria per il cristianesimo latino380 . Per quanto ci riguarda, però, l’insieme del ciclo ha un altro significato evidente: si tratta di un concetto caro alla patristica ed espresso in chiari termini da Leone Magno. Secondo il vescovo romano la preparazione al battesimo va infatti compresa come una dialettica essenziale tra quaresima e Passione: i digiuni e le privazioni diventano per il catecumeno un mezzo per essere misticamente partecipe della Passione del Cristo381 . Lo spazio dato agli episodi della risurrezione sottolinea, una volta ancora, la realtà della promessa di salvezza formulata al catecumeno. L’idea di una stretta connessione tra l’iniziazione cristiana e la Passione è, infine, ricordata dallo stesso Ambrogio che, nel De 377 Cfr. ad esempio Ambrogio, Commento ai dodici salmi, XLIII, 11; pp. 98-99. Per maggiori dettagli e altri esempi cfr. (! 1). 378 L’ambigua relazione alla croce di Cristo è presente anche nelle prediche prebattesimali di Giovanni e Cirillo di Gerusalemme, dove viene il vescovo si sente in dovere di dire quanto non si vergogni della croce e quanto ne parli vista la sua fede nella risurrezione. Questo atteggiamento indica in realtà proprio l’ambiguità di atteggiamento nei confronti del martirio del Cristo cfr. Cirillo e Giovanni di Gerusalemme, “Procatechesi”, XIII, 5; p. 388. 379 Cfr. Kessler, Old Saint Peter’s, p. XY. 380 Cfr. Harley, “The Crucifixion”, pp. 226-228; Jászai, “Crocifisso”, pp. 577-581. 381 Leone Magno, I sermoni quaresimali, 34, 1, 1; pp. 214-215. 131 Sacramentis, scrive: “mediante la fonte del Signore e l’annuncio della sua passione i tuoi occhi si sono aperti”382 . Soprattutto, però, Ambrogio costruisce una sorta di unità concettuale tra il rituale del battesimo e la croce stessa: “Considera, quando sei stato battezzato, donde viene il battesimo, se non dalla croce di Cristo. Tutto il mistero sta nel fatto che egli ha patito per te. In questo sei redento, in lui salvato”383 . I due momenti sono perciò inscindibili: è solo attraverso la Passione del Cristo che, con lui, il catecumeno può rinascere. Il ciclo della Passione s’inserisce quindi pienamente nel paradigma generale delineato per le porte di Santa Sabina: i rilievi completano – con allusioni più o meno esplicite – la funzione dello spazio. Il loro discorso sembra infatti rivolto, prima di tutto, a chi si prepara all’iniziazione. h) Battesimo, penitenza, salvezza Diverse riflessioni di sant’Ambrogio possono servire da chiave per decifrare la composizione delle porte dal punto di vista iniziatico e catecumenale. Si tratta, in primo luogo, di un’epistola scritta per spiegare il senso del digiuno: “Che cosa si propone (…) la scrittura che insegna che Pietro digiunò e, mentre digiunava e pregava, gli fu rivelato il mistero dei pagani che dovevano essere battezzati, se non per mostrarci che gli stessi santi diventano più eminenti quando digiunano? Per questo Mosè ricevette la Legge mentre digiunava (…). Anche Daniele, per merito del digiuno, chiuse la bocca dei leoni e vide gli avvenimenti futuri. O quale salvezza può esserci in noi se non laveremo i nostri 382 Ambrogio, Dei Sacramenti, III, 15; pp. 84-85. 383 “per fontem Domini et praedicationem Dominicae passionis tunc aperti sunt oculi tui”. Ambrogio, Dei Sacramenti, II, 6; pp. 60-61. 132 peccati, dal momento che la scrittura dice: Il digiuno e l’elemosina liberano dal peccato?”384 . Basandosi su due episodi che erano con ogni probabilità raffigurati in origine sulla porta, il vescovo di Milano spiega quale è la via per raggiungere la salvezza: digiuno, elemosina e penitenza, motivi centrali per la prassi battesimale dei primi secoli del Cristianesimo385 . Come abbiamo visto, questa dimensione si accompagna sulle porte a un secondo elemento, quello della salvezza promessa. Evocativo è, in questo senso, anche un passaggio della lettera di Ambrogio a Oronziano nel quale cerca di spiegare al suo amico il posto dell’uomo nella creazione. Il testo diventa, nelle ultime pagine, una celebrazione della creazione, ma soprattutto, di quello che può fare l’uomo che ha seguito Dio: “Giustamente, dunque, l’uomo (…) vive tra animali selvatici, nuota con i pesci, vola più in alto degli uccelli, sta in compagnia degli angeli, abita la terra, (…) erede del cielo, coerede di Cristo: tutto ciò in rapporto alla sua attività. Considera che – superando i limiti della natura umana – Mosè camminò in fondo al mare, gli Apostoli sulla sua superficie, Abacuc volò senza ali, Elia vinse in terra, trionfò in cielo”386 . 384 “Quid etiam sibi vult Scriptura, quae docet ieiunasse Petrum, et ieiunanti atque oranti de baptizandis gentibus revelatum mysterium; nisi ut ostenderet etiam ipsos sanctos, cum ieiunant, tunc fieri praestantiores? Denique Moyses cum ieiunaret, Legem accepit (…). Daniel quoque ieiunii merito ora clausit leonum, futurorumque temporum vidit negotia. Aut quae nobis salus esse potest, nisi ieiunio eluerimus peccata nostra; cum Scriptura dicat: Ieiunium, et eleemosyna a peccato liberat?”. Ambrogio, “Lettere fuori collezione”, 14, 16, in Lettere, v. 3, pp. 270-271. 385 Saxer, Les rites d’initiation, pp. 575-576. 386 “Recte ergo [l’uomo] (…) vivit, cum piscibus natat, super aves volat, conversatur cum angelis, terram inhabitat, et coelo militat, sulcat mare, aere pascitur, cultor soli, viator profundi, piscator in fluctibus, in aere auceps, in coelo haeres, Christi cohaeres. Haec secundum industriam. Accipe etiam quod supra hominis substantiam. Moyses in imo ambulavit mari, in summo apostoli. Habacuc sine 133 Elia, Abacuc, Mosè e gli apostoli vengono citati come esempi della vittoria sulla natura che l’uomo fedele a Dio può raggiungere. Anche da queste righe traspare perciò la doppia valenza che caratterizza l’iconologia delle porte: la penitenza necessaria della quaresima – a immagine dei santi – sarà seguita da una dolce vittoria. Nella stessa direzione va quindi anche la riflessione di Ambrogio sui quaranta giorni del digiuno di Cristo: “Vedi di quali armi si serve per difendere l’uomo dagli assalti degli spiriti iniqui, dopo averlo circondato e protetto con gli allettamenti della gola. Difatti non usa la sua potenza in quanto Dio (…) ma, in quanto uomo, si procura un aiuto comune affinché l’uomo tutto intento a pascersi delle scritture divine dimentichi la fame del corpo e si nutra del Verbo celeste. Assorto nel Verbo, Mosè non desiderò più il pane; assorto nel verbo, Elia non avvertì più la fame del digiuno prolungato. Chi segue il Verbo non può desiderare un pane terrestre, poiché riceve la sostanza del Pane celeste (…)”387 . I digiuni prolungati, sempre sostenuti da Dio, dei profeti sono paragonabili alla quaresima che porta allo stato di beatitudine celeste. Si muove sulla stessa lunghezza d’onda anche un secondo padre occidentale, Girolamo che, nella sua lettera a Eustochio, torna a parlare dell’importanza del digiuno e del mangiar sobrio. Gli pennis volavit. Elias in terra vicit, et in coelo triumphavit”. Ambrogio, Lettere, 29, 19- 20; v. 1, pp. 287-288. 387 “Vides quo genere utatur armorum, quo hominem a spiritalis nequitiae incursione defendat, adversus irritamenta gulae septum atque munitum? Non enim quasi Deus utitur potestate (…), sed quasi homo commune sibi arcessit auxilium; ut divinae pabulo lectionis intentus famem corporis negligat, alimentum verbi coelestis acquirat. Huic intentus Moyses panem non desideravit: huic intentus Elias famem prolixioris non sensit ieiunii. Non enim potest qui verbum sequitur, panem desiderare terrenum, cum substantiam panis coelestis accipiat (…)”. Ambrogio, Esposizione del vangelo secondo Luca, IV, 20, pp. 314-315. 134 esempi evocati sono ancora una volta Mosè, Abacuc e Elia388 . Secondo le parole di Girolamo la loro scelta di sobrietà alimentare – pane e acqua – sono modelli del buon digiuno che prepara ai sacramenti. Anche nel suo commento su Giona Girolamo torna sulla questione e in questo caso Giona, Mosè, Elia e lo stesso Cristo diventano maestri di digiuno e di riconciliazione per il cristiano389 . Restano aperte alcune domande, per esempio se lo spazio davanti alle porte fosse destinato a esegesi vere e proprie oppure se la sua fruizione fosse più “libera” e lasciata all’iniziativa individuale. Gli indizi raccolti permettono di immaginare alcune riunioni prebattesimali svolgersi proprio nel nartece. Immagine, testo liturgico e omelia potrebbero aver funzionato in maniera sinergica. Considerata però la dimensione dei diversi pannelli, non meno importante era certamente l’aspetto “individuale” del loro uso, quando il catecumeno era solo di fronte all’immagine. Una volta chiuse le porte, mentre all’interno della basilica era in corso il mistero eucaristico, i catecumeni di certo non lasciavano il nartece, aspettando l’uscita del clero e forse un’ultima benedizione del vescovo390 . I rilievi, dettagliati e complessi, potevano “occupare” chi era in attesa, ma anche attivare nelle menti dei neofiti concetti e immagini retoriche sentite poco prima nelle letture e nei testi liturgici. Meditazioni sul digiuno, i modelli dell’Antico e Nuovo Testamento, ma anche gesti eroici compiuti da grandi figure del passato si materializzavano davanti ai loro occhi. A fare da filo conduttore vi era poi la presenza di racconti che prefiguravano il battesimo che li attendeva. A dar maggior peso a questa lettura contribuisce infine anche un argomento che sintetizza quanto osservato fin qui, ovvero la presenza della quasi totalità delle scene 388 Gerolamo, “Lettera a Eustochio”, 22, 8-10; pp. 80-81. 389 Jérôme, Commentaire sur Jonas, 3, 3-4; pp. 264-267. 390 Sappiamo che a Roma i catecumeni ricevevano un’imposizione di mani quasi quotidianamente. Cfr. Saxer, Les rites d’initiation, pp. 590-591 135 delle porte di Santa Sabina in due fondamentali volumi per la storia del battesimo in Occidente: il De sacramentis e il De mysteriis di Ambrogio da Milano. Come detto, Ambrogio è con ogni probabilità il riferimento intellettuale per la Roma della prima metà del V secolo. In questo senso è perciò notevole riscontrare che, facendo un’esegesi dei riti prebattesimali e del battesimo, Ambrogio riflette sul significato battesimale dell’acqua scaturita dalla roccia e del passaggio del mar Rosso391 . Spiegando ai catecumeni il mistero eucaristico il vescovo milanese torna anche sui miracoli delle quaglie e della manna nel deserto e insiste su quanto queste prefigurazioni fossero un autentico annuncio dell’eucaristia392 . Come ricordato, Ambrogio espone il rito prebattesimale dell’Apertio, ma discute anche la guarigione del cieco di Siloe (Gv 9, 7)393 che interpreta come metafora della nuova vista spirituale acquisita con il battesimo394 . Le esegesi di Ambrogio potenziano infine il significato battesimale del ciclo dell’assunzione: il fuoco che discese dal cielo per Elia diventa per il vescovo milanese un altro tipo di battesimo395 . Ricordando le parole di Giovanni (Gv 1, 17) egli fa anche della colonna di fumo che precedeva gli ebrei nel deserto uno degli strumenti attraverso i quali fu realizzata l’iniziazione del popolo eletto, che il vescovo milanese legge come una prefigurazione del battesimo396 . La narrazione è, infine, puntualmente arricchita da riflessioni sulla morte e risurrezione del Cristo. Altri episodi – presenti sulle porte – sono infine ricordati da Ambrogio anche in altri suoi scritti dedicati al battesimo. Esemplare è certamente un passaggio tratto da Isacco o l’anima dove Ambrogio parla delle ali del fuoco divino: 391 Ambrogio, “I sacramenti”, V, 3, I, 12, 20; pp. 102-105, 48-51. 392 Ambrogio, “I sacramenti”, IV, 13-15; 92-95. 393 Spieser insiste nella sua esegesi sul fatto che sarebbe un errore cercare di trovare una corrispondenza testuale esatta per il miracolo della guarigione del cieco (Spieser, “Le programme iconographique…”, p. 56), ad ogni modo Ambrogio legge in chiave battesimale i diversi miracoli. 394 Ambrogio, “I sacramenti”, III, 11-12; pp. 80-83. 395 Ambrogio, “I sacramenti”, II, 11; pp. 62-65. 396 Ambrogio, “I misteri”, 12-13; pp. 142-143. 136 “Su queste ali volò via Enoch, rapito in cielo, su queste ali volò via Elia, trascinato verso le regioni superne in un carro di fuoco e su cavalli di fuoco; con queste ali il Signore Iddio mediante una colonna di fuoco conduceva il popolo dei nostri padri; con questo fuoco (…) vengono battezzati i popoli pagani397 ”. Appare degno di nota anche un dettaglio presente nel ciclo della Passione: nella scena della salita sul Calvario, pur portando la croce, Simone di Cirene segue il Cristo. Negli altri due esempi importanti di questa iconografia, sul cofanetto del British Museum o a Sant’Apollinare Nuovo, la situazione è invertita. Leggendo il commento di Ambrogio al passaggio biblico si è colpiti dall’insistenza del vescovo milanese sul fatto che Simone non può in nessun modo precedere il Cristo ma deve seguirlo: “Non è un Giudeo a portare la croce, ma uno straniero, e non lo precede, ma lo segue, in conformità con quanto è stato scritto: Prendi la tua croce e seguimi”398 . Se si trattasse di un elemento isolato, menzionarlo potrebbe essere un pedante esercizio iconografico. Considerando però che venti episodi delle porte sono presenti nelle esegesi mistagogiche di Ambrogio (cf. Tav. I), questo dettaglio può rivelarsi un argomento a ulteriore conferma dello stretto legame tra l’opera del vescovo milanese e il clima intellettuale della Roma di Celestino I e di Sisto III. 397 “His alis evolavit Enoch raptus ad coelum. His alis evolavit Elias curru igneo, et equis igneis ad superna translatus. His alis Dominus Deus per columnam ignis deducebat Patrum plebem. (…) Harum alarum igne (…) baptizantur populi nationum”. Ambrogio, Isacco o l’anima, 8, 77; pp. 118-121. 398 “Non Iudaeus est qui crucem portat, sed alienigena, atque peregrinus: nec praecedit, sed sequitur, iuxta quod scriptum est: Tolle crucem tuam, et sequere me”. Ambrogio, Esposizione del vangelo secondo Luca, 107; pp. 470-471. 137 Questa dimensione retorica è puntualmente confermata anche dall’aspetto rituale della liturgia quaresimale e prebattesimale a Roma. All’inizio di questo capitolo ho indicato come la liturgia romana possa essere ricostruita soltanto in maniera parziale per il V secolo. Tuttavia ben venti dei ventitré episodi biblici raffigurati sulle porte possono essere direttamente collegati con la liturgia romana quaresimale e pasquale (Tav. I). In dodici casi si tratta di indicazioni tratte dal Vaticanus Reginensis 316. Sei soggetti sono ricordati nei sermoni quaresimali di Leone Magno, almeno in un caso lo schema del Vaticanus Reginensis 316 si sovrappone a quello dei sermoni leonini, rafforzando così l’ipotesi espressa da Chavasse sull’origine antica delle formule del sacramentario399 . Altre informazioni ci giungono dalla lettera del diacono Giovanni400 – datata al VI secolo –, dal già ricordato Comes di Würzburg e infine dal Liber Commicus401 . In sintesi, in diciannove casi gli episodi raffigurati sulla porta sono ricordati in altrettante letture della liturgia quaresimale dei secoli successivi. Considerata questa proporzione mi sembra molto difficile che tale aderenza possa essere considerata casuale. Vista la ricorrenza degli stessi episodi nei sermoni ambrosiani, ci troviamo quindi di fronte a un secondo argomento importante per collegare le decorazioni delle porte con la funzione catecumenale e liturgica del nartece di Santa Sabina. Questa forte relazione tra le immagini raffigurate sui pannelli della porta e la liturgia romana tra il V e l’VIII secolo può però a mio avviso essere ribaltata: proprio le immagini della porta potrebbero essere un utile strumento per ricostruire la liturgia quaresimale a Roma all’inizio del V secolo. Tutti gli elementi qui raccolti portano pertanto a concludere che la funzione prevalente delle decorazioni delle porte di Santa Sabina fosse proprio quella di completare, rendendolo più esplicito, il significato dell’intero spazio del nartece. 399 Chavasse, Introduction, pp. 10-11. 400 La lettera del diacono Giovanni è stata pubblicata da Wilmart, Un florilège carolingien pp. 153-179; 170-179. Per la discussione di questo testo cfr. Saxer, Les rites d’initiation, pp. 589-595. 401 Morin, Liturgie et basiliques, pp. 153-173. 138 Luogo di passaggio e di iniziazione, strettamente legato ai riti prebattesimali, esso aveva grazie alle porte uno strumento visivo che accompagnava il catecumeno nella meditazione sui Misteri che lo attendevano. Il discorso costruito attraverso i rilievi – e credo, che in questo caso il termine di discorso sia veramente legittimo – andava però oltre la sola iniziazione. Attraverso i momenti salienti dell’Antico e del Nuovo Testamento, esso rinnovava nel catecumeno l’esperienza dei diversi riti ai quali aveva partecipato e delle letture e omelie udite. Infine, la scelta del discorso doveva/ i passaggi del discorso dovevano anche dar forza alla decisione di diventare cristiano: erano ripetute, in maniera quasi maniacale, scene che ricordavano la salvezza garantita da Dio sia in Terra, attraverso i miracoli, sia alla fine dei tempi, grazie all’apoteosi cristiana. 139 IV. 3. Una sinfonia interpretativa? a. Un’immagine clericale? È molto complesso entrare in merito alla seconda domanda formulata in introduzione a questo capitolo, quella riguardo alla relazione tra il clero, che entrava dalla porta scolpita in basilica, le immagini e tutto lo spazio circostante. Non sappiamo infatti nulla sull’uso delle porte all’inizio della liturgia tardoantica. L’unico dato sicuro – che però riguarda con certezza soltanto la liturgia pontificia – è quello di una solenne entrata del clero che si preparava nell’atrio mentre veniva probabilmente intonato il canto d’ingresso dalla schola402 . Henri Leclercq, basandosi sul Liber Pontificalis, che cita la prescrizione di Celestino I di introdurre la liturgia con il canto dei salmi403 , ha provato a ricostruirne una possibile sequenza facendo uso di testi liturgici posteriori404 . Le sue considerazioni, che risalgono a quasi novant’anni fa, non hanno però convinto la ricerca successiva. Inoltre, per il nostro proposito, senza un ordine preciso per tutto l’anno liturgico, le parziali conclusioni di Leclercq ci sono di poca utilità. Vi è poi un aspetto pratico che non può essere dimenticato. Una volta aperte le porte scomparivano dalla visuale di chi entrava. Pertanto se, come credo, quando cominciava a formarsi la processione erano già aperte, esse perdevano in gran parte la loro funzione di immagine. In caso contrario, i membri dei diversi ordini clericali trovarsi a contatto con una serie di immagini con i principali soggetti della dottrina cristiana. Vi era rappresentata tutta la vita terrena del Cristo – dalla sua infanzia alla sua risurrezione – e una visione teofanica del Signore nei cieli. Inoltre, sulla porta comparivano eroi dell’Antico Testamento, il popolarissimo Mosè – la cui 402 Pietri, Roma Christiana, pp. 576-577. 403 Liber Pontificalis, t. I, p. 230. 404 Leclercq, “Introït”, coll. 1212-1220. 140 figura era messa a Roma in relazione a Pietro405 – oltre a Elia, a Abacuc, a Enoch e a Giona. In questo senso il ciclo aveva certamente un valore di dotta decorazione. Pensando “fruizione” da parte dei presbiteri vi sono però alcuni dettagli per lo meno sorprendenti. Si tratta soprattutto del pannello dei miracoli di Mosè e di quello dell’Acclamatio. Nel primo, nel miracolo della roccia e in quello di Mara (! 6 a, d), Mosè, ha un atteggiamento molto simile alla figura clamidata del pannello dell’Acclamatio, con ogni probabilità un membro del clero (! 14). La posizione di quest’ultimo è certamente quella dell’orante. Più ambigua è la posizione di Mosè che in due scene, pur avendo le braccia alzate, ha la mano destra rivolta verso il basso con il palmo aperto. In un suo recente saggio Alžběta Filipová ha dimostrato in maniera convincente come, tra IV e VI secolo, la posizione dell’orante fosse da mettere, nel caso di chierici, in relazione con la preghiera eucaristica e, più in generale, con il servizio liturgico406 . Sappiamo inoltre che a Milano, tale postura è attestata fin da tempi antichi407 . Inoltre nel pannello dei miracoli della manna e delle quaglie l’atteggiamento del patriarca evoca quella di un celebrante intento a preparare e a distribuire il pasto eucaristico. La figura di Mosè è anche interpretata nella letteratura non soltanto come prefigurazione di Pietro ma anche del pontefice romano408 . È quanto è affermato con forza da Innocenzo I nel decretum mandato a Rufo, nominato vicario pontificio per la contesa zona dell’Illiria409 . Il testo in questione ricopre un ruolo di primo piano nella costruzione del primato della Chiesa di Roma. Ai nostri fini è, però, soprattutto fondamentale l’uso che fa il pontefice della figura di Mosè per fondare il vicariato di Rufino410 : Mosè diventa – nel discorso del pontefice – il garante legislativo della costruzione del vicariato d’Illirico, giustificando così la posizione giuridica del vescovo romano. Nel contesto della 405 Pietri, Roma Christiana, pp. 316-323. 406 Filipová, “Santo, Vescovo e Confessore”, 435-437. 407 Borella, Il rito Ambrosiano, pp. 187-188. 408 Pietri, Roma christiana, pp. 1486-1488. 409 Innocentii I, “Epistola XIII”, 1; col. 515; cita l’esodo 18 . 410 Cfr. Pietri, Roma christiana, pp. 1089-1093. 141 basilica di Santa Sabina, che ha per committente Pietro, originario appunto dell’Illiria, la scelta di rivestire la figura di Mosè di una dimensione fortemente sacerdotale appare significativa. Si ha infatti l’impressione che uno degli intenti di chi ha concepito le porte sia stato quello di usare la figura del patriarca – enfatizzandola – non per alludere a una dimensione sacerdotale generica, ma al ruolo crescente del pontefice romano, erede di Pietro, che, dopo il trasferimento della capitale da Milano a Ravenna, stava tornando a rivestire una posizione di primissimo piano nella politica ecclesiale dell’impero. La funzione della porta era in questo senso politica, essa doveva indicare allo spettatore colto che chi aveva concepito e voluto le porte desiderava celebrare, anche se in maniera in parte velata, la sua devozione nei confronti del pontefice. b. Una funzione regolare Oltre alla funzione liturgica dello spazio, ma anche a quella “politica” deve essere ricordata una terza funzione, legata all’uso regolare, quotidiano, del nartece. In chiave catecumenale è per esempio difficilmente comprensibile il pannello non evangelico dell’Acclamatio (! 14)411 . Inoltre, il pannello apocalittico con il Cristo in gloria ha una composizione molto particolare confrontata da Spieser con una composizione absidale (! 8)412 . Senza entrare nel merito delle varie interpretazioni, che hanno fatto scorrere molto inchiostro, accolgo qui le conclusioni sintetiche formulate da Jeremias e Spieser, che considerano i due pannelli rispettivamente come una scena storica – forse la rappresentazione del committente – e una visione parusiaca413 . L’idea di raffigurare il committente all’esterno dell’edificio, perché ogni 411 Spieser ,“Le programme iconographique”, p. 62. 412 Spieser ,“Le programme iconographique”, p. 80. 413 Jeremias, Die Holztür, pp. 77-80; 80-88; 88-96; Spieser ,“Le programme iconographique”, pp. 62-74. L’unica pubblicazione posteriore di questi discussi pannelli (Di Spirito, “La cosiddetta scena dell’ “acclamatio”) mi sembra poco convincente e aggiunge pochi elementi alla discussione critica. 142 passante potesse vederlo si giustifica per due ragioni. La prima, devozionale, consiste nel fatto che la formella avrebbe dovuto stimolare una preghiera per chi aveva finanziato la porta o l’edificio. La seconda, legata al tradizionale evergetismo romano, invece, ha l’ambizione di tramandare il nome – in questo caso l’immagine – del committente ai posteri414 . Se Spieser ha ragione riguardo al pannello della Teofania (! 8), che si tratti cioè veramente del riflesso della composizione absidale della basilica, questo pannello potrebbe rivestire una doppia funzione415 . Oltre a quella ricordata prima, di una visione di Dio, annunciata mediante la formella ai catecumeni, potrebbe trattarsi di una funzione mnemonica. Un indizio in questo senso potrebbe essere fornito dalla situazione particolare del nartece di Santa Sabina. Come dimostrato da Darsy, e confermato da Manuela Gianandrea, il nartece originario collegava il vicus Altus e il vicus Armilustrii che si sviluppavano parallelamente sopra e sotto la basilica416 . Oltre alla funzione liturgica stazionaria – e a quelle regolari – era quindi un luogo di passaggio, situazione eccezionale per una chiesa tardoantica. Nel V secolo, prima che fosse ornato intorno al 700 dall’icona dipinta della Mater Dei417 , recentemente scoperta, le porte erano probabilmente la sua sola immagine figurativa, affiancata soltanto da un elegante opus sectile e dai falsi marmi dipinti intorno. Il committente delle porte doveva essere cosciente di questa funzione “regolare” delle porte chiuse: l’insieme poteva essere percepito come un’icona, davanti alla quale sostare in un attimo di raccoglimento prima di procedere il cammino. Importante poteva quindi essere la dimensione evergetica: il passante irregolare, ma anche il visitatore assiduo potevano rivolgere 414 Caillet, “L’evolution de la notion d’évergétisme”, pp. 11-24. 415 Sull’ipotetica decorazione absidale cfr. Leardi “Santa Sabina”, p. 295. 416 Darsy, “Le portes de Sainte-Sabine dans l’archéologie”; Gianandrea, “Nel lusso della tradizione”. 417 Per la scoperta dell’icona della Madre di Dio cfr. Gianandrea, “Lettura iconografica e stilistica del dipinto murale”, pp. 25-30; Id., “Un’inedita committenza”, pp. 399-410. 143 una preghiera ad intercessione del committente raffigurato418 . Se l’ipotesi di Spieser – che l’immagine lignea della parusia fosse una reiterazione del mosaico dell’abside, – è, come credo, vera, essa darebbe una dimensione molto raffinata alla retorica figurativa della basilica: quanto annunciato sulle porte si realizzava, almeno in parte, nel cuore stesso dell’edificio. Per il passante regolare il pannello doveva fungere da memento di quanto era celato nella basilica, con un semplice colpo d’occhio egli poteva riportare alla mente il fulcro tematico della decorazione interiore. Lo sdoppiamento dell’immagine teofanica doveva però avere un significato anche per il catecumeno che entrava e usciva dalla basilica e aveva quindi regolarmente davanti agli occhi entrambe le immagini. Seguendo gli insegnamenti del vescovo egli doveva sapere che senza l’intervento misterico del sacramento battesimale, pur vedendo le due immagini, non gli era possibile di “vederle” veramente. Egli credeva però che, una volta battezzato, avrebbe raggiunto l’accesso alla visione419 . IV. 4. Come si costruisce un racconto? Quanto asserito in questo capitolo sembra convergere verso una stretta relazione tra immagine, liturgia, rituale, ma anche uso devozionale dell’atrio di santa Sabina. D’altro canto l’organizzazione stessa della porta è molto problematica: anche lasciando per ora in disparte la questione della sequenza originale dei pannelli, sulla quale torneremo nel capitolo successivo, quanto qui proposto indica chiaramente che una successione cronologica degli episodi non è ipotizzabile. Non lo è neppure, vista la presenza di pannelli come quello della Teofania o dell’Acclamatio, una semplice 418 Un simile dualità tra l’uso liturgico pasquale, eccezionale, e quello regolare, incentrato sulla devozione privata, è stato recentemente proposto, per due croci del XII secolo, da Herbert Kessler, cfr. Kessler, “Inscriptions on painted crosses”, pp. 161- 184. 419 Un meccanismo simile è stato descritto da Valentina Cantone per il caso del mosaico di Hosios David a Salonicco, cfr. Cantone, “Quando l’apparenza non inganna”, pp. 120-157. 144 concordanza cronologica dei due Testamenti420 . Alcuni gruppi di rilievi – è il caso dei pannelli con il racconto della passione – sembrano seguire un ordine narrativo. Altri fanno molto più pensare a una lettura tipologica, evidente nei miracoli di Cristo e di Mosè che, sinergicamente, riflettono la problematica battesimale e i misteri eucaristici. Vi è poi una terza struttura semantica – individuata nelle pagine precedenti – che sembra riferirsi a singoli episodi. In questo senso è importante ricordare due dati. Prima di tutto sappiamo che, accanto alla narrazione delle grandi basiliche cristiane dove gli episodi erano posizionati seguendo un ordine cronologico e/o tipologico – è il caso dei mosaici della navata di Santa Maria Maggiore (431-440) e del lato sud della basilica di Sant’Apollinare nuovo per quanto riguarda una cronologia semplice, di San Pietro e San PaoloFuori le Mura a Roma per quella tipologica (fig. 30)421 –, esiste una seconda scansione più libera e associativa422 . Fig. 30. Ricostruzione della navata – Atlante della pittura monumentale a Roma, San Paolo, Roma, 1400 circa. Ne sono esempi significativi l’arco trionfale di Santa Maria Maggiore, il dittico milanese delle Cinque parti, ma anche un oggetto come la lipsanoteca di Brescia (fig. 420 Si tratta di una conclusione alla quale giunge anche Spieser, “Le programme“. 421 Cfr. le recenti sintesi di Menna, “I mosaici di Santa Maria Maggiore”, pp. 312-330; Mauskopf Deliyannis, Ravenna, pp. 152-158. 422 Peter J. Holliday, Narrative and event in ancient art, Cambridge 1993; Kessler, Old St. Peter’s, pp. 1-13; Viscontini, “I cicli vetero e neo testamentari”, pp. 411-415 ; Id, “I mosaici e i dipinti murali”, pp. 372-378. 145 31-32). Di formati e funzioni molto diversi, questi tre monumenti sono accomunati da un’apparente assenza di logica temporale. Fig. 31. Arco trionfale, basilica di Santa Maria Maggiore, Roma, 432-440. 146 Fig. 32. Dittico delle cinque parti, Museo del tesoro del duomo, Milano, 461 circa. Le possibili interpretazioni formulate in questi ultimi anni hanno avuto come punto di partenza il presupposto che si trattasse di composizioni basate su una logica associativa. Le proposte postulate per l’arco di Santa Maria Maggiore sono state numerose: da una proclamazione efesina423 a un manifesto ecclesiologico424 , da una 423 Wilpert, “La proclamazione efesina”, pp. 197-213; Marini Clarelli, “La controversia nestoriana”, pp. 323-344. 424 Christe, L’Apocalypse de Jean, pp. 66-71. 147 decorazione legata al De Civitate Dei425 a un programma politico426 , passando per un riferimento più o meno esplicito alla mistica imperiale427 . Come osserva giustamente Maria Raffaella Menna, autrice di una fondamentale sintesi sulle decorazioni di Santa Maria Maggiore, forse tutte queste letture – spesso plausibili e ben argomentate – possono essere considerate anche complementari. Il dato essenziale è però che, a livello di metodo, gli studi hanno cercato di costruire un’unità semantica che superasse l’evidente disagio cronologico428 . Simile è la situazione del dittico delle Cinque parti per il quale Zuzana Frantová spiega la scelta degli episodi come un manifesto di ortodossia calcedoniana429 . Infine, per quanto riguarda la lipsanoteca di Brescia, uno degli schemi più coerenti per spiegarne la composizione è stato individuato nelle prediche di Ambrogio da Milano, che avrebbero dato un’unità a una serie di episodi altrimenti molto eterocliti430 . In tutti questi casi la struttura semantica ipotizzata è stata una logica associativa ma programmatica. Simile, forse, a quella di un canzoniere, dove l’insieme delle canzoni è costruito in una struttura dialettica, ma è impossibile individuarvi una linea narrativa simile a quella della prosa. I dati in nostro possesso indicano che tale meccanismo doveva essere presente anche nella struttura delle porte di santa Sabina. In questo caso, come d’altronde anche sull’arco di Santa Maria Maggiore, i diversi tipi di strategia narrativa e associativa, sembrano sovrapporsi. In questo senso credo che non sia difficile immaginare, come già supponeva Darsy, che lo sfondo culturale di questa struttura mentale sia da cercare nell’omiletica dei Padri della Chiesa431 . Non si tratta però soltanto di una costruzione semantica, ma della stessa struttura del pensiero dove un concetto attira 425 Brodsky, “L’iconographie oubliée”, pp. 413-504. 426 Krautheimer, Roma, pp. 61-66. 427 Grabar, L’empeur, pp. 199-200; 209-229. 428 Menna, “I mosaici di Santa Maria Maggiore”, p. 310. 429 Frantová, Heresy and Loyalty, (in corso di stampa). 430 Watson, “The program of the Brescia casket”, pp. 283-298. 431 Darsy, Santa Sabina, p. 69. 148 immediatamente una serie di altri riferimenti. Questo tipo di logica può essere esemplificato, a titolo di esempio, in un testo di Ambrogio, il suo Commento ai dodici salmi, per spiegare il salmo XLIII: “Certo, Mosè ci ha insegnato a sollevare le mani al Signore stabilendo le regole di una devozione cultuale. Ci ha insegnato come fare a sconfiggere la scaltra dialettica di Amalec, per sollevare la nostra vita e le nostre opere verso Cristo. Ci ha detto che così potevamo distruggere l’incredulità. Se invece abbattessimo il nostro spirito, incurvassimo la volontà e distogliessimo le nostre forze dalla ricerca della continenza, così da farci vincere da falsi ideali, non ci sarebbe alcun rimedio. A meno che Gesù non risollevasse le braccia di Mosè, ormai ricadute, come la debolezza della legge, e le sostenesse con la sua misericordia. Ma troppo debole sarebbe stato il soccorso della legge, se Gesù non fosse venuto di persona sulla terra a prendere su di sé le nostre debolezze. Era il solo cui i nostri peccati non sarebbero riusciti ad appesantire né curvare le braccia. Si è curvato lui invece, al livello della morte, e della morte in croce. Ma sulla croce, spalancando le sue braccia, ha rialzato tutto il mondo dal suo destino di morte; ha sollevato chi stava a terra ed ha attratto a sé il fedele di tutte le nazioni, dicendo all’uomo: Oggi sarai con me in paradiso432 ”. 432 “Docuit quidem nos Moyses levare ad Dominum manus, pii cultus instituens disciplinam. Docuit quemadmodum Amalech versutiloquus vinceretur; ut mores nostros et opera levaremus ad Christum, sic destrui posse perfidiam: sin vero deiiceremus animam, inclinaremus affectum, et a continentiae studio averteremus ingenium, ut persuasio nos vana superaret; nullum remedium futurum, nisi Iesus depressa iam brachia Moysi, tamquam infirmitatem Legis attolleret, et sua misericordia sustineret. Sed infirmum adhuc fuisset Legis auxilium; nisi ipse Iesus venisset in terras, qui in se nostras susciperet infirmitates, quem solum nostra peccata gravare non possent, nec inclinare manus eius: qui se inclinavit usque ad mortem, mortem autem crucis, in qua expandens manus suas, totum orbem qui erat periturus, erexit: levavit iacentes, atque ad se omnium gentium fidem traxit, dicens homini: Hodie mecum eris in paradiso”. Ambrogio, Commento ai dodici salmi, XLIII, 11; pp. 98-99. 149 Commentando un salmo che celebra il Signore trionfante Ambrogio ricorda, per ragioni ovvie, la vittoria su Amalec. Il gesto delle braccia alzate basta però al vescovo milanese per associare la battaglia veterotestamentaria alla crocifissione e al ruolo salvifico di quest’ultima. Potremmo leggere questo passaggio come semplice dialogo tipologico tra i due Testamenti, ma la maniera in cui la narrazione si costruisce testimonia il fenomeno descritto prima: le idee vengono affiancate per associazione molto più libera e immediata. D’altro canto, il collegamento quasi visuale dei due episodi ha ovviamente anche senso in tutta la metastruttura del commento a un salmo che celebra la vittoria del Dio dell’Antico Testamento. Tornando ora alle porte di Santa Sabina chi ne ha concepito le decorazioni doveva aver pensato a una struttura dove, grazie a elementi visivi ma anche a riferimenti concettuali, venivano a sovrapporsi due livelli. In prima battuta una narrazione cronologica, alternata a quella tipologica, che forniva un quadro d’insieme agli episodi. Più importante però appare la seconda che collega l’insieme costruendo, attraverso molteplici riferimenti ai libri sacri, un unico “canzoniere”, i cui concetti centrali sono il catecumenato, il digiuno e l’iniziazione cristiana. Il racconto lineare – pur lacunoso – è la prima organizzazione che lo spettatore individua e ha perciò sedotto la ricerca per anni: da Wiegand nel 1900 a Tsuji sessant’anni dopo, gli studi hanno cercato di costruire un programma tipologico in questo senso433 . Nel 1980, considerata l’assenza di dieci pannelli, Jeremias ha semplicemente rinunciato a un tentativo di lettura unitaria, pur accennando al fatto che in antico tale struttura dovesse esistere434 . Lo schema è stato in parte messo in discussione nel 1991 da Spieser che ha riconosciuto una terza categoria di pannelli – quelli escatologici – che dovevano a suo parere chiudere la narrazione a somiglianza dell’abisde che conclude 433 Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, pp. 126-134; Tsuji, Étude iconographique, pp. 327-341. 434 Jeremias, Die Hotztür, pp. 108-110. 150 i racconti della navata435 . Invece, pur non negando che sulle porte vi sono certamente alcuni filoni narrativi, credo sia il secondo livello a essere più importante: quello del metadiscorso iniziatico che si svela soltanto nel corso della preparazione alla Pasqua, ma che dà un significato più complesso e congiunto agli episodi raffigurati. Parimenti alla catechesi catecumenale, le porte costruiscono quindi un insieme polisemantico il cui significato si svela mano a mano che il neofita riceve gli insegnamenti e le varie tappe dell’iniziazione. Soltanto alla fine di questo processo, una volta vissuto il battesimo e l’eucaristia, egli potrà comprendere tutti i significati del rito vissuto. Non vi sono ovviamente prove documentarie che vadano in questo senso, ma è seducente immaginare che il nartece di Santa Sabina servisse anche ad accogliere le catechesi mistagogiche postbattesimali. Di fronte alle porte, il vescovo avrebbe dunque potuto spiegare ai neofiti – come faceva Ambrogio pochi decenni prima –, ricordando i momenti salienti della Bibbia, i riti iniziatici vissuti. È impossibile oggi provare la veridicità di quest’ultima affermazione, ma perché non immaginare che il lussuoso spazio del nartece potesse avere anche questa ulteriore funzione? 435 Spieser, “Le programme”. 151 V. Stile e Retorica V. 1. Stili e maniere: problema storiografico e realtà materiale Nel capitolo introduttivo ho ricordato che, dopo iniziali discussioni, ancora nel corso dell’Ottocento, si era giunti alla conclusione che la porta di Santa Sabina dovesse essere datata agli anni della costruzione della basilica. Nikodim Kondakov, il cui contributo è considerato centrale dalla critica per l’attribuzione della porta al secondo quarto del V secolo, era però convinto che, viste le importanti differenze di stile, alcuni pannelli – Kondakov menziona soprattutto quello dell’ascensione di Elia – dovevano essere il risultato di un restauro posteriore, forse moderno436 . La tesi, accolta in un primo momento, è successivamente stata accantonata. Soprattutto negli anni sessanta, grazie agli studi di Ernst Kitzinger e all’epocale mostra Age of Spirituality, si è infatti fatta strada l’idea di un’arte tardoantica sempre più polimorfa, nella quale stili diversi potevano coesistere in un unico monumento437 . Non a caso, negli studi più importanti degli ultimi trent’anni dedicati alla basilica, gli autori hanno finito per accordarsi sulla tesi che – malgrado le grandi diversità formali – i pannelli conservati fossero tutti contemporanei alla costruzione della porta438 . Gisella Jeremias li ha distinti in due gruppi: il più importante include tutti i dieci pannelli del Nuovo Testamento, gli episodi dell’Esodo e il cosiddetto pannello dell’Acclamatio, mentre sarebbero da ascrivere a un secondo gruppo i pannelli di Elia, di Abacuc, della Trasfigurazione e quello della parusia439 . La suddivisione, sostenuta anche da 436 Kondakov, Les sculptures de la porte, p. 372. 437 Kitzinger, Byzantine art in the making; Age of spirituality. 438 Sono di questo parere tutti gli studi importanti degli ultimi anni che si pronunciano sulla questione cfr. Jeremias, Die Holztür, pp. 97-104; Cecchelli, “Le più antiche porte cristiane”, pp. 66-69; Ballardini, “La ‘crocefissione’”, pp. 270-272. Altri invece la danno per scontata cfr. Spieser, “Le programme iconographique”; Kemp, Christliche Kunst, 227-248; de Maria, “Il programma decorativo”. 439 Jeremias, Die Holztür, p. 97. 152 Antonio Iacobini, mi sembra a grandi linee convincente440 . Se intendiamo infatti per “stile” la maniera di eseguire le proporzioni, di scolpire i panneggi e la gestione dello spazio, i due gruppi si distinguono con chiarezza. Abbiamo, da una parte, una maniera caratterizzata da figure tarchiate, forti e robuste, grandi teste e mascelle pesanti, simili agli avori del cofanetto della Passione del British Museum (fig. 33-34), che sembrano un’ideale continuazione dell’estetica scultorea romana degli anni di Costantino441 . Fig. 33. Tradimento di Pietro (dettaglio), cofanetto Fig. 34. Ratto di Enoch (dettaglio), della passione, British Museum, Londra, porta lignea,basilica di Santa Sabina, 440-450 circa. Roma, 421-431. Gli estremi cronologici e geografici per questo gruppo sono forniti – se ci concentriamo sul V secolo – da tre avori datati e localizzati: il dittico di Probiano, 440 Iacobini, “Porta”, pp. 655-672. 441 Per il cofanetto della passione cfr. Wolfgang, “Nr. 116”, in Elfenbeinarbeiten der Spätantike, p. 82. 153 eseguito a Roma dopo l’anno 400, quello dei Lampadii, scolpito in Occidente nella prima metà del V secolo, e la tavoletta di Flavio Felice, prodotta a Roma nel 428 (fig. 35)442 . Fig. 35. Dittico consolare di Flavio Felice, Ancien trésor de l'Abbaye Saint-Junien de Limoges, 428. 442 Cfr. Volbach, ‘Nr. 62’, in Elfenbeinarbeiten der Spätantike, pp. 54-55; Id, ‘Nr. 54’, Elfenbeinarbeiten der Spätantike, pp. 50-51; Id, ‘Nr. 2’, Elfenbeinarbeiten der Spätantike, p. 30. 154 Il secondo stile (fig. 36), invece, è caratterizzato da figure allungate, da una grande raffinatezza dello scolpito e da una scioltezza di movimenti e un paesaggio finemente elaborato. È rappresentativo di questa maniera, più conforme alla tradizione del IV secolo, soprattutto il celeberrimo dittico dei Nicomaci e Simmaci, conservato oggi al Musée de Cluny di Parigi e al Victoria and Albert Museum di Londra, datato attorno all’anno 400443 . Per il movimento delle figure si pensi però soprattutto a modelli anteriori come, ad esempio, alla celebre Lanx di Parabiagio che risale alla metà del IV secolo (fig. 37)444 . Fig. 36. Assunzione di Elia Fig. 37. Lanx di Parabiagio, (dettaglio), porta lignea Museo archeologico, Milano, 388. basilica di Santa Sabina Roma, 421-431. 443 Painter, “68 Dittico dei Nicomaci”, pp. 465-467; Id., “69 Dittico dei Nicomaci”, pp. 467-468. 444 Caporusso, “125. Lanx di Parabiagio”, pp. 501-502, 155 Se, però, riflettendo sulla nozione di stile usiamo come criterio la qualità di esecuzione la situazione si complica. Prima di proseguire credo quindi sia necessaria una precisazione terminologica: contrariamente alla situazione attuale, nella quale i due termini hanno subito, un sostanziale amalgama, è necessario distinguere qui tra “maniera” e “stile”445 . Per “maniera” vorrei intendere – sulla scia del significato datole da Vasari – quella serie di caratteristiche formali che rendono unica la grafia di un maestro o, per il mondo tardoantico e medioevale, di una bottega446 . Per “stile” vorrei invece far ricorso al valore che questo termine aveva nel Seicento quando veniva usato per designare il livello retorico utilizzato447 . Fig. 38. Lato anteriore (dettaglio), cofanetto di Pula/Samagher, Venezia, 430 circa. 445 Per uno sviluppo generale di questi due termini nella critica moderna, ma anche per la progressiva riduzione semantica del termine “stile” cfr. Michel, “Manière, style, faire”. 446 Il primo a usare il termine di maniera in questo senso fu in realtà, alla fine del Trecento, Cennino Cennini nel suo Libro dell’arte, fu però proprio Vasari a consacrare il termine in modo esplicito fin dal proemio: “Perché, oltra che nella Introduzzione rivedranno i modi dello operare, e nelle vite di essi artefici impareranno dove siano l’opere loro, e a conoscere agevolmente la perfezzione o imperfezzione di quelle, e discernere tra maniera e maniera”, Cfr. Vasari, Le vite, p. XY. 447 Michel, “Manière, style, faire”. 156 Grazie a tale slittamento semantico credo sia quindi possibile definire uno dei problemi chiave delle porte di Santa Sabina dove possono essere individuate delle variazioni di “stile” sostanziali in seno a un’unica “maniera”. Se guardiamo ai rilievi scolpiti da un punto di vista dello stile – che deve quindi includere i criteri di qualità di esecuzione, ma anche di dinamica presente nelle varie immagini e la composizione in senso ampio – si delineano tre gruppi. Il primo comprende gli otto pannelli del ciclo della Passione – inclusa la scena dell’adorazione dei Magi – la cui esecuzione semplificata e approssimativa può essere paragonata ai pannelli laterali del cofanetto di Samagher, datato agli anni 420-430 (fig. 38)448 . Queste scene hanno una dinamica ridotta e la composizione dell’insieme è funzionale alla narrazione. Il solo elemento estetico che dà un ritmo generale a questi rilievi è rappresentato dalle mattonelle sullo sfondo della maggior parte delle scene. Vi è, poi, uno stile medio con i pannelli dei miracoli del Cristo, il ciclo con le scene di Mosè nel deserto e l’immagine del passaggio del mar Rosso (fig. 39). Fig. 39*. Miracoli del Cristo, porta lignea, basilica di Santa Sabina, Roma, 421-431. 448 Cfr. la recente sintesi di Longhi, La capsella eburnea di Samagher. 157 Rispetto ai pannelli della Passione, lo scolpito è forse più preciso, le figure più equilibrate, anche se le peculiarità generali sono in fondo molto simili. Questi grandi pannelli hanno però un’ambizione estetica maggiore. In tutti e tre i casi, oltre alla composizione delle scene distinte, l’insieme forma dei disegni coerenti, costruiti con linee di forza tracciate attraverso i vari registri. È un aspetto particolarmente visibile nelle figure del Cristo, nei tre miracoli sovrapposti, dove il gesto della bacchetta – e della mano –, nell’alternanza da destra e sinistra, contribuisce a creare una sorta di movimento serpentinato (fig. 39). Nel pannello del passaggio del mar Rosso è la folla degli israeliti che sembra rispondere con un movimento a chiasmo a quello tracciato dalla bacchetta di Mosè. In questo modo il pannello è strutturato da una globale linea concava. Infine, i miracoli di Mosè nel deserto, si organizzano attorno a un asse centrale, che compone l’unità dei tre pannelli. Senza tentare un’interpretazione simbolica come quella abbozzata da Darsy nel 1961, è evidente che nei pannelli appena descritti sia insita una dinamica d’insieme maggiore di quella dei pannelli del primo gruppo e questo malgrado una qualità d’esecuzione e una maniera tutto sommato simili449 . In questo caso è importante chiedersi se lo spazio a disposizione non possa aver determinato la qualità dell’esecuzione e soprattutto questa dinamica d’insieme e se lo stile non sia quindi stato condizionato – per riprendere un paradigma caro a Gottfried Semper – dalla realtà materiale450 . Anche se così fosse, questo non cambierebbe nulla del fatto che lo “stile” è qui diverso nonostante la stessa “maniera”. Il terzo e ultimo gruppo – composto dalle teofanie di Mosè, dall’assunzione di Enoch (fig. 40) – è, infine, di qualità chiaramente superiore: anche quando, come nel caso del pannello di Mosè, le figure rimangono tarchiate e sproporzionate, il livello di rifinitura è alto. A questo gruppo appartengono anche – benché con una maniera 449 Darsy, “Les portes de Sainte Sabine : méthode d’analyse formelle”, pp. 450 Per le tesi di Semper ma anche per la sua ricezione moderna cfr. Semper, Der Stil; Gottfried Semper und Wien. 158 totalmente diversa – l’assunzione Elia, la visione teofanica, la Trasfigurazione e il ratto di Abacuc: benché le proporzioni dei personaggi siano radicalmente diverse, il livello di rifinitura, come pure la presenza del paesaggio mantengono uno standard qualitativo elevato (fig. 41). Fig. 40. Ratto di Enoch (dettaglio), Fig. 41. Assunzione di Elia (dettaglio), porta lignea, basilica di Santa Sabina, porta lignea, basilica di Santa Sabina, Roma, 421-431. Roma, 421-431. Inoltre, il movimento è molto più dinamico, e, soprattutto nel pannello di Mosè, compare anche un elegante paesaggio senza una precisa funzione narrativa. Come nel caso precedente, anche qui la costruzione dei pannelli è caratterizzata da linee che tagliano tutta la composizione: in due casi – le teofanie di Mosè e l’assunzione di Enoc – si tratta di un movimento a zig zag. Il pannello dell’assunzione di Elia ripropone una linea concava, mentre la visione teofanica è tutta costruita attorno a 159 una centralità assiale. Dato interessante, i pannelli di Abacuc e della Trasfigurazione sembrano rispondere a livello compositivo rispettivamente a quelli dell’Assunzione di Elia e della visione teofanica. Si ha quasi l’impressione che i due piccoli rilievi siano stati concepiti per completare visivamente i grandi pannelli, proseguendo anche il loro movimento. Riassumendo, per quanto riguarda dunque la qualità di esecuzione, e soprattutto il disegno generale, siamo probabilmente di fronte a tre “stili” principali. Se le porte di Santa Sabina sembrano essere caratterizzate da due maniere distinte, nei rilievi è stato con ogni probabilità fatto uso di tre stili. La domanda che tali considerazioni suscita è se è possibile stabilire quale criterio dava il “tono” alla composizione: se era cioè – come pare naturale allo spettatore moderno – la maniera o se fosse invece lo stile a essere l’elemento chiave per i rilievi delle porte. Il fatto che in una maniera unica – quella dei personaggi tozzi – vi siano diversi stili fa secondo me individuare proprio nello stile il criterio dominante: questo significa quindi che in un’unica bottega lo stile poteva essere variato con un fine preciso e consapevole. La differenza tra le proporzioni dei personaggi nei diversi gruppi potrebbe essere spiegata – con Kitzinger, ma anche con Hölscher per quanto riguarda l’arte antica – in base all’uso di modelli diversi451 . La stessa coesistenza di stili potrebbe ugualmente trovare spiegazione nelle tesi di Kitzinger che ha provato che lo stile “ellenistico” poteva determinare la maniera di botteghe bizantine ancora nel VII secolo452 . Tuttavia, questo non risolve il problema che mi sembra più importante: pur se fossero stati eseguiti da botteghe diverse e, comunque, con modelli chiaramente diversi, i pannelli sono stati pensati per comporre un unico monumento. È possibile immaginare che tali differenze dipendano esclusivamente dalla scelta di un modello 451 Kitzinger, Alle origini dell’arte bizantina, pp. 109-114; Hölscher, Il linguaggio dell’arte romana, pp. 49-66. 452 Kitzinger, Alle origini dell’arte bizantina, pp. 117-120. 160 o da una tradizione formale? Se così fosse, questo significherebbe che la questione formale interessava relativamente poco il committente e che gli artigiani specializzati che hanno eseguito i pannelli di Santa Sabina li hanno associati senza tener conto della loro qualità di esecuzione, della loro dinamica, o delle loro divergenze formali. È una spiegazione che non mi convince: le differenze tra livelli decorativi sono troppo evidenti per poter essere risolte/motivate soltanto con/da prototipi diversi, senza chiedersi che effetto estetico questo potesse avere e, soprattutto, come quest’ultimo fosse percepito dai contemporanei. Dalle fonti d’epoca si deduce che l’uomo tardoantico percepiva probabilmente le differenze di stile analogamente al modo in cui le percepiamo noi oggi, la scelta di maniere e di stili diversi doveva pertanto essere consapevole453 . Può fungere da prova la reazione di Girolamo di fronte ai ritratti imperiali ai quali, in seguito a una damnatio memoriae, veniva modificato il volto. Il dottore della Chiesa descrive questi cambiamenti come interventi soprattutto formali454 . Si tratta di un dato confermato, secondo Federico Zeri, dalla spoliazione – razionale ed estetica – compiuta per la costruzione dell’arco di Costantino: secondo lo studioso la scelta di stili diversi era consapevole perché riconoscibile dallo spettatore romano455 . Va in questo senso, infine, anche la recente analisi di Jaś Elsner456 . V. 2. La nuova retorica cristiana? Considerata questa situazione, come spiegare l’apparente disarmonia stilistica sulle porte di Santa Sabina? Il primo dato importante da rilevare è che la polifonia stilistica presente sulle porte non è, in ambito antico e tardoantico, unica. Per quanto riguarda l’arte romana la coesistenza di stili diversi in un unico monumento è stata studiata 453 Cf. in questo senso Steward, “Continuity and Tradition”, pp. 27-42. 454 Gerolamo, In Abacuc, 2, 3, 14, PG 25, coll. 1329. 455 Zeri, L’arco di Costantino, pp. 70-80. 456 Elsner, “From the culture of spolia to the cult of relics”, pp. 149-184. 161 nel già ricordato saggio di Tonino Hölscher457 . Hölscher si è dedicato nella sua analisi soprattutto alla scultura antica ma se si prende in considerazione un monumento come il Cubicolo B della Villa della Farnesina, conservato oggi al Palazzo Massimo alle Terme, si ha l’impressione che una polifonia di maniere e stili completamente diversi fosse assolutamente naturale anche in pittura. Negli ultimi decenni del primo secolo a.C., in unico livello pittorico, si possono così trovare maniere e stili completamente diversi: il I stile – che coincide con il momento dell’esecuzione – ma anche il III stile e soprattutto delle lekythoi in perfetto stile attico, mimetica imitazione della maniera propria dello stile del V secolo a.C.458 . Ho provato a dimostrare altrove quanto questa situazione si presentasse anche in altre decorazioni monumentali coeve come il mausoleo di Sant’Aquilino, il sacello di San Vittore in Ciel d’Oro a Milano, nel cosiddetto mausoleo di Galla Placidia a Ravenna o ancora nei mosaici della basilica dei Santi Cosma e Damiano a Roma459 . Lo stesso principio può essere osservato nei sarcofagi dove, spesso, i fianchi laterali sono eseguiti con uno stile molto diverso da quello del fronte principale. Si tratta ovviamente di una scelta pratica – i laterali hanno una funzione meno rappresentativa –, non di meno in questi monumenti, in un unico blocco di pietra, possono essere visibili in contemporanea due stili distinti 460 . Inoltre, in alcuni casi, anche le decorazioni del coperchio hanno peculiarità formali e compositive decisamente diverse da quelle della cassa461 . Limitandosi quindi, in questa sede, a oggetti più vicini dal punto di vista tecnico alle porte di Santa Sabina, i rilievi scolpiti in avorio, è possibile costatare che tra la fine del IV secolo e i primi decenni di quello successivo troviamo almeno tre esempi importanti in questo senso. Mi riferisco alla lipsanoteca di Brescia, datata con ogni 457 Hölscher, Il linguaggio dell’art romana. 458 Cfr. la recente scheda con relativa bibliografia di Boldrighini, “287. Villa della Farnesina”, pp. 400-402. 459 Foletti, “Physiognomic representations as a rhetorical instrument”; Id., “Il trionfo della figura”; Id., “Maranatha: spazio, liturgia e immagini”. 460 Cfr. ad esempio Dresken-Weiland, Repertorium, n. 30; 138; pp. 13; 47-48. 461 Si pensi, a titolo d’esempio, alle decorazioni laterali del sarcofago di Sant’Ambrogio a Milano, cfr. Dresken-Weiland, Repertorium, n. 150; pp. 56-58. 162 probabilità all’ultimo quarto del IV secolo e conservata nel monastero di Santa Giulia a Brescia fin dall’Alto Medioevo (fig. 42), al cofanetto di Samagher (fig. 43), prodotto a Roma nel corso del secondo quarto del V secolo, e al dittico delle Cinque parti, conservato nel museo del Tesoro del duomo di Milano (fig. 32)462 . Fig. 42. Lato anteriore, lipsanoteca, museo di Santa Giulia, Brescia, ultimo quarto del IV secolo. 462 Per quanto riguarda la relativamente vasta bibliografia riguardo alla Lipsanoteca l’ultimo intervento sintetico è quello di Bertelli, “Gli avori tardoantichi”; tra i testi precedenti vorrei ricordare i contributi essenziali di Kollwitz, Die Lipsanothek von Brescia e di Watson, “The program of the Brescia casket”. Molto ampia è la bibliografia del cofanetto di Pola o Samagher, oltre al già ricordato Longhi, La capsella eburnea di Samagher, cfr. i lavori fondamentali di Buddensieg, Le coffret d’ivoire de Pola, e di Guarducci, La Capsella eburnea di Samagher. Per il dittico delle cinque parti cfr. la recente monografia di Frantová, Heresy and Loyalty e i saggi di Bovini, “Il dittico eburneo” e di Volbach, Avori di scuola ravennate, pp. 14-19. 163 La lipsanoteca resta per molti aspetti ancora enigmatica: è incerta la sua origine – la ricerca oscilla tra Milano e Roma quali soluzioni più plausibili – come pure la sua funzione463 . Fig. 43. Lato anteriore, cofanetto di Pula/Samagher, Venezia, 430 circa. Non è questa l’occasione per rispondere a queste domande, per quanto ci riguarda, però, sulla lipsanoteca si possono distinguere un’unica maniera e tre stili diversi464 . Il 463 Per l’origine milanese cfr. Watson, “The program of the Brescia casket”; per quella romana cfr. Kessler, “Scenes from the Acts of the Apostles”. 464 La Lispanoteca è in questo momento oggetto di uno studio monografico da parte del mio studente Adrien Palladino, che le dedica la sua tesi di laurea (La lipsanothèque 164 primo riguarda le scene maggiori sui quattro lati e il coperchio ed è caratterizzato da figure dalle proporzioni allungate (fig. 44). Eseguiti con molta finezza, i diversi personaggi sono disposti nello spazio con armonia. Nella maggior parte delle scene vi è una certa densità di figure – spesso spettatori – che conferiscono dinamismo alle scene. Il secondo stile, occupa tutte le fasce portanti del cofanetto, ed è contraddistinto da un rilievo più basso (fig. 45). Le figure restano allungate ma le teste si riducono, diventando sproporzionatamente piccole, inferiore è la qualità dell’intaglio, mentre lo spazio è affrontato in modo decisamente diverso. Similmente ad alcuni sarcofagi del IV secolo, su ogni fascia si accumulano diversi episodi narrativi, spesso senza una cesura visibile. Le figure sembrano staccarsi da uno sfondo piatto con il quale non interagiscono e i loro movimenti sono molto rigidi. Un terzo stile, anche se più difficile da caratterizzare, appare sui pilastri del cofanetto dove sono raffigurate alcune immagini simboliche. Visti soggetti iconografici piuttosto elementari è più complesso attribuirgli peculiarità identificative. Si ha però l’impressione di un lavoro eseguito con molta semplicità. Considerate le diverse dimensioni degli avori usati per scolpire, lo spazio a disposizione degli artigiani potrebbe aver determinato risultati formali diversi. Osservando però attentamente soprattutto la relazione tra figura e spazio, come pure il diverso dinamismo delle figure, credo sia legittimo parlare di tre stili. de Brescia et ses enjeux, Università de Losanna, tesi iscritta nel febbraio 2013). I risultati di questa ricerca saranno pubblicate nei prossimi mesi. 165 Fig. 44. Coperchio (dettaglio), lipsanoteca, museo di Santa Giulia, Brescia, ultimo quarto del IV secolo. Fig. 45. Scene dell’antico testamento (dettaglio), lipsanoteca, museo di Santa Giulia, Brescia, ultimo quarto del IV secolo. 166 Tale impressione è potenziata dal fatto che i tre stili delineati sono associati a tre tipi di soggetti: come già detto, lo stile più semplice è usato per immagini simboliche, quello di media qualità per immagini dell’Antico Testamento, mentre quello di qualità più alta per episodi della vita del Cristo e gli Atti degli apostoli. L’idea di uno stile formale associato a un certo tipo di argomenti rinvia a un processo semantico perfezionatosi nella retorica antica, così come è stata sviluppata in epoca romana, tra gli altri, da Marco Tullio Cicerone e da Quintiliano. Il primo aveva postulato la maniera in cui stili diversi vanno usati in un unico discorso: “Sarà dunque eloquente colui che sarà riuscito ad annunciare questioni piccole in modo semplice, questioni modeste in modo moderato, questioni importanti in modo sublime”465 . Il secondo aveva invece costituito un sistema in cui stili diversi sono legati a concetti specifici. Essi possono essere usati in un unico discorso a patto che i soggetti lo richiedano466 . Quintiliano è stato anche il primo a far dialogare la retorica oratoria e i diversi stili presenti in un monumento artistico467 . Sulla base del suo ragionamento è stata quindi proposta – con risultati convincenti – una più generale relazione tra l’uso contemporaneo di diversi stili all’interno di un unico monumento e l’arte oratoria468 . Un tale paradigma è stato riscontrato anche per l’Oriente cristiano469 . Considerato questo fatto le variazioni di stili sulla lipsanoteca di Brescia possono a mio parere 465 “Is erit igitur eloquens, qui poterit parva summisse, modica temperate, magna gran diter dicere”. Cicerone, De orat. 21, 69. 466 Quintillianus, Istitutio Oratoria, XII, 10, 16 e succ.; 58 e succ. Per la relazione tra la retorica di Quintilliano e l’uso di stili diversi nelle arti figurative cfr. Hölscher, Il linguaggio dell’arte romana, pp. 102-104. 467 Quintillianus, Istitutio Oratoria, XII, 10, 1 e succ. 468 Hölscher, Il linguaggio dell’arte romana, pp. 100-105 con la bibliografia precedente p. 104, n. 1. 469 Cfr. Maguire, Art and eloquence. 167 essere spiegate con uno schema concettuale simile: come in un discorso retorico a ciascun “gruppo” di concetti o soggetti è attribuito uno stile specifico. In altre parole – per usare termini canonici per la storia dell’arte – di legare in modo concettuale iconografia e stile. Fig. 46-47. Coperchio - Lato anteriore (dettaglio), cofanetto di Pula/Samagher, Roma, 430 circa. 168 Una situazione tutto sommato analoga si ripropone anche per il cofanetto di Pola e per il dittico delle Cinque parti dove si possono distinguere due stili dominanti. Nel cofanetto uno stile, caratterizzato da un rilievo più basso, da proporzioni relativamente allungate e da un’attenzione per i drappeggi, è utilizzato per il coperchio (fig. 46), mentre un secondo stile, con figure tarchiate, molto più statiche e ieratiche, occupa tutti i lati (fig. 47). In questo caso, però, è più complesso collegare i due diversi stili a gruppi semantici. Il coperchio rappresenta la cosiddetta Traditio Legis, con il Cristo attorniato da Pietro e Paolo470 . Sui lati si trovano scene la cui identificazione non è accertata univocamente. Quanto si può dire con relativa certezza è che tre di loro non sono tratte né da testi sacri e non sono neppure legate in qualche modo alle figure del Cristo e dei santi. L’interpretazione più comune che ne è stata data è che si tratti di raffigurazioni di importanti luoghi di culto romani, tra cui spicca quello della Passio di San Pietro in Vaticano471 . La scena sul quarto lato, pur non raffigurando un episodio tratto dalle sacre scritture, è direttamente legata al culto cristiano. Al centro della composizione, attorniata da sei apostoli cappeggiati da Pietro e Paolo, è scolpita una cattedra vuota. Immagine il cui significato non è stato ancora individuato in modo definitivo. Se ci riferiamo allora al significato generale di troni vuoti nell’iconografia tardoantica, la critica è concorde nel vedervi una raffigurazione non antropomorfa del Cristo472 . 470 Riguardo a quest’iconografia cfr. Foletti, Quadri, “Roma, l’Oriente e il mito della Traditio Legis”. 471 Sono d’accordo su questa interpretazione tutti gli autori considerati: Longhi, La capsella eburnea di Samagher, pp. 55-65 ; Buddensieg, “Le coffret d’ivoire de Pola”, pp. 158-163; Guarducci, La Capsella eburnea di Samagher, pp. 21-43. 472 A questo proposito cfr. le sintesi, con relativa bibliografia, di di Natale, Resconi, “L’immagine della cosiddetta ‘Etimasia’”; cfr. anche Foletti “Sicut in caelo et in terra”. 169 Fig. 48. Formella centrale, Fig. 49. Guarigione miracolosa, dittico delle cinque parti, dittico delle cinque parti, Museo del tesoro del duomo, Museo del tesoro del duomo, Milano, 461 circa. Milano, 461 circa. Milano, 461 circa. In questo senso il lato anteriore del cofanetto di Pola è semanticamente più vicino al coperchio di quanto non lo sia agli altri tre lati, a livello formale, invece, la situazione è opposta. Rispetto alla lipsanoteca di Brescia, quindi, almeno a un primo sguardo, non sembra esserci un diretto legame con le regole retoriche ciceroniane. Tale tendenza può essere osservata con molta più forza nel dittico milanese. La parte centrale – decorata da una croce gemmata e un agnello – combina la tecnica dello smalto cloisonné, con il quale sono eseguiti i due motivi centrali, con un rilievo eburneo di qualità estremamente raffinata (fig. 48). Gli episodi narrativi, che attorniano le placche centrali, sono scolpiti in maniera molto più approssimativa (fig. 49). Certo, anche in questo caso, si potrebbero invocare le diverse dimensioni dei pannelli, ma in realtà esse non possono spiegare la differenza di lavorazione. In particolare l’esecuzione dei panneggi risponde a due modi completamente diversi: nel caso delle placche centrali le pieghe sono scolpite per creare un rilievo ondulato e 170 mimetico, in quello delle scene narrative l’avorio è inciso come una linografia moderna. Per quanto attiene ai soggetti si tratta, in ogni caso, di immagini proprie del pensiero cristiano. I pannelli centrali rappresentano immagini più ieratiche, mentre quelli laterali contengono un ciclo narrativo. Rispetto ai tre esempi delineati la situazione delle porte di santa Sabina è per certi versi a metà strada. I diversi stili sono legati in generale a gruppi tematici: il primo è usato per la Passione, il secondo descrive i miracoli del Cristo e di Mosè, mentre il terzo raffigura le due assunzioni, la vocazione di Mosè, la visione escatologica del Cristo, oltre al ratto di Abacuc e alla Trasfigurazione. La logica con la quale gli stili sono associati alle tematiche non sembra però rispecchiare l’idea di “annunciare questioni piccole in modo semplice, questioni modeste in modo moderato, questioni importanti in modo sublime”473 . Il fatto che uno stile più raffinato e dinamico sia usato per descrivere l’ascensione di Elia, mentre l’annuncio della risurrezione del Cristo è scolpito nello stile più modesto sembra andare contro ogni logica teologica. Potrebbe certo trattarsi di casualità, leggendo però attentamente un testo fondamentale per lo sviluppo del pensiero cristiano di quegli anni, il De Doctrina Christiana di Agostino da Ippona, l’apparente disordine riacquista una logica474 . Composto alla fine del IV secolo e rielaborato agli inizi del secolo successivo lo scritto di Agostino, che vuole suggerire agli oratori in che modo far uso della retorica in ambito cristiano, capovolge letteralmente la logica di Cicerone475 . Il vescovo di Ippona comincia il suo ragionamento chiedendosi se i criteri antichi conservino ancora tutta la loro validità. Dopo attenta riflessione, la sua risposta è negativa: nella logica cristiana non esistono infatti soggetti di minor importanza. 473 “Is erit igitur eloquens, qui poterit parva summisse, modica temperate, magna gran diter dicere”, Cicerone, Orator, p. 833. 474 Agostino, La dottrina cristiana; Auerbach, Lingua letteraria e pubblico, pp. 37-38. 475 Per la complessa datazione dell’opera cfr. Luigi Alici, “Introduzione”, p. 26, n. 3. 171 … poiché ogni discorso, soprattutto quel che diciamo davanti al popolo (…), deve esser riferito alla salvezza degli uomini, beninteso quella eterna, (…) le questioni che annunciamo sono tutte importanti. (…) non si debbono considerare piccole nemmeno le affermazioni che il dottore della Chiesa fa intorno a questioni di denaro476 . Poiché la conversione e la conseguente salvezza dell’anima possono avvenire per qualsiasi ragione, la gerarchia tradizionale tra ciò che è considerato nobile e quanto invece è percepito plebeo crollano. Agostino, cresciuto nella retorica tradizionale, non nega però l’esistenza e l’utilità dei diversi stili. Quanto egli propone è, semplicemente, di farne un uso che tenga conto del fatto che la Grazia – questo elemento così caro ad Agostino – può agire per vie completamente indipendenti dallo stile. Quando un (…) dottore dovrà annunciare questioni importanti, deve farlo non sempre in modo sublime, ma in modo semplice, quando insegna e in modo moderato, quando rimprovera ed elogia; quando poi c’è un’azione da compiere e ci rivolgiamo a quelli che devono compierla, ma non vogliono farlo, allora le questioni importanti debbono essere annunciate in modo sublime (…). Di volta in volta, comunque, una medesima questione importante si annuncia in modo semplice, quando si insegna; in modo moderato, quando si predica; in modo sublime quando urge orientare alla conversione l’anima volta altrove477 . 476 “Haec autem tria ille, sicut ab eo dicta sunt, in causis forensibus posset ostendere; non autem hoc est in ecclesiasticis quaestionibus, in quibus huiusmodi, quem volumus informare, sermo versatur. In illis enim ea parva dicuntur, ubi de rebus pecuniariis iudicandum est; ea magna, ubi de salute ac de capite hominum”. Agostino, La dottrina cristiana, IV, 18, 35; p. 323. 477 “Et tamen cum doctor iste debeat rerum dictor esse magnarum, non semper eas debet granditer dicere, sed summisse cum aliquid docetur, temperate cum aliquid 172 Considerate da questo punto di vista le decorazioni della porta di Santa Sabina, ma anche gli avori del cofanetto di Pola o il dittico delle Cinque parti, assumono un significato nuovo. L’uso di stili diversi è cosciente, la gerarchia tradizionale è però almeno in parte annullata a favore di un linguaggio estetico più variegato che – almeno secondo i criteri agostiniani – dovrebbe risultare più incisivo, accattivante e persuasivo. Leggendo i testi di Cicerone e soprattutto di Agostino risulta ovvio che a fare la differenza tra i diversi stili ci sia una questione di qualità espressa sia dal lessico che dalla costruzione della frasi. Agostino parla di “modi” differenti. In senso letterario questa diversità poteva inoltre essere resa con strumenti metrici. Se si mette da parte, per un attimo, la questione dell’attribuzione, se si suppone cioè che lo scopo di chi ha eseguito i pannelli fosse quello di variare come un retore gli stili, la qualità d’esecuzione diventerebbe uno strumento chiaro per rendere esplicita tale intenzione. In altri termini e messe da parte le differenze di maniera, dovuta a differenze di bottega o di modelli, per una concezione unitaria è decisivo il livello stilistico. Questa tesi è sostenuta, indirettamente, da quanto osservato da Tonio Hölscher riguardo alle decorazione della villa dei Papiri. Lo studioso osserva infatti che in alcuni casi per tornare a uno stile arcaico, si ricorre a delle copie. In altri casi, però, si tratta di adattamenti di modelli antichi o addirittura di creazioni nuove, che cercavano di imitare un linguaggio antico478 . “È indicativo”, prosegue Hölscher, “che, in relazione alla funzione programmatico-contenutistica delle immagini, non si vituperatur sive laudatur. Cum vero aliquid agendum est, et ad eos loquimur, qui hoc agere debent nec tamen volunt, tunc ea quae magna sunt, dicenda sunt granditer, et ad flectendos animos congruenter. Et aliquando de una eademque re magna et summisse dicitur si docetur, et temperate si praedicatur, et granditer si aversus inde animus ut convertatur impellitur”. Agostino, La dottrina cristiana, IV, 19, 38; p. 326. 478 Hölscher, Il linguaggio dell’art romana, p. 57. 173 distingua tra riproduzioni fedeli e creazioni più o meno innovative: le varie novità di ricezione sono sullo stesso livello”479 . V. 3. Stile e iconografia Assumere la coesistenza di stili diversi in seno a unica composizione per renderla più efficace mi sembra centrale per la comprensione della concezione delle immagini tardoantiche: nel caso della porta di Santa Sabina si tratterebbe di un ulteriore artificio per attirare lo sguardo dello spettatore e catturare la sua attenzione per un periodo prolungato di attesa. C’è però un altro/secondo dato importante che si può dedurre da questo fatto: grazie all’ordine che presuppone una riflessione retorica, credo sia possibile aggiungere elementi nuovi al tradizionale dibattito su come erano disposti in origine i pannelli della porta di Santa Sabina480 . Come dimostrano sia il caso della lipsanoteca di Brescia che quello del cofanetto di Samagher o del dittico delle Cinque parti – ma anche secoli più tardi dell’altare aureo di Sant’Ambrogio – l’uso dei diversi stili era determinato da un ordine visivo. Immagini di stile simile erano cioè messe le une accanto alle altre. Quanto vorrei perciò fare in questa sede è proporre una lettura che non ha per ora trovato spazio nella critica, facendo precedere all’analisi dei contenuti quella della forma. Si tratta di dare ai rilievi un ordine che non sia determinato solamente da una “logica” iconografica, ma che tenga invece conto della logica visiva, senza la quale un oggetto estetico non ha senso. Vista la struttura della porta, dove si alternano registri con pannelli più piccoli, orizzontali, con quelli composti da grandi pannelli verticali vorrei prima di tutto ricostituire i singoli registri. Solo in un secondo momento cercherò di presentare una nuova ricostruzione complessiva di tutta la porta. 479 Hölscher, Il linguaggio dell’art romana, p. 57. 480 L’ultimo e molto articolato tentativo di ordinare i pannelli, malgrado i 10 pannelli mancanti è stato quello di Spieser, “Le programme iconographique” che ha cercato di costruire un ordine basandosi esclusivamente su dati iconografici. 174 Prima di entrare nel merito di una riflessione concettuale sulla struttura generale delle porte, è importante osservare che i pannelli nella situazione attuale occupano pressappoco i cinque registri superiori dei battenti, lasciando così libera tutta la parte inferiore. La ragione potrebbe essere semplicemente pragmatica: anche se in un ordine diverso rispetto a quello originale, è logico che i pannelli conservati si trovino nella parte superiore, visto che pannelli inferiori erano certamente maggiormente soggetti a contatti involontari e quindi alla distruzione. Si tratta di un dato confermato anche sul retro della porta dove, pur con maggiori elementi antichi conservati, i pannelli distrutti corrispondono perlopiù alla parte bassa. L’assunto sul quale vorrei basare il ragionamento successivo è quindi che sono andati persi soprattutto i pannelli inferiori e che, di conseguenza, siamo in presenza di una parte rappresentativa e completa delle porte che, con ogni probabilità, erano organizzate proprio seguendo i registri orizzontali481 . La domanda riguardo all’occupazione dei due registri inferiori resterà – a meno di scoperte sensazionali – senza una risposta. Mi chiedo, però, se le stesse ragioni pratiche di vulnerabilità della parte inferiore non abbiamo spinto i loro realizzatori a riservare a questa zona un rilievo più basso, ornato forse con elementi geometrici la cui resistenza è certamente maggiore. L’ipotesi che vorrei pertanto proporre è che – per quanto riguarda i pannelli narrativi – la maggior parte di essi è conservata e, contrariamente a quanto concluso da Gisella Jeremias, fonda un chiaro sistema retorico482 . 481 Su una struttura costruita sui registri orizzontali si basa anche il ragionamento di Spieser Spieser, “Le programme iconographique”, pp. 74-80. La sola altra lettura “strutturale” proposta è stata quella di Kemp che oltre ad una narrazione orizzontale, vedeva anche una possibilità di lettura più concettuale basata sulle linee verticali cfr. Kemp, Christliche Kunst, pp. 227-249. 482 Jeremias, Die Hoztür, pp. 109-110. 175 Ammesso che all’origine tutti gli spazi fossero decorati da immagini, vi sono oggi dieci pannelli piccoli conservati su sedici originali, mentre esistono ancora otto dei dodici rilievi antichi483 . Partendo dai registri minori un gruppo coerente – sia dal punto di vista formale che da quello concettuale – è quello delle storia della Passione del Cristo, caratterizzato da figure tozze e da una qualità di esecuzione piuttosto bassa. Esso può essere completato con il pannello dell’adorazione dei Magi, formalmente perfettamente coerente con i sette pannelli della morte e risurrezione: questi otto pannelli possono formare un gruppo unico. Si tratta di un dato rafforzato anche dall’interpretazione iconologica proposta in questa sede, che cioè il pannello dell’epifania può essere letto anche in chiave pasquale484 . Alla stessa conclusione era giunto per altre ragioni anche Jean-Michel Spieser che ha proposto di disporre questi pannelli su due registri, in assetto cronologico 485 . Questa soluzione sembra convincente. I due registri della Passione sarebbero quindi così ordinati: adorazione dei Magi, annuncio del tradimento di Pietro, Cristo davanti a Caifa e Cristo condannato da Pilato occuperebbero un primo registro. Il secondo sarebbe invece costituito dalla Crocifissione, seguita dalle Pie donne al sepolcro, dall’incontro delle donne con il Risorto e, infine, il Cristo mentre appare ai discepoli. Il terzo registro che doveva essere composto da pannelli piccoli comprende il ratto di Abacuc e la scena della Trasfigurazione. In questo caso la coerenza è conferita dalla qualità dei pannelli, ma non vi è nessun apparente legame concettuale. Come visto in precedenza, però, l’episodio di Abacuc assume il valore di un richiamo del digiuno. Se completato poi da quello di Daniele, come proposto da Spieser, i due pannelli possono essere letti come una meditazione sulla morte e risurrezione del Cristo486 . La 483 Come dimostrato convincentemente da Sahoko Tsuji l’ordine attuale dei pannelli come pure il loro numero non è variato dalle più antiche fonti documentarie note. Dalla seconda metà del Cinquecento, con ogni probabilità, la situazione della porta era già pressoché identica a quelle attuale cfr. Tsuji, Étude iconographique, p. 8. 484 Cfr. qui sopra cap. III, pp. 177-178. 485 Spieser, “Le programme iconographique”, pp. 75-78. 486 Spieser, “Le programme iconographique”, pp. 76. 176 stessa tematica è quindi presente anche nel pannello oggi scomparso, ma noto grazie al Codex Vaticanus lat. 11885, di Giona487 . Questa proposta resta ovviamente ipotetica, visto che non possiamo farci un’idea della maniera in cui furono scolpiti i due pannelli mancanti. Uno sguardo alla tradizione di questi due episodi ci fa pensare che essi si sarebbero integrati bene in questo registro: rappresentati spesso nudi, i due personaggi avevano nella maggior parte dei casi conservati, soprattutto per quanto riguarda i sarcofagi, le fatture di atleti ellenistici (fig. 50)488 . Fig. 50. Daniele, sarcofago, fine III secolo. Sembra staccarsi da tale logica l’immagine della Trasfigurazione, se teniamo però in considerazione la recente analisi di Filipová, anche questo episodio può trovare una spiegazione in questo contesto489 . La studiosa ha dimostrato che la Trasfigurazione e l’annuncio della crocifissione ai discepoli sono episodi molto prossimi nel testo 487 Jeremias, Die Holztür, p. 47. 488 Cfr. Dresken-Weiland, Repertorium, n. 12; 171; pp. 5-6; 67. 489 Filipová, “Santo, Vescovo e Confessore”, pp. 437-438. 177 evangelico e, soprattutto, venivano letti, fin dal IV secolo, nella stessa occasione. Ne è traccia quanto mai esplicita un sermone di Agostino che affronta i due soggetti in contemporanea490 . L’esegesi dei Padri della Chiesa va oltre e finisce per considerare i due episodi legati anche da un punto di vista semantico: la Trasfigurazione diventa così l’occasione per celebrare la vittoria della croce491 . In questo senso anche il pannello della Trasfigurazione entra quindi nella generale riflessione sulla morte e la risurrezione del Cristo, come gli episodi precedenti. Riguardo ai registri maggiori il primo è costituito dai due pannelli dei miracoli del Cristo e di quelli di Mosè nel deserto. A essi va aggiunto anche il miracolo del passaggio del mar Rosso. Come anticipato nel capitolo precedente, credo che sarebbe legittimo immaginare che lo spazio mancante fosse occupato da una scena a forte connotazione battesimale, probabilmente il battesimo del Cristo. Il secondo registro è più complesso da comporre. Le quattro scene conservate – gli incontri di Mosè con Dio, le assunzioni di Elia e di Enoch e, infine, la Teofania – sono l’esempio perfetto della situazione descritta qui sopra: siamo di fronte a due maniere diverse, lo stile usato è però uno solo, quello alto e dinamico. Questa situazione permette inoltre di capire meglio – concentrandosi sui due episodi di assunzione – il meccanismo che potrebbe essere alla base della presenza di modi diversi nelle varie scene: l’immagine di Elia risponde infatti a un chiaro modello di apoteosi antica, soprattutto vista la presenza del carro, trascinato in cielo, che è lo stesso usato nelle apoteosi imperiali492 . Seguendo le tesi di Kitzinger, con ogni probabilità lo stile è 490 Augustinus, “Sermo 78”, coll. 490-493. 491 Giovanni Crisostomo, Omelie sul vangelo di Matteo, pp. 439 s. 492 Per un’apoteosi, d’inizio V secolo, simile a quella di Elia cfr. l’apoteosi di Simmaco; St. Clair, The Apotheosis Diptych; Volbach, Elfenbeinarbeiten der Spätantike, n. 56, p. 52. Per le apoteosi imperiali cfr. Chalupa, “How did roman emperors”. È importante in quest’ottica anche l’esempio dell’apoteosi dell’arco di Tito: Norman, “Imperial triumph”. 178 determinato da un modello pagano493 . Nel caso dell’assunzione di Enoch, descritta negli apocrifi e discussa nella patristica, non esistevano, molto probabilmente, precedenti antichi. Il solo modello plausibile – come detto nel corpus in fondo al volume (! 7) – poteva essere quello dell’Ascensione del Cristo. All’inizio del V secolo è, però, impensabile rappresentare l’Ascensione del dio cristiano nella stessa maniera in cui sono raffigurate le apoteosi di divinità pagane494 . Per forza di cose è quindi introdotto uno schema in parte innovativo ma soprattutto diverso dalle apoteosi tradizionali495 . A Santa Sabina la composizione generale imita, da un punto di vista iconografico, un’ascensione come quella dell’avorio di Monaco (fig. 28)496 . Per quanto riguarda lo stile, essa fa uso di un registro alto, dello stesso livello del pannello di Elia. Un discordo simile può essere formulato anche per il pannello con la vocazione di Mosè: pur riprendendo in parte schemi precedenti, viene costruita un’immagine nuova che conoscerà un discreto successo nei secoli successivi497 . Anche in questo caso, quindi, è la qualità dell’intaglio e la sofisticata composizione dinamica a dimostrare l’uso di uno stile elevato. Tale costruzione trova una logica anche a livello iconografico, visto che l’insieme del gruppo è unito da un movimento ascendente che ha come scopo ultimo quello di una visione di Dio. In tre casi è soprattutto il movimento a essere enfatizzato e la presenza divina è rappresentata in maniera più o meno velata, sotto forma di roveto ardente, angelo o mano divina. 493 Kitzinger, Alle origini dell’arte bizantina, pp. 109-114; 117-120. 494 Gutberlet, Die Himmelfahrt Christi; Saxer, Heid, “Ascensione”; Mentré, Regnault, “Ascension”. 495 Per la necessità di rompere con gli schemi pagani all’inizio del V secolo – una necessità che scompare nel corso del secolo, come dimostra l’apparizione del Giordano personificato nelle scene del battesimo – cfr. Spieser, “Les répresentations du Baptême”, pp. 79-84. 496 Più in generale per questa questione cfr. il corpus ! 7. 497 Si pensi, a titolo d’esempio, alla composizione di San Vitale a Ravenna, dove il mosaico riprende fedelmente le tre tappe presenti anche sulle porte (! 13). Per San Vitale cfr. Mauskopf Deliyannis, Ravenna, pp. 223-250; 246. Per una discussione più ampia sui modelli e sul seguito di questa composizione cfr. Tsuji, Étude iconographique, pp. 25-52. 179 Nell’ultimo caso, invece, i principi degli apostoli, sono immersi, con Sabina al centro, in una vera e propria visione escatologica. Non trova spazio nei vari registri descritti, a livello dello stile, la così cosiddetta scena dell’Acclamatio. Essa appartiene, a livello della forma, al gruppo dei pannelli piccoli con la Passione del Cristo. Per ovvie ragioni non può essere inclusa nei due registri maggiori descritti qui sopra. Seguendo una buona parte della critica, sono d’accordo nel vedere in questo episodio un’immagine non biblica, con ogni probabilità la raffigurazione del committente (! 14). A livello del contenuto quindi, seguendo quello formale, il presente pannello non rientra in nessuno dei registri fin qui descritti. V. 4. Un “ordine” nuovo Secondo la mia proposta sono stati ricostruiti, in maniera ipotetica, cinque registri figurativi – di cui due incompleti – mentre un pannello, quello dell’Acclamatio, resta isolato. Due registri rimangono quasi completamente vuoti. In che ordine disporre questi registri? Considerata la loro natura eteroclita, come già costatato da Spieser, è impossibile cercare una lettura tipologica simile a quella delle basiliche di San Pietro e San Paolo498 . Nella sua attenta analisi, Spieser proponeva, sulla scia degli studi di Herbert Kessler, di dare un ordine “storico” ai pannelli: episodi dell’Antico Testamento, seguiti da quelli del Nuovo Testamento e, infine, immagini escatologiche499 . Nella riorganizzazione che ho ipotizzato i registri non seguono però questo ordine cronologico ma si avvicinano a una lettura tipologica, 498 Spieser, “Le programme”, p. 79. Per la primitiva decorazione delle basiliche romane cfr. Kessler, “Passovers in St. Peters”; Viscontini, “I cicli vetero e neo testamentari”; Spieser, “Le décor figuré”, p. 102. 499 Spieser, “Le programme”, p. 78; Kessler, “Pictures as scripture”, pp. 17-31. 180 sono – come nel caso delle scene della Passione – monotematici, oppure si orchestrano intorno a un concetto, come può esserlo la visione di Dio. Negli oggetti e monumenti citati – dalla lipsanoteca di Brescia all’arco di Costantino – gli stili usati hanno una logica interna non solo concettuale ma anche compositiva. Sull’arco di Costantino, per esempio, la produzione contemporanea è collocata nel registro più basso, sopra di essa sono i clipei di Marco Antonio, infine, nel registro superiore, le scene del foro di Traiano500 . In questo caso lo stile meno raffinato e più essenziale si trova vicino allo spettatore. Questa scelta è stata spiegata con la maggior attualità storica del ciclo delle vittorie di Costantino501 . Se provassimo a usare una chiave di lettura simile per le porte di Santa Sabina i tre registri inferiori, quelli più espressivi, sarebbero rispettivamente occupati dal ciclo della Passione e dai miracoli del Cristo e di Mosè. I registri di stile basso si alternerebbero – per rendere la narrazione più efficace e avvincente – con quelli di stile medio. Il quarto e il quinto registro sarebbero invece dedicati da episodi scolpiti con maggior raffinatezza e dinamismo, con – nella parte inferiore – le assunzioni di Elia e Enoch, l’incontro di Mosè con Dio, e la Teofania. Nel registro superiore sarebbero quindi raffigurati i profeti Abacuc, Giona e Daniele e, infine, la Trasfigurazione, dove accanto al Cristo appaiono altri due profeti: Mosè ed Elia. Le scene di Abacuc e della Trasfigurazione potrebbero tra l’altro essere poste rispettivamente sopra quella dell’Assunzione di Elia e della visione teofanica che sembrano completare a livello visivo, prolungando le loro rispettive linee di forza. Le porte riorganizzate in base a criteri formali e retorici appaiono quindi come un insieme coerente dove forma e contenuto sono inseparabilmente legati. Il primo registro racconta, con uno stile umile, l’operato del Cristo in Terra. Questa posizione può sembrare sorprendente, a una prima riflessione, per il mistero della Passione, molto meno se prendiamo in considerazione il fatto che la Passione non è un 500 Cfr. Arco di Costantino. 501 Zeri, L’arco di Costantino, pp. 67-74. 181 soggetto neutro e facile. Evidentemente, lo sguardo non deve essere distratto da finezze estetiche ma concentrarsi sul significato. Quello che conta è vedere la realtà della storia del Cristo, umana, semplice, efficace. Nel secondo registro si dà invece maggior spazio all’operato miracoloso di Dio in Terra, un argomento essenziale per la retorica cristiana: è presentato il Cristo-Mago, forse il battesimo del Cristo, momento fondamentale per sottolinearne la natura divina. A questi episodi si aggiungono quelli di Mosè, la prefigurazione ideale del Cristo-Sacerdote e il passaggio del mar Rosso, straordinaria dimostrazione del potere divino. Questo registro è inoltre tenuto insieme anche da una riflessione sui misteri cristiani: il battesimo salvifico e l’eucaristia. La scelta dello stile medio si spiega con la dimensione miracolosa di questi episodi nei quali Dio – Padre o Figlio – interviene direttamente in Terra per compiere azioni gloriose. Il terzo registro, invece, visualizza l’assunzione dei profeti e la visione di Dio. Si tratta di soggetti liminari al mondo degli uomini, che possono diventare oggetto di raffinate meditazioni. L’uomo può estasiarsi di fronte a tanta bellezza e finezza per, in un certo senso, anticipare la percezione del mondo divino. Questa parte è completata da Daniele e Giona, con Abacuc e la Trasfigurazione, immagini che – oltre ad insistere sulla vocazione – possono essere “prove” della salvezza che Dio garantisce attivamente ai suoi fedeli. L’unico pannello a non entrare in questo disegno è quello della Acclamatio. Dato lo stile basso, seguendo la logica qui delineata, il suo posto sarebbe nella parte inferiore delle porte. Se, come concorda la maggior parte degli studiosi, è l’immagine del committente, difficilmente sarebbe stato possibile inserirlo in mezzo a episodi tratti dalla Bibbia o con rappresentati il Cristo e i santi (! 14). Il suo posto sarebbe di conseguenza sotto i registri appena descritti, magari in mezzo a decorazioni aniconiche, una scelta comprensibile per ragioni di umiltà. Il fatto che lo stile più raffinato sia usato per immagini che hanno chiaramente avuto forti modelli antichi – è il caso delle apoteosi, ma anche forse dei nudi che hanno con ogni probabilità determinato l’iconografia di Daniele e Giona – non è certamente 182 casuale e, in questo senso, quanto menzionato a proposito della tesi sulle maniere di Kitzinger è importante. Mi sembra però altrettanto urgente sottolineare il fatto che l’uomo tardoantico non usa modelli (e perciò stili) diversi senza riflessione. Il progetto visuale delle porte è contemporaneamente razionale ed estetico. Chi lo ha concepito si è servito di modelli diversi e ha probabilmente anche fatto ricorso a capacità artigianali diverse, il suo fine era però quello di costruire un incisivo e convincente discorso retorico. La varietas stilistica così sapientemente illustrata sull’arco di Costantino, usando spoliae antiche, deve pertanto essere considerata un paradigma fondamentale per comprendere l’estetica del mondo tardoantico. 183 Conclusioni Mi piacerebbe raccogliere qui, in conclusione, i principali esiti di questo percorso esplorativo, senza tralasciare di indicare qualche possibile prolungamento della riflessione qualche possibile prolungamento della ricerca. Il capitolo d’apertura di questo volume – dedicato alla storia degli studi sul nartece e sulla porta di Santa Sabina – ha portato a tre considerazioni principali. In primo luogo, come accennato anche nell’introduzione, lo spazio del nartece è stato nel suo insieme completamente eclissato dagli studi. Percepito come semplice contenitore di immagini, esso non è stato di fatto mai oggetto di uno studio monografico. In seconda battuta si è preso coscienza di come – dal Settecento e fino agli anni ottanta del Novecento – la ricezione e il giudizio della porta di Santa Sabina siano stati determinati dal contesto storico. Le riposte agli interrogativi relativi a datazione e provenienza sono state spesso inserite in argomentazioni più ampie sulla storia, la decadenza medievale o la presunta superiorità culturale e razziale, senza dimenticare la questione nazionale, che non è stata indifferente in questo dibattito. Infine, ed è forse il dato più ovvio di questo primo capitolo, la rivalutazione globale del nartece di Santa Sabina è avvenuta solo grazie alla vera e propria rivoluzione degli studi operata in questi ultimi decenni. L’attenzione alla funzione, alla liturgia, al pubblico o ancora quella per il culto e la percezione delle immagini sacre sono state tra gli elementi principali che hanno reso possibile questo volume. Come dimostrato nel secondo e nel terzo capitolo, il nartece di Santa Sabina merita d’essere considerato come una “zona liminare”. È nel nartece che si raccoglie il clero prima di entrare nella basilica, è questo spazio che attraversa regolarmente chi deve passare dal vicus Altus al vicus Armilustrii, ma soprattutto è l’ambiente privilegiato 184 per accogliere chi non ha ancora passato il confine tra i due mondi – tra il paganesimo e il cristianesimo. Luogo di protezione e luogo iniziatico, questo lussuoso spazio è stato con ogni probabilità concepito per raccogliere chi – come i catecumeni e i penitenti – non era autorizzato a restare nella chiesa per la celebrazione eucaristica. Grazie al battistero annesso, forse nel nartece si svolgevano anche alcuni riti prebattesimali. Infine, una volta all’anno, grazie alla liturgia stazionaria, la basilica di Santa Sabina diventava la quasi la cattedrale di Roma. In quell’occasione, il papa celebrava sull’Aventino l’initium jejunii, l’inizio ufficiale della preparazione al battesimo per i catecumeni di tutta la città. Non sappiamo quali fossero precisamente i rituali eseguiti in quell’occasione ma sembra legittimo immaginare che questi fossero collegati ai temi forti della preparazione battesimale: il digiuno, la preghiera e l’attesa della purificazione che avrebbe definitivamente strappato i neofiti dal giogo del Maligno. È alla luce del valore di questo spazio e attraverso le sue funzioni – catecumenali, penitenti e iniziatiche – che viene proposta, nel quarto capitolo, una lettura iconologica della porta della basilica. Composta oggi da una serie di diciotto pannelli narrativi – studiati in dettaglio nel corpus in fondo al volume –, essa si rivela una struttura molto dotta e polisemantica. A un primo sguardo racconta la vita, la morte e la risurrezione del Cristo, accanto a episodi della vita di importanti profeti veterotestamentari. Uno sguardo più attento – guidato da anomalie compositive e da strumenti propri delle arti figurative – rivela però una scelta ponderata degli episodi principali. Emergono così alcune linee guida che tendono a intrecciarsi intorno a una riflessione sul mistero battesimale, sul periodo della quaresima e – in maniera velata – anche al mistero eucaristico. Sono presenti gli episodi interpretati dai Padri della Chiesa come prefigurazioni battesimali: dalle nozze di Cana, al miracolo della fonte scaturita dalla roccia o ancora al passaggio del mar Rosso. In origine questo gruppo di immagini era forse addirittura coronato da quella del battesimo del Cristo. La seconda linea 185 interpretativa è legata alla quaresima: gli episodi connessi tra la fine del IV e l’inizio del V secolo a questo tema sono molteplici: dai digiuni raccontati nell’Antico Testamento – di Mosè, di Elia, di Daniele o della città di Ninive – alla passione del Cristo che il neofita deve rivivere durante le privazioni quaresimali per poter poi risorgere con Lui la notte di Pasqua. L’incontro con Dio e la Sua visione è infine il tema che chiude la costruzione intellettuale delle porte. Chi decide di lasciarsi seppellire con il Cristo – per riprendere le parole di San Paolo – attraverso il battesimo e la mediazione della chiesa si garantisce una sua eterna contemplazione nei cieli. Il fatto che la scelta di questi episodi corrisponda a un disegno razionale risulta evidente alla lettura dei libri liturgici. La situazione a Roma è nota, per quanto riguarda la liturgia quaresimale e pasquale, soltanto in maniera parziale. Incrociando però le informazioni di tradizioni note a Roma in periodi posteriori con le principali tradizioni rituali occidentali di quegli anni, la scelta degli episodi appare in evidente sinergia con le principali letture della liturgia del periodo quaresimale e pasquale. Questa stessa scelta sembra inoltre evocare direttamente alcuni importanti riti prebattesimali. A completare questo quadro, vi era poi il ciclo della passione. Insistendo sulle tre tappe della Pasqua – l’ingiusta condanna, la morte e la risurrezione – lo spettatore viene introdotto al cuore della teologia Cristiana. A immagine del Cristo e con il Cristo egli è invitato a meditare sulla sofferenza di quest’ultimo, ma soprattutto vedere realizzata la promessa della risurrezione. Anche in questo caso, omelie patristiche e fonti liturgiche, ricordano quanto tale meditazione sia un momento centrale nella formazione dei catecumeni. Incrociando queste informazioni con quelle sulla funzione dello spazio del nartece se ne deve dedurre che il primo destinatario di queste immagini era, con ogni probabilità, il neofita. La deduzione è logica, soprattutto se si prende in considerazione che la decorazione della porta potevano essere di fatto vista soltanto se chiusa. Rivolta quindi a chi ancora non aveva il diritto di varcare la soglia, di 186 attraversare la porta che introduceva alla vita nuova, a chi ancora non aveva diritto alla protezione che la porta offriva e che perciò aveva bisogno di essere esorcizzato per sfuggire al male. Ovviamente, però, le immagini della porta potevano parlare anche al passante regolare o al fedele comune. Esse gli ricordavano i maggiori misteri cristiani e, forse, anche la più importante decorazione interna della chiesa, il mosaico absidale. Infine sulla porta era raffigurato anche il committente della chiesa, con l’intento di celebrare il suo evergetismo: la collocazione in questo spazio di passaggio doveva assicuragli una grande visibilità e la preghiera di chi sostava qui anche solo per un attimo. Il quinto capitolo, infine, è stato determinato da un tentativo di dare una nuova spiegazione alla polifonia stilistica visibile sulle porte e anche dalla volontà di dare un nuovo “ordine” a questa imago poliforme. La soluzione proposta è stata quella di leggere nella scelta della coesistenza, in un unico monumento, di stili diversi un deliberato atto retorico: come nella retorica antica e tardoantica, variare gli stili significa rendere più incisiva ed efficace un’immagine. Osservando questo fenomeno anche in altri monumenti, un secondo dato è però emerso con forza. Si tratta del fatto che l’uso di stili diversi è sempre sottomesso a una precisa strategia visiva. Da qui la proposta di dare alle porte – scomposte e in parte mutilate nei secoli – un nuovo ordine che non tenga conto solo del significato ma anche dello stile delle immagini. Si tratta, ovviamente, di un’ipotesi limitata dalla scomparsa di dieci pannelli originali della porta. Malgrado questo punto problematico, però, sono convinto che lo schema generale è la conseguenza più logica degli elementi raccolti nel quadro del mondo tardoantico. Consegnando questo volume ai lettori la mia speranza è di contribuire alla riapertura del dibattito su uno dei luoghi più interessanti della Roma tardoantica e pesantemente marginalizzato dagli studi, quello il nartece di Santa Sabina. Luogo dove architettura, immagine e liturgia sembrano aver formato una fertile e complessa 187 hierotipia. Allo stesso modo spero che l’interesse per un concetto così fertile come quello di “zona liminare” possa interessare anche altri campi di ricerca. Pensare lo spazio anche a un livello più macroscopico potrebbe infatti contribuire a spiegare con più efficacia alcuni dei fenomeni centrali del Medioevo e non solo. In questo senso sarebbe, per cominciare, molto interessante allargare la ricerca qui proposta anche agli altri secoli della vita del nartece di Santa Sabina. Coinvolgendo, per cominciare, il prezioso dipinto della Theotokos. Un problema che non ho potuto qui trattare per una questione di tempo, ma che meriterebbe certamente di essere studiato come parte di un fenomeno sulla longue durée. Altro campo di ricerca potrebbe essere una più ampia riflessione sulla maniera in cui il battesimo modifica lo spazio – fisico e mentale – del mondo medievale anche fuori dai battisteri. Si tratta di una questione per ora ancora veramente poco esplorata, di cui spero questo studio possa essere un primo esempio. Da parte mia non resta che augurarmi di avere aperto una via affidabile a chi voglia intraprendere altre ricerche. 188 Corpus iconografico e critico I diciotto pannelli conservati della porta di Santa Sabina saranno presentati nell’ordine in cui si trovano attualmente, partendo dall’alto a destra. Ogni pannello sarà illustrato in una scheda che comprenderà una breve descrizione, seguita da alcune note critiche e dalla bibliografia. Nel caso della presenza di più scene in un unico pannello, esse saranno analizzate separatamente. I restauri – ai quali è dedicato un saggio in fondo a questo volume – sono menzionati soltanto nei casi in cui potrebbero mettere in discussione l’analisi iconografica. Laddove l’attribuzione del pannello è stata modificata, la precedente interpretazione è indicata tra parentesi. 189 1. “Crocifissione” Descrizione: Lo sfondo del pannello è costituito da una parete di mattoni, articolata da una finta architettura – con due colonne e tre frontoni classici – che separa lo spazio in tre parti pressoché identiche. Il timpano sinistro è decorato da un mezzo clipeo (o una bucatura). Davanti all’architettura si trovano tre figure nude, coperte solo da un subligaculum. Il personaggio centrale porta la barba ed è più grande dei due che lo attorniano. La differenza di statura – una prassi comune sulle porte – è qui sorprendente a causa dei volti dei due personaggi laterali. I loro tratti sono infatti tipici di un infante o un putto. Le diverse proporzioni potrebbero perciò alludere a un’età infantile dei due personaggi laterali. Entrambi guardano a destra, il presonaggio centrale in avanti. Le tre figure hanno le braccia aperte come degli oranti. A uno sguardo attento si nota, però, che le mani di tutti e tre sono inchiodate su tavolette, probabilmente braccia stilizzate di una croce. Sopra la testa delle due figure minori si intravede anche l’estremità dell’asta verticale delle stesse croci. Note critiche: Fin dai primi studi critici moderni (Mamachi, Annalium ordinis Praedicatorum, p. 572; Kondakov, “Les sculptures de la porte”, p. 365; Berthier, La porte de Sainte-Sabine, pp. 23-29; Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, pp. 19-25) il pannello è stato considerato la rappresentazione della crocifissione del Cristo (Mt 27, 33-50; Mc 15 22- 37; Lc 23, 33-46; Gv 19, 17-30). La sola opinione discordante – ricordata da Kondakov e Bethier (Kondakov, “Les sculptures de la porte”, p. 365; Berthier, La porte de SainteSabine, pp. 23-29) –, che considerava i personaggi rappresentati come i tre giovani ebrei nella fornace babilonese, è stata rapidamente scartata dalla ricerca. Allo stesso modo, fin dalla fine dell’Ottocento, gli studiosi furono colpiti dalla strana esecuzione della scena, difficile da identificare e così diversa dalla tradizione posteriore (Felle, 190 “Croce (Crocifissione)”, pp. 160-161). La spiegazione proposta fu quella di considerarla una maniera per descrivere l’episodio velandone la dimensione vergognosa (Kondakov, “Les sculptures de la porte”, p. 31; Berthier, La porte de Sainte-Sabine, pp. 24-25). Tale ipotesi è stata ribadita anche negli studi più importanti degli ultimi decenni (Jeremias, Die Holztür, pp. 60-63). Il pannello sarebbe perciò stato comprensibile soltanto in un contesto narrativo (Jeremias, Die Holztür, pp. 62- 63). A tale lettura si è opposta Antonella Ballardini (Ballardini, “La ‘crocefissione’ nella porta”). Secondo la studiosa romana, se confrontata con le ampolle della Terra Santa, la crocefissione di Santa Sabina colpisce per la sua carnalità. È in particolare il dettaglio dei “chiodi del supplizio” che – messi in relazione con la letteratura apocrifa già dalla Jeremias (Jeremias, Die Holztür, p. 61) – “non permettono di ignorare il riferimento al sacrificio cruento” (Ballardini, “La ‘crocefissione’ nella porta”, pp. 282-283). Ballardini conclude quindi che la “discrezione” di questo pannello deve essere spiegata non tanto con un desiderio di dissimulazione, quanto piuttosto con l’assenza di questa iconografia nel repertorio cristiano (Ballardini, “La ‘crocefissione’ nella porta”, pp. 282-283). Alla stessa area semantica – pur se sviluppato in maniera diversa – apparterrebbe anche l’episodio della passione del cofanetto eburneo del British Museum. L’avorio è certamente più articolato, ma alcuni dettagli decisivi, come il corpo nudo del Cristo coperto soltanto dal subligaculum e i chiodi, ricorrono anche nel rilievo di Santa Sabina (Foletti “Il cofanetto con scene della Passione”). Di tale iconografia non si conserva però nessun esemplare altomedievale, neppure nella stessa Roma dove ha prevalso la formula “siriaca”, nota per esempio dall’evangeliario di Rabbula, con il Cristo rivestito con la tunica del colobium, attorniato da Giovanni e dalla Madonna e con, sopra la croce, rappresentate le personificazioni del sole e della luna (Felle, “Croce (Crocifissione)”, pp. 160-161). Dina Tuminello ha proposto che a monte delle diverse iconografie della crocefissione – comprese la formule orientali della crocifissione sulle ampolle della Terra Santa o nell’evangeliario di Rabbula – ci fosse di un prototipo comune (Tuminello, La 191 crocifissione del portale di S. Sabina, p 15) Si tratta, però, di un’ipotesi difficile da provare, come è impossibile da verificare l’altra tesi di Tuminello che vede nelle edicole alla spalle del crocifisso di Santa Sabina il richiamo delle alture raffigurate sull’evangeliario siriaco. Tuminello è infine convinta che la “discrezione” della scena deve essere anche la ragione del suo posizionamento nel punto più elevato della porta, che dovrebbe rendere l’episodio meno leggibile. Da ultime si sono espresse sul pannello Everingham Shecklera e Mary Joan Winn Leitha (Shecklera, Winn Leitha, “The Crucifixion”). Le due studiose hanno abbracciato la maggior parte delle tesi di Tuminello circa le relazioni con la tradizione orientale e riguardo alla posizione originale del pannello rimasta invariata. L’aspetto di maggior interesse di questo saggio – per il resto riassuntivo – è certamente aver notato la somiglianza tra la posizione dei crocifissi e quella degli oranti. Shecklera e Winn Leitha la interpretano come un desiderio di dissimulazione, ma anche con le parole di Tertulliano che considerava la preghiera un’imitazione della crocifissione del Cristo (Shecklera, Winn Leitha, “The Crucifixion”, pp. 83-84). A questi elementi va aggiunta la rapida riflessione di Félix Darsy che legge gli occhi aperti dei tre attori della scena e il diverso atteggiamento dei due ladroni – uno guarda in direzione del Cristo, l’altro si volge nella direzione opposta – un indizio del fatto che la scena rappresentava il dialogo tra il Cristo e il buon ladrone (Lc 23, 39-43), che garantì a quest’ultimo la salvezza (Darsy, Santa Sabina, p. 74). Se si è giunti a un accordo nel riconoscere la “discrezione” di questa raffigurazione, è ancora aperta la questione della motivazione. Le dimensioni stesse del pannello indicano con chiarezza che, nell’ottica di chi aveva concepito le porte, il ruolo di questo episodio non doveva distinguersi particolarmente dagli altri del ciclo della passione. La sua esecuzione – che pare maldestra se consideriamo le asticelle sotto le mani dei diversi personaggi, che non sono in asse – può certo essere spiegata con un’assenza di modelli. Tuttavia, il caso del cofanetto del British Museum, prodotto a Roma negli stessi anni, rende difficile basarsi su questo argomento, tanto più che 192 l’esecuzione di una crocifissione è in fondo, tutto sommato, “semplice” (Foletti “Il cofanetto con scene della Passione”). D’altro canto ha ragione Ballardini quando dice che i chiodi non lasciano dubbi quanto alla rappresentazione della passione. Inoltre, posto in un ciclo pasquale, l’episodio doveva essere chiaramente riconoscibile. È, però, altrettanto vero che da lontano si distinguono semplicemente tre figure, attorniate da edicole stilizzate, e, in assenza dei dettagli e del contesto, esse possono essere possono sembrare tre oranti, immagine notissima nella pittura delle catacombe e nella plastica funeraria. La prassi visiva di attorniare una figura orante con colonne e archi risulta poi una sorta di topos visto che lo ritroviamo nel pannello dell’Acclamatio, ma anche nei frammenti della rappresentazione della famiglia di Teodorico a Sant’Apollinare Nuovo. In questo caso, però, dopo la damnatio memoriae di Teodorico, sono state cancellate le figure e si sono perciò conservate le sole mani sulle colonne del Palatium di Ravenna (Ravenna in late antiquity, pp. 160-166). In realtà una possibile soluzione a questa apparente dicotomia si trova nel commento di Ambrogio da Milano al Salmo XLIII. Parlando della vittoria del Cristo contro la morte (Ambrogio, Commento ai dodici salmi, XLIII, 11; pp. 98-99), Ambrogio scrive: “Certo, Mosè ci ha insegnato a sollevare le mani al Signore stabilendo le regole di una devozione cultuale. Ci ha insegnato come fare a sconfiggere la scaltra dialettica di Amalec, per sollevare la nostra vita e le nostre opere verso Cristo. Ci ha detto che così potevamo distruggere l’incredulità. Se invece abbattessimo il nostro spirito, incurvassimo la volontà e distogliessimo le nostre forze dalla ricerca (…) non ci sarebbe alcun rimedio. A meno che Gesù non risollevasse le braccia di Mosè, ormai ricadute, come la debolezza della legge, e le sostenesse con la sua misericordia. Ma troppo debole sarebbe stato il soccorso della legge, se Gesù non fosse venuto di persona sulla terra (…). Era il solo cui i nostri peccati non sarebbero riusciti ad appesantire né curvare le braccia. Si è curvato lui invece, al livello della morte, e della morte in croce. Ma sulla croce, spalancando le sue braccia, ha rialzato tutto il mondo dal suo destino di morte; 193 ha sollevato chi stava a terra ed ha attratto a sé il fedele di tutte le nazioni, dicendo all’uomo: Oggi sarai con me in paradiso”502 . Il ragionamento di Ambrogio è chiaro: il gesto del Cristo sulla croce è paragonabile a quello di Mosè orante che vince la battaglia contro Amelec. Le braccia aperte del Cristo permettono a ogni uomo di non essere schiacciato sotto il peso del peccato ed essere accolto in paradiso. Il fatto che Ambrogio menzioni il buon ladrone, crocifisso alla destra del Cristo, sottolinea il duplice valore di questo gesto: la preghiera che salva l’uomo si svolge sulla croce. Le anomalie del pannello di Santa Sabina potrebbero essere spiegate proprio in questo senso: il gesto del Cristo va interpretato non solo nella dimensione della passione, ma anche come una supplica per l’umanità che stabilisce inoltre – riprendendo Ambrogio – la “devozione cultuale”. Non si tratta perciò di una semplice preghiera, ma di un gesto liturgico. La sovrapposizione del gesto liturgico della preghiera con quello della crocifissione è stata puntualizzata per il caso di Santa Sabina anche da Shecklera e Winn Leitha (Shecklera, Winn Leitha, “The Crucifixion”, pp. 83-84) e studiata in maniera più approfondita da Alžběta Filipová che ha dimostrato quanto tale soprapposizione semantica sia frequente nelle omelie tardoantiche (Filipová, “Santo, Vescovo e Confessore”). Nei casi esaminati la studiosa indica che il celebrante, le braccia aperte in un gesto di preghiera, era identificato con la figura del Cristo in croce. Il testo di Ambrogio è quindi ogni 502 “Docuit quidem nos Moyses levare ad Dominum manus, pii cultus instituens disciplinam. Docuit quemadmodum Amalech versutiloquus vinceretur; ut mores nostros et opera levaremus ad Christum, sic destrui posse perfidiam: sin vero deiiceremus animam, inclinaremus affectum, et a continentiae studio averteremus ingenium, ut persuasio nos vana superaret; nullum remedium futurum, nisi Iesus depressa iam brachia Moysi, tamquam infirmitatem Legis attolleret, et sua misericordia sustineret. Sed infirmum adhuc fuisset Legis auxilium; nisi ipse Iesus venisset in terras, qui in se nostras susciperet infirmitates, quem solum nostra peccata gravare non possent, nec inclinare manus eius: qui se inclinavit usque ad mortem, mortem autem crucis, in qua expandens manus suas, totum orbem qui erat periturus, erexit: levavit iacentes, atque ad se omnium gentium fidem traxit, dicens homini: Hodie mecum eris in paradiso”. 194 probabilità il risultato di una tradizione esegetica più ampia, nella quale gesti “simili” sono dotati di significati complementari. In questo quadro può quindi anche essere integrata la proposta di Tsuji di leggere il gesto della croce come un atto di intercessione (Tsuji, Étude iconographique, pp. 129-140) –, tesi che la studiosa basa sulle catechesi di Cirillo di Gerusalemme (Cirillo di Gerusalemme, Catechesi, XIII, 28, pp. XY) La scelta di una rappresentazione ambigua a un primo sguardo sembra finalizzata a sottolineare la molteplicità dei significati della passione: dietro alla sofferenza si cela la salvezza, mentre la passione del Cristo è un’immagine della preghiera d’intercessione e del servizio liturgico. Nel contesto narrativo di un ciclo, dove non vi sono dubbi sull’identificazione dell’episodio, l’artefice può variare la composizione per accentuare la dimensione che più gli sembra importante. Il pannello della crocifissione appare quindi un chiaro esempio della polisemanticità/polisemia/ polisemantica? tardoantica: uno stesso gesto ha significati diversi e complementari contemporaneamente. Bibliografia: Mamachi, Annalium ordinis Praedicatorum, p. 572; Garrucci, Storia della arte cristiana, pp. 389-391, Kondakov, “Les sculptures de la porte”, p. 365, Berthier, La porte de Sainte-Sabine, pp. 23-29; Wiegand, Das Altchristilche Hauptportal, pp. 19-25 ; Venturi, Storia dell’arte italiana, pp. 478-480 ; Reil, Die frühchristlichen Darstellungen; Leclercq, “Croix et crucifix”; Jerphanion, “La représentation del la croix”; Lucchesi Palli, Jásai, “Kreuzigung Christi”; Darsy, Santa Sabina, p. 74; Tsuji, Étude iconographique, pp. 129- 140; Jeremias, Die Holztür, pp. 60-63 ; Felle, “Croce (Crocifissione)”, pp. 160-161 ; Heid, “Creuz”; Tuminello, La crocifissione del portale di S. Sabina ; Grossi, “Croce, crocifisso”; Ballardini, “La ‘crocefissione’ nella porta”; Harley, “The Crucifixion”. Shecklera, Winn Leitha, “The Crucifixion”. 195 2. Le pie donne al sepolcro Descrizione: Sullo sfondo del pannello, disegnato da una parete di mattoni, si profila un’architettura composta da due elementi: un frontone e un arco a tutto tondo, immediatamente adiacente, retti su colonne. Sulla sinistra sono raffigurate due figure velate – secondo Darsy una di esse non porterebbe il velo (Darsy, Santa Sabina, p. 77) – di semiprofilo, con ogni probabilità donne, in movimento verso destra. Le due figure hanno la mano sinistra velata e alzata, forse in segno di elocuzione. Nello spazio sotto l’arco è iscritto un angelo con le ali spiegate, raffigurato frontalmente ma con la mano destra alzata in direzione delle due donne. Diversamente dall’episodio della crocifissione le tre colonne sono provviste di capitelli e riccamente ornate. 196 Restauri: È stato sostituito completamente il volto della seconda donna – in posizione centrale – che si rivolge all’angelo. Eseguita probabilmente nel restauro del 1836, quest’importante alterazione del rilievo non incide sulla sua interpretazione iconografica. Note critiche: Non vi sono stati dubbi – nel corso degli anni – sull’attribuzione di questo episodio. Dai primi studi (Mamachi, Annalium ordinis Praedicatorum, p. 572; Kondakov, “Les sculptures de la porte”, p. 366; Berthier, La porte de Sainte-Sabine, pp. 45-46; Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, pp. 43-46) fino ai lavori più recenti (Darsy, Santa Sabina, pp. 76-77; Jeremias, Die Holztür, pp. 63-65), la critica è univoca nel riconoscere nella scena l’episodio delle pie donne al sepolcro così come viene narrato nel vangelo di Matteo (28, 1-6), con Maria Maddalena e un’altra Maria ritratte mentre incontrano l’angelo che annuncia loro la risurrezione del Cristo avvenuta la domenica di Pasqua. Il tema delle donne al sepolcro è molto diffuso nel mondo tardoantico, lo ritroviamo sui sarcofagi (Brandenburg, “La scultura a Milano”, pp. 95-97; Bovini, Sarcofagi paleocristiani, pp. 26-27), nelle decorazioni dei battisteri (Korol, “Neues zu den altund neutestamentlichen Darstellungen”; Gandolfi, “Les mosaïques du baptistère de Naples”, p. 22), sulle ampolle della Terra Santa (Grabar, Ampoules de Terre Sainte) o su vari oggetti eburnei (Volbach, Elfenbeinarbeiten der Spätantike, nr. 110, 111, 116, 119; St. Clair, “The Visit to the Tomb”). Solitamente il significato di questo episodio, che attesta la risurrezione avvenuta, può essere considerato corrispondente alla risurrezione stessa di cui non abbiamo immagini esplicite nei primi secoli (Leclercq, “Résurrection”, coll. 1400-1401; Perraymond, “Donne Pie” [2000]; Perraymond “Donne Pie” [2006]). Il pannello svolge certamente questa funzione anche in questo contesto, dove però, ancora una volta, è parte di un ciclo più vasto che, pertanto, ne riduce la portata. 197 Bibliografia: Mamachi, Annalium ordinis Praedicatorum, p. 572; Kondakov, “Les sculptures de la porte”, p. 366; Berthier, La porte de Sainte-Sabine, pp. 45-46; Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, pp. 43-46, Leclercq, “Résurrection”, coll. 1400-1401; Darsy, Santa Sabina, pp. 76-77; Tsuji, Étude iconographique, pp. 141-147; Myslivec, Jásai, “Frauen am Grab”; St. Clair, “The Visit to the Tomb”; Jeremias, Die Holztür, pp. 63-65; Recio Vegazones, “María Magdalena”; Perraymond, “Donne Pie” [2000]; Perraymond, “Donne Pie” [2006]. 3. Adorazione dei Magi Descrizione: Sullo sfondo di una parete in mattoni avanzano tre figure vestite di profilo con pantaloni e tunica ornati e con il capo coperto da un cappello frigio. Tengono in 198 mano tre oggetti simili, di forma leggermente elittica e puntinati. I tre si avvicinano a una figura femminile con un bambino in braccio. La donna è seduta su una sella curule in cima a un suppedaneum di sei gradini ed è avvolta in un pesante maforio. Il bambino sembra piegarsi in dietro, mentre indica con la mano destra i tre personaggi. Note critiche: Anche in questo caso non vi sono dubbi sull’identità dell’episodio considerato all’unanimità dalla critica l’adorazione dei magi (Mamachi, Annalium ordinis Praedicatorum, p. 572; Kondakov, “Les sculptures de la porte”; Berthie, La porte de Sainte-Sabine, pp. 56-59; Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, pp. 64-65; Venturi, Storia dell’arte italiana, pp. 480 ; Darsy, Santa Sabina, p. 79; Tsuji, Étude iconographique, pp. 212-213; Jeremias, Die Holztür, pp. 48-59). Il notissimo episodio descritto nel vangelo di Matteo (Mt 2, 1-12) racconta la visita al Cristo bambino di alcuni magi orientali, giunti a Betlemme per adorare il Messia. Secondo il racconto evangelico essi avrebbero offerto al Cristo tre doni, l’oro, l’incenso e la mirra, ragione per la quale la tradizione ha finito per stabilire che i magi fossero tre, anche se il vangelo non dà informazioni sul loro numero (Scorza Barcellona, “Magi (i re)”, col. 2969). L’adorazione dei magi è una delle tematiche più diffuse nell’iconografia cristiana dei primi secoli: fin dal IV secolo la scena è raffigurata nelle catacombe, passando per la plastica funeraria e fino a cofanetti argentei, reliquiari, dittici eburnei e pissidi liturgiche (Massara 2000). Quest’iconografia si è, con ogni probabilità, sviluppata a partire dall’antica tradizione di raffigurare la sottomissione dei barbari all’imperatore (Cumont, “L’adoration des Mages”). Secondo Franz Cumont più che un processo ideologico sarebbe stata una tradizione visiva a determinare questa scelta, dettata soprattutto dalla ricerca di uno schema efficace per rappresentare i magi orientali (Cumont, “L’adoration des Mages”, pp. 100-102). Essi ricevettero quindi i tratti di guerrieri persiani con il loro caratteristico cappello frigio, i pantaloni in pelle, aderenti, decorati e tuniche corte probabilmente colorate. L’iconografia della Madre 199 di Dio, avvolta in una pesante tunica come una matrona romana, con il capo coperto e con il Bambino in movimento tra le braccia, è invece il risultato di processo che risale per lo meno alla prima metà del III secolo quando questo tipo appare nelle catacombe di Priscilla a Roma, accompagnato dal profeta Balaam (Bisconti, “La Madonna di Priscilla”; Utro, “Maria”). Secondo Marcello Mignozzi le due iconografie, quella della Madonna con Balaam e quella dei magi d’Oriente, avrebbero finito per confluire in un unico schema, quello dei magi appunto, visto che questi ultimi venivano comunemente considerati dalla patristica eredi del profeta, di cui avrebbero visto realizzarsi le predizioni (Mignozzi, “Dal Profeta ai Magi”). Diffusasi attraverso tutti i media, ma in particolare in ambito funerario, la scena è stata interpretata dai Padri della Chiesa come un’adorazione del Cristo da parte dei pagani (Massara, “Magi”, p. 206). Soprattutto, però, le loro offerte sono state considerate come simboli della regalità del Bambino (oro), della sua divinità (incenso) e della sua umanità sofferente portata all’estremo sacrificio (mirra). L’esegesi è in questo senso molto ricca, da Ireneo di Lione (Irénée, Contre les hérésies, III, 9, 2; pp. 106-107) fino a Ilario di Poitiers (Hilaire, La trinité, IV, 38; pp. 84- 87) e ad Ambrogio (Ambrogio, Esposizione del vangelo, II, 44; v. 1, pp. 186-187). Rispetto all’iconografia tradizionale a Santa Sabina un solo elemento stupisce: si tratta del suppedaneum che diventa qui un vero e proprio podio composto da sei scalini. Con ogni evidenza, siamo di fronte a un meccanismo visivo che dovrebbe conferire alla Madonna e al Bambino uno statuto eccezionale. La spiegazione attribuita a questo fenomeno è stata quella di una risposta alla polemica nestoriana culminata nel 431 con il concilio di Efeso (Wiegand Das Altchristliche Hauptportal, p. 64; Venturi, Storia dell’arte italiana, pp. 482; Darsy, Santa Sabina, p. 79; Tsuji, Étude iconographique, pp. 212-219; Jeremias, Die Holztür, p. 80). Si tratta di un’ipotesi convincente poiché mette effettivamente in risalto la figura di Maria che tiene in braccio il Cristo-Dio e merita perciò a pieno titolo l’epiteto di Theotokos. 200 Bibliografia Mamachi, Annalium ordinis Praedicatorum, p. 572; Kondakov, “Les sculptures de la porte”; Bethier 1890, pp. 56-59; Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, pp. 64-65; Venturi, Storia dell’arte italiana, pp. 482; Leclerq, “Mages”; Cumont, “L’adoration des Mages”; Darsy, Santa Sabina, p. 79; Tsuji, Étude iconographique, pp. 212-219; Weiss, Adolf, “Drei Könige”; Jeremias, Die Holztür, pp. 48-59; Massara, “Magi”; Favaro “Sull’iconografia Bizantina”; Scorza Barcellona, “Magi (i re)”; Mignozzi, “Dal Profeta ai Magi”; Lepri, “Arte e potere”. 201 4. Trasfigurazione (Traditio Legis) Descrizione: Il rilievo è occupato da tre figure disposte in maniera simmetrica: al centro si trova un uomo con il capo aureolato e lunghi capelli che gli ricadono sulle spalle. Con la mano destra alzata fa un gesto di benedizione, mentre nella sinistra tiene un oggetto dalla forma ovale difficile da definire. Alla sua destra si trova un uomo glabro di profilo con i capelli corti che porge le mani velate in avanti. Alla sinistra invece c’è un uomo calvo con una folta barba che compie un gesto insolito: mentre il suo volto è girato verso il centro, il suo busto, frontale, sembra compiere un movimento all’indietro dove le sue mani si congiungono intorno a un oggetto indefinito. Entrambi i personaggi portano un’aureola. A completare il quadro vi sono due palme che scandiscono lo spazio tra i tre personaggi. 202 Note critiche: Questo pannello è certamente uno dei più complessi e di difficile lettura. Partendo dal presupposto che la maggior parte della critica concorda nell’identificare il Cristo nel personaggio centrale, le interpretazioni della scena variano considerevolmente. Per Nikodim Kondakov si trattava della così detta Traditio legis (Kondakov, “Les sculptures de la porte”, p. 369), un’iconografia nata, secondo alcuni studiosi, in ambito romano fin dalla metà del IV secolo. Tale iconografia è – seconda la tradizione critica – composta dal Cristo, tra Pietro e Paolo. Il Cristo conferirebbe nella scena la legge a Pietro, sottolineando in questa maniera il suo ideale primato (Garrucci Musaici cimiteriali, pp. 147-150; Wilpert, Die römischen Mosaiken, 237 f.; Davis-Weyer, “Das Traditio-Legis-Bild; Spera, “Traditio legis et clavium”). A questa interpretazione si è opposto pochi anni dopo Joachim Berthier, secondo il quale il fatto che i tre personaggi fossero provvisti di aureola, come pure la presenza di alberi erano indizi eloquenti di un’immagine della Trasfigurazione (Berthier, La porte de Sainte Sabine, pp. 70-71; Mt 17, 1-8; Mc 9, 2-8; Lc 9, 28-36). Nel 1900 Johannes Wiegand ha proposto di considerare l’episodio come l’incontro del Cristo con i discepoli di Emmaus, identificando l’oggetto in mano a Gesù come il pane spezzato durante la cena (Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, pp. 77-82; Lc 24, 13-35). L’anno successivo, nel 1901, Venturi ha ribadito la giustezza dell’attribuzione di Kondakov, vista la somiglianza della composizione con il mausoleo di Costanza (Venturi, Storia dell’arte italiana, pp. 482-483). Sia Cecchelli che Darsy si sono allineati invece con Wiegand, riconoscendo nell’oggetto in mano al personaggio calvo un bastone mozzato (Cecchelli, “Emmaus”, pp. 95-96; Cecchelli, “Revisioni iconografiche”, pp. 259-279; Darsy, Santa Sabina, pp. 80-81). Secondo Richard Delbrueck, che scrisse a tal proposito nel 1952, il Cristo avrebbe in mano una perla (Delbrueck, “Notes on the Wooden Doors”, pp. 141-143). La scena alluderebbe allora alla perla evocata nel vangelo di Matteo (7, 6; 13, 46) come immagine del regno dei cieli che l’uomo saggio cerca a ogni costo e, basandosi sull’esegesi patristica, diventerebbe immagine della parola divina. Nel 1961 Tsuji ha tentato una sintesi: la composizione aveva una 203 struttura molto simile a quella della Traditio Legis, ma l’oggetto in mano al Cristo non poteva essere altro che un pane. La studiosa ha concluso perciò che dovesse trattarsi di un’immagine eucaristica, simile a quelle della comunione degli apostoli del museo di Istanbul (Tsuji, Étude iconographique, pp. 287-297). Nel 1980 Gisela Jeremias è tornata sull’argomento attirando l’attenzione sul fatto che – diversamente dal ciclo della passione – il Cristo è in questo caso imberbe e che tutti e tre personaggi sono nimbati. La studiosa ne ha concluso che la situazione doveva svolgersi fuori dal tempo, mentre i personaggi non potevano che essere Pietro e Paolo, essendo i soli apostoli a portare un nimbo in quel momento storico (Jeremias, Die Holztür, pp. 79- 80). Le soluzioni compositiva e concettuale sono quindi secondo Jeremias molto vicine a quelli della Traditio legis, ma in una variante in cui il Cristo tiene in mano il pane della vita. L’ultimo a esprimersi al riguardo è stato Jean-Michel Spieser, giunto sostanzialmente alle stesse conclusioni di Jeremias: considerata la composizione, i nimbi e le palme, è una variazione dello schema del Cristo Cosmocrator della Traditio (Spieser, “Le programme iconographique”, pp. 63-69). In questo senso sia Spieser che Jeremias interpretano l’immagine come una variante dello schema della trasmissione della legge a Pietro e ne fanno un’immagine più polivalente, seguendo in questo senso il fertile filone storiografico iniziato da Walter Schumacher (Schumacher, “Dominus legem dat”) e proseguito per tutta la seconda metà del Novecento fino a oggi (Rasmussen, “Traditio legis?”; Spieser, Autour de la traditio legis e Foletti-Quadri, “Roma, l’Oriente e il mito” con la bibliografia precedente). Nel 2005, infine, in un volume sulla trasfigurazione nel mondo bizantino, Andreas Andreopoulos torna all’idea di Berthier della scena come una delle più antiche raffigurazioni della Trasfigurazione (Andreopoulos, Metamorphosis, pp. 102-106) Delle soluzioni passate in rassegna la più difficile da sostenere è quella dell’apparizione del Cristo ai discepoli di Emmaus. La rigida frontalità della composizione e la dimensione teofanica, designata dalla presenza delle aureole – altrimenti presenti sulla porta soltanto nella scena della Teofania –, sembrano argomenti sufficienti per scartare tale ipotesi. Quest’ultima diventa ancora più fragile 204 se confrontata con gli altri esempi del viaggio a Emmaus, in cui la composizione è decisamente diversa: nel caso di Sant’Apollinare Nuovo, per esempio, l’episodio è raccontato con particolare enfasi posta sul movimento dei personaggi (Bisconti, “Verso Emmaus”). La soluzione immaginata da Jeremias e da Spieser, e in fondo anche da Delbrueck, è ingegnosa, ma pone alcuni importanti problemi. Si tratta in primo luogo del fatto che, se consideriamo l’interpretazione che ne dà soprattutto Spieser, di vedervi cioè un immagine del Cristo Cosmocrator, questo crea un vero e proprio doppione semantico con il pannello della Teofania. Certo qui la composizione sarebbe molto più essenziale, in entrambi i casi si tratterebbe però di una visione del Cristo-Dio fuori dai confini del mondo. Vi è poi la questione delle dimensioni: essendo uno dei pannelli piccoli, esso non può certamente recitare il ruolo di protagonista che invece spetta – proprio secondo Spieser – alla scena quando occupa un catino absidale o il centro di un rilievo di sarcofago. Vi è infine la questione dell’oggetto tenuto in mano dal Cristo: l’ipotesi che si tratti di pane – basata sul confronto con l’episodio dell’ultima cena del evangeliario di Cambridge (Jeremias, Die Holztür, taf. 77) – è convincente, nell’ambito delle visioni teofaniche sarebbe però un unicum assoluto. Nelle diverse varianti dello schema del Cristo in piedi, malgrado le differenze, Egli tiene sempre in mano un rotolo, aperto o chiuso (Foletti-Quadri, “Roma, l’Oriente e il mito”, pp. 16-37). La mancanza di elementi di confronto non può certo essere un argomento sufficiente; l’insieme dei problemi qui esposti rendono però fragile l’ipotesi che si tratti di una Traditio legis. Resta così la proposta di Berthier, scartata molto rapidamente dalla ricerca posteriore senza aver peraltro fornito argomenti convincenti. La sua ipotesi mi sembra però molto interessante, anche se argomentata in maniera un po’ caotica. Il Cristo è imberbe in tutti gli episodi sulla porta precedenti alla passione, soprattutto, però, i tre personaggi hanno delle aureole. Si tratta delle uniche aureole, su tutta la porta, per personaggi diversi dal Cristo e uno dei soli tre casi per il Cristo stesso. Questi porta infatti l’aureola sono nelle scene escatologiche e nell’apparizione ai discepoli, successiva alla risurrezione. Persino nel pannello della Teofania, quando assistono a 205 una visione del Cristo-Dio, Pietro e Paolo sono rappresentati senza aureola. È possibile immaginare che in una scena simile, ma meno solenne, improvvisamente essi le abbiano? Una tale scelta sembra poco convincente. I vangeli sinottici concordano sul fatto che al momento della Trasfigurazione il Cristo si rivestì di abiti candidi. Matteo aggiunge che il loro candore era come la luce (Mt 17, 2), mentre Luca precisa che Mosè e Elia erano “apparsi in gloria” (Lc 9, 31). Di eredità antica, il nimbo era un espediente figurativo per esprimere il disco luminoso attorno ai volti divini, ma anche di personaggi divinizzati (Giuntella, “Nimbo”). In questo senso interpretare i tre personaggi nimbati come Cristo, Mosè ed Elia, trasfigurati in terra nella loro gloria celeste, mi pare la soluzione più plausibile. A sostegno di tale ipotesi vi è poi il fatto che la Trasfigurazione è un elemento liminare tra esperienza “storica” e visione, fatto che spiega l’aderenza della figura del Cristo alle immagini teofaniche più note, come appunto il Cristo Cosmocrator della Traditio legis. Accettando questa lettura potrebbe trovare spiegazione un ulteriore elemento. Si tratta dell’oggetto in mano al Cristo che, a giusta ragione, la storiografia ha interpretato come un pane. Sant’Ambrogio, infatti, usa il termine di Trasfigurazione per designare quello che Agostino avrebbe chiamato transustanziazione (Filipová, “Santo, vescovo e confessore”): “Noi invece, ogni volta che riceviamo i sacramenti che grazie al mistero della sacra preghiera si trasfigurano nella carne e nel sangue, annunciamo la morte del Signore503 ” (Ambrogio, La fede, IV, 10, 124; pp. 314-315). Ambrogio fa ovviamente riferimento al fatto che in greco la parola metamorphosis – equivalente del latino transfiguratio – è usata per designare la trasformazione del pane eucaristico e del vino in corpo e sangue del Cristo. D’altro canto, però, l’ambiguità doveva essere voluta per fare della Trasfigurazione, grazie al linguaggio polisemantico proprio della patristica, una delle immagini eucaristiche. In questo senso, e con tutte le precauzioni del caso, il Cristo trasfigurato con il pane in mano 503 “Nos autem quotienscumque sacramenta sumimus, quae per sacrae orationis mysterium in carnem transfigurantur et sanguinem mortem domini adnuntiamus”. 206 potrebbe richiamare la sua natura divina che si manifesta nella gloria e nell’eucarisitia. Bibliografia: Kondakov, “Les sculptures de la porte”, p. 369; Berthier, La porte de Sainte Sabine, pp. 70-71; Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, pp. 77-82; Venturi, Storia dell’arte italiana, pp. 482-483; Cecchelli, “Emmaus”, pp. 95-96; Delbrueck, “Notes on the Wooden Doors”; Leclercq, “Transfiguration”; Darsy, Santa Sabina, pp. 80-81; Tsuji, Étude iconographique, pp. 287-297; Myslivec, “Verklärung Christi”; Jeremias, Die Holztür, pp. 77-80; Spieser, Le programme iconographique, pp. 63-69; Andreopoulos, Metamorphosis, pp. 102-106. 207 208 5. I miracoli del Cristo Descrizione: Il lungo pannello diagonale è suddiviso da due linee orizzontali – una costituita da elementi floreali decorativi mentre l’altra, pur restando un elemento decorativo, è parte integrante della narrazione – in tre registri. L’episodio inferiore raffigura un uomo vestito con un pallium, imberbe e con i capelli lunghi, con in mano una bacchetta mentre indica sette giare. Nella parte centrale, lo stesso personaggio indica con la bacchetta sette ceste con all’interno alcuni pani stilizzati. Sotto i suoi piedi, sulla linea di separazione tra i registri, sono raffigurati tre pesci. La figura maschile è il protagonista principale anche del terzo episodio, in cima al pannello, ma questa volta è senza bacchetta. Con la mano destra egli indica un personaggio coperto da una paenula, posta sopra una tunica, e con un bastone in mano, che sembra uscire da un piccolo edificio caratterizzato da eleganti colonne decorate. Note critiche: a) Nozze di Cana: Il primo episodio è stato identificato da Mamachi come il miracolo delle nozze di Cana in Galilea (Mamachi, Annalium ordinis Praedicatorum, p. 572). Berthier ha confermato tale lettura proponendo inoltre di considerare quest’immagine – sulla scia dei testi patristici – sia come una prefigurazione del battesimo che, soprattutto, come una prefigurazione eucaristica (Berthier, La porte de Sainte-Sabine, pp. 35-35). mentre Wiegand, ha insistito sul significato eucaristico, tralasciando quello battesimale (Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, pp. 28-29). Sull’attribuzione dell’episodio concordano anche Darsy, Tsuji e Jeremias, i quali, però non fanno cenno a una dimensione eucaristica (Darsy, Santa Sabina, p. 75; Tsuji, Étude iconographique, pp. 206-208; Jeremias, Die Holztür, pp. 53-54). Da un punto di vista formale la formulazione sintetica adottata, che si discosta dalla narrazione evangelica (Gv 2, 1-11), è con ogni probabilità il risultato della tradizione dei sarcofagi del IV secolo (cfr. ad esempio Dresken-Weiland, Repertorium, nr. 102, p. 209 32). Nel contesto della plastica funeraria, infatti, i miracoli del Cristo venivano spesso costruiti come immagini segnaletiche, facilmente riconoscibili, nella maniera più efficace ed essenziale possibile. A questa tendenza si opponeva una seconda – nota per la prima volta nel battistero di San Giovanni in Fonte a Napoli – che dava uno spazio crescente ai servi che versano l’acqua (Del Moro, “Nozze di Cana”, p. 234) e che può essere in parte spiegata con Gaudenzio da Brescia per il quale i servi erano prefigurazione dei vescovi (Filastrio du Brescia; Gaudenzio di Brescia, Delle varie eresie, IX, 32; pp. 342-343). In questo senso, soprattutto tra V e VI secolo, l’immagine assume un valore ecclesiale. Va infine menzionato un recente articolo di Jean-Michel Spieser che ha messo in discussione la tesi secondo la quale, nel corso del IV secolo, le nozze di Cana fossero considerate come una prefigurazione eucaristica. Partendo da un’attenta analisi delle fonti egli ha concluso che l’episodio era percepito dai Padri della Chiesa soprattutto come l’espressione del potere del Cristo (Spieser “Des images eucharistiques”). Bibliografia: Mamachi, Annalium ordinis Praedicatorum, p. 572; Berthier, La porte de Sainte-Sabine, pp. 35-35; Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, pp. 28-29; Venturi, Storia dell’arte italiana, pp. 480 ; Leclercq, “Cana”; Darsy, Santa Sabina, p. 75; Tsuji, Étude iconographique, pp. 206-208; Jeremias, Die Holztür, pp. 53-54; Nilgen, “Hochzeit zu Kana”; Moreira Azevedo, O milagre de Caná; Del Moro, “Nozze di Cana”; Giuntella, “Nozze di Cana”; Spieser “Des images eucharistiques”. b) Moltiplicazione dei pani e dei pesci: La seconda scena è stata letta all’unanimità come il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci (Mamachi, Annalium ordinis Praedicatorum, p. 572; Kondakov, “Les sculptures de la porte”; Berthier, La porte de Sainte-Sabine, pp. 32-34; Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, p. 28-29; Darsy, Santa Sabina, p. 75; Tsuji, Étude iconographique, pp. 204-206; Jeremias, Die Holztür, p. 53). Vista la presenza delle sette ceste, la critica è poi propensa a pensare alla versione 210 dell’episodio raccontato da Matteo (15, 32-39), che menziona questo numero di recipienti. Secondo Kondakov i pesci sarebbero da considerare immersi nell’acqua – è così che lo studioso spiega la fascia mossa nella quale si trovano – e sarebbero quindi anche un’allusione al battesimo. Secondo il Garrucci, infatti, quando è immerso nelle acque, il pesce rappresenta il battezzando (Garrucci, Storia dell’arte cristiana, v. 1. p. 178). Berthier si discosta da tale interpretazione proponendo di comprendere la scena in chiave esclusivamente eucaristica. Su questo è d’accordo anche Wiegand, che porta come argomento il significato dell’intero pannello, di chiara connotazione eucaristica. Anche in questo caso il parere di Darsy e di Jeremias si limita soprattutto alla descrizione dell’episodio. Il dato certo è che, come nel caso del miracolo delle nozze di Cana, questo episodio è diffuso tra le raffigurazioni “essenziali” dei miracoli del Cristo sui sarcofagi (cfr., a titolo d’esempio, Dresken-Weiland, Repertorium, nr. 11, 20, 30, 31, 59, 60; pp. 4, 8-10, 13, 19-20). Il suo significato eucaristico non sembra suscitare dubbi nella ricerca recente (Mazzei, “Moltiplicazione dei pani”), anche in virtù del fatto che una tale lettura è presente già nel vangelo di Giovanni (9, 26-37) e almeno in parte nell’esegesi patristica. Quest’opinione diffusa è stata in parte relativizzata Spieser che ha dimostrato come, nella maggioranza assoluta dei casi, più che all’eucaristia, la patristica faccia riferimento al potere salvifico del Cristo (Spieser, “Des images eucharistiques”). Lo stesso autore ammette, però, che alla fine del IV secolo l’interpretazione dell’episodio è per lo meno ambigua. Mamachi, Annalium ordinis Praedicatorum, p. 572; Kondakov, “Les sculptures de la porte”; Garrucci, Storia dell’arte cristiana, v. 1, pp. 177-178; Martigny, Dictionnaire des antiquités, pp. 289-290; Berthier, La porte de Sainte-Sabine, pp. 32-34; Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, p. 28-29; Venturi, Storia dell’arte italiana, pp. 480 ; Leclerq, “Pain”, coll. 436-440; Darsy, Santa Sabina, p. 75; Tsuji, Étude iconographique, pp. 201- 204; Nilgen, “Brotvermehrung”; Jeremias, Die Holztür, p. 53; Mazzei, “Moltiplicazione dei pani”; Spieser, “Des images eucharistiques”. 211 c) Guarigione miracolosa: Il terzo e ultimo episodio del pannello è stato riconosciuto – eccetto dal Mamachi che lo considerava come immagine della Maddalena che giunge al sepolcro per ungere il corpo del Cristo defunto (Mamachi, Annalium ordinis Praedicatorum, p. 572) – come la guarigione del cieco nato. Kondakov ha individuato nell’edificio alle spalle del personaggio il tempio e ha attribuito quindi l’episodio al racconto di Giovanni (8, 1-34): un cieco nato si era recato – dopo che il Cristo gli aveva cosparso le palpebre con fango e saliva – alla piscina di Siloe dove era guarito (Kondakov, “Les sculptures de la porte”, p. 339). Tale interpretazione è stata accolta da Berthier (Berthier, La porte de Sainte-Sabine, pp. 29-31). Wiegand invece è stato più moderato sulla scelta del passaggio evangelico, visto che l’edificio poteva avere anche altre funzioni, vista per esempio per la sua somiglianza con la cella dalla quale esce Lazzaro risuscitato. Egli ha proposto inoltre di interpretare l’episodio come un’immagine della penitenza. Soprattutto, però, ha richiamato l’attenzione sul fatto che il cieco guarito abbia gli occhi chiusi e non potevano perciò sussistere dei dubbi sulla sua identificazione (Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, pp. 25-28, 29). Dello stesso parere è anche Tsuji (Tsuji, Étude iconographique, pp. 201-204). Darsy, invece, ha ripreso la proposta di Berthier considerando l’edificio sullo sfondo come il tempio di Gerusalemme. La fonte testuale non poteva quindi che essere il vangelo di Giovanni (Darsy, Santa Sabina, p. 75). Gisella Jeremias, nella scia di Wiegand, ha rimesso in discussione la funzione di questo edificio, così simile a quello della risurrezione di Lazzaro. La studiosa ha concluso che non poteva trattarsi di un tempio e che, di conseguenza, lo scopo dell’immagine era sottolineare la facoltà taumaturgica del Cristo, usando a tal fine strumenti figurativi sviluppati nel contesto della risurrezione di Lazzaro (Jeremias, Die Holztür, pp. 52-53). Alla stessa conclusione è giunto infine anche Spieser: “il faut être réservé sur l’idée que ces images sont conçues comme l’illustration précise d’un texte biblique, faite à la fois avec exactitude suffisante pour permettre à l’historien de l’art d’identifier le passage concerné” (Spieser, “Le programme iconographique”, p. 55). 212 In questo senso il ragionamento può forse essere ulteriormente ampliato: eccetto per l’osservazione di Wiegand, che vede descrive gli occhi del miracolato chiusi, non vi è nessun indizio esplicito per stabilire se si tratti proprio della guarigione del cieco. L’esempio della lipsanoteca di Brescia indica che, avendone l’intenzione, la guarigione del cieco poteva essere raffigurata in modo molto esplicito. In quel caso, infatti, il Cristo mette le dita sugli occhi del miracolato (Watson, “The program of the Brescia casket”). Al contrario, nell’episodio della guarigione dei due ciechi del dittico delle Cinque parti del tesoro del Duomo di Milano, menzionato anche dalla Jeremias, l’attribuzione è lungi dall’essere univoca (Frantová, Heresy and Loyalty, pp. 177-178). Il solo argomento rilevante resta perciò quello di Wiegand. Lo stato di conservazione delle porte, come pure le dimensioni del pannello, non permettono di formulare una conclusione definitiva. Bisogna perciò affermare che l’episodio rappresenta semplicemente una guarigione miracolosa ad opera del Cristo taumaturgo. Bibliografia: Mamachi, Annalium ordinis Praedicatorum, p. 572; Kondakov, “Les sculptures de la porte”, p. 339; Berthier, La porte de Sainte-Sabine, pp. 29-31; Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, 25-28, 29; Venturi, Storia dell’arte italiana, pp. 480 ; Leclercq, “Aveugles”; Darsy, Santa Sabina, p. 75; Tsuji, Étude iconographique, pp. 201-204; Jaegger, “Blindenheilung”; Jeremias, Die Holztür, pp. 52-53; Spieser, Le programme iconographique, p. 55; Bisconti, “Gaurigione del cieco nato”. Riuniti, i tre episodi vanno letti come diverse rappresentazioni del Cristo taumaturgo che – attraverso vari miracoli – mostra la sua divinità. Nel contempo, però, la scelta dei miracoli e la loro composizione indica il desiderio di riflettere su più livelli semantici: ogni miracolo doveva attivare nello spettatore una serie di riferimenti esegetici e liturgici determinata dal fatto che si trattava di immagini “consuete” e famigliari. 213 214 6. I miracoli di Mosè Descrizione: Il lungo pannello è suddiviso in quattro segmenti separati da tre linee nette prive di decorazioni. Il riquadro inferiore rappresenta un uomo in piedi, raffigurato frontalmente, vestito con una ampia tunica, con il palmo della mano destra rivolto verso il basso a indicare una larga fonte d’acqua che sgorga da una parete rocciosa. La sua mano sinistra è aperta a mezza altezza. A destra si trova in basso un ammasso di pietre e, nell’angolo superiore, esce dalle nuvole la mano divina. Il secondo registro è articolato simmetricamente attorno a un tavolo rotondo, dietro al quale sta in piedi un uomo. L’uomo tocca con la mano destra il tavolo, sul quale è posato un oggetto irriconoscibile, caratterizzato da piccoli punti. A destra e a sinistra del tavolo due personaggi sono seduti su selle curuli. Ai lati della scena troviamo a destra un uomo con due oggetti in mano (un mestolo e una borraccia?), mentre a sinistra un altro ha in mano un oggetto simile a un mattarello e si trova dietro a una sorta di botte. Entrambi questi personaggi vestono con una tunica ornata con dei puntini. Il terzo episodio ha la struttura generale di quello precedente, sono però scomparsi i due personaggi laterali, mentre il tavolo è coperto, con ogni probabilità, da uccelli morti. Il quarto e ultimo riquadro raffigura una figura maschile nella stessa posizione di quella del primo registro, con il palmo della mano destra rivolto in basso e con la sinistra in posizione orizzontale. Anche in questo caso a destra la manus Dei esce dalle nuvole, mentre a sinistra si riconosce un albero o cespuglio. Note critiche: a) Il miracolo della roccia: Il primo episodio è stato considerato da Mamachi come una /la discesa agli inferi (Mamachi, Annalium ordinis Praedicatorum, p. 572). Tale lettura è però stata confutata da Kondakov che ha riconosiuto nell’episodio Mosé mentre fa scaturire l’acqua dalla roccia (Es 16, 5-6; Kondakov, “Les sculptures de la porte”, p. 215 371). Berthier ha precisato che il momento rappresentato è quello immediatamente posteriore al miracolo, quando l’acqua è già scaturita e Mosè indica il miracolo avvenuto (Berthier, La porte de Sainte-Sabine, p. 51). Concordano con questa linea interpretativa anche Wiegand, Darsy, Jeremias e infine Spieser (Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, p. 49; Darsy, Santa Sabina, p. 77; Jeremias, Die Holztür, pp. 35-36; Spieser, “Le programme iconographique”, pp. 56-58). Quest’ultimo preferisce però vedervi l’illustrazione del libro dei Numeri (20, 2-13), dove lo stesso miracolo avviene solo dopo il miracolo della manna e delle quaglie. In questo senso, ricordando anche gli alti testi dove sono citati i miracoli di Mosè, come il Deuteronomio e i testi patristici, Spieser sottolinea la difficoltà di cercare una relazione troppo precisa tra testo e immagine. Se dunque l’attribuzione di questo pannello non sembra suscitare particolari difficoltà, è comunque importante sottolineare quanto questa composizione singolare sia rispetto alla prassi. Nota dalle catacombe, dai sarcofagi ma anche da vetri dorati l’iconografia di Mosè che colpisce la roccia è una delle più diffuse nel panorama tardoantico (Nieddu, “Miracolo della fonte”; Renaut, “Moïse, Pierre et Mithra”). Solitamente il profeta è raffigurato mentre colpisce con una verga la roccia ad altezza d’uomo, mentre da essa sgorga un’esile fonte che cade a terra. In questo senso la situazione di Santa Sabina è eccezionale: Mosè non è l’attore del miracolo, ma sottolinea semplicemente, agli occhi dello spettatore, il fatto avvenuto. Paolo (1 Cor 10, 4) vedeva in questo episodio la prefigurazione dell’eucaristia. La maggior parte dei Padri è però concorde nel considerare l’acqua scaturita dalla roccia come un’allusione al battesimo (Van Moorsel, “Il miracolo della roccia”). Tsuji insiste proprio su questa doppia valenza (Tsuji, Étude iconographique, pp. 99-101), dell’immagine, ulteriore esempio della polisemia dell’episodio – tipica per il mondo tardoantico. 216 Bibliografia: Mamachi, Annalium ordinis Praedicatorum, p. 572; Kondakov, “Les sculptures de la porte”, p. 371; Garrucci, Storia dell’arte cristiana, pp. 336-339; Berthier, La porte de Sainte-Sabine, pp. 51-52; Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, pp. 48-50; Leclercq, “Moïse”, coll. 1661-1683; Darsy, Santa Sabina, p. 77; Tsuji, Étude iconographique, pp. 99- 101; Van Moorsel, “Il miracolo della roccia”; Schlosser, “Moses”; Jeremias, Die Holztür, pp. 35-36; Spieser, “Le programme iconographique”, pp. 56-58; Nieddu, “Miracolo della fonte”; Renaut “Moïse, Pierre et Mithra”. b) Il miracolo della manna: Nella seconda scena Mamachi ha voluto vedere il Cristo mentre cena con gli apostoli dopo la risurrezione (Mamachi, Annalium ordinis Praedicatorum, p. 572). Kondakov ha invece creduto riconoscervi l’ospitalità di Abramo. I tre uomini seduti sarebbero stati i tre angeli, mentre i due personaggi laterali Abramo e Sara. Secondo lo studioso russo si trattava di completare il ciclo mosiaco con delle allusioni eucaristiche (Kondakov, “Les sculptures de la porte”, p. 371). Secondo Berthier era impensabile che i due personaggi, in abiti servili, fossero Abramo e Sara e pertanto ha proposto di interpretare la scena come il miracolo della manna (Es 16, 12-15). Inoltre, portando entrambi i presonaggi i capelli corti, l’identificazione con Sara era impossibile. Paradossalmente, però, Berthier ha considerato l’episodio come una prefigurazione eucaristica. In questo senso, malgrado la diversità iconografica, il significato di fondo diventa molto simile a quello proposto da Kondakov (Berthier, La porte de Sainte-Sabine, pp. 48-51). Si tratta del miracolo della manna anche per Wiegand, che sottolinea però quanto quest’iconografia sia insolita (Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, p. 49), Darsy, Jeremias e Spieser (Darsy, Santa Sabina, p. 77; Jeremias, Die Holztür, pp. 34-35; Spieser, “Le programme iconographique”, pp. 56-58). Quest’ultimo ha proposto di interpretare più precisamente gli oggetti in mano ai personaggi laterali come gli strumenti necessari per macinare e pestare la manna, menzionati nel libro dei Numeri (11, 8). 217 Il racconto della manna è piuttosto eccezionale nell’iconografia tardoantica. È noto solo nelle catacombe di Ciriaca e nel cubicolo dell’Esodo del cimitero Giordani a Roma (di Nino, “Manna”). In entrambi i casi l’episodio è raffigurato mentre gli israeliti raccolgono la manna. In questo senso l’atteggiamento presete sulle porte di Santa Sabina è radicalmente diverso, insistendo sulla ritualità di questo gesto. Considerata la prassi di mangiare sdraiati, ancora fortemente presente agli inizi del V secolo, la scelta operata a Santa Sabina potrebbe essere un modo per dare una dimensione liturgica all’avvenimento. La scelta operata a Santa Sabina è radicalmente diversa, insistendo sulla ritualità di questo gesto. Considerata la prassi di mangiare sdraiati, ancora fortemente presente agli inizi del V secolo, potrebbe essere un modo per dare una dimensione liturgica all’avvenimento. L’immagine presente sulla porta si inserirebbe quindi nella ricca esegesi patristica che – sviluppando le parole del Cristo (Gv 6, 32) – legge questo episodio come una prefigurazione dell’eucaristia (cfr. ad esempio Rufini, “De Luminibus”, 17; p. 130 ; Isidori episcopi Hispalensis, De ecclesiasticis officiis, II, 25 (24), p. 102). Bibliografia: Mamachi, Annalium ordinis Praedicatorum, p. 572; Kondakov, “Les sculptures de la porte”, p. 371; Garrucci, Storia dell’arte cristiana, pp. 336-339; Berthier, La porte de Sainte-Sabine, pp. 48-51; Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, p. 49; Leclerq, Henry, “Manne”; Leclercq, “Moïse”, col. 1661; Tsuji, Étude iconographique, pp. 87-90; Darsy, Santa Sabina, p. 77; Schlosser, “Moses”; Paul, Busch, “Manna, Mannalese”; Jeremias, Die Holztür, pp. 34-35; Spieser, “Le programme iconographique”, pp. 56-58; di Nino, “manna”. c) Il miracolo delle quaglie: Il terzo registro è stato interpretato da Mamachi come la cena di Emmaus, con il Cristo che spezza il pane davanti ai due discepoli (Mamachi, Annalium ordinis Praedicatorum, p. 572). Questa lettura fu ripresa anche da Kondakov 218 (Kondakov, “Les sculptures de la porte”, p. 371), prima di essere rifiutata da Berthier (Berthier, La porte de Sainte-Sabine, p. 48). Quest’ultimo ha individuato degli uccelli disposti sul tavolo, e, in base a questo e al contesto di tutta la formella, ha voluto vedervi una rappresentazione del miracolo delle quaglie (Es 16, 13). L’interpretazione è stata poi ripresa da Wiegand (Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, p. 49) e accolta anche Darsy, Jeremias e Spieser (Darsy, Santa Sabina, p. 76; Jeremias, Die Holztür, pp. 34-35; Spieser, “Le programme iconographique”, p. 56). Anche in questo caso, come per il miracolo della manna, la l’intenzione della composizione è in evidente contrasto con la tradizione precedente. Noto dai sarcofagi, da un affresco nel cubicolo dell’Esodo del cimitero Giordani e da uno dei pannelli narrativi della basilica di Santa Maria Maggiore, l’episodio è solitamente raffigurato come la caccia o la raccolta degli uccelli (D’Alessandro, “Raccolta delle quaglie”). In altri termini solitamente è la dimensione narrativa a essere sottolineata, mentre, in questo caso, similmente al pannello della manna, qui è stata fatta la scelta di rappresentare il banchetto come un avvenimento solenne, suggerendo un’interpretazione rituale del soggetto. Bibliografia: Mamachi, Annalium ordinis Praedicatorum, p. 572; Kondakov, “Les sculptures de la porte”, p. 371; Garrucci, Storia dell’arte cristiana, pp. 336-339; Berthier, La porte de Sainte-Sabine, p. 48; Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, p. 49; Leclercq, “Cailles”; Leclercq, “Moïse”, coll. 1660-1661; Darsy, Santa Sabina, p. 76; Tsuji, Étude iconographique, pp. 87-90; Schlosser, “Moses”; Jeremias, Die Holztür, pp. 34-35; Spieser, “Le programme iconographique”, p. 56; D’Alessandro, “Raccolta delle quaglie”. d) Il miracolo delle acque di Mara?: L’ultimo episodio di questo pannello è probabilmente anche il più discusso. Mamachi vi vedeva un’immagine del Cristo risorto (Mamachi, Annalium ordinis Praedicatorum, p. 572). Secondo il Garrucci si 219 trattava invece di Mosè, rappresentato mentre prega in un paesaggio bucolico (Garrucci, Storia dell’arte cristiana, pp. 336-339). Berthier propose di leggere la scena come il miracolo di Mara (Es 15, 23-25) e questo malgrado l’assenza dell’acqua (Berthier, La porte de Sainte-Sabine, pp. 47-48). Wiegand, dal canto suo, ha interpretato l’immagine come una sorta di iniziazione taumaturgica di Mosè: Dio darebbe al profeta i poteri che avrebbero permesso al popolo di attraversare il deserto (Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, pp. 48-49). Venturi ha parlato della presenza dell’albero che addolcirà le acque di Mara (Venturi, Storia dell’arte italiana, pp. 480). Darsy e Tsuji sono tornati all’interpretazione di Berthier (Darsy, Santa Sabina, p. 77; Tsuji, Étude iconographique, pp. 93-99), così come Jeremias, che ha fornito un argomento nuovo: la presenza dell’albero a destra di Mosè potrebbe essere interpretato come un’eco della terminologia ebraica, dove si parla di “albero” di Mara, tradotto sia nella Septuaginta sia nella Vulgata con “legno” (Jeremias, Die Holztür, p. 34). Questa spiegazione, però, non ha convinto Spieser che l’ha considerata troppo dotta. Per lui si tratterebbe di una generica conversazione di Mosè con Dio che, vista la mancanza di elementi ulteriori, non può essere precisata (Spieser, “Le programme iconographique”, pp, 61-62). La conclusione di Spieser appare la più convincente: senza altri elementi di contesto è impossibile stabilire con certezza il significato di questo pannello. Se si trattasse del miracolo delle acque di Mara – come sostenuto da Berthier, Darsy e Jeremias –, comunque, il pannello sarebbe decisamente diverso dal solo altro esempio noto, quello della navata della basilica di Santa Maria Maggiore a Roma (Menna, “I mosaici di Santa Maria Maggiore”, pp. 321-323) in cui l’immagine segue fedelmente la narrazione biblica. Mosè, in dialogo con Dio, apparso tra le nuvole, immerge il suo bastone nelle acque amare che diventano dolci e, immediatamente, il popolo comincia a bere. In questo senso la scelta sarebbe ancora una volta quella di un immagine molto più essenziale e metaforica di quella narrativa di Santa Maria Maggiore. 220 Bibliografia: Mamachi, Annalium ordinis Praedicatorum, p. 572; Garrucci, Storia dell’arte cristiana, pp. 336-339; Berthier, La porte de Sainte-Sabine, pp. 47-48; Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, pp. 48-49; Venturi, Storia dell’arte italiana, pp. 480; Leclercq, “Moïse”, col. 1660; Tsuji, Étude iconographique, pp. 93-99; Schlosser, “Moses”; Jeremias, Die Holztür, pp. 33-34; Spieser, “Le programme iconographique”, pp, 61-62. In sintesi i quattro episodi possono essere considerati, con ogni probabilità, come i miracoli di Mosè. La presenza della fonte, ma soprattutto quella delle quaglie sembrano argomenti decisivi in questo senso. La scelta delle composizioni è però un unicum: nessuno degli episodi raffigurati segue la prassi iconografica ricorrente e neppure tenta di “illustrare” fedelmente i testi sacri. Emancipate dalle fonti testuali, queste immagini vogliono attirare l’attenzione dello spettatore sulla figura di Mosè. Al centro di ognuno dei quattro riquadri il profeta assume una posizione di “factor” factor. Se si tiene conto anche degli altri elementi, si ha l’impressione che quanto si voleva enfatizzare era la dimensione sacerdotale del profeta. Un dato che si sposa bene con l’immagine di Mosè delineata dai Padri della Chiesa. Tsuji enfatizzò questo aspetto insistendo sulla dimensione liturgica delle composizioni. La studiosa nipponica sottolineò in particolare il minuto lavoro sulle tovaglie che potrebbe essere, a suo parere, rimando visivo a reali tovaglie liturgiche. Con Giovanni Crisostomo e Ambrogio Tsuji lesse quindi l’insieme delle scene come una riflessione circa il battesimo e l’eucarisitia (Tsuji, Étude iconographique, pp. 105-110) 221 222 7. Assunzione di Enoch (Ascensione) Descrizione: Il lungo pannello è interamente occupato da un’unica scena. Nella parte inferiore si trovano quattro personaggi. Tre esprimono, con diverse varianti, un gesto di sorpresa con le braccia alzate, mentre il quarto ha una postura composta, è seduto con la destra alzata verso il viso chinato. Nella parte superiore una figura di profilo è innalzata da tre personaggi alati: uno, tenendola per le mani, l’altro afferrandola per i capelli, mentre il terzo – raffigurato alla sua stessa altezza – accompagna il movimento. Tutti i personaggi indossano una toga e tutti sono glabri ad eccezione dell’uomo innalzato. Lo sfondo è articolato da linee incise e mosse che simulano, con ogni probabilità, le nuvole. Note critiche: Mamachi aveva letto la parte superiore dell’episodio come il Cristo in preghiera sul monte degli Ulivi, mentre la parte inferiore avrebbe rappresentato l’esortazione, formulata agli apostoli, di continuare a pregare (Mamachi, Annalium ordinis Praedicatorum, p. 572). Kondakov lo considerava invece una raffigurazione della resurrezione, visto in particolare il fatto che il Cristo era trascinato per i capelli, ma anche tenendo in conto il numero limitato di spettatori (Kondakov, “Les sculptures de la porte”, p. 366-368). Berthier esitava tra due possibili interpretazioni. La prima era quella dell’Ascensione, che per lo studioso rappresentava però diverse difficoltà: il Cristo è tirato dagli angeli e non sale da solo, come raccontato nelle Scritture, non porta un’aureola e uno dei quattro personaggi, che assistono alla scena, è visibilmente addormentato. La seconda, che lo studioso preferiva, riprendeva l’idea di Mamachi: il Cristo sarebbe raffigurato nel giardino del Getsemani, mentre nella parte inferiore sarebbero rappresentati i discepoli (Berthier, La porte de Sainte-Sabine, pp. 59-63). Il limite di tale lettura è non soltanto il vigoroso movimento degli angeli – nell’episodio del Getsemani non è mensionata un’ascensione – ma anche la presenza 223 di un quarto personaggio e il fatto che sia soltanto lui a dormire. Wiegand, dal canto suo, si è pronunciato a favore dell’Ascensione (Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, pp. 66-68). Per spiegare l’attività degli angeli, che turbava Berthier, egli ha ricordato che i passaggi delle Scritture usano verbi passivi per descrivere l’Ascensione: secondo Marco “Assumptus est in coelum” (24, 51), secondo Luca “recessit et ferebaturs in coelum” (16, 19) mentre negli Atti è scritto “elevatus est” (1, 9). Inoltre Paolo dice “Deus suscitavit eum a mortuis et constituit ad dexteram suam in coelibus” (Ef 1, 20). Dello stesso parere è anche Darsy secondo il quale la posizione del Cristo del pannello è simile a quella del celebre avorio di Monaco, la cui tradizione si sarebbe poi prolungata nell’arte carolingia. Al contrario, in un articolo dedicato a questo pannello nel 1962, Sahoko Tsuji arriva alla conclusione che l’iconografia di Santa Sabina è sostanzialmente diversa sia da quella delle ascensioni occidentali, come appunto l’avorio di Monaco, che di quelle di tipo orientale, note a partire dal VI secolo, il cui esempio più rappresentativo è l’evangeliario di Rabbula. Tsuji cerca quindi, prima nelle apoteosi imperiali e poi nei testi, una spiegazione all’atteggiamento eccezionalmente attivo degli angeli che trascinano il Cristo in alto. La soluzione proposta – che gli angeli accolgano il Cristo nell’ultima tappa della sua Ascensione – non trova però una fonte testuale diretta e gli argomenti usati sono soprattutto di tipo speculativo (Tsuji, “Le portes de Sainte-Sabine”, pp. 13-24). Sostanzialmente simile a quella di Darsy è la posizione di Jeremias che, precisando il contesto iconografico, non aggiunge elementi determinanti alla discussione (Jeremias, Die Holztür, pp. 68-72). Quest’attribuzione sembra quindi unanime visto che l’accettano senza nessuna esitazione quasi tutti gli autori che hanno negli ultimi anni menzionato, anche brevemente, l’episodio. La difficoltà è rappresentata, credo, da alcuni dettagli che sono stati tralasciati dagli studi. Si tratta, prima di tutto, della questione dell’iconografia stessa dell’Ascensione del Cristo. Nel corpus costituito già all’inizio del Novecento (Wald, “The Iconography of the Ascension”) e canonizzato nel volume considerato oggi ancora come un incontournable di Hélène Gutberlet (Gutberlet, Die Himmelfahrt Christi) non 224 esiste un esempio, prima del VI secolo – come aveva giustamente accennato anche Tsuji – nel quale il Cristo ascenda al cielo con l’aiuto degli angeli. E anche quando questo accade nel corso del VI secolo, e soprattutto in Oriente, gli angeli innalzano un clipeo e non direttamente il Cristo (Utro “Ascensione”; Heid-Saxer “Ascensione”). In Occidente, invece, fino agli anni ottoniani, la versione più diffusa, è quella con il Cristo che sale grazie all’aiuto della mano divina, che diventa progressivamente sempre di più attiva (Kessler, “Images of Christ”, pp. 1123-1132). Gli esempi noti del V secolo sono invece corrispondenti: il Cristo è sì elevato in cielo, ma soltanto dalla mano di Dio (Christern-Briesenick, Repertorium, nr. 42, pp. 29-30; Volbach, Elfenbeinarbeiten der Spätantike, nr. 110). La seconda difficoltà è rappresentata da alcuni testi. Il Crisostomo Latino, autore ignoto, attivo in Occidente tra la fine del IV e l’inizio del V secolo scrive: “Si donc Élie se glorifie d’avoir été transporté au ciel par un char et des chevaux de feu, combien de plus grande est cette gloire qui est la notre et à laquelle nous croyons : le Seigneur lui-même, remportant une victoire si éclatante sur les enfers, le diable, le monde et toutes les puissances du monde, est monté sans l’aide des anges et sans l’appui des serviteurs, non pas au ciel, mais au-delà de tous les cieux, par la seule puissance de sa majesté”504 (Chrysostome Latin, “Sermon sur l’ascension d’Élie”). Lo stesso concetto è quindi ricordato da Ambrogio che nella sua esposizione del vangelo secondo Luca (Ambrogio, Esplicazione del vangelo, VI, 96; t. II, pp. 80-81). Il 504 Per l’originale latino cfr. l’edizione moderna, Johannes Chrysostomos, “De ascensione Heliae”, VI, pp. 11-12: “Igitur si helias curru, atq; equis igneis ad coelestia transuectum se gloriatur, quanto magis maior haec quam credidimus gloria est, ipsum scilicet dominum de inferis, de diabolo, de mundo, omnibus mundanus virtutibus, tam gloriosum tropaeum ferentem, nulla angelorum opera, nullo adminiculo ministrorum, non ad coelum, sed ultra omnes coelus sola suae maiestatis ascendite potentia”, 225 vescovo milanese sottolinea la sostanziale diversità tra l’assunzione di Elia e l’Ascensione. Il primo è rapito, mentre il secondo torna di sua spontanea volontà alla casa del Padre. Ora, la gestualità degli angeli è in questo caso chiara. Inoltre, il fatto che il personaggio principale sia preso per i capelli ricorda la vicina scena del ratto del profeta Abacuc, ma non è certo una situazione degna del Cristo. Si ha quindi l’impressione che, malgrado un’importante tradizione storiografica, l’attribuzione di questo pannello sia per lo meno problematica. Un dato al quale va aggiunta la mancanza del nimbo che, come detto, caratterizza le immagini del Cristo posteriori alla risurrezione. Lo sfondo, come pure i gesti degli angeli e del personaggio principale fanno però comunque pensare a un’ascensione (Mentré-Regnault “Ascension”). In questo senso oltre a Elia, raffigurato in uno dei pannelli delle porte, nell’Antico Testamento un secondo profeta è stato rapito in cielo: si tratta di Enoch (Tabor “Heaven, Ascent to”). Nel libro della Genesi (5, 21-24) leggiamo: “Enoch visse sessantacinque anni e generò Metusela. Enoch, dopo aver generato Metusela, camminò con Dio trecento anni e generò figli e figlie. Tutto il tempo che Enoch visse fu di trecentosessantacinque anni. Enoch camminò con Dio; poi scomparve, perché Dio lo prese”. L’idea è quindi sviluppata nel libro del Siracide (44, 16): “Enoch piacque al Signore e fu rapito, esempio istruttivo per tutte le generazioni”. Sull’argomento tornò infine anche Paolo che, nella lettera agli Ebrei (11, 5), scrisse: “Per fede Enoch fu trasportato via, in modo da non vedere la morte; e non lo si trovò più, perché Dio lo aveva portato via. Prima infatti di essere trasportato via, ricevette la testimonianza di essere stato gradito a Dio”. Alla fine del IV secolo, Ambrogio commenta così l’episodio: “Anche Enoch fu trasportato in cielo: ma vi fu trasportato, Cristo vi è tornato da solo. Quegli fu trasportato in cielo perché il male non guastasse il suo cuore, questi distrusse il male presente in questo mondo” (Ambrogio, Seconda Apologia, 4, 24; pp. 166-167)505 . Enoch 505 “Enoch quoque raptus est ad coelum: sed tamen ille raptus est, hic regressus. Raptus est ille, ne malitia mutaret cor eius; hic ipsam malitiam saeculi huius abolevit”. 226 è perciò, al pari di Elia, rapito, portato nei cieli. Ambrogio usa – in maniera significativa – lo stesso termine “raptus est”. Considerati questi elementi, come pure la composizione del pannello, dove il personaggio principale subisce “passivamente” l’attività degli angeli, vorrei proporre di considerare questo episodio come il ratto di Enoch. A sostegno di quest’ipotesi deve essere inoltre invocato un ulteriore argomento: si tratta di un testo apocrifo, noto come il Libro segreto di Enoch, conservato oggi soltanto in una versione slavonica, prodotto in un ambiente grecoebraico, forse alessandrino, e datato con ogni probabilità al primo secolo dopo Cristo (Denis, Introduction aux pseudépigraphes, pp. 28-29; Le livre des secrets d’Hénoch). In questo testo l’ascensione di Enoch viene raccontata con maggiori dettagli: il profeta sente una grande tristezza, due angeli vengono ad incontrarlo e gli annunciano che sarebbe stato assunto in cielo. Enoch saluta quindi i suoi figli e, mentre sta ancora parlando, è chiamato dai due angeli e innalzato in cielo (Le livre des secrets d’Hénoch, 1-3). Per il pannello di Santa Sabina si tratta di elementi centrali: due angeli innalzano il profeta sotto gli occhi dei suoi figli. Non è possibile stabilire con certezza se il testo fosse noto a Roma agli inizi del V secolo, un indizio importante sembra però indicare che il racconto, o un altro molto simile, fosse noto ad Ambrogio. Nel Libro segreto di Enoch si parla infatti di un dettaglio chiave: gli angeli innalzano il profeta sulle proprie ali. Lo stesso elemento, pur essendo assente dal racconto biblico, è presente nel libro di Ambrogio Isacco o l’anima (Ambrogio, Isacco o l’anima, 8, 77; pp. 118-119). Questo significa che una versione apocrifa simile doveva circolare in Occidente alla fine del IV secolo. Se questo non bastasse, il fatto che la storia dell’ascensione di Enoch fosse sviluppata e diffusa ben oltre i testi canonici è documentato anche da un apocrifo etiope – di cui alcuni frammenti ritrovati a Qumrân attestano un’origine aramaica (Langlois, Le premier manuscrit du livre d’Hénoch) – citato nella lettera di Giuda (Gd 14-15) e nella seconda lettera di Pietro (2P. II, 4) ma anche da Tertulliano (Tertulliano, L’eleganza delle donne, I, 3; pp. 70-73). In questo contesto mi sembra plausibile considerare questa immagine una derivazione di una tradizione apocrifa, 227 di origine ebraica, diffusa nei primi secoli della nostra era, ma chiaramente integrata nel contesto cristiano. Questa attribuzione potrebbe forse essere messa in dubbio dall’atteggiamento dei personaggi sottostanti, due dei quali ricordano da vicino quelli dell’avorio di Monaco, il cui soggetto è chiaramente l’Ascesione. Nel contesto della porta di Santa Sabina – che testimonia una volontà di adattare schemi antichi a idee nuove e, viceversa, di creare nuove composizioni per soggetti tradizionali – una tale somiglianza non stupisce. A mio modo di vedere, però, essa ci dà in realtà elementi per riflettere sulla maniera in cui un’iconografia nuova si costituisce nel mondo tardoantico. Il punto di partenza può essere rappresentato dalla conoscenza che abbiamo del lavoro nelle botteghe tardoantiche. La prassi – che può essere esemplificata sul caso della progressiva migrazione dello schema della Vittoria antica nell’iconografia degli angeli, ma che è universalmente nota – è quella di un lavoro con modelli esistenti che, quando possibile, vengono adattati alle nuove esigenze. In questo senso, per creare lo schema dell’assunzione di Enoch, i tipi a disposizione potevano essere le apoteosi pagane, il ratto di Elia, oppure l’Ascensione del Cristo. Lo schema delle apoteosi, ma anche del ratto di Elia sono chiaramente diversi da quello presente in questo pannello e vanno pertanto esclusi. Per quanto riguarda lo schema dell’Ascensione all’occidentale, invece, esso doveva essere già costituito almeno fin dalla fine del IV secolo, come attestato appunto dalla tavoletta eburnea di Monaco, prodotta con ogni probabilità a Roma attorno al 400 (Volbach, Elfenbeinarbeiten der Spätantike, nr. 110). La sua composizione è, nelle grandi linee, simile a quella del nostro pannello e potrebbe essere stata il modello usato dagli artigiani che hanno lavorato sulla porta. Per evitare ogni confusione, questi ultimi hanno modificato gli elementi chiave facendo del Cristo asceso Enoch “rapito”: il lieve gesto della mano del Padre è stato così sostituito dall’energico movimento degli angeli che trascinano, per i capelli, il profeta. Si tratta di un elemento che doveva essere chiramente comprensibile per lo spettatore tardoantico. I quattro personaggi sottostanti sono così diventati i figli del patriarca che assistono alla scena secondo il 228 racconto apocrifo. Il tipo dell’Ascensione è stato quindi, con ogni probabilità, adattato e modificato secondo le nuove esigenze. Ovviamente, però, gli elementi secondari, che pure avevano una funzione nella scena – in questo caso la gestualità dei personaggi sottostanti – rimanevano immutati come memoria dei modelli usati dalla bottega per la creazione di un’iconografia nuova. Bibliografia: Mamachi, Annalium ordinis Praedicatorum, p. 572; Kondakov, “Les sculptures de la porte”, p. 366-368; Berthier, La porte de Sainte-Sabine, pp. 59-63; Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, pp. 66-68; Tsuji, Étude iconographique, pp. 157-187; Tsuji, “Le portes de Sainte-Sabine”; Gray, Nicolete, “Enoch”; Lucchesi Palli, “Enoch und Elias”; Jeremias, Die Holztür, pp. 68-72; Segal, “Heavenly Ascent in Hellenistic Judaism”; Tabor, “Heaven, Ascent to”; Mentré-Regnault “Ascension”. 229 230 8. La Teofania (Parusia) Descrizione: Questo grande rilievo è occupato da un’unica scena articolata su due registri. Nella parte inferiore troviamo tre figure: due uomini vestiti con una tunica, con una mano velata, alzano le braccia in direzione di un oggetto – forse una croce iscritta in un cerchio – che forse tengono addirittura in mano. In mezzo a loro – e sotto questo oggetto – si trova una donna velata con le braccia alzate in segno di preghiera. Questo registro inferiore è coperto da un arco, in leggero rilievo, dentro il quale sono iscritti il sole, la luna e cinque stelle. Nel registro superiore si trova un uomo in piedi, con la destra alzata e con un rotolo aperto nella sinistra. Sul rotolo si distinguono le lettere greche ΙΧΘΥΣK. L’uomo è iscritto in una gigantesca corona, mentre ai suoi lati sono scolpite altre due lettere greche l’α e l’ω. Ai lati della corona sono quindi rappresentati i? quattro viventi alati, partendo dall’alto a sinistra e seguendo l’orologio: l’aquila, il leone, il bue e l’uomo. L’iscrizione, ben nota nella prima arte cristiana, è un’abbreviazione da sciogliere come Ιησο'ς Χριστ-ς Θεο' Υι-ς Σωτ3ρ Κ'ριος – Gesù Cristo Figlio di Dio, Salvatore, Signore. Note critiche: Il primo a cercare un’identificazione per questo episodio fu Mamachi che, dopo avere decriptato giustamente l’iscrizione e aver descritto gli elementi apocalittici del pannello, lo interpretò come illustrazione del XII capitolo dell’Apocalisse (Mamachi, Annalium ordinis Praedicatorum, p. 572). Considerando la composizione su due registri, con il Cristo elevato sopra un gruppo di apostoli, Kondakov ha visto nel pannello una delle più antiche rappresentazioni dell’Ascensione, così come è nota dai modelli orientali. Nei due uomini togati ha riconosciuto Pietro e Paolo, mentre la donna, a suo parere incoronata dagli apostoli, non poteva essere che l’Ecclesia (Kondakov, “Les sculptures de la porte”, pp. 368-369). Berthier ha accettato 231 l’interpretazione di Kondakov, insistendo però anche su un secondo significato, già anticipato dallo studioso russo: oltre a un’immagine dell’Ascensione il rilievo rappresenterebbe la gloria del Cristo risorto. Le lettere apocalittiche, l’alfa e l’omega, permettevano quindi di comprendere questa teofania anche in relazione alla struttura delle sacre scritture, perché si sarebbe trattato dell’illustrazione della fine del Nuovo Testamento. La figura femminile tra Pietro e Paolo doveva essere, anche secondo Berthier, la personificazione della Chiesa coronata (Berthier, La porte de Sainte-Sabine, pp. 71-79). Wiegand ha rifiutato tutte queste ipotesi: sulle porte vi era, a suo parere, già un’ascensione. Perciò, questa scena doveva rappresentare il Cristo come Signore del Mondo, fatto deducibile anche dall’iscrizione che si conclude appunto con Κ'ριος / Signore. Per quanto riguarda la parte inferiore, Wiegand ha accettato l’idea che si trattasse di una rappresentazione dell’Ecclesia tra i principi degli apostoli, egli l’ha considerata però una personificazione della Chiesa terrestre. È la ragione per cui non le è destinata la corona che alzano i principi degli apostoli, innalzata invece in onore del Cristo-Signore, verso il quale tutti e tre i personaggi volgono i loro sguardi (Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, pp. 82-89). Venturi ha seguito questa linea precisando però che l’oggetto sopra la personificazione dell’Ecclesia non era una croce, bensì una corona “con una fiammella” (Venturi, Storia dell’arte italiana, p. 483). In disaccordo con questa interpretazione Kantorowicz: secondo lo studioso a essere rappresentata era in realtà la seconda parusia. Il Cristo fa la sua apparizione solenne, preceduto dalla sua croce che scende dal cielo, adorata da Maria, Pietro e Paolo. Nel vangelo di Matteo (24, 26-30) la croce non scende in terra ma appare solamente nei cieli. Secondo Kantorowicz questa variante era da imputare a una derivazione dalla tradizione imperiale dell’adventus. Nel caso dell’arrivo trionfale dell’imperatore, infatti, quest’ultimo è sempre preceduto dalle sue insegne; la croce deve perciò precedere il Cristo. Lo studioso ha spiegato questa sovrapposizione con l’omiletica dei Padri orientali che, all’inizio del V secolo, confrontavano spesso la seconda venuta e l’adventus. Come fonte più precisa egli ha suggerito l’Apocalisse di Pietro (Kantorowicz, “The ‘King’s Advent’”, pp. 223-229). 232 Richard Delbrueck concordava in linea di massima con Kantorowicz, puntualizzando però che l’Apocalisse di Pietro non può essere indicata come unica fonte e aggiungendo alcune brevi riflessioni sulla reciproca relazione tra modelli di stampo imperiale con quelli religiosi (Delbrueck, “The Acclamation Scene”, p. 217). Darsy è tornato invece alle conclusioni di Wiegand chiamando il pannello “Il trionfo del Cristo e della Chiesa”. Lo studioso ha aggiunto alcuni elementi importanti: a suo parere Paolo tiene la corona-croce con una spada, la cui punta si intravede nel cerchio, un dato consono con la decorazione militare presente all’interno della Chiesa. Darsy ha spiegato inoltre la lettera “K” alla fine della consueta sigla ΙΧΘΥΣ nel contesto della prima azione del concilio di Efeso contro Nestorio: insistere sul titolo di Signore Dio era un modo chiaro per dar peso alla natura divina del Cristo (Darsy, Santa Sabina, pp. 81-82). Nel 1961, Tsuji interviene nel dibattito e, dopo una lunga analisi, conclude che si tratta di un’immagine del Cristo nella sua gloria eterna mentre trasmette la sua croce – simbolo della vittoria – alla sua Chiesa, personificata da Pietro, Paolo e Maria-Ecclesia (Tsuji, Étude iconographique, pp. 298-326). Jeremias si sofferma, nel 1980, sulla dimensione celebrativa della divinità, dalla quale derivano, secondo la studiosa, le Maiestas Domini medievali. Dopo aver insistito sugli elementi apocalittici della scena, ha concluso che il Cristo è raffigurato al momento del secundus adventus. Dopo ampia discussione, identifica quindi i personaggi sottostanti con Pietro, Paolo e l’Ecclesia, rappresentanti della Chiesa terrestre (Jeremias, Die Holztür, pp. 80-88). A questa lettura si è opposto, in una recensione al volume di Jeremias, Peter Maser che ha suggerito invece di vedere nella scena la glorificazione della Theotokos, spiegabile nel contesto del concilio di Efeso (Maser, “[Rezension von:] Jeremias”, pp. 238-239). Spieser è tornato a dar ragione a Kantorowicz e a Jeremias: a essere rappresentata è la seconda venuta del Cristo, questi è preceduto da una croce e acclamato da Pietro, Paolo e dall’Ecclesia. Da tali conclusioni ha completamente dissentito Yves Christe: a suo parere non bastano l’alfa e l’omega e i quattro viventi a significare automaticamente il secondo ritorno. Il Cristo rappresentato è un Cosmocrator che, come un sol invictus, domina il mondo sopra il firmamento. La 233 donna raffigurata, poi, è più piccola di Pietro e Paolo e non può quindi essere né Maria né tanto meno l’Ecclesia, ma deve trattarsi di un’immagine di Santa Sabina (Christe, L’Apocalypse de Jean, pp. 88-89). Qualche anno dopo, nel 2003, il pannello è stato analizzato da un allievo di Yves Christe, Giuseppe de Spirito, che è giunto però a conclusioni decisamente diverse dal suo maestro (De Spirito, “Per interpretare la scena”). Attraverso un ragionamento molto complesso, De Spirito ha considerato l’insieme del pannello come una “visione attuale, serena e ideale, di chiara matrice apocalittica, di Cristo e della Sua Ecclesia” (De Spirito, “Per interpretare la scena”, p. 198). Secondo lo studioso la scena è costruita in tensione tra la celebrazione del trionfo del Cristo, la chiesa attuale – personificata da Pietro e da Paolo –, e la donna velata, che doveva essere letta come l’Ecclesia ex circumcisione. Nel 2006, infine, AnneOrange Poilpré ha affermato che i due registri vanno letti in maniera separata: quello superiore come “une vision intemporelle, à caractère dogmatique et cosmique”, mentre quello inferiore come una fondazione simbolica della chiesa cristiana, con Pietro e Paolo che attorniano, appunto, la personificazione dell’Ecclesia (Poilpré, Maiestas Domini, pp. 90-93). Premettendo che una lettura più completa del pannello può essere sviluppata a mio avviso solo nel contesto generale della porta, è comunque importante soffermarsi qui su alcuni elementi chiave. Si tratta prima di tutto del fatto che, nella tradizione patristica, il testo dell’Apocalisse non è recepito in maniera univoca. Dopo una prima fase contraddistinta da una lettura letterale e millenaristica (Ireneo, Tertulliano, Ippolito), se ne diffonde una simbolica ed ecclesiologica (Vittorino, Ticonio) che determina tutta l’esegetica posteriore fino a Beda (cfr. i testi generali Bonner, “St. Bede in the tradition”; Romero Pose “Apocalisse”). L’interpretazione spazia quindi tra un’allegoria del primo avvento, e di una teofania “presente ed eterna”, fino a immagini profetiche. Parallelamente a tale polifonia interpretativa, anche le raffigurazioni dei primi secoli dopo Costantino sono plurisemantiche (Van der Meer, L’apocalypse dans l’art; Utro, “Parusia”). Come dimostrato in particolare dagli studi di Yves Christe, figurare un “ambiente apocalittico” con il Cristo protagonista significa 234 perciò, nella maggior parte dei casi, descrivere una generale situazione di teofania gloriosa nei cieli (Christe, “Traditions littéraires”; Christe, L’Apocalypse de Jean). Tornando ora all’immagine di Santa Sabina siamo evidentemente, prima di tutto, in presenza di un Cristo-Dio. La sua postura, con la destra alzata, in piedi e con in mano il rotolo aperto è uno schema inventato nella seconda metà del IV secolo proprio per designare il Cristo-Dio Cosmocrator (Spieser, Autour de la “Traditio Legis”; FolettiQuadri, “Roma, l’Oriente e il mito”). In questo senso gli animali del tetramorfo sembrano avere, come prima funzione, quella di celebrare il Cristo-sovrano (Nilgen, “Die Bilder über dem Atlar”). Passa in secondo piano anche la funzione delle lettere apocalittiche (Poilpré, Maiestas Domini, p. 92). Mentre la volta celeste, posta ai suoi piedi – che riprende un’idea nota in ambito cristiano già alla metà del IV secolo, come dimostra il sarcofago di Giunio Basso – non fa che confermare il suo status di padrone del mondo. I tre personaggi sottostanti adorano, con i loro gesti, il Cristo. In questo senso mi sembra che un minuto dettaglio – e di difficile lettura – come è la crocetta tra le mani dei due apostoli non permetta di dare un senso univoco alla composizione. La tesi Yves Christe, che si tratta cioè della visione teofanica del Cristo, Signore del mondo, mi sembra perciò la più convincente. Per quanto riguarda l’identità dei personaggi del registro inferiore, un elemento importante può essere aggiunto: già Jeremias considerava questa composizione come il possibile riflesso di un’immagine absidale (Jeremias, Die Holztür, p. 88), idea ripresa anche da Belting-Ihm e da Spieser (Belting-Ihm, “Theophanic images of divine majesty”, p. 44; Spieser, “Le programme iconographique”, p. 80). In questo caso la composizione sarebbe quindi la riproposizione di una calotta absidale, suddivisa in due parti, molto simile alla decorazione di un secolo posteriore di Sant’Apollinare in Classe a Ravenna (Filipová, “Santo, vescovo e confessore”; Jäggi, “Sant’Apollinare in Classe”) o addirittura tra calotta e tamburo come era il caso a Cromi in Georgia all’inizio del VII secolo (Foletti-Quadri, “Roma, l’Oriente e il mito”, pp. 6-8). Si tratta di una soluzione plausibile che potrebbe aiutarci a precisare anche il significato della parte inferiore della composizione. Ammettendo che il pannello 235 riprenda una composizione absidale, appare infatti logico proporre, con Spieser, che fosse proprio la decorazione dell’abside della basilica di Santa Sabina a essere qui “sdoppiata” sulla porta (Spieser, “Le programme iconographique”, p. 80). In tal caso la figura centrale potrebbe essere interpretata, come già proposto anche da Christe, proprio come Santa Sabina (Christe, L’Apocalypse de Jean, p. 89). A sostegno di tale idea può quindi essere ugualmente invocato il fatto che la rappresentazione del santo titolare nella chiesa – stante e orante – è relativamente comune nell’arte tardoantica. Ne sono esempi certi l’abside della chiesa, oggi distrutta, di Santa Felicita a Roma, dove la santa titolare era raffigurata orante sotto un’immagine del busto del Cristo che la incoronava con una corona della vittoria (Belting Ihm, Die Programme der christlichen Apsismalerei, pp. 147-148). Nel VI secolo uno schema simile appare nella già ricordata basilica di Sant’Apollinare in classe, mentre nel corso del VII secolo un’immagine della titolare orante appare nel catino absidale a Sant’Agnese fuori le Mura (625-638; Brandenburg Le prime chiese di Roma, pp. 241-248) e nell’oggi distrutta chiesa di Sant’Eufemia in Suburba a Roma (687-701; Belting-Ihm, Die Programme der christlichen Apsismalerei, p. 156). In questi ultimi due casi la presenza divina è ridotta alla sola mano che incorona la santa, forse eco della poderosa crescita del culto martiriale a Roma dopo il pontificato di Gregorio Magno, che obbliga i committenti a dare uno spazio maggiore alle immagini dei santi (590-604; Kalinowski, Frühchristliche Reliquiare, pp. 101-102). Considerate questi esempi credo sia legittimo supporre che la piccola figura orante sia effettivamente santa Sabina, lo strano oggetto sopra la sua testa potrebbe allora essere la sua corona che le viene proiettata da un raggio della luce divina sul capo. La santa titolare è immersa nella preghiera, mentre la sua “testimonianza” terrestre è ricompensata dal gesto del Signore e al contempo da quello dei due principi degli apostoli. L’insieme della composizione può così essere letto come una celebrazione “locale” del Cristo Cosmocrator, adorato da Pietro, Paolo – i santi romani per eccellenza – e dalla santa titolare, che intercede probabilmente presso il Signore anche a favore della comunità parrocchiale e dei visitatori della basilica. 236 Bibliografia: Mamachi, Annalium ordinis Praedicatorum, p. 572; Kondakov, “Les sculptures de la porte”, pp. 368-369; Berthier, La porte de Sainte-Sabine, pp. 71-79; Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, pp. 82-89; Venturi, Storia dell’arte italiana, p. 483; Kantorowicz, “The ‘King’s Advent’”, pp. 223-229; Delbrueck, “The Acclamation Scene”, p. 217; Darsy, Santa Sabina, pp. 81-82; Tsuji, Étude iconographique, pp. 298-326; Van der Meer, L’apocalypse dans l’art; Jeremias, Die Holztür, pp. 80-88; Maser, “[Rezension von:] Jeremias”, pp. 238-239; Christe L’Apocalypse de Jean, pp. 88-89; Utro, “Parusia”; Poilpré, Maiestas Domini, pp. 90-93. 237 9. Apparizione del Cristo risorto agli apostoli Descrizione: Sullo sfondo di una parete di mattoni si trovano quattro figure. Sulla sinistra tre uomini glabri in toga. I primi due sono retti, mentre il terzo china il capo e avanza le mani. Di fronte a loro, sta un uomo ugualmente vestito di una larga toga, ma con capelli e barba lunghi. Con la mano destra indica i tre personaggi, mentre dietro al suo capo è inciso il cristogramma costantiniano che associa le lettere greche χρ con l’α e l’ω. Note critiche: Tutti gli autori – eccetto Viktor Schultze, che considerava l’episodio come il miracolo di Cafarnao (Schultze, Archäologie der altchristlichen Kunst, p. 282) e Venturi per il 238 quale era l’arrivo del Cristo nella casa del centurione (Venturi, Storia dell’arte italiana, pp. 480) – sono concordi nel vedere in questo episodio l’apparizione del Cristo risorto ai discepoli. Bethier precisa che la risurrezione avvenuta è testimoniata dal fatto che il capo del Cristo sia ornato da una strana aureola crucifera – solo caso in tutta la porta. Egli considera inoltre il gesto del Cristo come la visualizzazione di un ordine dato ai discepoli. Secondo lo studioso si tratterebbe pertanto dell’episodio narrato nel vangelo di Giovanni (20, 19-23), dove il Cristo dà ai discepoli la facoltà di perdonare i peccati. La scelta dell’aureola crucifera si spiega, infine, secondo Berthier come un’affermazione della divinità del Cristo, essendo il cristogramma un segno identitario antiariano (Berthier, La porte de Sainte-Sabine, pp. 36-39). Wiegand accetta l’idea dell’apparizione del Cristo ai discepoli, a suo parere, però, il gesto del primo discepolo è quello di Tommaso che, dopo aver messo la sua mano nelle piaghe del Cristo, professa “mio Signore e mio Dio” (Gv 20, 28; Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, pp. 30-34). È dello stesso parere anche Darsy che mette, pur in maniera molto sommaria, l’episodio in relazione con la liturgia della domenica in Albis, la prima domenica dopo pasqua, quando veniva letto il testo (Darsy, Santa Sabina, p. 75). Jeremias, dal canto suo, relativizza l’attribuzione dell’episodio all’incredulità di San Tommaso vista l’unicità di questa soluzione iconografica. Si tratterebbe perciò dell’apparizione del Cristo ai discepoli, ma è difficile stabilire a quale episodio evangelico il pannello rinvii precisamente (Jeremias, Die Holztür, pp. 66-68). Il ragionamento di Jeremias è logico, ha però limiti importanti. Primo tra tutti quello di supporra che serie di immagini note dell’incredulità di Tommaso è rappresentativa. Se consideriamo infatti i casi noti, tra IV e VI secolo di questa iconografia mi sembra che il solo criterio in comune sia quello della diversità (Leclercq, “Thomas (incrédulité de saint)”). Sul cofanetto del British Museum troviamo infatti Tommaso mentre tocca le piaghe del Cristo in mezzo a un gruppo di apostoli, piuttosto difficile da interpretare (Foletti, “Il cofanetto con scene della Passione”). L’apostolo è solo, mentre pone la mano nel fianco del Cristo sul sarcofago di San Celso (Brandenbug, “La scultura a Milano”; Dresken-Weiland, Repertorium, nr. 239 250), a Sant’Apollinare in Classe, attorniato dagli apostoli, il Cristo indica la sua piaga, mentre Tommaso si inchina per riconoscere l’avvenuta risurrezione. In questo senso, poiché non è visibile la ferita nel fianco del Cristo, la scena non può essere attribuita con certezza assoluta. Dall’altra parte, tenuto conto del fatto che il gesto del primo apostolo che si inchina è simile a quello di Tommaso a Sant’Apollinare, inoltre, vista la varietà delle formule per rappresentare la scena, il gesto compiuto dall’apostolo non è certamente casuale. In questo senso, la proposta di Wiegand è probabilmente la più plausibile. A dare peso a questa soluzione vi è poi l’argomento di Darsy: l’incredulità di San Tommaso era la lettura principale fatta la prima domenica dopo Pasqua almeno alla fine del VI secolo (Chavasse, Le sacramentaire Gélasien, pp. 237-238). Con ogni probabilità, tale lettura faceva parte del calendario romano già nel corso del V secolo. In questo senso, la scelta dell’episodio di Tommaso, piuttosto che una generica apparizione agli apostoli, si giustificherebbe proprio perché festa indipendente della liturgia romana. Ne è con ogni probabilità una prova indiretta anche lo stesso cofanetto della passione del British Museum, sul quale ogni pannello sembra rispondere a un episodio della liturgia romana, e sul quale è presente proprio l’incredulità di San Tommaso (Foletti, “Il cofanetto con scene della Passione”). Bibliografia: Mamachi, Annalium ordinis Praedicatorum, p. 572; Schultze, Archäologie der altchristlichen Kunst, p. 282; Berthier, La porte de Sainte-Sabine, pp. 36-39; Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, pp. 30-34; Venturi, Storia dell’arte italiana, pp. 480 ; Leclercq, “Thomas (incrédulité de saint)”; Darsy, Santa Sabina, p. 75; Tsuji, Étude iconographique, pp. 151-156; Jeremias, Die Holztür, pp. 66-68. 240 11. Il Cristo incontra le pie donne nel giardino Descrizione: Articolata da tre alberi, la scena raffigura due personaggi femminili velati, con entrambi la mano destra alzata. Le donne sembrano dialogare con un uomo dalla folta barba e con i capelli, vestito di una toga che – alzando la mano destra in segno di locuzione – sembra rispondere loro. Note critiche: Fin dagli studi di Mamachi e Kondakov la scena è stata identificata con l’episodio raccontato nel vangelo di Matteo (28, 7-9): due Marie, dopo aver parlato con l’angelo, incontrano il Cristo risorto nel giardino (Mamachi, Annalium ordinis Praedicatorum, p. 572; Kondakov, “Les sculptures de la porte”, p. 366; Berthier, La porte de Sainte-Sabine, pp. 52-53). Sono dello stesso parere anche Wiegand, Darsy e Jeremias (Wiegand, Das 241 Altchristliche Hauptportal, pp. 50-51; Darsy, Santa Sabina, p. 77; Jeremias, Die Holztür, pp. 65-66). Nel pannello non vi sono elementi che abbiamo suscitato dibattito, la sola questione veramente importante è perciò quella della ragione della copresenza di due episodi semanticamente così prossimi come lo sono le donne al sepolcro e il loro incontro con il Cristo nel giardino. Grazie al dittico eburneo della Passione, conservato nel tesoro del Duomo di Milano – datato da Volbach al IX secolo, ma con ogni probabilità copia di un rilievo romano della prima metà del V secolo (Volbach, Elfenbeinarbeiten der Spätantike, nr. 232) – sappiamo che tale prassi non era eccezionale. Darsy suggeriva a questo proposito l’idea che ognuno dei due episodi venisse letto in un momento liturgico diverso: la lettura dell’incontro con l’angelo al sepolcro sarebbe stata pronunciata la notte del sabato, mentre quella dell’incontro con il Cristo nel giardino avrebbe costituito il fulcro della liturgia domenicale (Darsy, Santa Sabina, pp. 76-77). Si tratta di un’ipotesi seducente che non trova però prove dirette nelle fonti scritte d’epoca. Bibliografia: Mamachi, Annalium ordinis Praedicatorum, p. 572; Kondakov, “Les sculptures de la porte”, p. 366; Berthier, La porte de Sainte-Sabine, pp. 52-53; Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, pp. 50-51; Venturi, Storia dell’arte italiana, pp. 480 ; Leclercq, “Résurrection”, coll. 1400-1401; Darsy, Santa Sabina, p. 77; Holl, Oskar [et al], “Noli me tangere”; Jeremias, Die Holztür, pp. 65-66. 242 11. Annuncio del tradimento di Pietro Descrizione: Su uno sfondo fatto di mattoni sono raffigurati due uomini. Il primo con la barba e i capelli folti e lunghi, vestito di una toga, è rappresentato di profilo e fa un gesto in direzione dell’altro personaggio. Quest’ultimo, ugualmente vestito d’una tunica, ma con la barba e i capelli corti, si volge in direzione del primo personaggio. A destra del pannello si trova quindi una colonna scanalata sulla quale è raffigurato un gallo. Note critiche: Il Mamachi aveva individuato nel pannello l’annuncio del tradimento di Pietro (Mamachi, Annalium ordinis Praedicatorum, p. 572), Nikodim Kondakov aveva invece parlato più genericamente solo di tradimento (Kondakov, “Les sculptures de la porte”, p. 366). La sintesi fatta da Berthier sottolinea l’ambiguità della scena. 243 Essendovi rappresentato un dialogo potrebbe anche essere l’immagine dell’annuncio del tradimento. Tuttavia, considerata la prassi, nota dai sarcofagi, di rappresentare l’annuncio con il Cristo che mostra con tre dita il numero dei tradimenti, Berthier conclude che a essere figurato è Pietro che ha appena rinnegato il Cristo, il quale si volge verso di lui con uno sguardo di rimprovero. Berthier argomenta anche con la funzione di memento dell’episodio ricordando che un gallo era collocato, sopra una colonna, in Laterano per ricordare a tutti il pericolo del peccato (Berthier, La porte de Sainte-Sabine, pp. 63-65). Wiegand è giunto alle stesse conclusioni di Berthier, evidenziando la sostanziale diversità tra il rilievo di Santa Sabina ed episodi – come quello di Sant’Apollinare Nuovo – dove è chiaramente rappresentato l’annuncio del tradimento (Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, pp. 69-71). Invece per Darsy era proprio quest’ultimo il soggetto della scena e il gesto di Pietro sarebbe l’energico rifiuto dell’annuncio fatto dal Cristo (Darsy, Santa Sabina, pp. 79-80). Sulle stesse posizioni, infine, anche Jeremias la quale fa riferimento a un unico schema iconografico presente dal IV al VI secolo (Jeremias, Die Holztür, pp. 54-56). Considerati escusivamente gli elementi forniti dal rilievo, è impossibile stabilire con certezza quale dei due momenti dell’episodio è rappresentato. Rispetto agli altri esempi noti il pannello si trova, per certi versi, a metà strada. Se consideriamo infatti il pannello con raffigurato il tradimento di Pietro del cofanetto della Passione del British Museum (Foletti, “Il cofanetto con scene della Passione”), non possono esservi dubbi sul fatto che siamo nell’attimo stesso in cui il gallo ha cantato per la terza volta. La serva sta ancora indicando l’apostolo, il gallo si trova sopra la sua testa ma, soprattutto, il Cristo che porta già la croce sta guardando Pietro, che allarga le braccia in segno di impotenza davanti all’atto compiuto. L’anacronismo narrativo per cui il Cristo porta già la croce serve, da un punto di vista del racconto, a rendere esplicito l’episodio: Pietro ha tradito e il Cristo è già sulla via del Calvario. Nei casi in cui, invece, si tratta certamente dell’annuncio, il Cristo indica spesso il numero di tre e, comunque, è assorto in un dialogo con Pietro che si trova di fronte a lui. Il gallo è 244 presente come memento, ma non entra direttamente in scena: il già ricordato episodio di Sant’Apollinare nuovo è rivelatore in questo senso (Deliyannis, Ravenna in Late Antiquity, pp. 153-158). Ora se, a livello della composizione, il pannello di Santa Sabina è più vicino all’episodio di Ravenna, il gesto del Cristo che indica il gallo e soprattutto la torsione compiuta da Pietro fanno pensare piuttosto all’attimo successivo al canto del gallo. Certo, contrariamente ai testi, il Cristo è rappresentato qui libero, tuttavia l’atteggiamento di Pietro evoca con molta efficacia un movimento di sorpresa. Lo stato di conservazione e la stessa composizione non permettono di giungere a una conclusione definitiva. La proposta di vedere però nel pannello il rinnegamento consumato appare come più plausibile. A sostegno di questa tesi può essere anche ricordata l’omeletica patristica, ben sintetizzata dalle parole di Ambrogio. Egli non fa neppure menzione dell’annuncio, che ricorda solo brevemente quando parla del rinnegamento stesso. Si sofferma a lungo, invece, sul tradimento (Ambrogio, Esplicazione del vangelo, 10, 72-96; pp. 446-463). Il dottore della Chiesa riflette sulle ragioni di tale mancanza, cerca anche di giustificare il comportamento dell’apostolo, soprattutto però medita sul pentimento di Pietro, il pentimento del giusto, che con le sue lacrime lava l’onta del peccato (Ambrogio, Esplicazione del vangelo, 10, 88-96; 456-463). La stessa retorica è quindi usata, qualche decennio più tardi, a Roma, da Leone Magno (Leone Magno, Sermoni sul mistero pasquale, 47, 4, 4-7; pp. 230-231). In questo senso il dato centrale nell’esegesi, più che capacità profetica del Cristo, ampiamente confermata in altre situazioni, è proprio l’esemplarità del pentimento. A una simile conclusione è giunta – pur basandosi su argomenti diversi – anche Paola Porta (Porta, “L’ iconografia della scena dell’annuncio”, pp. 243-244; 248). In conclusione, l’ipotesi che il pannello rappresenti il tradimento già avvenuto risulta quindi più plausibile anche in un’ottica di una necessità esegetica. 245 Bibliografia: Mamachi, Annalium ordinis Praedicatorum, p. 572; Kondakov, “Les sculptures de la porte”, p. 366; Berthier, La porte de Sainte-Sabine, pp. 63-65; Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, pp. 69-71; Stuhlfauth, Die apokryphen Petrusgeschichten, pp. 18-20; Leclercq, “Pierre (Saint)”; Callisen, “The Iconography of the Cock”; Darsy, Santa Sabina, pp. 79-80; Tsuji, Étude iconographique, pp. 112-116; Ramieri, “Negazione di Pietro”; Laske, “Verleugung Petri”; Porta, “L’iconografia della scena dell’annuncio”; Jeremias, Die Holztür, pp. 54-56; Dresken-Weiland, Bild, Grab und Wort, pp. 146-161. 246 12. Il ratto di Abacuc Descrizione: L’episodio è è inserito in un paesaggio bucolico e roccioso. Nella parte destra pascola un gregge di capre, sorvegliato da un pastore vestito di una corta tunica. Una capra, sollevata sulle zampe posteriori, mangia le foglie dell’albero all’estrema destra del riquadro. Nella parte sinistra è raffigurato un uomo, anche lui con una corta tunica, che tiene in mano un vassoio con sopra tre pani segnati con una croce. Dietro di lui c’è una roccia, mentre alla sua sinistra c’è un cane, probabilmente il cane a guardia del gregge, che abbaia saltando nella sua direzione. Il cielo, per tutta la larghezza della scena, è occupato da una figura alata in volo che afferra per i capelli l’uomo con il vassoio. 247 Note critiche: Tutti gli studiosi che si sono occupati di questo pannello hanno concluso che vi è rappresentato il ratto del profeta Abacuc, così come è narrato nel libro di Daniele (14, 30-35). Mamachi aveva supposto che accanto al ratto fosse rappresentato Daniele tra i leoni, ossia l’episodio successivo al ratto di Abacuc (Mamachi, Annalium ordinis Praedicatorum, p. 572). Garrucci si era chiesto se l’angelo non tenesse in mano un volumen (Garrucci, Storia dell’arte cristiana, pp. 354-356), mentre Kondakov vi aveva visto un vaso con il quale veniva asperso il capo del profeta. Quest’ultimo aveva anche interpretato la scena come una possibile allusione all’ascensione e sostituto dell’immagine di Daniele nella fossa dei leoni. Secondo lo studioso russo gli animali rappresentati erano delle pecore (Kondakov, “Les sculptures de la porte”, pp. 371- 372). Berthier ha concordato in generale con questa lettura, precisando due dettagli: l’angelo afferra il profeta per i capelli, mentre gli animali rappresentati sono certamente capre (Berthier, La porte de Sainte-Sabine, pp. 79-82). Sostanzialmente dello stesso parere anche Wiegand, che ha sottolineato la qualità e la composizione ellenistica del rilievo, ma ha aggiunto soltanto pochi elementi al dibattito critico (Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, pp. 90-92). Lo stesso si può dire del contributo di Félix Darsy, il quale si è dilungato su particolari della fauna e della flora – la capra scorticherebbe un ulivo, mentre il cagnolino sarebbe dispiaciuto per la partenza del padrone essendo forse anche affamato – senza però fornire altri contributi di rilievo (Darsy, Santa Sabina, p. 82). Tsuji dal canto suo ha voluto vedere nell’immagine, data la presenza dei pani segnati dalla croce, una prefigurazione dell’eucaristia. Dopo un’attenda indagine nei testi patristici, la studiosa ha finito però per riconoscere che non vi erano indizi documentari a sostegno della sua ipotesi (Tsuji, Étude iconographique, pp. 275-287). Jeremias aggiunse a queste riflessioni un tassello importante: poiché non esistono nell’arte tardonatica casi noti della presenza della sola scena di Abacuc, con ogni probabilità il pannello doveva essere completato da un secondo rilievo con Daniele nella fossa dei leoni. La studiosa ha insistito poi 248 sull’unicità del pannello anche da un punto di vista compositivo (Jeremias, Die Holztür, pp. 45-47). Infine, Spieser ha sostenuto, per ragioni narratologiche, la validità dell’ipotesi di Jeremias: in origine Daniele non poteva quindi mancare sulla porta (Spieser, Le programme iconographique, p. 76). Ammessa questa interpretazione, l’episodio è letto in duplice maniera dai padri: da Cromazio (Chromace, “Sermon XXV”, 2; pp. 80-81) esso viene percepito come un’allusione all’eucaristia (Perraymond, “Abacuc e il cibo soterico”). Dall’altra come espressione dell’unità dei due Testamenti (Perraymond, “Abacuc”). Mamachi, Annalium ordinis Praedicatorum, p. 572; Kondakov, “Les sculptures de la porte”, pp. 371-372; Berthier, La porte de Sainte-Sabine, pp. 79-82; Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, pp. 90-92; Venturi, Storia dell’arte italiana, p. 483; Leclercq, “Habacuc”; Darsy, Santa Sabina, p. 82; Tsuji, Étude iconographique, pp. 275-287; Jeremias, Die Holztür, pp. 45-47; Kastner, “Habakuk”; Walker, “The iconography of the prophet Habakkuk”, pp. 252-253; Spieser, Le programme iconographique, p. 76; Perraymond, “Abacuc e il cibo soterico”; Perraymond, “Abacuc”; Calcagnini Carletti “Abacuc (iconografia)”. 249 250 13. La vocazione di Mosè e il dono della legge (vocazione di Mosè sull’Horeb) Descrizione: Il grande pannello è diviso in tre registri. La separazione è segnalata da due linee che sono però, rispettivamente da una e dall’altra parte, incomplete. Nel registro inferiore, sullo sfondo bucolico di un paesaggio roccioso, un uomo vestito di una toga è attorniato da un gregge di pecore. La sua attenzione è però attratta dal registro superiore verso il quale alza il capo e che è occupato da due personaggi: a sinistra un uomo togato è rappresentato mentre si scioglie i calzari. Un angelo alato, ugualmente vestito di una toga, gli rivolge la parola. A destra è rappresentato un oggetto – probabilmente un roveto – dal quale si alzano delle fiamme. Nell’ultimo registro si trovano due figure entrambe vestite di una toga: la prima, a sinistra, apre le braccia in segno di sorpresa; la seconda a destra riceve nelle sue mani velate un rotolo dalla mano divina. Note critiche: a) Mosè pastore: L’episodio è stato identificato come immagine del racconto di Mosè pastore (Es. 3, 1) dalla totalità degli studi dedicati alla porta (Berthier, La porte de Sainte-Sabine, pp. 40-41; Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, p. 36; Darsy, Santa Sabina, pp. 75-76; Jeremias, Die Holztür, pp. 21-22; Spieser, “Le programme iconographique”, p. 51). Il solo dato rilevante sottolineato è stato l’atteggiamento del profeta che, con il suo sguardo, comunica con il registro superiore. Secondo Wiegand questo significa che la scena rappresenta in realtà due episodi: quello di Mosè pastore e il momento in cui il profeta scorge il roveto ardente. Secondo Umberto Utro si tratta di una delle aggiunte, concepite all’inizio del V secolo, al classico repertorio della vita di Mosè (Utro, “Mosè”). Come esempio più rilevante viene ricordato il mosaico di Santa Maria Maggiore, interpretato nella stessa maniera, anche se in quel caso manca l’episodio centrale rappresentato dal roveto ardente (Menna, “I mosaici di Santa Maria Maggiore”, p. 320). Mosè come pastore, raffigurato accanto alla scena 251 del roveto ardente, appare così solo a San Vitale a Ravenna alla metà del VI secolo (Deliyannis, Ravenna, pp. 244-246; Rizzardi, Il mosaico a Ravenna, pp. 135-136). A differenza di San Vitale, però, sia a Santa Sabina sia a Santa Maria Maggiore, Mosè non ha i tratti cristologici che vorrebbe invece attribuirgli Utro: l’enfasi non è in questi due casi posta sull’attività di pastore, ma sul prossimo dialogo con Dio verso il quale si concentra tutta l’attenzione del giovane profeta (Utro “Mosè”, p. 224). Bibliografia: Garrucci, Storia dell’arte cristiana, pp. 336-339; Berthier, La porte de Sainte-Sabine, pp. 40-41; Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, p. 36; Leclercq, “Moïse”, coll. 1652- 1656; Darsy, Santa Sabina, pp. 75-76; Schlosser, “Moses”; Jeremias, Die Holztür, pp. 21- 22; Spieser, “Le programme iconographique”, p. 51; Utro, “Mosè”; Calcagnini Carletti, “Mosè (Iconografia)”. b) Il roveto ardente: Anche in questo caso la ricerca è unanime nel riconoscere l’inconfondibile episodio del monte Horeb: Mosè è raffigurato mentre si scioglie i calzari di fronte al roveto ardente (Mamachi, Annalium ordinis Praedicatorum, p. 572; Berthier, La porte de Sainte-Sabine, p. 41; Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, pp. 36-37; Darsy, Santa Sabina, pp. 75-76; Jeremias, Die Holztür, pp. 22-24; Spieser, “Le programme iconographique”, p. 51). Secondo il libro dell’Esodo (3, 4-5) fu direttamente Dio a parlare a Mosè: “Il Signore vide che egli si era mosso per andare a vedere. Allora Dio lo chiamò di mezzo al pruno e disse: ‘Mosè! Mosè!’ Ed egli rispose: ‘Eccomi’. Dio disse: ‘Non ti avvicinare qua; togliti i calzari dai piedi, perché il luogo sul quale stai è suolo sacro’”. Berthier, però, ha interpretato la presenza dell’angelo accanto al roveto come la presenza di un angelo-logos che avrebbe parlato al posto di Dio (Berthier, La porte de Sainte-Sabine, p. 41). Fu dello stesso parere Wiegand che si è soffermato sul fatto che l’angelo non porta i sandali e abbia perciò, come negli altri casi in cui è privo di calzari, la funzione di “portavoce” del Signore (Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, p. 37). Secondo Tsuji, partendo dalle 252 riflessioni di vari Padri della Chiesa – da Clemente d’Alessandria a Prudenzio –, Mosè nell’atto di sciogliersi i calzari deve essere interpretato come una delle immagini del battesimo. Lo strano roveto ardente, invece, che ha una forma d’altare potrebbe essere compreso come una metafora che può essere spiegata con la tradizione ebraica di considerare l’altare in fiamme come un’immagine di Dio. La presenza dell’angelo è poi, secondo la studiosa nipponica, un unicum (Tsuji, Étude iconographique, pp. 32-40). Anche Jeremias ha sottolineato l’unicità di questa iconografia nel panorama tardonatico, e con argomenti diversi, è giunta a conclusioni molto simili a quelle di Tsuji: l’insolita composizione può essere considerata una traduzione in immagini della versione ebraica della Bibbia, della septuaginta greca o della vetus latina (Jeremias, Die Holztür, p. 22). A differenza della vulgata (Es. 3, 2) dove si dice semplicemente: “Apparuitque ei Dominus in flamma ignis de medio rubi: et videbat quod rubus arderet, et non combureretur”, il testo greco recita: “ὤφθη δὲ αὐτῷ ἄγγελος Κυρ@ου ἐν πυρὶ φλογὸς ἐκ τοῦ βIτου, καὶ ὁρᾷ ὅτι ὁ βIτος κα@εται πυρ@, ὁ δὲ βIτος οὐ κατεκα@ετο” (E un angelo del Signore gli apparve in un fiammeggiante fuoco fuori dal cespuglio, e vedeva che il roveto ardeva, ma non si consumava). Nel testo masoretico, una stesura medievale di un più antico testo rabbinico, certamente maggioritario fin dal I secolo d.C., il racconto è identico. Con ogni probabilità la presenza dell’ἄγγελος Κυρ@ου, l’angelo del Signore, si spiega proprio con il riferimento a una delle versioni dell’Antico Testamento precedenti alla traduzione della Vulgata (390-405) da parte di Girolamo. In questo senso la soluzione proposta da Jeremias è ingegnosa e convincente, fornendo anche una prova indiretta dell’ampia presenza e l’uso di testi greci presso la comunità romana del V secolo. Considerando infatti l’eccezionalità di quest’immagine rispetto alla tradizione precedente (Utro, “Mosè”), la presenza dell’angelo non può essere spiegata con una tradizione iconografica. Chi aveva concepito l’immagine conosceva perciò la Septuaginta oppure basava la sua riflessione sulle traduzioni alla base della vetus latina, certamente non attingeva alla traduzione di Girolamo che aveva acceso il dibattito nei primi decenni del V secolo. La polemica, che aveva coinvolto Girolamo e 253 Agostino, si era costituita attorno alla questione della legittimità di attingere ai testi ebraici per tradurre l’Antico Testamento, sostenuta da Girolamo – è alla base della sua Vulgata – e rifiutata da Agostino che considerava invece la Septuaginta come la fonte ortodossa della tradizione cristiana (Jérôme-Augustin Lettres croisées; Ożóg, “Saint Jerome and veritas hebraica”). È infine importante ricordare che l’episodio di Mosè che si scioglie i calzari fa parte, come episodio isolato, di un diffuso repertorio di immagini del IV secolo. Se ne vedono esempi importanti sia sui sarcofagi che nelle pitture delle catacombe (Utro, “Mosé”, p. 224) Bibliografia: Mamachi, Annalium ordinis Praedicatorum, p. 572; Garrucci, Storia dell’arte cristiana, pp. 336-339; Berthier, La porte de Sainte-Sabine, p. 41; Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, pp. 36-37; Leclercq, “Moïse”, coll. 1652-1656; Darsy, Santa Sabina, pp. 75- 76; Tsuji, Étude iconographique, pp. 32-35; Schlosser, “Moses”; Jeremias, Die Holztür, pp. 24-24; Aliprantēs, Moses auf dem Berge Sinai; Spieser, “Le programme iconographique”, p. 51; Utro, “Mosé”, p. 224; Calcagnini Carletti, “Mosè (Iconografia)”. c) Il dono della legge (la vocazione di Mosè): Mamachi e poi Nikodim Kondakov considevano questo episodio come il dono della legge a Mosè sul Sinai (Mamachi, Annalium ordinis Praedicatorum, p. 572; Kondakov, “Les sculptures de la porte”, p. 370). Per ragioni di logica narrativa, ma anche in virtù del personaggio che accompagna Mosè in questo rilievo, Berthier ha invece voluto vedervi la vocazione di Mosè sull’Horeb. Il personaggio accanto al profeta sarebbe quindi Aronne la cui presenza è annunciata nel dialogo tra Dio e il profeta. Il fatto che la mano divina consegni un rotolo a Mosè è stata invece letta da Berthier come “simbolo di una missione speciale” (Berthier, La porte de Sainte-Sabine, pp. 41-43). Wiegand ha considerato in parte sorprendente il fatto che la posizione del profeta fosse la stessa 254 comunemente usata per raffigurare il dono della legge. Il fatto, però, che la fiamma del roveto toccasse anche in questo registro, come pure la presenza di Aronne, lo ha fatto arrivare alle stesse conclusioni di Berthier (Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, pp. 37-39). Si sono allineati invece sull’opinione di Kondakov, senza fornire però elementi nuovi, Venturi e Delbrueck (Venturi, Storia dell’arte italiana, pp. 480 ; Delbrueck, “Notes on the Wooden Doors”, p. 140). Del parere di Berthier e Wiegand sono invece anche Tsuji, Darsy, Jeremias e Spieser (Tsuji, Étude iconographique, pp. 25-30; Darsy, Santa Sabina, p. 76; Jeremias, Die Holztür, pp. 24-25; Spieser, “Le programme iconographique”, p. 51). Tsuji ha basato la sua argomentazione sul fatto che la vocazione è rappresentata in modo simile nel manoscritto della Topografia Cristiana (Vat. Gr. 699) di Cosmas Indicopleustes, datato però al terzo quarto del IX secolo. Copia di modelli più antichi, il manoscritto potrebbe rappresentare, secondo Tsuji, una memoria figurativa di composizioni tardoantiche. Alla stessa conclusione è giunta anche Jeremias nel 1980. Gli argomenti forniti, però, non mi convincono integralmente. Il problema è duplice: da una parte da Wiegand, a Tsuji e a Jeremias fondano il loro ragionamento sulla presenza di un’iconografia simile in una copia del IX secolo del celebre manoscritto di Cosmas Indicopleustes. L’argomento però è piuttosto fragile: si tratta della copia di un manoscritto del VI secolo, prodotto a Costantinopoli, quindi lontano dai rilievi di Santa Sabina. Inoltre questo schema – con Mosé che riceve dalla mano divina un rotolo – è frequentissimo nella Roma tra il IV e il V secolo, soprattutto sui sarcofagi, dove il suo significato appare, in maniera univoca, come appunto il dono della legge (per l’elenco di tutte le rappresentazioni note, dove l’iconografia è rispettata senza eccezioni cfr. Lange, Ikonographisches Register, pp. 71-72). Quindi, anche se nel VI secolo a Costantinopoli il gesto può aver assunto il significato di “vocazione”, non vi è nessun indizio che avesse un significato simile anche nella Roma tra IV e V secolo, malgrado l’alto numero di sarcofagi conservati, dove questa iconografia appare. Il problema non è costituito dal fatto che si tratterebbe di un’iconografia eccezionale, quanto piuttosto dall’uso frequente di questo schema universalmente noto, vista la 255 sua ampia diffusione, per indicare quello specifico episodio. Sulle porte di Santa Sabina si fa spesso uso di schemi innovativi, che spezzano, per ragioni concettuali, la tradizione visiva – si pensi, a titolo d’esempio, agli episodi dei miracoli di Mosè –. In questo caso si darebbe invece un significato nuovo, e difficilmente decriptabile, a una composizione molto diffusa. In questo modo anche se si fosse voluto dare al rilievo, per ragioni narrative, il significato di “missione” di Mosè, il fatto che si sia fatto uso di una composizione comune per la trasmissione della legge non può essere casuale. La forza del riferimento visivo doveva essere tale da associare, in maniera quasi automatica, nello spettatore l’idea di Mosè mentre riceve la legge, un tema importante dell’identità figurativa romana (Noga Banai, The trophies of the martyrs). Infine, anche la spiegazione fornita per giustificare la presenza del secondo personaggio togato – per Tsuji sarebbe l’annuncio dell’arrivo imminente di Aronne (Tsuji, Étude iconographique, pp. 51-52) – appare molto fragile. Invece, quando Mosè sale sul Sinaï per incontrare Dio e riceve i Dieci comandamenti, egli è accompagnato da Aronne (Es. 19, 24). Bibliografia: Mamachi, Annalium ordinis Praedicatorum, p. 572; Kondakov, “Les sculptures de la porte”, p. 370; Garrucci, Storia dell’arte cristiana, pp. 336-339; Berthier, La porte de Sainte-Sabine, pp. 41-43; Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, pp. 37-39; Venturi, Storia dell’arte italiana, pp. 480; Leclercq, “Moïse”, coll. 1652-1656/ 1684- 1688; Delbrueck, “Notes on the Wooden Doors”, p. 140; Darsy, Santa Sabina, p. 76; Tsuji, Étude iconographique, pp. 25-30, 42-52; Schlosser, “Moses”; Jeremias, Die Holztür, pp. 24-25; Spieser, “Le programme iconographique”, p. 51; Utro, “Mosé”; Noga Banai, The trophies of the martyrs; Calcagnini Carletti, “Mosè (Iconografia)”. La lettura dell’ultimo episodio narrativo determina quindi il significato da dare all’insieme del pannello. Se si tratta cioè dell’illustrazione del terzo capitolo dell’Esodo oppure se il significato della composizione è più ampio. Considerato 256 quanto osservato qui sopra, credo che il tema unificante di questo pannello non sia un testo biblico, ma un tema molto più centrale nel racconto della vita di Mosè: quello della visione di Dio. Quanto è raffigurato sono i due episodi in cui Mosè si presenta al cospetto di Jahwe Yahweh. È la ragione per cui, anche la scena inferiore, muta di significato facendo slittare in secondo piano l’episodio pastorale e incentrando invece tutta l’attenzione sulla visione divina. 257 258 14. Il cosiddetto pannello dell’Acclamatio Descrizione: Il pannello è suddiviso in tre registri di proporzioni diverse. In quello inferiore, il più piccolo, sono raffigurati tre uomini con la mano destra alzata, vestiti di una paenula, due frontali e uno di spalle. Nel secondo registro ritroviamo lo stesso schema, ma con personaggi più grandi, proporzionalmente allo spazio. Questi ultimi vestono una tunica coperta da un palium pallium. Nella parte superiore, infine, la più ampia, si erge una cella cella con un frontone classico e tre colonne riccamente ornate, sul suo/cui tetto è raffigurata una croce, mentre dietro a essa si vedono due torri. Davanti a questo corpo architettonico vi sono due personaggi – i più grandi di tutto il pannello. A destra un angelo che sembra indicare, con il palmo della mano aperto, un uomo vestito di una corta tunica coperta da una clamide. Quest’ultimo ha le braccia aperte in un gesto da orante, ed è inquadrato dalla sontuosa porta dell’edificio, ornata da due tende aperte. Note critiche: Questo pannello è uno dei rilievi con la maggior fortuna critica di tutte le porte, alimentata dalla sua unicità compositiva, che non ha trovato a oggi una spiegazione univoca. Mamachi vi vedeva Abramo mentre accoglie i tre angeli nel deserto (Mamachi, Annalium ordinis Praedicatorum, p. 572). A questa lettura si è opposto Kondakov che, invece, vide nel dialogo tra il personaggio clamidato e l’angelo l’annuncio a Zaccaria, mentre la presenza della folla avrebbe annunciato l’episodio successivo, quando cioè Zaccaria esce dal tempio, di fronte alla folla, muto per non aver creduto all’arcangelo Gabriele (Lc. 1, 19-22). L’attribuzione di Kondakov si basava sull’interpretazione, oggi considerata all’unanimità errata, di uno degli episodi dell’arco trionfale della basilica di Santa Maria Maggiore (Kondakov, “Les sculptures de la porte”, pp. 367-368). È dello stesso parere anche Berthier, che si sofferma però sul fatto che i tre gruppi di personaggi portano tre tipi di abiti diversi, 259 posizionati secondo un ordine “gerarchico” dall’alto in basso (Berthier, La porte de Sainte-Sabine, pp. 53-56). Wiegand ha messo in dubbio tale ipotesi per due ragioni: la croce sul tetto dell’edificio è un chiaro indizio del fatto che a essere rappresentato non può essere il tempio ebraico. Inoltre, secondo lo studioso, l’orante non è affatto vestito come un prete veterotestamentario, come noto nelle immagini tra IV e VI secolo. Al contrario portare una clamide era comune presso consoli e militari fin dal IV secolo, fatto attestato sull’arco di Costantino e su vari dittici eburnei. Wiegand propose quindi di leggere la scena come una rappresentazione dell’impero romano cristiano. Il personaggio accompagnato dall’angelo sarebbe quindi stato un personaggio molto importante per l’impero oppure, più probabilmente, l’imperatore stesso (Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, pp. 52-64). Soffermandosi brevemente sulla questione Venturi ha proposto di considerare la scena una raffigurazione di Salomone davanti al tempio (Venturi, Storia dell’arte italiana, p. 481). Nel 1910 Berthier è tornato sul pannello una seconda volta, nella sua monografia sulla basilica di Santa Sabina, proponendo una lettura nuova: il rilievo sarebbe una sintesi dei capitoli IX e X degli Atti degli apostoli. A essere rappresentato sarebbe quindi Pietro che, dopo essere tornato da Giaffa, annuncia davanti al tempio di Gerusalemme d’aver seguito le indicazioni dell’angelo, cominciando a convertire anche i gentili. Berthier ha sottolineato anche quanto gli abiti del personaggio orante siano importanti per la storia del costume ecclesiastico: lo studioso ricorda la lettera di Celestino I ai vescovi di Vienna e di Narbona dai quali risulta chiaramente che – all’inizio del V secolo – vi sono le prime marcate tendenze per distinguere l’abito clericale da quello civile, ma anche quanto queste tendenze non piacciano al vescovo romano (Berthier, L’église de Sainte-Sabine, pp. 197-200). Kantorowicz ha proposto invece di considerare il pannello come una rappresentazione dell’Adventus escatologico del Cristo. L’idea dei personaggi acclamanti è infatti il riflesso di composizioni imperiali, e la presenza dell’angelo può essere spiegata con il testo di Malachia (3, 1-2): “Ecco, io vi mando il mio messaggero, che spianerà la via davanti a me e subito il Signore, che voi cercate, l’Angelo del patto, che voi desiderate, entrerà nel suo tempio. Ecco egli viene” 260 (Kantorowicz ““The ‘King’s Advent’”, pp. 221-223). A articolo di Kantorowicz ha reagito, nel 1949, con una sorta di recensione, Richard Delbrueck suggerendo di vedere nella formella, composta da preti – vestiti di paenula – e da dignitari imperiali togati, la celebrazione di un imperatore, probabilmente Teodosio II, raffigurato forse in una città di provincia. A sostegno di questa ipotesi Delbrueck ricorda i ritratti di Teodosio II, secondo lui molto simili al volto dell’orante, come pure la presenza dell’angelo. L’assenza del nimbo e di alcuni altri dettagli era infine spiegata dall’originale policromia delle porte. All’interno della sua analisi e rispetto ad essa, Delbrueck ammette anche di non poterne risolvere la sua maggiore debolezza, ossia l’assenza di una relazione documentata tra l’imperatore – di cui non conosciamo nessun committenza legata all’Aventino e che non si recò mai neppure in Occidente – e la porta. (Delbrueck, “The Acclamation Scene”, pp. 215-217). Nel 1961 Darsy è tornato a schierarsi a favore della lettura proposta da Berthier nel 1910, che gli sembrava come la più probabile sia nel contesto del resto della porta, sia perché la lettura veniva fatta nella liturgia della seconda feria di Pentecoste (Darsy, Santa Sabina, p. 78). Lo stesso anno, nella sua tesi inedita, però, Tsuji ha sottolineato la dimensione ritrattistica del personaggio principale. Secondo la studiosa, esso doveva perciò essere il committente della chiesa rappresentata, che a suo parere non era però Santa Sabina ma l’edificio per il quale la porta era stata concepita inizialmente (Tsuji, Étude iconographique, pp. 220-249). La studiosa nipponica non ha dato però alcuna precisazione né per quanto riguarda l’identità di questo personaggio, né circa il luogo originale per il quale sarebbe stata destinata la porta. L’anno seguente Klauser, partendo dall’idea che il clamidato fosse effettivamente il committente, ha proposto di vedervi un vescovo e con, ogni probabilità, lo stesso fondatore di Santa Sabina, Pietro d’Illiria (Klauser, “Engel”, pp. 267-309). Gisella Jeremias è tornata sulla questione con un’ampia e approfondita sintesi. La studiosa ha confutato l’ipotesi di che si potesse trattare di un’immagine dell’imperatore: mancano le tre perle appese sulla fibula – che Delbrueck immaginava però dipinte – ma soprattutto un diadema. Questa mancanza è tanto più problematica se considerato che nella porta il diadema 261 orna il capo del faraone – vestito alla romana – nell’episodio del miracolo del bastone trasformato in serpente da Mosè. Dopo aver analizzato la struttura della cella – così simile ad altri edifici raffigurati tra IV e VI secolo – ed essersi interrogata sui momenti in cui un’acclamazione può aver luogo, Tsujo ha concluso che l’immagine doveva rappresentare l’elezione di un vescovo, acclamato dalla folla. L’angelo assumerebbe quindi, secondo la studiosa, la stessa funzione della mano di Dio, significandone semplicemente la presenza. Pertanto, secondo Jeremias, l’ipotesi più plausibile è quella di vedervi rappresentata l’elezione a vescovo di Pietro d’Illiria (Jeremias, Die Holztür, pp. 88-96). È sostanzialmente dello stesso parere di Jeremias anche Spieser (Spieser, “Le programme iconographique”, p. 71). L’ultimo contributo significativo alla discussione su questo pannello è stato formulato da Giuseppe de Spirito nel 2002. Rompendo radicalmente con gli studi precedenti de Spirito ha proposto di interpretare il pannello come “David, specchio dell’ascendenza messianica del Figlio, nonché simbolo della sua natura umana”. I sei personaggi sottostanti “potrebbero così rappresentare l’Ecclesia che rende omaggio al settimo giorno, il Sabato (…), simboleggiante a sua volta i doni dello Spirito Santo” (De Spirito, “La cosiddetta scena dell’”Acclamatio”). Si tratta di un’ipotesi audace, che non trova a però mio modo di vedere appiglio nella realtà storica. Nel pannello non vi è nessun indizio che possa confermare tale lettura. Il personaggio clamidato non porta un diadema e quindi può solo difficilmente essere considerato un re. Infine questa lettura non tiene affatto conto dei diversi abiti dei sei acclamanti, un dettaglio probabilmente carico di significato, vista l’attenzione che gli è dedicata. L’ipotesi di Klauser, della Jeremias e di Spieser appare invece la più plausibile visto che dà conto dell’attenzione conferita agli abiti dei vari personaggi e identifica chiaramente l’edificio sullo sfondo come la stessa basilica di Santa Sabina. Soprattutto, però, essa spiega questo pannello eccezionale nel contesto di tutta la composizione: a differenza degli altri episodi teologici, in questo caso, siamo di fronte a un’immagine di committenza che ha tradizionalmente il suo posto in importanti costruzioni tardoantiche. 262 Bibliografia: Mamachi, Annalium ordinis Praedicatorum, p. 572; Kondakov, “Les sculptures de la porte”, pp. 367-368; Berthier, La porte de Sainte-Sabine, pp. 53-56; Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, pp. 52-64; Venturi, Storia dell’arte italiana, pp. 481-482; Berthier, L’église de Sainte-Sabine, pp. 197-200; Kantorowicz, “The ‘King’s Advent’”, pp. 221-223; Delbrueck “The Acclamation Scene”, pp. 215-217; Darsy, Santa Sabina, p. 78; Tsuji, Étude iconographique, pp. 220-249; Klauser, “Engel”, pp. 267-309; Jeremias, Die Holztür, pp. 88-96; Spieser, “Le programme iconographique”, p. 71; De Spirito, “La cosiddetta scena dell’”Acclamatio”. 263 264 15. L’assunzione di Elia Descrizione: L’episodio raffigurato occupa tutta l’altezza del grande pannello. Nella parte inferiore, in mezzo a un raffinato paesaggio roccioso, un personaggio vestito di una tunica è rappresentato di spalle, alza il capo ed è proteso verso l’alto. Con la punta delle mani quest’ultimo tocca un mantello che cade dalle spalle di un uomo rappresentato mentre spicca il volo sopra una biga trascinata da due piccoli cavalli. Il personaggio sul carro indica con la sinistra il movimento dei cavalli, mentre la destra è contratta in un gesto di sorpresa. Sopra di lui vola orizzontalmente un angelo che sembra trascinare il carro con un bastone verticale che sfiora la spalla dell’auriga. Attorno a quest’asse, che costituisce il fulcro della narrazione, si trovano due personaggi secondari, di piccola statura e vestiti con delle tuniche corte. Il primo, in piedi, guarda sorpreso l’avvenimento celeste, appoggiato a uno strumento di lavoro, forse un piccone. Il secondo, sopraffatto dallo spavento, è piegato in terra, si copre con le mani il volto, mentre il suo piccone è appoggiato accanto a lui. Il paesaggio roccioso è infine abitato da una lucertola e da una lumaca. Note critiche: Fin dai primi studi non vi sono stati dubbi sull’attribuzione di questo pannello considerato all’unanimità il ratto di Elia (Mamachi, Annalium ordinis Praedicatorum, p. 572). Kondakov, per il quale il pannello era l’opera di un artista moderno, ne ha evidenziato la formulazione ellenistica: in particolare l’immagine dell’angelo evoca quelle delle vittorie pagane (Kondakov, “Les sculptures de la porte”, p. 371). Berthier ha argomentato nello stesso senso, spiegando l’oggetto in mano all’angelo come una bacchetta magica, che fa alzare in volo il carro. Lo studioso si è soffermato poi anche sulle molteplici interpretazioni date dalla patristica a questo episodio come trionfo sulla morte e prefigurazione dell’Ascensione del Cristo (Berthier, La porte de SainteSabine, pp. 82-85; Berthier, L’église de Sainte-Sabine, pp. 232-235). Wiegand ha 265 completato il panorama enumerando le più note rappresentazioni del soggetto sui sarcofagi tardoantichi, ma senza aggiungere nulla di sostanziale alle osservazioni di Berthier (Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, pp. 93-95). Nel 1969 Tsuji ha pubblicato un articolo fondamentale per questo pannello: prima di tutto la sutdiosa, si è interrogata sugli elementi costitutivi della composizione di questo pannello. Le sue conclusioni sono molto chiare: questa è l’iconografia che – in tutta la porta – più chiaramente dipende da schemi pagani. L’auriga nel cielo poteva essere stato ripreso dalle composizioni delle apoteosi di imperatori o dell’iconografia del dio Elios, mentre l’angelo con la bacchetta in mano era forse una reminiscenza figurativa della maniera in cui Mercurio dirige cavalli o di un putto con in mano la fiaccola che accompagna il dio Sole. L’ambiguità tra Elia e Elios è presente, secondo la studiosa, anche nei testi patristici. Significativo è in questo senso il testo di Giovanni Crisostomo che inverte clamorosamente lo schema storico sostenendo che fosse Elia ad ispirare pittori e poeti nella creazione dell’immagine del dio Sole. Poiché nell’esegesi patristica il ratto di Elia prefigura battesimale, Tsuji ha proposto di leggere la parte inferiore del pannello come una raffigurazione del Giordano che non poteva mai mancare nell’episodio. La presenza dei due personaggi indicherebbe la scena che segue al ratto di Elia, quando un’ascia cade nell’acqua mentre Eliseo e i suoi discepoli abbattono un albero (2 Re 6, 5-7). In questo modo sarebbero rappresentati nel pannello due degli episodi che, secondo le testimonianze del pellegrino di Piacenza, erano ricordati nei primi secoli cristiani sullo essere avvenuti nello stesso luogo del battesimo di Cristo. La studiosa giapponese ha osservato inoltre che la funzione dei due spettatori – che con il loro atteggiamento hanno il tipo classico di chi assiste a una visione teofanica – è quella di essere semplici testimoni della scena. Infine, Tsuji ha fornito anche una spiegazione plausibile alla presenza della lumaca e della lucertola sul paesaggio roccioso che ha collegato alla tradizione antica, nella quale questi due animali accompagnavano la scoperta di Romolo e Remo dai pastori. Secondo la studiosa potrebbe essere stata una maniera per indicare che il luogo dove si svolge l’episodio è isolato (Tsuji, “‘L’enlèvement d’Élie’”). Nel 266 1980, Jeremias ha aggiunto alcuni elementi nuovi al dibattito allargando, in particolare, la schiera di possibili modelli per la costruzione di quest’immagine anche alla consecratio imperiale e sottolineando come, malgrado si tratti di un’iconografia nota, la scelta di Santa Sabina sia eccezionale per la sua incredibile verticalità (Jeremias, Die Holztür, pp. 40-45). Più in generale la fortuna della composizione è comunque ampiamente attestata in ambito funerario: sia a livello delle decorazioni parietali sia su rilievi di sarcofago. La presenza del ratto di Elia in questo contesto si spiega facilmente come prefigurazione della salvezza completa, corpo e anima. Sappiamo, però, che un ratto di Elia doveva decorare anche la navata della basilica ambrosiana di Milano (Visonà, “I tituli ambrosiani”). Lasciando da parte lo studio specifico del caso milanese, quanto mi preme qui sottolineare è l’importanza di questa iconografia anche in ambiti diversi da quello funerario nei quali, seguendo l’esegesi dei padri, essa poteva assumere i più svariati significati, da quello battesimale a modello ideale del digiuno (Perraymond, “Elia”; Perraymond, “Elia profeta”). Bibliografia: Mamachi, Annalium ordinis Praedicatorum, p. 572; Kondakov, “Les sculptures de la porte”, p. 371; Berthier, La porte de Sainte-Sabine, pp. 82-85; Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, pp. 93-95; Berthier, L’église de Sainte-Sabine, pp. 232-235; Leclercq, “Élie”; Darsy, Santa Sabina, p. 82; Tsuji, Étude iconographique, pp. 250-274; Tsuji, “‘L’enlèvement d’Élie’”; Lucchesi Palli, Hoffscholte, “Elias”; Lucchesi Palli, “Enoch und Elias”; Jeremias, Die Holztür, pp. 40-45; Perraymond, “Elia”; Perraymond, “Elia profeta”. 267 268 16. Il miracolo dei serpenti e il passaggio del Mar Rosso Descrizione: Il pannello è diviso in due registri narrativi. Nella parte inferiore, circa un quarto dell’insieme della superficie scolpita, sono rappresentati due personaggi che si fanno si fronteggiano. Il primo indossa una tunica, dei baffi tocca con bastone le teste di due serpenti raffigurati sospesi nello spazio. Il secondo porta una clamide, una spada e un diadema. Ha la mano sinistra appoggiata sulla spada, mentre alza la destra. Nel registro superiore è disegnata, in basso, una superficie d’acqua nella quale sta affondando una quadriga guidata da un auriga imberbe. Più in alto, è raffigurata una piccola folla di cui quattro personaggi guardano in direzione dell’acqua mentre gli altri, di spalle, camminano verso l’alto del pannello. Davanti a questo gruppo si trova un angelo con la destra aperta, mentre la destra è alzata. Nella parte superiore a destra, infine, isolata da una roccia, si vedono una colonna squamata sormontata da fiamme e, ancora più in là, la mano di Dio che esce dalle nubi. Restauro: Il pannello del passaggio del mar Rosso è – secondo le recenti indagini di restauro – il rilievo più restaurato dell’intera porta. Come chiaramente visibile dalla grafica che accompagna il volume di Mamachi (Mamachi, Annalium ordinis Praedicatorum, pp. 570-571), prima dei restauri ottocenteschi, la parte centrale del pannello era completamente illeggibile. Guardando però attentamente le parti originali, è possibile supporre che, per quanto riguarda l’iconografia, la composizione centrale, scolpita con ogni probabilità nel corso dei restauri del 1836, è fedele a quella che doveva essere l’intenzione originale. Note critiche: Mamachi aveva letto il pannello come il miracolo della verga e dei serpenti di Mosè di fronte al faraone, e del miracolo del mar Rosso (Mamachi, Annalium ordinis 269 Praedicatorum, p. 572). Nikodim Kondakov aveva invece interpretato l’episodio inferiore come la raffigurazione di Mosè e Aronne che trasformano i loro bastoni in serpenti. Aronne sarebbe stato vestito da soldato. Anche per lo studioso russo la scena superiore il passaggio del mar Rosso: il popolo d’Israele, dietro la colonna di fuoco, si avvia verso la terra promessa (Kondakov, “Les sculptures de la porte”, p. 370). Berthier, dal canto suo, ha osservato che la scelta dei due episodi deve essere letta in relazione a un carme di Prudenzio che associa i due avvenimenti (Prudence, “Dittochaeon”, VIII-IX; pp. 206-207). Riguardo alla scena inferiore, Berthier ha rifiutato l’identificazione fatta da Kondakov della figura clamidata: non si tratta certamente di Aronne, bensì del faraone. Secondo lo studioso questo pannello sarebbe una sorta di immagine sintetica di tutti gli avvenimenti legati al miracolo delle verghe: l’arrivo di Mosé e Aronne che trasformano i loro bastoni in serpenti, il gesto dei maghi del faraone che riproducono il loro miracolo, infine il bastone di Mosé che divora i serpenti dei maghi. Riguardo alla scena principale Berthier ha ritrovato tutti gli elementi, dal faraone annegato e fino alla colonna di fuoco (Berthier, La porte de Sainte-Sabine, pp. 66-70; Berthier, L’église de Sainte-Sabine, pp. 211-217). Anche Wiegand si è concentrato, prima di tutto, sull’identificazione dei personaggi dell’episodio inferiore giungendo alla stessa conclusione di Berthier: il personaggio di destra non può che essere il faraone mentre l’altro è Mosè. Il personaggio chiave dell’episodio. A essere rappresentato è perciò il miracolo di Mosè, mentre il numero di dei serpenti raffigurati è casuale. Riguardo l’episodio per passaggio del mar Rosso, Wiegand non aggiunge nulla di nuovo alle osservazioni di Berthier se non il fatto che – rispetto ad alcuni esempi di questa iconografia sui sarcofagi – manca la figura di Miriam con il tamburello. Lo studioso spiega quindi la presenza dell’angelo – che in questo caso non è un’immagine di Dio, visto che quest’ultimo è rappresentato dalla mano – con la popolarità di questo tema nel periodo successivo al concilio efesino (Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, pp. 71- 77). Félix Darsy ha individuato nell’episodio inferiore il momento in cui Aronne trasforma il suo bastone in serpenti, che spaventano il faraone, e ha identificato 270 inoltre il volto di faraone con quello di un imperatore romano, forse Diocleziano. Sottolineando il fatto che il faraone nel mare sia il frutto di un restauro, Darsy ha osservato che il suo volto è stato evidentemente aggiornato nel 1836 dandogli i tratti dell’imperatore Napoleone (Darsy, Santa Sabina, p. 80). Nella sua tesi del 1961 Sahoko Tsuji ha analizzato i due episodi raffigurati e pubblicò i risultati della sua ricerca undici anno pù tardi, nel 1972. partendo dalla lettura che fecero di questo pannello i padri dalla patristica e insistendo, per quanto riguarda il passaggio del mar Rosso, sulla sostanziale diversità della composizione rispetto alla prassi iconografica. Tradizionalmente su diversi sarcofagi, nella sinagoga di Doura Europos e negli affreschi di via Latina la scena è sempre descritta in tre momenti: l’inseguimento degli egiziani, il mare e gli israeliti in fuga. Nel rilievo di Santa Sabina sono invece rappresentati solo il mare – con il faraone che annega – e gli israeliti che hanno attraversato il mare. La studiosa nipponica ha spiegato questa scelta soprattutto con le catechesi mistagogiche di Sant’Ambrogio: la composizione ha un significato battesimale, rappresentato dal passaggio del mare, e di protezione contro il male, figurato dal faraone (Tsuji, Étude iconographique, pp. 53-86; Tsuji “‘Le passage de la mer rouge’”). Gisella Jeremias ha ribadito quanto già asserito da Berthier e da Wiegand riguardo al primo episodio: si tratta di un’immagine sintetica del miracolo dei serpenti di fronte al faraone. Questo episodio, ha precisato, doveva essere anche nei due cicli narrativi di San Pietro e San Paolo fuori le mura. Per quando riguarda l’episodio del passaggio del mar Rosso, Jeremias ha inserito quest’immagine nella produzione contemporanea. La studiosa si è espressa anche sul formato del pannello considerandolo come il risultato del passaggio tra rotolo e codice. Dalla sua lettura è però completamente assente una riflessione sulla ragione della copresenza dei due diversi episodi e il loro significato esegetico (Jeremias, Die Holztür, 26-32). Nel 1986 Von Stritzky ha pubblicato uno studio ulteriore riguardo al pannello. A livello del metodo il suo intervento è molto vicino a quello di Tsuji, con ampio uso di fonti patristiche, e anche le sue conclusioni sono molto simili. Per quanto riguarda il miracolo del bastone ricorda ripercorre le principali esegesi non giungendo a una 271 conclusione univoca. Potrebbe quindi essere espressione del pensiero di Ireneo, che considera il serpente di Mosè come immagine del Cristo che si incarna per sconfiggere il male (Irénée, Contre les hérésies, III, 21, 8; pp. 422-423), ma anche di quello di Origene che fa del bastone di Mosè l’immagine della legge che si compie con la croce (Origène, Homélies sur l’Exode, IV, 6; pp. 130-131). Riguardo al passaggio del mar Rosso, la studiosa cita una copiosa bibliografia patristica, che ne rivela tutta la dimensione battesimale, insistendo in particolare su quanto il battesimo debba essere inteso come una sconfitta del demonio e del peccato (Von Stritzky, “Bemerkungen zur Darstellung”). Credo – sintetizzando queste osservazioni – che dal punto di vista iconografico questo pannello sia stato analizzato in maniera veramente molto completa. L’episodio inferiore rappresenterebbe la vittoria, da parte di Mosè, sui falsi magi del faraone, mentre la scena superiore la vittoria definitiva sul faraone, compiuta nel passaggio del mar Rosso. L’interpretazione più logica da dare all’insieme è quella di una prefigurazione battesimale, ma anche di una vittoria sul male. In questo senso l’immagine si inserisce nel quadro di una ricca serie di monumenti in cui è raffigurata. In altri contesti, però, la percezione della sola scena del passaggio del mar Rosso può variare facendola interpretare, soprattutto sui sarcofagi, sia come immagine delle preghiere per i defunti, sia come prefigurazione della vittoria di Costantino sul Ponte Milvio (Sanmorì, “Passaggio del Mar Rosso”, p. 246). Nel presente caso, l’associazione dei due episodi scioglie molti dubbi portandone in primo piano il significato esplicitamente battesimale. Bibliografia: Kondakov, “Les sculptures de la porte”, p. 370; Berthier, La porte de Sainte-Sabine, pp. 66-70; Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, pp. 71-77; Venturi, Storia dell’arte italiana, p. 483; Berthier, L’église de Sainte-Sabine, 211-217; Leclercq, “Moïse”, coll. 1659-1660; Darsy, Santa Sabina, p. 80; Tsuji, Étude iconographique, pp. 53-86; Tsuji, “‘Le passage de la mer rouge’”; Schlosser, “Moses”; Weckwerth, “Durchzug durch das 272 Rote Meer”; Jeremias, Die Holztür, 26-32; Von Stritzky, “Bemerkungen zur Darstellung”; Sanmorì, “Passaggio del Mar Rosso”. 17. Il Cristo davanti a Pilato e la Via Crucis Descrizione: Il piccolo pannello è occupato da sette figure suddivise in due gruppi. Nel primo, a sinistra, è raffigurato un uomo, seduto su una sella curule, con una clamide, mentre si lava le mani assistito da un servo. Un terzo personaggio assiste alla scena. Nella parte destra, ma senza una cesura visibile, con soluzione di continuità, un uomo vestito d’una paelnula, spinge con la mano un secondo personaggio vestito alla stessa maniera. Quest’ultimo porta una croce sulla spalla sinistra, mentre il suo braccio destro sembra toccare l’uomo che lo precede. Avvolto con ogni probabilità in una toga, questi ha i cappelli lunghi e forse anche la barba. Le sue braccia incrociate e 273 alzate indicano, con ogni probabilità, il fatto che è legato. Accanto alle mani del prigioniero si trovava la mano dell’uomo che lo precede, oggi scomparsa, che doveva tenere la corda. Restauri: Sono restaurati i volti di Pilato e di Simone di Cirene, mentre è sostituito completamente il capo del soldato a destra del Cristo. Eseguita probabilmente nel restauro del 1836, quest’importante alterazione del rilievo non incide sulla sua interpretazione iconografica. Note critiche: All’unanimità tutti gli studi importanti sulle porte di Santa Sabina hanno individuato in questo pannello due momenti della Passione. È raffigurato il momento dopo la condanna del Cristo quando Pilato si lava le mani, mentre è già cominciata la via crucis. Il Cristo è condotto legato, la sua croce è portata da Simone di Cirene (Mamachi, Annalium ordinis Praedicatorum, p. 572; Kondakov, “Les sculptures de la porte”, p. 366; Berthier, La porte de Sainte-Sabine, pp. 45-47; Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, pp. 39-43; Berthier, L’église de Sainte-Sabine, pp. 182-186; Darsy, Santa Sabina; Tsuji, Étude iconographique, pp. 120-128; Jeremias, Die Holztür, 57-59). Restano senza spiegazione alcuni dettagli, come la strana struttura della tunica di Pilato, del servo che gli lava le mani e del soldato che dirige la processione verso il calvario, che Berthier e Jeremias consideravano una cotta di maglia. In sostanza, però, non vi è discussione sull’attribuzione dei due episodi. Si tratta, inoltre, di scene note nel panorama tardonatico: la scena di Pilato mentre si lava le mani ha avuto un’importante diffusione apocrifa (Evangile de Pierre, 1; pp. 40-41; The Acts of Pilate, IX, 4; pp. 101), oltre a essere copiosamente rappresentata nel gruppo dei cosiddetti “sarcofagi della passione” prodotti nel corso del IV secolo (Saggiorato, I sarcofagi paleocristiani; Giuliani, “Pilato”), ma anche sul/nel? codice purpureo di Rossano (Morelli, L’arte nella età dello spirito, pp. 121-264), sul cofanetto eburneo del British 274 Museum (Foletti, “Il cofanetto con scene della Passione”) e un secolo più tardi anche nei mosaici di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna (Delyiannis, Ravenna, pp. 153-158; Rizzardi, Il mosaico a Ravenna, p. 96). Simile è la situazione per l’illustrazione della salita al calvario, dove ancora una volta sono i “sarcofagi della passione” a essere l’ispirazione più diretta per la composizione di questo pannello (Saggiorato, I sarcofagi paleocristiani; Schiller, Ikonographie der christlichen Kunst, pp. 89-110) e la via crucis è rappresentata anche nei mosaici di Sant’Apollinare Nuovo (Rizzardi, Il mosaico a Ravenna, pp. 96-97). Il solo caso in cui i due episodi sono raffigurati in un unico spazio è sul contemporaneo cofanetto della passione del British Museum (Foletti, “Il cofanetto con scene della Passione”). In questo caso si ha però l’impressione che i due episodi sono associati soprattutto per ragioni narrative. Ambrogio e Leone Magno sono concordi nel considerare il gesto di Pilato come un tentativo fallito di liberarsi dal peso di una condanna ingiusta (Ambrogio, Esposizione del vangelo secondo Luca, 100; pp. 464-465; Leone Magno, Sermoni sul mistero pasquale, 46, 2, 5; p. 203). Rispetto alla salita al calvario Ambrogio relativizza invece ruolo di Simone sostenendo che conta chi porta realmente la croce del mondo, ossia il Cristo (Ambrogio, Esposizione del vangelo secondo Luca, 107; pp. 468-471). Bibliografia: Mamachi, Annalium ordinis Praedicatorum, p. 572; Kondakov, “Les sculptures de la porte”, p. 366; Berthier, La porte de Sainte-Sabine, pp. 45-47; Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, pp. 39-43; Venturi, Storia dell’arte italiana, pp. 480 ; Berthier, L’église de Sainte-Sabine, pp. 182-186; Leclercq, “Pilate”; Darsy, Santa Sabina; Tsuji, Étude iconographique, pp. 120-128; Laag, Jásai, “Kreuztagung Jesu”; Dambeck, “Kreuzweg”; Holl, “Pilatus”; Jeremias, Die Holztür, 57-59; Giuliani, “Pilato”; Trevijano, “Pilato, nella tradizione”; Broccoli, “Pilato (iconografia)”. 275 18. Il Cristo davanti a Caifa Descrizione: Sullo sfondo di una parete in mattoni è raffigurato l’incontro tra due personaggi. Il primo è seduto su una sella curule – nella parte sinistra del pannello – e indossa una tunica coperta da una clamide, ha in testa un cappello, la sua mano destra è alzata. Di fronte a lui si trova un uomo, avvolto in un’ampia toga, con i capelli lunghi e la barba. Quest’ultimo ha la destra alzata in segno di elocuzione. Dietro a questo personaggio ve ne sono altri cinque, disposti su due file, e vestiti tutti di una tunica coperta da una paenula. Al centro di questo gruppo un uomo porta una lunga spada e lasciando intendere che si tratti probabilmente di soldati. 276 Restauri: È completamente sostituita la testa di Caifa. Sono inoltre alterati dai restauri la spada di uno dei soldati e una parte della sella curule di Caifa. Anche in questo caso i restauri non incidono sulla lettura iconografica di questo pannello. Note critiche: Dopo Mamachi, che aveva considerato l’episodio come il Cristo davanti a Pilato (Mamachi, Annalium ordinis Praedicatorum, p. 572), gli studi principali sulle porte di Santa Sabina concordano nel vedervi l’interrogatorio del Cristo davanti a Caifa (Kondakov, “Les sculptures de la porte”, p. 366; Berthier, La porte de Sainte-Sabine, pp. 85-87; Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, pp. 95-96; Venturi, Storia dell’arte italiana, p. 483; Darsy, Santa Sabina, p. 84; Jeremias, Die Holztür, pp. 56-57). L’unica voce difforme è quella di Berthier che, nel suo secondo grande saggio sulle porte di Santa Sabina, nel 1910, cambia d’opinione rispetto al volume del 1895, e indica nell’episodio la scena di Mosè davanti al faraone (Berthier, L’église de Sainte-Sabine, pp. 235-239). L’argomento principale dello studioso è un equilibrio tra il numero dei pannelli dell’Antico e del Nuovo Testamento, in virtù di una lettura tipologica. Non è questa la sede per entrare in merito a questo dibattito (cfr. cap. III), i limiti di quest’attribuzione sono però visibili anche senza confutare la tesi generale. Gli abiti di Caifa sono infatti qui chiaramente diversi da quelli del faraone – vestito come un imperatore romano – nella scena del miracolo dei serpenti. Inoltre, i tratti del personaggio in piedi, sono chiaramente quelli del Cristo del ciclo della passione: egli porta i caratteristici cappelli lunghi e la barba, due attributi che mancano nell’iconografia di Mosè. Bibliografia: Mamachi, Annalium ordinis Praedicatorum, p. 572; Kondakov, “Les sculptures de la porte”, p. 366; Berthier, La porte de Sainte-Sabine, pp. 85-87; Wiegand, Das Altchristliche Hauptportal, pp. 95-96; Venturi, Storia dell’arte italiana, p. 483; Berthier, L’église de 277 Sainte-Sabine, pp. 235-239; Darsy, Santa Sabina, p. 84; Tsuji, Étude iconographique, pp. 117-119; Jeremias, Die Holztür, pp. 56-57. 278 Bibliografia Letteratura secondaria “Cavalcaselle, Giovanni Battista”, in Dizionario Biografico degli italiani, Roma 1995, v. 22., p. 642. Age of Spirituality : Late Antique and Early Christian Art, Third to Seventh Century (Metropolitan Museum of Art, 1977-1978), a cura di Kurt Weitzmann, New York – Princeton 1979. Aliprantēs, Theologos Chr., Moses auf dem Berge Sinai : die Ikonographie der Berufung des Moses und des Empfangs der Gesetzestafeln, Monaco 1986. Andreopoulos, Andreas, Metamorphosis : the transfiguration in Byzantine theology and iconography, Crestwood 2005. 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