Chi gli voleva un po' di bene gli diceva di pianlarla, che era patetico. Che quella ragazza lo avrebbe massacrato. Ma Graziano non ascoltava. Smise di scoparsi le lardone e di suonare, e continuö testardo, senza parlarne piü perché Erica s'innei-vosiva, a credere nella jeanseria e che prima o poi l'avrebbe cambiata, le avrebbe sradicato dalla testa quel-l'crba maligna che era la televisione. Non era lui che aveva deciso tulto ciö, era stato il falo a volerlo, quella notte, quan-do aveva posato Erica su un eubo dell'Hangover. E ci fu un momento che tutlo questo sembrö, come per magia, realizzarsi. A ottobre i due sono a Roma. In un monolocale in affitto a Rocca Verde. Un bueo all'ot-tavo piano di un palazzone strizzato tra la tangenziale est e il raecordo anulare. Erica ha convinto Graziano a seguirla. Senza di lui nella metropoli si sente sperduta. Deveaiutarla a trovare lavoro. Ci sono un mucchio di cose da fare: cercare un bravo foto- Mariapia passa all'altro sopraeeiglio. «Ma sei innamorata dilui?» «Non lo posso dire... Te I'ho detto, ě gentile. Ě una persona carinissima. Mille volte meglio di quel bastardo di Tony. Ma e troppo superficiale. E poi questa storia della jeanseria... Se a Natale non lavoro, ha detto che mi porta in Gia-maica. Ě una figata, no?» «E... gliela dai?» Erica si mette in piedi e si stiracchia. «Che domande fai? No. Di solito no. Peri) lui insiste, insiste e cosi ogni tanto, alia fine... Gliela do con...? Come si dice?» «Cosa?» «Quando dai una cosa ma non tanto, che la dai e perö un po' ti dispiaee.» «Che ne so... Calma?» «Ma che calma e calma. Che dici? Come si dice, däi? Con...?» «Tirchieria?» «Noo!» «Parsimonia?» «Esatto! Parsimonia. Gliela do con parsimonia.» Graziano stando dietro a Erica si umiliö come non mai, fece figure di merda colossali aspettandola per ore dove tutti sapevano che non sarebbe mai andata, visse appiccicato al telefonino cercandola per Riccione e dintorni, fu ingannato da Mariapia che copriva l'amica quando useiva con quel bastardo del dj e s'indebitö fino al collo per regalarle un euccio-lo di Fila brasiliano, una canoa superleggera, una macchina americana per fare la ginnaslica passiva, un taluaggio sulla chiappa deslra, un gommone con un motore fuoribordo ven-tieinque cavalli, uno stereo Bang & Olufsen, un mucchio di vestiti griffati e scarpe con i tacchi di venti centimetri e una quantita imprecisata di cd. grafo per il book. Un agente sveglio con i contatti giusti. Un insegnante di dizione che le levi l'aspro accento trentino e uno di recitazione che la sciolga un po' E i proviní. Escono presto, la mattina, passano il giorno in giro tra Ci-necitta, uffici di casting, produzioni cinematografiche e tor- nano a casa, la sera, distrutti. A volte, quando Erica e a lezione, Graziano si carica An-toine in macchina e se ne va a Villa Borghese. Attraversa il parco dei daini, prosegue fino a piazza di Siena e poi va giü, al Pincio. Cammina rapido. Gli piace passeggiare nel verde. Anloine gli arranca dietro. Con quelle zampone fa fatica a tenere il passo. Graziano lo tira per il guinzaglio. «Däi, muo-viti. Pigrone. ForzaU Niente. Allora lui si siede su una pan- 34 35 china e si fuma una sigarella e Antoine comincia a morder-gli le scarpe. Graziano non assomiglia piü a] latin lover del Carillon del mare. Quello che faceva cadere svenute le tedesche. Sembra invecchiato di dieci anni. E pallido, con le borse solto gli occhi,.la ricrescita nera, la tuta da ginnaslica, la bar-ba sfatta e bianca, ed e infelice. Infelice da morire. Sta andando lutto di merda. Erica non lo ama. Sla con lui solo perche le paga le lezioni, 1'affitto, i vestili, il fotografo, lullo. Perche le fa da autista. Perche la sera va a prendere il polio in rosticceria. Erica non lo ama e non lo amerä mai. Non gliene frega un cazzo di lui, diciamola la veritä. Mm fd?e ci faccio qui? Odio questa cittä. Odio questo trafji-co. Odio Erica. Me ne devo andare. Me ne devo andare. Me ne devo andare. E una specie di mantra che si ripete ossessiva-mente. E perche non lo fa? In fondo e facilissimo, basta prendere un aereo. E chi s'e vislo se visto. Magari riuscirci. C e un problema: se sta lontano da Erica per mezza gior-nata, si sente male. Gli viene la gastrite. Gli manca 1'aria. Comincia a fare rutti. Come sarebbe bello spingere un bottone e ripulirsi il cer-vello. Levarsi dalla testa quelle Iabbra morbide, quelle cavi-glie sottili, quegli occhi perfidi e ammaliatori. Un bei hivag-gio del cervello. Se Erica fosse nel cervello. Ma non e la. Gli si e piantata come una scheggia di vetro nello stomaco. E innamorato di una bambina viziata. E stronza. E cagna. Quanto e brava a ballare, cosi e nega- ta a recilare, a stare davanli a una telecamera. S'impappina. Le parole le muoiono in bocca. In Lie mesi e riuscita a fare un paio di comparsate in un telefilm. Ma Graziano lama anche se e negata. Anche se e 1'atlrice peggiore del mondo. Manuaggia... E la cosa trcmenda e che piu lei c stronza, e piu lui I'ama. Quando non ci sono provini da fare, Erica passa la giorna-ta davanti alia televisione mangiando pizze surgelate e Vien-nette Algida. Non vuole fare niente. Non vuole uscire. Non vuole vedere nessuno. E Lroppo depressa, dice, per uscire. La casa e una merda. 1 mucchi di vesliti sporchi gettati da una parte. Spazzatu-ra. Pile di piatti incroslati di sugo. Antoine che piscia e caga sulla moquelle. Erica sembra starci a suo agio, nellarcherda, Graziano no, Graziano s'incazza, urla che lui si e scocciato di vivere cosi, come un barbone, che basta, che se ne va in Giamaica, ma invece prende il cane e va al parco. Come si fa a starle accanto? Neanche un monaco zen riu-scirebbe a reggerla. Piange per un nonnulla. E si arrabbia. E quando si arrabbia dalla bocca le escono cose orrende. Proiettili che affondano nel cuore di Graziano come7nel burro. E gonfia di vcleno e appena puo lo schizza fuori. Sei una merda. Mi j'ai schifo! lo non ii amo, lo vuoi capire? Vuoi sapere perche continue a stare con te? Lo vuoi sapere ve-ramente? Perche' mi f'ai pena. Ecco perche. Ti odio. E lo sai perche ti odio? Perche tu speri solo che le cose mi vaclano male. E vero. Ogni volta che un provino va male Graziano, dentro, esul-ta. E un piccolo passo verso Ischiano. Ma poi si sente in colpa. Non fanno l'amore. Lui glielo fa presente. E allora lei allarga le gambe e le braccia e dice: «Accomodati. Se ti piace, scopami cosi». E un 36 37 paio di volle, disperato, se Ic pure fatta, eel e come farsi un cadavcre. Un cadavere caldo ehe ogni tanto, quando c e la pubblicitä, prende il telecomando e cambia canale. Tutto ciö dura fino all'8 diccmbre. Ľ8 dicembre muore Antoine. Erica e in una profumeria con Antoine. La commessa le dice ehe i cani non possono entrare. Erica lo lascia fuori, deve comprare un rossetto, ci melte un attimo. Ma un attimo e sufficiente ad Antoine per vedere un pastore tedesco sul marciapiede di fronte, attraversare la strada e in quell'attimo finire sotto una macchina. Erica torna a casa piangendo. Dice a Graziano ehe non ha avulü il coraggio di andare a vedere. Ii canc ě ancora la. Graziano esce di corsa. Lo trova a lato delia strada. In una pozza di sangue. Re-spira appena. Dalle narici e dalla bocca gli cola un rivolo di sangue nero. Lo porta dal veterinario che lo iinisce con un'i-niezione. Graziano ritorna a casa. Non ha voglia di parlare. Ci teneva, a quel cane. Era bufío. E si ľacevano compagnia. Erica incomincia a dire che non č colpa sua. Che ci ha messo un attimo a comprare il rosseLto. E iE eretino ehe gui-dava la macchina non ha frenato. Graziano esce di nuovo. Prende la Uno e, per calmarsi, si fa un giro del raccordo anulare a centottanta. Ha sbagliato a venire a Roma. Ha sbagliato tutto. Ha preso una cantonata grossa come una casa. Quella, in realtä, non e una donna ma una punizione mandata da Dio per distruggergli la vita. Nelľultimo mese hanno litigato praticamente tutti i giorni. Graziano non puô credere a quello ehe lei riesce a dirgli. Lo offende mortalmenle. E ci sono deile volte ehe lo aggredisce con una tale violenza che non e nemíněno in grado di difen-dersi. Di risponderle per le rime. Di dirle che e un'incapace. Ľaltro giorno, per esempio, lo ha aceusato di portare sfiga e che se Madonna avesse avuto accanto uno come lui sarebbe rimasta solo e soltanto Veronica Luisa Ciccone. E ha aggiunto ehe a Riccionc tutti dicevano ehe e una sega a suonare la chitarra e ehe e buono solo a vendere pastieche svaporate. E, per finire, come ciliegina sulla torta, ha detto ehe i Gipsy Kings sono una banda di froci. Bašta! La lascio. Deve farcela. Non morirä. Soprawivcrä. Anche i tossici sopravvivono senza roba. Ti fai la rota, sofFri come una bestia, pensi che non ce la farai mai, ma alia fine cc la fai c sei pulito. Almeno la morte di Antoine ě servita a farlo rinsavire. Deve lasciarla. E il modo migliore ě con un discorso fred-do, distaccato, senza incazzarsi, il discorso di un uomo forte ma con il cuore a pezzi. Tipo Robert De Niro in Leitern ďa more quando molia Jane Fonda. Si, bašta cosi. Torna a casa. Erica sta guardando Lupin m e mangiando un panino con il formaggio. «Puoi spegnerc la televisione?» Erica spegne la televisione. Graziano si siede, si schiarisce la gola e attacca. «Volevo dir ti una cosa. Credo che a questo punto sia arrival© il momento • di finirla. Lo sai tu e lo so io. Diciamocelo francarnente.» Erica lo guarda. Graziano ri parte. «A questa sloria ci rinuncio. Io ci ho ere-duto mo!to. Sul serio. Ma ora bašta. Non ho piu una lira. Li-tighiamo tutto il giorno. E poi non ci posso piü stare a Roma. Mi fa schifo, mi deprime. Io sono come i gabbiani, se non migro, muoio. Io a qu...» «Guarda che i gabbiani non migrano.» «Brava. Come le maledelle rondini, sei piü conlenta? To a quesl'ora dovevo essere in Giamaica. Domani nie ne vado a Ischiano. Rimedio qualclie solclo e poi parte E non ci vedre-mo mai piü. Mi dispiace che le cose...» Ii diseorso alla De Miro muore cosi. Erica rimane in silenzio. Come parla Graziano? Che tono strano che ha. Di solilo fa scenate, urla, s'incaz-za. Ora no, e freddo, rassegnato. Sembra un attore america-no. La morte di Antoine deve averlo sconvolto. A un tratto le viene da pensare che non sla facendo la soli-ta paletica scenata. Che qucsla volta parla sul serio. Se se ne va, che succede? E un vero casino. Erica vede solo nero davanti a se. Non riesce neanche a immaginarselo, un futuro senza di lui. Cosi la viLa e uno schifo, ma senza Graziano sarebbe una merda. Chi pagherä l'affitto della casa? Chi andrä a comprare il pollo in roslicce-ria? Chi pagherä la rata del corso di recitazione? E poi non e piü tanto sicura che ce la farä. Tutlo sembra dirle che non ci sono possibililä per lei. Da quando e arrivata a Roma ha fatto una marea di provini e ncssuno e andato be-ne. Forse Graziano ha ragione. Non e fatta per la televisione. Non e capace. II pianto comincia a premerle sotto la gola. Senza una lira sarebbe coslreUa a tornare a Caslello Tesi-no e piuttosto che tornare in quel posto gelido, con quei due genitori che si ritrova, si mette a battere. Prova a ingoiare un boecone di panino. Ma le rimane lä, in bocca, amaro come fiele. «Parli sul serio?» «Si.» «Te ne vuoi andare?» «Si.» «E io che faccio?» «Non so che dirti.» Silenzio. «Hai deciso?» «Si.» «Sul serio?» «Si.» Erica inizia a piangere. Zitta zitta. Ii panino tra i denti. Le lacrime che le sciolgono il trueco. Graziano gioca con lo Zippo. Lo accende e lo spegne. «Mi dispiace. Ma e mollo meglio cosi. Almeno avremo un bei ricor...» «Vo... vo... voglio ve... venire con te» singhiozza Erica. «Cosa?» «Vo... Voglio venire con te.» «Dove?» «A Ischiano.» «E che ci vieni a fare? Non hai detto che ti fa schifo?» «Voglio conoscere la tua mamma.» «Vuoi conoscere mia madre?» ripete a pappagallo Graziano. «Si, voglio conoscere Gina. Perö poi ce ne andiamo in Giamaica a läre una vacanza.» . Graziano non parla. «Non vuoi che venga?» «No. E meglio di no.» «Graziano, non mi lasciare. Ti prego.» Gli afferra una mano. «E meglio cosi... Lo sai pure tu... Oramai...» «Non mi puoi lasciare a Roma, Grazi.» Graziano sente che le viscere gli si sciolgono. Che vuole? Non puö fare cosi. Non e giusto. Ora vuole andare con lui. «Graziano, vieni qua» dice Erica con una vocina triste triste. Graziano si alza. Le si siede accanlo. Lei gli bacia le mani .eglisi stringe addosso. Gli appoggia la faccia contro il tora-e. E ricomincia a piangere. Graziano ora senle I'inteslino animarsi, un boa si e risve-gliato dal letargo. La trachea gli si stura di colpo. Inspira ed espira. La stringc tra le braccia. Lei e scossa dai singhiozzi. «Mi di... spia... ce. Mi dis... pia... ce.» E cost piccola. Indifesa. E una bambina. L'na bambina che ha bisogno di iui. La bambina piü bella del mondo. La sua bambina. «D'accordo. Va bene. Andiamocene via da que-sta cazzo di cittä. Non Li lascio. Non ti preoccupare. Tu vieni via con nie.» «Siii, Graziano... Portami con te.» Si baciano. Saliva e lacrime. Lui le pulisce il rimmel cola-to con la maglietta. «Si, domani mattina partiamo. Perö devo chiamare mia madre.-Cosi ci prepara la stanza.» Erica sorride. «Va bene.» Poi si rannuvola. «Si, partiamo... Solo che dopodomani, porca miseria, devo fare una cosa.» Graziano e subito sospettoso. «Cosa?» «Un provino.» «Erica, sei la solila...» «Aspetta! Ascolta. Ho promesso all'agcnte che ci andavo. Ha bisogno di ragazze della sua agenzia che l'acciano iinta di fare un provino, il regista ha giä deciso chi sceglierä, una raccomandata, ma la cosa deve sembrare vera. Le sollte schi-fezze.» «Non ci andare. Mandalo a cagare, lo stronzo.» «Ci devo andare per forza. Gliel'ho prcjmesso. Dopo tutto quello che ha l'atto per me.» «Ma che ha fatto per te? Niente. E riuscito solo a spillarci dei soldi. Mandalo a cagare. Dobbiamo partire, noi.» Erica gli prende le mani. «Facciamo cosi, senti. Tu parti domani. lo vado al provino, chiudo casa, faccio le valige e il giorno dopo ti raggiungo.» «Non vuoi che ti aspetti?» «No, vai. Roma ti ha stressato. Io prendo il treno. Cosi quando arrivo tu hai preparato tutto. Compra tanto pesce. Mi piace il pesce.-» «Chiaro che lo compro. Ti piace la coda di rospo?» «Non lo so. E buona?» «£ buonissima. E le vongole, le compro?» «Le vongole, Grazi. La pasta con 1c vongole. Buonissima.» Erica tira fuori un sorriso che rischiara tutta la casa. «Mia madre e la maga della pasta con le vongole. Vedrai. Staremo bene.» Erica gli salta tra le braccia. Quella notte fanno l'amore. E per la prima volta da quando stanno insieme, Erica glie-lo prende in bocca. Graziano e steso, su quel letto sfatto e pieno di golf, ma-gliettc puzzolenti, custodie di cd e briciole di pane e guarda Erica Ii, in mezzo alle sue gambe che gli succhia l'uccello. Perche ha deciso di fargli un pompino? Ha sempre detto che le fa schifo, fare i pompini. Cosa vuole fargli capire? E semplice. Che ti ama. Graziano e travolto dall'emozione e viene. Erica gli si addormenta nuda tra le braccia. Graziano, immobile per non svegliarla, la stringe c non puö credere che quella ragazza cosi bella sia la sua donna. I suoi occhi non si stancano mai di guardarla. Le sue mani di accarezzarla e il suo naso di odorarla. Quante volte si c chiesto come puö essere nata una creatu-ra cosi perfetta in quel paesino dimenticato da Dio. E un mi-racolo della natura. E quel miracolo e suo. NonostanLe le incomprensioni, no-nostante il carattere di Erica, nonoslante il modo diverso 42 43 ehe hanno di vedere il mondo, nonoslanle le colpe di Grazia-no. Sono unili. Uniti da un legame che non si spezzerä mai. D'accordo ha sbagliato, e stato debole, indeciso, codardo, ha assecondato Erica in tuüi i suoi capricci, ha lasciaLo che ]a siluazäone si deteriorasse al punlo da diventarc invivibile, ma lo scatlo di reni che ha avuto e stato prowidenziale. Li ha liberati dalle ragnatele che Ii stavano soffocando. Erica ha sentito che lo avrebbe perso per sempre, che que-sta volta non faceva per finta. E non lo ha lasciato andare. 11 cuore di Graziano trabocca d'amore. La bacia sul collo. Erica mormora: «Graziano, mi porti un bicchiere d'aequa?». Le prende l'acqua. Lei si mette seduta e a occhi chiusi, reggendo il bicchiere con due mani, beve avidamente sbro-dolandosi sul mcnlo. «Erica, dimmi una cosa, ma tu mi vuoi bene sul serio?» le domanda rinfilanclosi nel Iclto. «Si» risponde lei, e gli si riaccuccia addosso. «Sul serio?» «Sul serio.» «E... e mi vuoi sposare?» si sente dire. Come se uno spirito malvagio gli avesse messo in bocca quelle parole terribili. Uno spirito che vuole mandare tutto a puttane. Erica si accoccola meglio, tira il piumone piü in su edice: «Si». Si-.'? Graziano rimane un istante senza parole, sopraffatto, si mette una mano sulla bocca e chiude gli occhi. Cos'ha detto? Ha delto che lo vuole sposare? «Sul serio?» «Si.» Erica parlotta nel dormiveglia. «E quando?» «In Giamaica.» «Giusto. In Giamaica. Sulla spiaggia. Ci sposeremo stille scogliere di Edward Beach. E un posto magnifico.» Questa e Ia ragione per cui Graziano ßiglia parti il 9 di-eembre alle cinque di mattina da Roma, nonostante il temporale, per andare a Ischiano Scalo. Con se aveva armi, bagagli e una buona notizia da dare alia mamma. Un viaggiatore armato di binocolo che si trovasse a bordo di una mongolfiera potrebbe vedere meglio di chiunque altro lo scenario della nostra storia. Subito noterebbe una lunga cicatrice nera che taglia la pianura. E l'Aurelia, la statale che parte da Roma e arriva lino a Genova e ollre. Per quindici chilometri va dritta come una pis la d'atterraggio, poi lentamente curva a sinistra e rag-giunge la cittadina di Orbano, tutta ai'facciala sulla laguna. Da quesle parti la prima cosa che ti insegna la mamma non e: "non accetlare caramelle dagli sconosciuti" ma "sta' attento all'Aurelia". Bisogna guardare a destra e a sinistra al-meno un paio di volte prima di attraversare. Sia a piedi che in automobile (Dio non voglia che ti si spenga il motore al centre- della carreggiata). Le macclune slrecciano come silu-ri. E d'incidenli mortali se ne sono visti troppi, negli ullimi anni. Ora hanno messo i cartelli che dicono che la velocitä massima h di novanta chilometri all'ora e l'autovelox, ma la gente se ne I'rega. Su questa strada, durante i fine settimana di bei tempo e soprattutto d'estate, si formano file lunghe chilometri. Sono quelli della capitale che vanno su e giü per i luoghi di villeg-giatura piü a nord. E se ora il nostro viaggiatore spostasse il binocolo a sinistra vedrebbe la spiaggia di Castrone. Il mare ci arriva dritto dritto contro e, quando ci sono le mareggiate, la sabbia si ammuc- 44 45 cilia sul bagnasciuga c per cntrarc in acqua bisogna seal arc lc dune. Non ci sono slabilimenti balneari. In realta uno ce, qualche chilometro piu a sud, ma quelli del posto non ci van-no, dev'esscre perche e picno di romani ficheUi che mangiano linguine all'astice e bevono Faianghina. Niente ombrclloni. Niente sdraio. Niente pedalo. Neanche ad agosto. Strano, eh? Questo e possibile perche la zona e una riserva naLurale, area proletta per la ripopolazione dell'avifauna migratoria (uccelli). In venti chilometri di liLorale ci sono solo tre accessi al mare, vicino ai quali, d'estate ce il solito delirio di bagnanti ma basta fare trecento metri e d'incanto non e'e piu nessuno. Proprio dietro la spiaggia c c una lunga striscia verde. E un groviglio di rovi, spine, fiori, aculei, erbe coriacee pianta-te nella sabbia. Attraversarlo e impossible, a meno di non volersi ridurre come san Scbastiano. Subito dopo comincia-no i campi coltivati (grano, mais, girasoli, a seconda dell'an-nata). Se il nostro viaggiatore spostasse il binocolo a destra, ve-drebbe una lunga laguna salmastra a forma di fagiolo, divisa dal mare da una strisciolina di terra. Si chiama laguna di Torcelli. E recintala e il divicto di caccia e assoluio. Qui a primavera arrivano gli uccelli stremati dall'Africa. E una pa-lude piena di zanzare assatanate, pappataci, bisce d'acqua, pesci, aironi, folaghe, roditori, tritoni, rane e rospi e mille animaletti adattatisi a vivere tra canne, piante acquatiche e alghe. La ferrovia ci passa accanto, corre parallela all'Aurelia e collega Genova con Roma. Durante il giorno, piu o meno ogni ora, passa sferragliando l'Eurostar. Ed ecco finalmente, accanto alia laguna, Ischiano Scalo. E piccolo, lo so. Si e sviluppato, negli ultimi trent'anni, intorno a quella stazioncina dove due volte al giorno si lerma un locale. Una chiesa. Una piazza. Un corso. Una larmacia (semprc chiusa). Un negozio di alimenlari. Una banca (ha pure il bancomat). Un maceilaio. Una merceria. Un giornalaio. Il Consorzio. Un bar. Una scuola. Un circolo sportive E una cinquanlina di casette a due piani con il tetto di mattoni, abitate da un migliaio di animc. Fino a non tanlo tempo fa qui e'era solo palude e malaria, poi il Duce ha bonificato. Sc ora il nostro impavido viaggiatore si facesse spingere dai venti dalla parte opposta dell'Aurelia vedrebbe altri cam-pi coltivati, ulivcti e prati da pascolo e una frazione di quat-tro case chiamata Serra. Da qui parte una strada bianca che prosegue verso le colline e il bosco di Acquasparta, famoso per icinghiali, lc vacche dalle lunghe corna e, quando l'anna-la e buona, per i porcini. Questo e Ischiano Scalo. E uno strano posto, il mare e cosi vicino ma sembra lonta-no mille miglia. E perche i campi lo respingono oltre quella barriera di spine. Ogni tanto ne arriva l'odore e la sabbia portata dal vento. Dev'esscre per questo che il turismo si e sempre tenuto alia larga da Ischiano Scalo. Qui non ce da diverlirsi, non ci sono case da affiltare, non ci sono alberghi con piscina e aria condizionata, non ce un lungomare su cui passeggiare, non ci sono locali dove andare a bere la sera, qui d'estate la pianura si infuoca come una gra-ticola e d'inverno ci soffia un ventaccio che taglia le orecchie. Ora pero il nostro viaggiatore dovrebbe scendere un po' di quota, cosi potrebbe vedere meglio la costruzione moderna dietro quel capannone industriale? E la scuola media Michelangelo Buonarroti. Nel cortile ce una classe che sta facendo ginnastica. Tutti giocano a palla-volo e a basket, tranne un gruppo di femmine sedute su un muretto, che chiacchierano di cose loro e un ragazzino che ■ se nc sta in disparle, a gambc ineroeiate, in uno spicchio di sole, a leggere un libro. Ouello e Pietro Moroni, il vero protagonista di questa stoná. 4 A Pietro non piaeeva giocare a basket, nč a pallavolo e anco-ra meno a calcio. Non ehe non ci avesse mai proválo. Ci aveva provato, ec-come, ma tra lui e la palla doveva esserci un problema di comprensione. Lui desidcrava che la palla facesse una cosa e quella faccva esattamente !a cosa opposta. E secondo Pietro, quando capisci che ce un problema di comprensione tra te e qualcosa, ě meglio lasciar perdere. Poi lui aveva akre cosc che gli piaccvano. Per esempio la bicicletta. Adorava andare in bici nelle slradine de! bosco. E adorava gli animali. Non tutti. Čerti. Quelli che la gente dice che sono schifosi a lui piacevano mollissimo. Serpenti, rane, salamandre, insetti, questo gene-rc di animali. Se poi vivevano neiľacqua, cra ancora meglio. Tipo la tracina. D'accordo, fa un male bestiale quando ti pizzica, ha una brutta faccia e vive nascosta nella sabbia, ma il fatto che con quel pungiglione che conliene un veleno (che gli scienziati non hanno ancora ben capito di cosa sia fatto esattamente) sia pronta a paralizzarti un piede, gli pmceva. Ecco, se lui avesse potuto scegliere tra essere una tigre o una tracina, avrebbe certamente preferito essere quesťultima. E un altro animale che gli piaeeva era la zanzara. Erano dovunque. E non potevi fregartene. Per quello aveva scelto di farci la ricerca di scienze insie-me a Gloria. La malária e la zanzara. E quel pomeriggio sa- rebbe andato con la sua amica a Orbano da un dottore ami-co del padre di lei a fargli un'intervista sulla malaria. Ora stava lcggendo un libro sui dinosauri. E anche qui si parlava di zanzare. Grazie a loro avrebbero un giorno ricrea-to i dinosauri. Avevano trovato delle zanzare ťossili e gli ave-vano tirato fuori il sangue succhiaLo aí dinosauri e scoperlo il codice genetico dei dinosauri. Insomma, non gli era chia-rissimo, fatto sta che senza le zanzare menie Jurussic Park. Pietro era contenlo perché 1'insegnante di educazione fisi-ca quel giorno non 1'aveva obbligato a giocare con gli altri. «Che dici? Allora lo sai cosa dobbiamo chiedere a Cola santi?» Pietro sollevó la těsta. Era Gloria. Teneva la palla in mano e ansimava. «Credo di si. Piu o meno.» «Bene. Perché io non so niente.» Gloria diede un pugno alla palla e corse di nuovo verso il campo di pallavolo. Gloria Celani era la migliore amica di Pietro, in realta l'u-nica. Aveva provato a farsi dcgli amici maschi, ma senza grande successo. Si era visto un paio di volte con Paolino Anselmi, il 1'iglio de! labaccaio. Erano stati al campone, a fare cross con le bici. Ma non era andata bene. Paolino insisteva a fare le gare ma a Pietro non piaeeva gareggiare. Ne avevano fatte un paio e Paolino aveva vinto sempře. Poi non si erano piu visti. Che poleva farci? Le gare erano unaltra delle cose che gli Facevano schifo. .Perché anche quando arrivava in fondo alla pista per pri-mo, lanciato come una scheggia verso la vittoria e cera tutta, quella vittoria, aveva condotto la gara dall'inizio, poi non po-teva fare a meno di girare la těsta e se lo vedeva dietro, un essere che lo inseguiva digrignando i denti e allora le gambe gli cedevano e si lasciava raggiungere, superare e battere. 48 Con Glória non bisognava fare le gare. Non bisognava ľar-ci il duro. Si sláva bene e bašta. Secondo Pielro, e tanli altri che condividevano la sua opinione, Glória era la piu carina delia scuola. Ce n'erano, cerlamcnle, un altro pai'o nientc male, ad escmpio quella delia terza B, con quei capelli neri che Ie arrivavano ľino al sedere, o quella delia seconda A, Amanda, che stáva con il Fiamma. Ma, secondo Pielro, quelle due non erano degnc nemme-no di leccarle i piedi, paragonate a Glória erano tracinc. Lui non glielo avrebbe mai detto, ma era sicuro che Glória da grande sarebbe ťinita su quei giornali di moda o a vincere il concorso di Miss Itália. E lei, per di piú, faceva di tulto per sembrare meno bella di quello che era. Si lagliava i capelli corli, da maschio. Si melleva delle salopette jeans sporche e slinte e delle vecchie camicie scozzesi e le Adidas consumate. Aveva le ginocchia perennemente sbucciate e qualche íerita nascosta da un ce-rotlo che si era fatta arrampicandosi su un albero o scaval-cando un muro. Non aveva paura di ľare a botte con nessu-no, neanche con quella palla di lardo di Bacci. Pielro in vila sua ľaveva visia si e no due volte veštila da femmina. I grandi, quelli delia terza (e a volte anche quelli piú grandi, quelli che stavano davanli al bar), ci facevano i cretini. Ci provavano. Volevano ťidanzarsi con lei e le portavano regali-ni e la volevano accompagnare a casa con il motorino, ma lei non li guardava nemmeno di striscio. Per Glória, quelli valevano meno di una cacata di vacca. Perché la piú bella del reame, la corteggiatissima Glória, la disperazione dei ragazzi ischianesi, quella che nellá classi-fica delia supergnocca, incisa sulla porla del bagno dei ma-schi, non era mai scesa sotto la terza posizione, era la mi- 50 gliore amica del nostro Pielro, del perdente nato, delľullimo delia ľila, dcllo sericciolo senza amici? Una ragione c'era. La loro amicizia non era nata trá i banchi di scuola. In quella scuola esislevano delle casle chiuse (e dilemi se nella vostra scuola non esistevano), un po' come in India. I poveracci {Cagasotto Fijoni Cazzoni Merdacce Finocchi Negri e čosi vi u). 1 normáli. E i íighi. 1 normáli potevano ľinire nel fango e diventare poveracci, oppure elevarsi e trasformarsi in fighi, sláva a loro. Ma se il primo giorno di scuola ti prendevano la cartella e le la butta-vano ľuori dalla ľinestra e ti nascondevano i gessetli nel pa-nino allora eri un poveraccio, non c'erano santi, li dovevi ri-manerci per i successivi tre anni (e se non slávi attento, per i successivi sessanta), e potevi scordarteio, di diventare normále. Čosi andavano le cose. Pietro e Glória si erano conosciuti quando avevano cinque anni. La madre di Pietro andava tre volte alla settimana a Fare le pulizie alla villa dei Celani, i genitori di Glória, e portava con sé il figlio. Gli dava un foglio di carta, i pennarelli e gli diceva di rimanere sedulo al tavolo di cucina. «Stai buono la, capi-to? Fammi lavorare, čosi ce ne torniamo a casa presto.» E Pietro se ne stáva anche due ore su quella sedia, zitto, a fare searabocehi. La cuoca, una vecehia zitelia di Livorno che viveva in quella casa da un sacco di tempo, non ci poleva eredere. «Un angelo sceso dal paradiso, ecco cosa sei.» Quel marmocehio era troppo bravo e bello, non accettava nemmeno un pezzo di croslala, se sua madre non gli diceva che poteva prenderla. Altro che la figlia dei padroni. Una peste viziata a cui una sana scarica di sculacciate non avrebbe la t to che bene. I gio 51 catloli in quella casa avevano una vita média di due giorni. E per farti capire che non volcva piú la mousse di cioccolato, quel demonio te la sbatteva tra i piedi. Quando la piccola Glória aveva scoperto che in cucina c'e-ra un giocattolo vivo, di carnc e o.ssa, chiamalo Pietro, cra andata in visibilio. Lo aveva preso per mano e se lo era por-tato nella sua camera. A giocare. Alľinizio lo aveva un po' strapa/.zato (mammaaa! mammaaa! Glória mi ha mcsso un dilo nelľocchio!), ma poi aveva imparato a considerarlo un esse-re umano. II signor Celani era čosi ľelice. «Meno male che c e Pietro. Glória si e un po' calmata. Povera, ha bisogno di un fratel-lino.» Solo che c'cra un piccolo problcma: la signora Celani non aveva piú ľutero e quindi... di adozioni non se ne parlava e poi c'era Pietro, ľangelo sceso dal paradiso. Insomma, a farla breve, i due bambini cominciarono a vi-vere assieme, ogni giorno, proprio come fratelli. E quando Mariagrazia Moroni, la madre di Pietro, comin-ciô a non staré piu bene, a soffŕire di una cosa strana e in-comprensibile, che la lasciava čosi, senza ľor/.e e senza desi-deri («e come... non lo so, come se mi si ľossero scaricale le pile»), di una cosa che il medico delia mutua definiva de-pressione e che il signor Moroni chiamava voglia di non fare un cazzo e non senlirsela piú di andare a ťaticare alla villa, il dotlor Mauro Celani, il direttore del Banco di Roma di Orba-no e presidente del circolo velico di Chiarenzano, era inter-venuto tempestivamente e aveva pianificato la questione con la moglie Ada. 1) La povera Mariagrazia bisognava aiutarla. Doveva íarsi visitare immedialamente da uno špecialista. «Domani chia-mo il professor Candela... Come chi? Däi, il primario delia clinica Villa dei Fiori a Civilavecchia, te lo ricordi...? Ha quello splendido dodici metri.» 2) Pietro non potcva rimancre con la madre lullo il giorno. «Non ľa bene né a lui né a lei. Dopo la scuola stará qui insieme a Glória.» 3) II padre di Pietro era un alcolizzato, un pregiudicato, un violento che stáva rovinando quella poveretta e quel figlio adorabile. «Speriamo che non dia problemi. Allrimenti, il mutuo se lo scorda.» E tutto aveva ľunzionato perľettamentc. La povera Mariagrazia era siata messa sotto ľala protet-trice del professor Candela. Il luminare le aveva prescrilto un bel cocktail di psicofarmaci che finivano tutti in "il" (Ana-franil, Tofranil, Nardil eccj che ľavevano fatta entrare per la porta principale nel magico mondo degli inibitori delle mo-noamminossidasi. Un mondo opaco e conlortevole, fatto di colori pastello e di grigie dislese, di frasi mormorate e non fi-nite, di un sacco di tempo passato a ripelcrsi: "Oddio, non mi ricordo piu cosa volevo preparare per cena". Pietro era finito sotto ľala malerna delia signora Celani e aveva continuato ad andare alla villa lutti i pomeriggi. Slrano a dirsi, anche il signor Moroni era finito sotto un'a la, quella enorme e rapace del Banco di Roma. Pietro e Glória avevano fatto le elemcntari nella slessa scuola, ma non nella stessa classe. E tutto era andato liscio come ľolio. Ora che erano alle medie, nella stessa classe, le cose invece si erano complicate. Stavano in caste differenti. La loro amicizia si era adattata alla situazione. Assomi-gliava a un fiume sotlerraneo che scorre invisibile e com-presso sotto le rocce, ma appcna trova uno spiraglio, una črepa, sgorga con tutta la sua impressionante potenza. Čosi, a prima vista, quei due potevano sembrarti due tota-li estranei, ma dovevi avere gli occhi fodcrati di prosciutto, se non riuscivi a vedere come si.ccrcavano sempre, come si sfioravano e come si mettevano, neanchc fossero due spie, in un angolo a parlottare tra loro durante ľinteivallo e come, stranamente, all'uscita Pietro rimaneva li, in i'ondo alia strada, finché non vedeva Gloria mbntare in biciclelta e seguitio. 5 La signora Gina Biglia, la mamma di Gra/.iano, soffriva di ipertensione. Di minima aveva centovenli e di massima oltre centottanta. Le bastava un'agilazione, un'emozione e subito veniva assalita da palpitazioni, vertigini, sudori freddi e slor-dimenti. Generalmente, quando suo ľiglio tornava a casa, la signora Gina si sentiva male dalla gioia e doveva meltersi a Ietto perun paio d'ore. Ma quando, quell'inverno, Graziano arrivo da Roma, dopo due anni che non si laceva vedere e senlire, raccontandole che aveva incontrato una ragaz/a del Nord e che voleva sposarla e tornare a vivere a Ischiano, il cuore le schizzö nel petto come una molia e la povera donna, che stáva preparando le fetluccine, si schiantö a terra, svenuta, Ira-scinandosi dietro tavolo, farina e matlerello. Quando si rianimö, non parlava piü. Se ne stava sul pavimento come una testuggine cappotlata tra le fetluccine e mugugnava cose incomprensibili come se fosse diventata sordomula o peggio. Un ictus, pensô Graziano disperato. Perun istante il cuore aveva smesso di battere e il cervello aveva subito un danno. Graziano corse in salotto a chiamare ľambulanza, ma quando tornö trovö sua madre in perfelta forma. Lavava con 31 Cif il pavimento delia cucina e appena lo vide gli diede un foglio su cui aveva seritto: Slo bene. Ho fatto il veto alla Madonnina di Civitavecchia ehe se li sposavi non parlavo per un mese. La Madonnina nella sua infinila misericordia ha accollo le mie preghiere e ora non posso parlare per un mese. Graziano lesse il biglietto e sconsolato si butto su una sedia. «Ma mamma, ě assurdo. Tc nc rendi conto? Come farai a lavorarc? E poi come faccio con Erica, cosa penserä, che sei completamente pazza? Smettila. Ti prego.» La signora Gina scris.se: r y Tu non ti preoceupare. Glielo spiego io alla tua ľidanzala. Quando arriva? «Domani. Ora pero, mamma, ti scongiuro, smettila. Non si sa ancora quando ci sposiamo. Piantala, per f a vore.» La signora Gina cominciô a zompcllarc come un folletto isterico per la cucina emetlendo guaiti e infilandosi le mani nella voluminosa permanente che aveva in testa. Era una donna piecola c Londclla, con due ocehi vivaci c una bocca che sembrava lo sfintere di un pollaslro. Graziano le correva dietro cercando di afferrarla. «Mamma! Mamma! Fermati, per favorc. Che diavolo li prende?» La signora Gina si sedelte al lavolo e ricominciö a scrivere: La casa fa sehifo. Devo pulire lulto. Devo portare le tende in lavanderia. Passare la cera in salotto. E poi devo andare a fare laspesa. Esci. Lasciami iavorare. S'infilö la pelliccia di visone, si caricö la borsa con le ten-I de sulle spalle e usci di casa. Per intenderci, una sala operatoria del Policlinico era meno pulita delia cucina delia signora Gina. Neanche usando il By microscopio elettronico si scovava un acaro o un granello di £ polvere. Sui pavimenti di casa Biglia ci si poleva mangiare e nel water tranquillamente bere. Ogni soprammobile aveva il suo centrino, ogni forniato di pasta il suo barattolo, ogni an-golo dclla casa era conlrollalo quotidianamcntc e passalo con 1'aspirapolvere. Quando Graziano era bambino non si poteva sedere sui divani perche li rovinava, doveva usare le patline e guardarc la tv sedulo su una sedia. La prima ossessione della signora Biglia era I'igiene. La seconda, la religione. La terza e piu grave di tutte, cucinarc. Preparava quant ita industriali di cibo sopraffino. Slorma-ti di maccheroni. Ragu tirati per tre giorni. Cacciagione. Par-migiane di melanzane. Sarlu di riso alti come pandori. Pizze farcite di broccoli, formaggio e mortadella. Tortini ripieni di carciofi e bechamel. Pesce al cartoccio. Calamari in umido. E cacciucco alia livornese. Vivendo da sola (suo marito era morto oramai da cinque anni), tutlo quel ben di Dio finiva o nei congelatori (tre, zeppi come uova) o regalato alle clienti. A Natale, a Pasqua, a Capodanno e a ogni festa che meri-tasse un pranzo speciale, perdeva completamente il senno e rimaneva chiusa in cucina anche tredici ore al giorno a sco-dellare, a ungere teglie, a sgranare piselli. Paonazza, gli oc-chi indemoniati, una cuffia per non ungersi i capelli, fischia-va, canlava con la radio e sbatteva uova come un'invasata. Durante il pranzo non si sedeva mai, galoppava come un ta-piro birmano avanti e indietro tra sala e cucina sudando, sbuffando e lavando piatti e tutli s'innei"vosivano perche non e piacevole mangiare con un'assatanata che ti controlla ogni espressione del volto per capire se la lasagna e buona, che non ti lascia finire e gia ti ha riempito ancora il piatto e sai che, nelle sue condizioni, le potrebbe prendere un coccolone da un momento all'altro. No, non e piacevole. Ed era dilficile capire perche si comportava cos!, cos'era quel furoreculinario che la lormentava. Gli invitali, alia dodi-cesima portata, si domandavano sottovoce cosa voleva Tare, dove voleva arrivare. Voleva ucciderli? Voleva cucinare per il mondo intero? Slamarlo con risotti ai quattro formaggi e sca-glic di tarLufo, linguine al peslo e ossobuco con il pure? No, questo alia signora Biglia non interessava. Del Terzo Mondo, dei bambini del Biafra, clei poveracci dclla parrocehia alia signora Biglia non fregava proprio niente. Lei si accaniva senza compassione su parenti, amici e conoscenti. Voleva solo che qualcuno le dicesse: "Gina cara, gli gnocchi alia sorrentina che fai tu non li sanno fare ncm-meno a Sorrento". Allora si commuoveva come una bambina, balbettava dei ringraziamenti, abbassava la testa come un grande direttore d'orchestra dopo un'esecuzione trionfale e prendeva dal con-gelatore un contenitore pieno di gnocchi e diceva: «Tieni, mi raccomando non li mettere in acqua cosi, senno vengono cattivi. Tirali fuori almeno un paio d'ore prima». Quella donna ti ingozzava senza pieta e, se imploravi di smetterla, ti rispondeva di non fare complimenli. Uscivi da casa sua barcollando, mezzo ubriaco, con la patta dei panta-loni sbottonata e con la voglia di andare a Chianciano a fare una cura disintossicante. Graziano, quando tornava a casa, in una settimana mette-va su, come minimo, cinque chili. La mamma gli preparava i rognoni trifolati (il suo piatto preferito!) e siccome lui era una buona forchetta lei si sedeva e lo guardava mangiare in estasi, ma a un certo punto non ce la faceva piu, doveva chie-derglielo, se non glielo chiedeva moriva. «Graziano, dimmi la verita, come sono questi rognoncini?» E Graziano: «Buonissimi, mamma». «C e qualcuno che li fa meglio di me?* «No, mamma, lo sai. I tuoi rognoncini sono i piu buoni del mondo.» Felice e beata, se ne tornava in cucina e si mettcva a lava-re i piatti perche non si fidava delle macchine. Figuriamoci un po' ehe razza di bancheito si apprestava a cucinare per la futura nuora. Per quelľacciuga di Erica Treltel che pesava quarantasei cliili e diceva di essere una orrcnda cicciona e che quando era di buon úmore si nutriva di Jocca, farro e barrette Energy e quando era depressa divorava Viennelte Algida e pollo di roslicceria. Graziano passô una mattinata in pace con se stesso e con il mondo. Usci a fare una passcggiala. II tempo era incerto. Faceva freddo. Aveva smesso di pio-vere ma i nuvoloni non annunciavano niente di buono per il pomeriggio. A Graziano non importava. Era bealo di essere finalmenle a casa. Ischiano Scalo gli sembrô piu bello e accogliente che mai. Un piccolo mondo antico. Un comune rurale ancora in-contaminalo. Era giorno di mercato. I vendilori avevano piazzato i loro banchi nel parcheggio davanli alla Cassa clclľAgricollura. Le donne del paese con le loro sporte e gli ombrelli facevano ac-quisli. Le mamme spingevano le carrozzine. Un camioncino, fermo davanli al giornalaio, consegnava i pacchi di riviste. Giovanna, la tabaccaia, dava da mangiare a un branco di gatti obesi e viziati. Un gruppo di caccialori si era dato ap-puntamcnto davanti al monumento ai caduti. I bracchi al guinzaglio si agitavano nervosi. E i vecchi seduti ai tavolini dello Station Bar cercavano, come rettili artritici, di acchiap-1 pare un raggio di quel sole che non si decideva a uscire, Dal-la scuola elementare provenivano le urla dci bambini che giocavano nel cortile. Nelľaria c'era un odore buono di legno | bruciato e del mcrluzzo, frcschissimo, distcso sul banco del pescivendolo. Questo era il luogo in cui era nato. Semplice. Ignorante, forse. Ma vero. Era orgoglioso di far parte di quella piccola comunitä ti-morata di Dio c ficra del proprio umile lavoro. E pensare che fino a qualche tempo prima si vergognava, e quando gli chie-devano da dove veniva rispondeva: «Maremma. Non lontano da Siena». Gli sembrava piú fico. Piu nobile. Piu elegante. Che stupido. Ischiano Scalo era un posto magiiifico. Biso-gna essere felici di essere nati qui. E lui alľetä di quaranta-quattro anni cominciava a capirlo. Forse lutlo quel peregri-nare da un capo alľaltro del mondo, tulte quelle discoteche, tutte quelle nottatc a suonare nci locali erano servite a far-glielo capire, a fargli tornare la voglia di essere un ischianese convinto. Bisogna fuggire per ritrovare. Dentro le vene gli scorreva sangue contadino. I suoi nonni si erano spezzati la schiena per tutta la vita su quella terra avara e důra. Passô davanti alla merceria di sua madre. Un negozietto modesto. Dietro la vetrina erano disposti in ordine collant e mutaiidc. Una porta a vetři. Un'insegna. La sarebbe sorta la sua jeanseria. Gia la vedeva. U fiore alľocchiello del paese. Doveva cominciare a riflettere su come arredarla. Forse -avrebbe avulo bisogno di un architetto, un architetto di Miláno o addiriltura americano che lo aiutasse a realizzarla nel migliore dei modi. Non avrebbe badalo a spese. Doveva par-larecon la mamma. Convincerla a fare un mutuo. • Anche Erica lo avrebbe aiulato. Aveva un gran gusto. Dopo queste considerazioni positive, prese la Uno e la portô alľautolavaggio. La fece scivolare tra le spazzole e poi passu l'aspirapolvere nell'abilacolo tirando via mozziconi di canne, seontrini, resli di paLaLine c inille aide schilezze die erano finite solto i sedili. Si gtiardö un nltitnn nello specchietto e capi di non avere ri-spettaLo la prima legge: "TraLta il tuo eoipo come un lempio". Fisicamente stava a pezzi. 11 soggiorno romano lo aveva abbrulito. Non si era piü cura-to del suo aspeLlo e ora sembrava un uumu dellc eaverne, eon tutta quella barba e quei capelli a porcospino. Doveva assolu-tamente, prima dell'arrivo di Erica, rimettersi in forma. Risali in macchina, imbocco l'Aurelia c dopo sctle chilo-metri si fermö davanti al Centra estetico Ivana Zampetli, un enorme eapannone che si trovava a lato della statale, tra un vivaio e il mobilificio degli artigiani brianzoli. Ivana Zampetti, la proprietaria, era una donnona tutta curve e lette, con capelli neri alla Liz Taylor, una bocca da cernia, due incisivi leggermente separati, un naso rifatto e due oc-chietti voraci. Girava con un camice bianco che lasciava in-travedere carne soda e pizzi, un paio di sandali del dottor Hermann ed era avvolta da una nube di sudore e deodorante. Ivana era arrivata a Orbano da Fiano Romano alla metá degli anni Settanta e li aveva trovato lavoro come manicure in un salone. In un anno era riuscita a sposarsi il vecehio barbiere proprietario e aveva preso in mano la gestione del locale. Lo aveva trasformato in un Parrucchiere, rinnovan-done 1'airedo, togiiendo quella brutta carta da parati e sosti-tuendola con speechi e marmi e aggiungendo lavandini e ca-schi per la messa in piega. Due anni dopo, il marito era mortó in mezzo al corso di Orbano slroncato da un infarto. Ivana aveva venduto le case che le aveva lasciato in ereditá a San Folco e aveva aperto allri due negozi di parrucchiere nella zona, uno al Casale del Bra e uno a Borgo Carini. Alla fine degli anni Ottanta, un'eslatc era andala a trovare dei lontani parenti emigrati a Orlando e li aveva visto i centri di fitness stalunilcnsi. Tcmpli del benessere e della salute. Cli-niche attrezzate che si oceupavano del corpo, dalla punta dei piedi alla cima dei capelli. Fanghi. Lettini solari. Massaggi. idrolcrapic. Linfodrenaggio. Peeling. Ginnaslica. Sireiching e pes i. Era tomata con grandi idee in testa che aveva subito realiz-zato. Aveva liquidate i Ire locali di parrucchiere e si era com-prata un eapannone sullAurelia che vendeva maechine agri-cole e Io aveva trasformato in un cenlro polispecialistico per la eura e il benessere del corpo. Ora ci lavoravano dieci perso-ne tra istrutlori, esteliste e paramedici. Era diventata ricca sfondata e molto desiderata dagli scapoli della zona. Ma lei diceva di essere fedele alla memoria del vecehio barbiere. 8 Quando Graziano entrö, Ivana lo aecolse fei ice, se lo strinse fra le tettone odorose e gli disse che sembrava un cadavere. Lo avrebbe rimesso a nuovo lei. Gli sludiö un programmino. Prima tutta una serie di massaggi, bagni in alghe rassodanti, lettino solare integrale, tintura dei capelli, manicure e pedicure e, dulcis in fundo, quello che lei chiamava lerapia ri-creativo-rivitalizzante. Graziano, quando tornava a Ischiano, si sottoponeva sem-pre volentieri alla terapia di lvana. Una serie di massaggi di sua invenzione, che pratieava esclusivamente in orario di chiusura e su persone che ritene-va degne di tale privilegio. Massaggi che tendevano a rivita-lizzare e risvegliare organi ben specifici del corpo e che, per un paio giorni, ti laseiavano come Lazzaro quando ě uscilo dal sepolcro. Quel giorno, pero, Graziano declinô ľofferta. «Ivana, sai come, scusami ma mi sto per sposare.» Ivana lo abbracciô c gli auguro una vila felice e un sacco • di bambini. Tre ore dopo, Graziano usci dal Centro e fece un salto alia Scottish House di Orbano a comprare qualche capo d'abbi-gliamento che lo avrebbe ľatto sentire piú in sintonia con la vita di campagna che si appreslava a iniziarc. Spese novecentotrentamila lire. E finalmenle eccolo, il nostro eroe, davanti alle porte dello Station Bar. Era pronto. I capelli lucidi e vaporosi color savana odoravano di bal-samo. La mascella rasata profumava di Egoistc. L'occhio era nero e vivace. La pelle si era riappropriata delia melanina e finalmente aveva quel colore tra il nocciola e il bronzo che faceva pcrdere la testa alle scandinave. Sembrava un gentleman del Devon dopo una vacanza alle Maldive. La camicia di flanella verde. I pantaloni di velluto marrone a coste larghe. Il gilě scozzese con i colori del clan Dundee (gliclo aveva detto il commesso). Una giacca di tweed con le toppe. E un paio di scarponcini Timberland. Graziano spinse la porta, fece due passi lenti e misurati alia John Wayne e si awicinô al bancone. Barbara, la barista ventenne, per poco non si senti male vedendolo apparire. Cosi, in una giornata qualsiasi. Senza trombe né fanfare che lo annunciavano. Senza araldi che ne preannunciavano I'arrivo imminenle. II Biglia! Era tomato. Lo sciupafemmine era torna Lo. 62 \ II sex symbol di Ischiano era li. Era li per riattizzare osses-sioni eroLiche mai spcnlc, per riaccendere invidie, per far parlare di se. Dopo le performance di Riccione, Goa, Port France, Batti paglia, Ibiza, era di nuovo li. L'uomo che era stato invitato al Maurizio Costanzo Show a raccontare le sue esperienze di latin lover, l'uomo che aveva vinlo la Coppa Trombadour, che aveva suonalo al Planet Bar insieme ai fratelli Rodriguez e che aveva avuLo un love affair con l'attrice Marina Delia era tomato (la pagina di «Novella 2000» con le foto di Graziano che, sulla spiaggia di Riccione, massaggiava la schiena di Marina Delia e le baciava il collo era rimasta appesa vicino al Hipper per sei mesi e ancora og-gi regnava incontraslata neH'officina del Roscio tra i calen-dari con le modelle nude), l'uomo che aveva battuto il record di rimorchio detenuto dal famoso Peppone (trecento donne in un'estate, cosi diceva il giornale) era di nuovo li. Piu splendido e in forma che mai. I suoi coetanei, diventaLi dei padri di famiglia, spenti da una vita monolona e piatta, assomigliavano a dei bulldog - spelacchiati e canuti mentre Graziano... {Quale sara mai il sua segreto?) ... con gli anni diventava piu bello e affascinante. Come gli donava quclla pancelta. E quelle zampe di gallina altorno agli occhi, quelle rughette ai lati della bocca, quella leggcra stempiatura gli davano un certo non so che... «Graziano! Quando sei torn...» disse Barbara la barista, rossa come un peperone. Graziano si mise un dito davanti alia bocca, prese una taz-za e la sbatte violentemente sul banco e poi urlo: «Che succe-de in questo locale del cazzo? Non si saluta un vecchio Dae-sano che torna a casa? Barbara! Da bere per tutti». I vecchi seduti a giocare a carte, i ragazzini davanti ai video-giochi, i cacciatori e i carabinieri si voltarono tutti insieme. 63 ■ C'erano anche i suoi amid. 1 suoi amichelti del cuore. I vecchi compagni di scorribandc. 11 Roscio, i fralelli France-schini, Ottavio Baltilocchi se ne stavano a un tavolino a compilare la schedina, a leggere il «Corriere dello Sport» e quando lo videro si alzarono in piedi, lo abbracciarono, lo baciarono, gli scompigliarono i capelli e inlonarono cori: «Perché ě un bravo ragazzo. Perché ě un bravo ragazzo. Nes-suno lo pu6 ncgar». E allri piu colorili c camcratcschi sui quali ě meglio sorvolare. Da quelle parti si festeggia cosi il ritorno del figliol prodigo. Ed eccolo ancora, mezz'ora dopo, nella zona ristorante dello Station Bar. La zona ristorante era una stanza quadrata nel retro del locale. Con il soffilto basso. Un lungo neon giallo. Pochi la-voli. Una finestra sulla ferrovia. Alle pareti litografie di treni antichii. Era seduto a un tavolo con il Roscio, i due fralelli France-schini e il giovane Bruno Miele che era arrivato apposla. Mancava solo Baltilocchi che doveva portare la figlia dal dentista a Civitavecchia. • Davanti avevano cinque piattoni fumanti di tagliatelle al ragu di lepre. Una brocca di vino rosso. E un piatlo di affet-tali e olive. «Ragazzi, questa si che ě vita. Non sápete quanto mi ě mancata questa roba» disse Graziano indicando con la for-chetta la pasta. «Allora, che fai stavolta? Il solito mordi e fuggi? Quando riparti?» domando il Roscio riempiendosi un bicchiere. Fin da piccolo, Roscio era l'amico del cuore di Graziano. Allora era un ragazzetto magro con un casco di ricci color carota, lento di lingua ma veloce come un furetto con le ma-ni. Il padre aveva uno sfasciacarrozze sull'Aurelia e smercia-va ricambi rubati. Il Roscio viveva tra quelle montagne di feiTaglia smonlando e ricomponendo motori. A tredici anni girava in sella a una Guzzi mille e a sedici faceva le garc sul viadotto dei Pratoni. A diciassette, una notte aveva avuto un incidente mostruoso, la moto aveva grippalo e si era inchio-data a centosessanla chilometri all'ora e lui era stalo sbalza-to fuori dal viadotto come un missile. Senza casco. Lo avevano ritrovalo il giorno dopo, cinque metri sotto la strada, in uno scolo delle logne, mezzo morto e acciaccato come una formica a cui e finito in testa un vocabolario. Era rimasto otto mesi in trazione con ventitre fra ossa fratturate e lussate e piü di quattrocento punti sparsi un po' dovunque. Sei mesi su sedia a rotelle e sei mesi con le stampelle. A vent'anni zop-picava vistosamente e non piegava piü bene un braccio. A ventuno aveva messo incinta una raga/.za di Piligliano e se l'era sposata. Ora aveva tre figli e dopo la morte del padre era divenlato proprietario dell'impresa e aveva messo su anche un'officina. E probabilmenle, come il padre, aveva giri loschi. Graziano non ci si irovava piü, dopo l'incidenle. Il ca-rattere gli era cambiato, era diventato ombroso, aveva im-provvisi attacchi di rabbia, beveva e in paese si diceva che picchiasse la moglie. «Con chi te la fai adesso, vecchio marpione? Slai ancora con quella Ii, la fica, l'attrice...?» Bruno Miele paiiava a boc-ca piena. «Come si chiama? Marina Delia? Non ha fatto un film nuovo?» Bruno Miele nei due anni di assenza di Graziano era diventato grande e faceva il poliziotto. Chi se lo sarebbe mai aspettalo? Uno come il Miele, un noto testadicazzo, che met-teva giudizio e diventava un tutore della legge? La vita, a Ischiano Scalo, andava avanti, lenta ma inesorabile, anche senza Graziano. Miele lo venerava come un Dio dopo aver saputo che il suo amico aveva avuto una storia con un'attrice famosa. Ma quella vicenda era un nervo scoperto per il povero Gra- ziano. Le folo su «Novella 2000» gli erano senile mollissimo era diventalo un milo locale ma nullo slesso tempo lo laceva-no sentire un po' in colpa. Tanto per cominciare, lui non era mai stato fidanzato con la Delia. La Delia prendeva il sole alio stabilimento Aurora di Riccione e, quando aveva visto aggi-rarsi per la spiaggia un paparazzo di «Novella 2000» alia fre-netica ricerca di Vip, era enlrata in fibrillazione. Si era subito lolla il reggiseno e aveva comineiato a urlare. Era sola. L'allo-rucolo francese con cui se la l'aceva in quel periodo era chiuso in albergo con trentanove di febbre per un'intossicazione alimentäre. Solo un giovane francese e coglione puo metLersi a staccare le cozze dalle cime di ormeggio del porto di Riccione e mangiarsele cosi, crude, dicendo che suo padre era un pe-scatore brelone. Ben gli stava. Ma ora Marina era nella mer-da. Doveva trovare subito qualcuno che le facesse da spalla. Era corsa sulla riva del mare a cercare un giovane di bella pre-senza con cui posare. Aveva vclocemente passato in rivista tutli i lozzi, fusti e bagnini della spiaggia e alia fine aveva scel-to Graziano. Gli aveva chieslo se gli dispiaceva spalmarle la crema sulle tette e baciarla appena quell'omino !i, quello con la macchina fotografica, passava davanti a loro. Quesla era la sloria delle famose fotogralie. E probabilmenle sarebbe finita Ii se Marina Delia non fosse divenlata, dopo un film con un comico loscano, una delle star piü amate d'llalia e non avesse deciso di non moslrare mai piü un solo quadratino di pelle nemmeno per un milio-ne di dollari. Quelle erano le uniche foto disponibili delle tette della Delia. Graziano ci aveva campato sopra per almeno un paio d'anni, racconlando di averla falta godere davanti e dietro, in ascensore e nella Jacuzzi, con il bello e il brutto tempo. Ma ora bisognava smetterla. Erano passati cinque anni. E invece ogni volta che tornava a lschiano tutti con 'sta sloria di Marina Delia, di che porca che e. Che palle 66 mi ■ K «Ho letlo da qualche parle che si e fidanzata con uno stronzo di calciatore» continuö Miele con la lesla inlilata nelle fettuccine. «Ti ha mollato per un centrocampista della Sampdoria. Deila Sampdoria? Ti rendi conto?» sghignazzö Giovanni, il maggiore dei due fratelli Franceschini. «Se almeno losse slalo della Lazio» gli fece eco Elio, il minore. 1 fratelli Franceschini possedevano un allevamento di spi-gole nella laguna di Orbano. Le spigole dei Franceschini si riconoscevano perche erano lulle lunghe venu centimelri, pesavano seicento grammi, avevano l'occhio opaco e sapeva-no di trota d'allevamento. Quei due erano inseparabili, vivevano in una cascina pie-na di zanzare accanto alle vasche con mogli e figli e nessuno si ricordava mai quali erano la moglie e i figli dell'uno o del-l'altro. Con le spigole ci campavano, ma certo non ci si arric-chivano se erano costrelli a litigarsi il furgone per uscire la sera a bere una birra. Graziano decise che era venulo il momento di liquidare la Delia. Era incerto se raccontare agli amici le novitä sul suo futu-ro. Era meglio non parlare della jeanseria. Le idee le le ruba-no in un allimo. In un paese poi le nolizie volano e che ne sai che qualche figlio di puttana non ti fotta sui tempi. Prima doveva impianlarsi per bene, chiamare l'archilello milanese e poi avrebbe potuto parlarne. Perö l'altra novitä, quella piü bella, perche non raccontargliela? Quelli non erano i suoi amici? «Ascoltatemi, ho qualcosa da dirv...» |i «Sentiamo. Chi Li sei fatto ancora? Ce lo dici o dobbiamo scoprirlo dai giornali?» lo interruppe il Roscio riempiendogli il bicchiere fino all'orlo di quel vinello Iraditore che si faceva bere come una gazzosa ma poi ti afferrava la lesta e le la strizzava come un limone. 67 , «Si sara scopato Simona Raggi. Chi si sara fatto?» disse Franceschini junior. «No, sccondo me, e piu probabile Andrea Mantovani. Ora vanno di moda i froci» concluse senior agitando una mano. E lutti a ridere come idioti. «Fate un altimo di silenzio, per favore.» Graziano, che si stava innervosendo, batte la forchetta sul bicchiere. «Pianta-tela di dire slronzate. AscoUatemi. II periodo dclle attricctte e dei record e finito. Definitivamcnte finito.» Pernacchie. Risate. Gomitate. «Oramai ho quarantaquattro anni, non sono piu un ragaz-zino, d'accordo, nella vita mi sono divertito, ho girato il mondo, mi sono portato a letto cosi tante donne che di mol-te non ricordo neanche piu la faccia.» «Ma il culo, si, scommetto» disse il Miele Felice come un bambino per quella splendicia battuta che gli era uscita. Altre pernacchie. Altre risate. Altre gomitate. Graziano cominciava a rompersi i coglioni. Con quegli imbecilli non si poteva fare un discorso serio. Basta. Doveva dirglielo. Senza tanti preamboli. «Ragazzi, mi sposo.» Parlirono applausi. Con. Fischi. Dal bar entro altra gente che fu subito informata. Per un buon quarto d'ora non si cap! piu niente. Graziano che si sposava? Impossibile! Assurdo! La notizia usci dal bar e si diffuse come un virus e nel-l'arco di qualche ora lutto il paese sapeva che il Biglia si sposava. Poi, finalmente, dopo i baci, gli abbracci e i brindisi la si-tuazione si ricompose. Erano di nuovo loro cinque e Graziano pote riprendere il discorso interrotto. «Si chiama Erica. Erica Trettel. Tran-. quilli, non e tedesca, e di vicino Trento. Fa la ballerina. Do-mani arrivera qui, ha detto che i paesi non le piacciono, ma non conosce Ischiano Scalo. Sono sicuro che le piacera. Vo- glio che si Irovi bene, che si senta a proprio agio. Quindi mi raccomando, mi dovete aiutarc...» «E che dobbiamo fare?» chiesero in coro i fratelli Franceschini. «Niente... Per esempio potremmo organizzare aualcosa di divertenle per domani sera.» «Che cosa?» domandö smarrito il Roscio. Questo era uno dei problemi di quel posto, quando si cer-cava di fare qualcosa di diverlente si era presi come da un in-cantamcnto, e niente, il cervello ti si svuotava e il Qi ti si ab-. bassava di qualche punlo. La veritä era che a Ischiano Scalo non c'era un cazzo da fare. Sul gruppo calö un silenzio preoccupante, ognuno era preso nel proprio vuoto pneumalieo. Che diavolu potremmo fare? Qualcosa cli diverlente, riflette-va Graziano, c/ualcusa che possa piacere a Erica. Stava per dire: potremmo andare alla solila merdosa Pizzeria del Cairo, quando fu folgorato da una visione, una visione semplicemente inebriante. Ě-notte. Lui ed Erica escono dalla Uno. Lui indossa un costume Sandek da windsurf, lei un microscopico bikini arancione. Tulti e due alti, tutli e due lonici, tutti e due belli come děi greci. Meglio dei bagnini di Bay-Watch. Attraversano il piaz-zale fangoso. Mano nella mano. Fa freddo ma non imporla. Fumo. Odore di zolfo. Entrano nelle pozze e s'immergono nellacqua calda. Si baciano. Si toccano. Lui le sfila il reggi-seno. Lei gli sfila il Sandek. . Tutti li guardano. Non importa. Anzi. E poi lo fanno, davanti a tutti. Spudoratissimi. Ecco cosa dovevano fare. . Saluniia. 68 69 Certo. Nelle pozze di acqua sulfurca. Erica non c'cra mai stala. Impazzirä a fare il bagno, di nottc, sotto quella cascata bollen-te che, non ciiinenlichianiocelo, fa pure bene alia pelle. E quan-to gli roderä il culo a tutti. Quando vedranno il fisico da pin-up di Erica, quando con-I'ronteranno i lombi eellulitici dcllc loro consorti con le chiappe lísce e sode di Erica, quando paragoneranno le mammelle flaccide delle loro donne con le tette di marmo di Erica, quando opponanno alle gambe da gazzella di Erica quei tronchi lozzi delle loro scorfane, quando lo vedranno montare quella giovane puledra, davanti a tutti, si sentiran-no delle vere merde e capiranno, una volta per tutte, per quale cazzo di ragione Graziano Biglia aveva deciso di sposarsi. Giusto? «Ragazzi, ho avuto un'idea geniale. Potremmo mangiare ai Tre Galletti, la taverna vicino a Saturnia, e poi andare a fare il bagno alle cascate. Che ne dite?» propose entusiasta, come se gli avesse, che ne so, parlato di un viaggio tutto spesa-to ai Tropiči. «Non e una gran ficata?» Ma la risposta non fu adeguata. I fratelli Franceschini storsero la bocca. Miele espresse solo un: «Bah!» scettico e il Roscio dopo aver guardato gli altri disse: «Ma, non mi sembra qucsta gran genialata. Fa freddo». «E piove» aggiunse Miele sbucciandosi una mela. «Ma siete diventati delle larve, cazzo! Mangiate, dormite e lavorate. Ě questo che fate? Siete dei cadaveri. Dei morti di sonno. Non vi ricordate le mi liehe sarate, quando passava-mo la notte in giro per le Campagne a sbronzarci e poi anda-vamo a buttare le bombe nel laghetto artificiale di Pitigliano e alia fine ci lessavamo sotto la cascatella...» «Che bello...» disse Giovanni Franceschini con gli occhi puntati verso il soffitto. II volto gli si era ammorbidito e gli occhi erano sognanti. «Vi ricordate quando il Lambertelli si ruppe la testa lulfandosi in una pozza? Che ridere. E io mi rimorchiai una di Firenze.» «Non era una, era uno» lo apostrofo il fratello. «Si chia-mava Saverio.» «E li ricordi quando lirammo le pie ire conlro il pulmino di quei ledeschi e poi lo buttammo giü dal dirupo?» rievoeö il Miele eslasiato. Tutti risero IrasjKJrlati dal turbine dei bei ricordi di gio-ventu. Graziano sapeva che era il momento d'insistere, di non moilare losso. «Allora forza, laceiamo sta paz/.ia. Domani sera prendiamo le macchine e andiamo a Saturnia. Ci sbron-ziamo ai Tre Galletti e poi tutti a fare il bagno.» «Maeosla un occhio della testa,quel poslo» ribalté il Miele. «Däi, mi sto o non mi sto sposando? Che spilorci!» «Va bene, per una volta faremo una pazzia» dissero i Franceschini. «Perö dovete portare anehe mogli e fidanzate, capito? Non possiamo andare come una banda di lroci, Erica si spa-venterebbe.» «Ma la mia ha la sciatica...» disse il Roscio. «Quella ri-schia che ci affoga neü'acqua.» «E Giuditla 1'hanno appena operala di ernia» aggiunse Elio Franceschini preoccupato. «Basta, prendete le vecchie e obbligatele a venire. Chi porta i pantaloni in casa, voi o loro?» Fu stabilito che la comiliva sarebbe partita dalla piazza alle otto della sera dopo. E nessuno avrebbe potuto rinunciare all'ultimo momento, perché come disse bene il Miele: «Chi si estranea dalla lotta ě un gran figlio di mignotta». Graziano s'incamminö verso casa brillo e felice come un bambino a Gardaland. «Meno male che me ne sono andato da quella cazzo di cilia, menu male. Roma, ti odio. Mi fai schifo» ripeleva ad alta voce. Come si stava bene a Ischiano Scalo e che amici magnifici aveva. Era slalo uno slupido a non cagarseli piu per tutti quegli anni. Senti un molo d'affeUo cresccrgli dentro. Forse erano un po' invecchiati, ma ci avrebbe pensato lui a rimet-terli in piedi. In quel momento si sentiva capace di Fare di tullo per quel paese. Dopo la jeanseria, avrebbe potuto apri-re un pub, genere inglese, e poi... E poi e'erano un mucchio di cose da fare. Sail le scale reggendosi al corrimano ed enlro in casa. Cera un odore acre di cipolla da far rizzare i capelli. «Cazzo che puzza, ma'. Che slai combinando la dentro?» Si affaccio in cucina. La signora Biglia, con un collellaccio, squarlava uno gnu, o un somaro, visto che la carcassa ci slava appena, sul tavolo di marmo. «Awwaaaaaaavwwaaaa» mugolo sua madre. «Che dici? Non li capisco, ma'. Non ti capisco proprio» disse Graziano appoggiato alio stipite dclla porta. Poi si ri-cordo: «Ah, gia. II voto». Si volto e si trascino nella sua stanza. Crollo sul letto e prima di addormentarsi decise che 1'in-domani sarebbe andalo da padre Coslanzo (chissa se e'e ancora padre Costanzo? Sara bello che niorto) a parlare del voto di sua madre. Forse poteva scioglierlo. Non doveva far vedere a Erica sua madre in quello slalo. Poi si disse che in fondo non e'era niente di male, sua madre era una cattolica osservante e da bambino anche lui ci aveva creduto parec-chio in Dio. Erica avrebbe capito. Si addormento. E dormi il sonno dei giusti sotto un poster di John Travolta ai tempi della Febbre del sabato sera. I piedi che spunlava-no fuori dal lettino. La bocca spalancata. { 9 Vola, Vola. Vola. Vola che e tardi. Vola e non ti fermare. E Pietro volava. Giü per la discesa. Non vedeva niente, che buio, ma che m'imporia, pedalava nelle tenebre, a bocca aperta. II debole faro dclla biciclctta scrviva a poco. Si piegö, mise giü il piede e affrontö la curva derapando sulla ghiaia, poi si raddrizzö e sgommando riprese a pedala-re. Il vento gli fischiava nelle orecchie e gli faceva lacrimare gli occhi. La strada la sapeva a memoria. Ogni curva. Ogni buca. L'avrebbc poluta fare anchc senza faro, a occhi chiusi. Cera un record da battere, lo aveva slabilito tre mesi prima e non era mai piü riuscito a eguagliarsi. Ma che aveva quel giorno? Chi lo sa. Un fulmine. Diciotto minuti e venlotto secondi dalla villa di Gloria a casa. Forse percheavevo cantbiato ilcopertonealia ruota di dietro? Quella volta, da quanto aveva spinto, appena arrivato si era sentito male e aveva vomilato in mezzo al cortile. Slasera perö non doveva battere il record per sport o perche gli andava, ma perche erano le otlo e dicci ed era tardis-simo. Non aveva chiuso Zagor nel canile e non aveva porlalo 1'immondizia al cassonctto e non aveva chiuso la pompa del-l'orlo e... ... e mio padre mi ammazza. Vola. Vola. Vola. E come al solito, e tutta colpa di Gloria. Non lo lasciava mai andare via. «Lo vedi che fa schifo co-sl. Aiutami almeno a dipingere le lettere... Ci mettiamo un attimo. Che palle che sei...» insisteva. E cosr, Pietro si era messo a dipingere le lettere e poi a fa- 72 73 re la cornice blu alia foto dclla zanzara che succhiava il san-gue e non si era accorto che intanto il tempo passava. Certo era venuto proprio bene il cartellone sulla malaria. La professoressa Rovi lo avrebbe sicuramente appeso in corridöio. Peru era stata una gran giornata. Dopo la scuola, Pietro era andato a mangiare da Gloria. Nella villa rossa sulla collina. Pasta con le zucchine e ľuovo. Cotoletta alia milanesc. E palatine fritte. Ah, giusto, il budino di crema. Tutto gli piaceva li: la sala da pranzo con le vetrate da cui si vedeva il prato lagliato alľinglese e piü in la i campi di gra-no e il mare in fondo e i mobili grandi e quel quadro delia baltaglia di Lepanto con le navi infuocate. E c'era la came-riera che serviva. Ma quello che gli piaceva di piü era la tavola apparecchia-ta. Come al risloranle. La tovaglia bianchissima, appena lávala. I piatti. 11 cestino con i panini, la ľocaccia e il pane ne-ro. La caralTa con l'acqua gassata. Tutto peifctto. E gli veniva naturale mangiare bene, educato, con la bucca chiusa. Niente gomiti sul tavolo. Niente scarpetla nel sugo. A casa sua, Pietro si doveva prendere la roba dal frigo, o la pasia avanzata da sopra il fornello. ' 77 prendi il piatto e il biccliiere e ti siedi al tavolo di cucina dawn-ti alia tele e mangi. E quando c'era Mimmo, suo ľratello, allora neanche poleva vedere i cartoni animali, perché quel prepoLcnte prendeva il lelecomando e si vedeva le soap opera che a Pietro faceva-no schifo. «Mangia e non rompere» tagliava corto Mimmo. I «A casa di Gloria si mangia tutti insieme» Pietro aveva raccontato ai suoi una volta che era piü loquace del solilo. «Seduti a tavola. Come nel telefilm delia famiglia Bradford. Si aspetta che il papa di Gloria torni dal lavoro, per incomin-ciare. Bisogna sempre lavarsi le mani. Ognuno ha il proprio posto e la mamma di Gloria mi domanda sempre come van-no le cose a scuola e dice che sono troppo timido e si arrab-bia con Gloria che paria tanto e non mi fa parlare. Una volta Gloria ha raccontato che quel cretino di Bacci ha appiccica-lo le caccole nel quaderno di Tregiani e suo padre si ě arrab-biato perché non bisogna dire schifezze a tavola.» «Certo, quelli non hanno niente da fare tutto il giorno» aveva detto suo padre conlinuando a ingozzarsi. «Che ti cre-di, ci piacerebbe anche a noi avere la cameriera. E ricordati che tua madre ci faceva le pulizie in quella casa. Tu sei piü vicino alia cameriera che a loro.» «Perche non le ne vai a vivere li, visto che ci stai cosi be-ne?» aveva aggiunto Mimmo. E Pietro aveva capito che era molto meglio non parlare della famiglia di Gloria a casa sua. Ma oggi era stato un giorno speciale perché erano andati, dopo mangiato, a Orbano con il papa di Gloria. Co?? la Range Rover! Con lo stereo e l'odore buono dei sedili di pelle. Gloria cantava come Pavarotli facendo il vocione. Pietro se ne stava seduto dietro. Le mani in mano. La testa contro il finestrino e l'Aurelia che gli scivolava davanti. Guardava fuori. Le pompe di benzina. I laghetti dove alleva-vano le spigole. La laguna. Gli sarebbe piaciuto andare avanti cosi, senza fermarsi mai, fino a Genova. Dove, gli avevano detto, c'era l'acquario piü grande d'Europa (e ci stavano pure i delfíni). Invece il signor Celani aveva messo la freccia e aveva svoltato per Orba- no. In piazza Risorgimento aveva lasciato il [uoristrada in seconda fila, tranquillo, come se fosse sua la piazza, proprio davanti alia banca. «Maria, se disturba fammi chiamare» aveva detto alia vi-gilessa e quella aveva fatlo segno di si con la testa. Suo padre diceva che il dottor Celani era una grandissima testa di cazzo. «Tutto gentile. Tutto chiacchiere. Un signore. Si accomodi... come va? Vuole un caffe? Quant e simpatico suo figlio Pietro. E diventato tanto amico di Gloria. Certo... Certo... Come no. Bastardo! Con quel mutuo mi ha strozza-to. Quando sard morto non avro ancora finito di pagarlo. Quelli cosi ti succhierebbero pure la merda dal culo, sc po-tessero...» Pietro non sc lo vedeva proprio il signor Celani che suc-chiava la merda dal culo di suo padre. A lui piaceva, il padre di Gloria. Egentile. E mi regala i soldi per comprare la pizza. E ha detto che una volta mi portera a Roma... Pietro e Gloria erano andati all'ospedale a cercare il dottor Colasanti. L'ospedale era una palazzina a tre piani, di mattoni rossi, proprio davanti alia laguna. Con un piccolo giardino e due grandi palme ai lati deH'ingresso. Cera stato gia una volta, al pronto soccorso. Quando Mimmo era caduto facendo cross con la moto dietro il Fon-tanile del Marchi e aveva cominciato a bestemmiare dentro l'ambulatorio perche gli si era storla la forcella dclla moto. 11 dottor Colasanti era un signore alto, con la barba grigia e due sopracciglia folic e nere. Se ne stava seduto alia scrivania dell'ambulatorio. «E cosi, ragazzi, volete sapere chi e la famigcrata Anophcles?» aveva detto accendendosi la pipa. Aveva parlato a lungo e Gloria lo aveva registrato. Pietro aveva imparato che non sono le zanzare che ti fanno venire In malaria ma dei mierorganismi che vivono dentro la loro saliva che ti iniettano quando li succhiano il sangue. Delle specie di microbi che ti si infilano nei globuli rossi e li si moltiplicano. Era strano pensare che anche le zanzare erano ammalate di malaria. Con tutte queste notizie era impossible non fare una bella figura all'interrogazione. Buio e freddo. 11 vento spazzava i campi e spingeva la bicicletta fuori strada e Pietro faceva fatica a tenerla dritta c, quando si apri-va uno spiraglio tra le nuvole, la luna allagava di giallo i campi che arrivano lontano, fin giu, all'Aurclia. Onde nere s'inseguivano sull'erba argentata. Pietro pedalava, inspirava e cantava tra i denti: «Uhh cella ccio non anda re via! Ta rara...». Svolto a destra, percorse una stradina sconnessa che ta-gliava a meta i campi ed entro a Serra, un piccolo borgo agricolo. Lo attraverso sparato. Di nolle quel poslo non gli piaceva per niente. Faceva paura. Serra: sei case vecchie e malconce. Un capannone trasfor-mato da qualche anno in un circolo dellArci. I contadini e i pastori della zona ci vanno a rovinarsi il legato e a giocare a briscola. C'e pure uno spaccio, ma e sempre vuoto. E una Ichiesa costruila negli anni Settanla. Un parallelepipedo di cemento armalo con feritoie al posto delle finestre e il campanile che sembra un silos, a lato. Sulla facciata un mosaico con un Cristo asceso se ne cade a pezzi e le scale sotlo la porta sono piene di tessere dorate. I bambini le usano per la fionda. Un lampione fioco al centro del pia/.zale, un altro sulla strada e le due finestre dell'Arci. Questa e la luminaria di Serra. • «Fagia na ccio, non ancla re via... Na na na...» Assomigliava alle citta ľanlasma dei western. Quei vicoli stretli e le ombre delle case che si allungavano minacciose sulla stráda, quel cancello che sbatacchiava spin-to dal vento e un cane che si sgolava dietro un cancello. Tagliô il piazzale e rientrô sulla stráda. Cambiô marcia e spinse di piíi sui pedáli inspirando ed espirando ritmicamen-te. La luce del ľaro illuminava pochi metri di stráda e poi c e-ra il buio, il vento che ľrusciava tra gli ulivi, il suo respiro e il rumore del copertone sulľasfalto bagnato. Mancava poco a casa. Ce la poteva ľare ad arrivare prima di suo padre e non beccarsi una slrigliata. Sperava solo di non incontrarlo che rienlrava sul trallore. Quando era troppo ciucco rimaneva al circolo ľino alla chiusura, russando su una sedia di plastica vicino al flipper, e poi si trascinava sul trattore e se ne torna-va a casa. In lonlananza, a un cenLinaio di metri, avanzavano zigza-gando tie luci fioche. Scomparivano e riapparivano. Risate. Biciclette. «CinghiaIo...» Chi pud essere a quesťora? Rallentô. «... tto non andare...» A quesťora, nessuno va piu in bicicletta, tranne... «... via...» ... loro. Addio record. No. Non sono loro... Avanzavano piano. Tranquilli. «e e e ehhhh ee e eehhhhh eh eh eh» Sono loro. Quella risata del cavolo, stridula come un'unghiata sulla lavagna e balbeltante come il raglio di un asino, odiosa, fuo-ri luogo e ľoi"zata... Bacci... II respiro gli morí in gola. ... Bacci. Solo quelľidiota di Bacci rideva cosi. Pcrchč per ridere cosi bisognava essere idioti.come Bacci. So)io loro. Männaggia la miseria... Pierini. Bacci. Ronca. Ľullima cosa al mondo che ci voleva in quel momento. Quei tre lo volevano vedere morto. E la cosa piu assurda era che Piclro non sapeva pcrchč. Perché mi odiano? lo non gli ho falto nienle. Se avesse saputo che cos'era la reincarnazione, avrebbe potuto credere che quei tre fossero spiriti maligni che lo pu-nivano per qualcosa che aveva commesso in un'altra vila. Ma Pietro aveva imparato a non lambiccarsi a lungo sul perché la sfortuna lo perseguitava con quella costanza. Tanto non serve a niente, alla f i ne. Se le boíte le le devi pren-dere, le prendi e bašta. A dodici anni Pietro aveva deciso di non perdere troppo tempo a ricamare sui perché delle cose. Era peggio. I cin-ghiali non si chiedono perché il bosco bručia e i ľagiani non si chiedono perché i cacciatori sparano. Scappano e bašta. É ľunica cosa da fare. In casi come questi devi telare piu veloce della luce e se non puoi, se ti mettono in un angolo, allora ti devi chiudere come un riccio e lasciarli sfuriare ľino a che non sono soddisfatli, come la grandine che ti colpisce durante una passeggiata in campagna. Ma ora che faccio? Preše in considerazione rapidamente le varie possibililä. Nascondersi e lasciarli passare. Cerlo poleva nascondersi nei campi e aspellare. Pensa che bello essere invisibile. Come la femmina clei Fan-tastici Quaílro. Ti passano davanti e non ti vedono. Tu te ne stai lá e loro non ti vedono. II niassimu. Oppure, ancora me-glio, non esistere fienuneno. Non esserci proprío. Non essere nenuueno nato. (.Piautala. Pensa!) Mi nascoudo nei canipo. No, era una stronzata. Lo avrebbero visto. E se ti beccano che ti nascondi come im coniglio sono guai seri. Se gli jai vedere che hai paura, ě veraniente la fine. Forse la cosa migliore era tornare indietro. Scappare fino al circolo delTArci. No. Lo avrebbero inseguito. Come lui aveva visto i loro fari, loro avevano visto il suo. E per quei ri-tardati mentaii non c'era nienle di piú divertente di una bella caccia notturna al Cazzone. Li faceva lelici. Un inseguiniento? Sapeva di essere veloce. Piu veloce di chiunque altro della scuola, ma se gareggiava perdeva. E ora, ollretutto, era slinilo. Era sfinito, aveva le gambe a pezzi e i polpacci duri come legno. Non avrebbe retto a lungo. Avrebbe mollato e allora... Lunica cosa era andare avanti, (apparentemente) tran-quillo, passargli accanto, salutarli e sperare che lo lasciasse-ro in pace. Si, devo (are cosi. Oramai erano a cinquanta metri. Avanzavano rilassati, parlando e ridendo e si stáváno probabilmente chiedendo di chi fosse quella biciclelta che arrivava. Ora sentiva la voce bassa di Pierini, quella in falsetto di Ronca e la risata di Bacci. 80 Tutli e (re. In formazione di ballaglia. Dove stáváno andando? Sicuramente a Ischiano Scalo, al bat; dovc possono andare? 10 Ci aveva preso, i tre stavano andando proprio la. Ma che altro potevano fare? Ammazzarsi di pizzichi, prendersi a capocciate, giocare alle belle statuine, fare i com-piti? Ľunica era sbattersi al bar, a guardare quelli piü grandi che giocavano a stecca e provare a fottersi qualche gettone da dietro il bancone del bar e spararsi un paio di partitelle a Mortal Kombat. Sacrosanto. Questo pensicro era condiviso da tut ti e tre. Ii problema era che solo Federico Pierini poteva permet-tersi di fare ciö che voleva, di mandare a cagare suo padre, non tornare a casa e rimanerc in giro fino a notte tarda. Andrea Bacci e Stefano Ronca, invece, avevano qualche diffi-coltä in piü a gestire il rapporto figli-genitori, ma, stringendo i denti e beccandosi strilli e pedate nei culo, seguivano il loro capo naturale. Avanzavano paralleli, nei buio, pedalando piano, al centro della strada. Tranquilli come un branco di giovani licaoni a caccia. I licaoni, i canidi delle praterie africane, vivono in branch!. I giovani perö formano dei gruppi a sé, fuori del nucleo familiäre. Nella caccia collaborano e si sostengono, ma han-no una gerarchia rigida che viene stabilita con scontri rituáli. Ii capo, piü grosso e audace (alfa), e solto i gregari. Vaga-bondano rapaci per le savane alia ricerca di cibo. Non 81 attaecano mai gli animali piii in salule. Solo le bestie malate, quelle vecchie e i piccoli. Accerchiano lo gnu, lo frastornano abbaiandogli conlro, poi l'azzannano tulti insicme, con le lo-ro mascelle potenli e i denti aguzzi Tino a quando non cade a terra e, al contrario dei felini che prima gli spezzano la co-lonna vertebrale, i licaoni se lo mangiano cosi, vivo. Federico Pierini, il licaone alfa, aveva quattordici anni. Faceva ancora la seconda media essendo slato boccialo due volte. Alcuni neurofisiologi americani hanno fatlo dellc ricerche sulle popolazioni carcerarie degli Stati Unili. Hanno preso gli individui piů violenti e catlivi (picchiatori, stupratori, as-sassini ecc.) e hanno analizzato i tracciali dei loro eletlroen-ceialogrammi. Non hanno usato un elettroencefalografo (eeg) standard (che analizza I'allivitä elettrica media dei cer-vello), ma uno piü sofisticato, capace di registrare le altivitä elettriche speciliche di ogni regione corlicale. Gli hanno co-perto il cranio di eletlrodi e poi Ii hanno messi a vedere un documentario sulla produzion.e industriale di scarpe da gin-naslica. 1 neurofisiologi hanno nolato che nella maggior parte dei casi l'attivitä della zona frontale di quesli individui era scar-sa e piü debole rispetto a quella di persone normali (buone). La zona frontale dei ceivello e deputata all assorbimento di notizie provenienti dall'esterno. In altre parole, li risiede la capacitä di concentrarsi, ad esempio di mettersi a guarda-re un film e, anche se ě una noia mortale, vederlo dall'inizio alla fine senza distrarsi né agilarsi né cominciare a disturba-re il vicino, ma al massimo sbulfarc e ogni lanto guardare l'orologio. Con questa ricerca si ě giunti a formuláře l'ipotesi che le persone violente abbiano una scarsa capacitä di concentra-zione e che questo sia in certo qual modo correlalo alle loro esplosioni di aggressivilä. Ě come se i soggelti violenti fosse- ro soggiogati da una smania che non riescono a sedare e gli attacchi di aggressivilä fossero una sorla di valvola di sfogo. Quindi se per sbaglio avete tamponalo una macchina e il guidatorc scende con il cric in mano, intenzionato a spaccar-vi la testa, non cercatc di rabbonirlo regalandogli un libro sulle stelle comete o un abbonamento al cineforum, non ser-virebbe a nienle. In un caso come questo č meglio, come di-rebbe Pietro Moroni, lelare. Tullo ciö per dare una spiegazione a due fatti. 1) Federico Picrini era il ragazzo piü callivo della zona. 2) Federico Pierini a scuola era una frana. I professori di-cevano che non si concentrava, dando implicitamente ragio-ne ai neurofisiologi americani. Era alto, seeco e propor/ionato. Si radeva i baffi e aveva l'orecchino. Un naso aquilino gli separava due occhi piccoli e neri come pezzi di carbone e sempře socchiusi. Una frezza bianca gli cadeva sulla fronte insieme alla frangetta corvina. Aveva tutte le qualilä necessarie per essere un capobranco. Ci sapeva fare. Spavaldo, i gesti sicuri, decideva tutto lui ma dava l'im-pressione ai sottoposti che le scelte le facesse con loro. Non aveva dubbi su niente. Tutte le cose, anche le piü terribili, sembravano sfiorarlo appena, come se fosse immune alla sofferenza. «Io, dei mondo, me ne frego» ripeteva. Ed era abbastanza vero. Se ne fregava dei padre, che dice-va essere un pověro idiota fallito e senza palie. Se ne fregava della nonna, che era una pověra demente. Se ne fregava della scuola e di quel branco di rincoglioniti dei professori. «Non mi devono rompere il cazzo» era, in definitiva, la sua fräse preferita. Stefano Ronca era piecoletto, scuro, con i capelli ricci e la bocca sempre umidiccia. Arzillo come una pulce Strafatta di anfetamine, instabile, pronto a mostrare la gola appena qualcuno lo aggrediva e a saliai'gli addosso appcna gli girava le spalle. Aveva una voce acula, da saputello caslrato, un lono petulante e isterico che dava sui nervi e la lingua piú lun-ga e affilala delia scuola. Andrea Bacci, dello il Merenda data la sua passione per la pizza al laglio, aveva due problemi. 1) Era ľiglio di un poliziolio. «E lulli i poliziotli devono morire» sosleneva Pierini. 2) Era tondo come un caciocavallo. II viso coperto di len-tiggini. I capelli biondicci lagliali a zero. I dcnii, piccoli e di-stanti, erano ancorati a un gigantesco apparecchio argenta-to. Quando parlava non si capiva un accidenie. Mischiava parole e sputi, arrolava le erre e sibilava le zeta. La cosa che veniva piu sponlanea, Vedendolo čosi bianco e tondo, era prenderlo per il čulo, ma era una grossa slronzata. Qualche sproweduto ci aveva provalo, gli aveva fatto no-lare che era una pália di lardo coperla di lenlicchie ma si era rilrovalo a terra con Bacci che lo tempeslava di cazzolti in faccia, ci erano volute quallro persone per staccarglielo di dosso e per un quarto ďora quel ciccione aveva coniinualo a spulare e a urlare insulli incomprensibili, tirando calci alla porta del bagno in cui lo avevano rinchiuso. Soltanlo Pierini poleva permetlersi di prenderlo in giro, perché alľofíesa «Lo sai che sci una vera iogna, quando mangi!?» allernava ľelogio piú dolce e cenlralo. «Sei sicura-menle il piú ťorle delia scuola e secondo nie, se li arrabbi sul serio, polresli pestare di brulto pure il Fiamma.» Lo mante-neva in uno stalo di costante insicurezza e insoddisfazione. Alle volte gli diceva di essere il suo migliore amico e poi tutl'a un tratto gli preľeriva Ronca. Ogni giorno, a seconda dclľumore e del tempo, la classifi-ca dei suoi migliori amici cambiava. Altre volte, invece, spa-riva abbandonandoli tutti e due e se ne andava con i grandi. Insomma, Pierini era volubile come una giornata di no- vembre e inaiTcritíbile come una poiana e Ronca e Bacci si litigavano, come due amanli rivali, ľamore del loro capo. Bacci si avvicinô a Pierini. «E adcsso come Faccíamo? Che gli diciamo domani alla Rovi?» Si erano fatti assegnare dalla professoressa di scienze una ricerca sulle ľormiche e i ľormicai. Avevano deciso di fare delle ľoto ai giossi ľormicai ciie si irovavano nel bosco di Ac-quasparta, solo che i soldi delia peliicola li avevano invesliti in sigareite e in un ľumctlo porno. Poi erano andali a si'on-dare un distributore aulomalico di preseivativi dietro la farmácia di Borgo Catini. Ľavevano sradicato dal muro c piazzato sulle rotaie del treno. Quando era passalo ľlntercily, il distributore avevo preso il voio come un missile terra-aria ed era finito cin-quanta metri piú in lä. Ľunico ľisultalo era che ora possedcvano un quantita di preservativi che gli sarebbe bastata per iärsi lulte le ragazzi-ne delia zóna tre volte. La cassetla con i soldi era ancora lä, chiusa e impenelrabile come un caveau svizzero. Si erano nascosli dietro un albero e avevano cominciato a provarseli. Ronca aveva inlilato ľuccello nel preservalivo e aveva cominciato a masturbarsi velocemente sallando e urlando: «Io con queslo.coso posso scoparci le negre?». Giä, perché Pierini diceva che si scopava le negre sull'Au-relia. Raccontava che andava con Riccardo, il cameriere del Vecchio Carro, e con il Giacanelli e con il Fiamma dalle put-lane negre. E che lo aveva fatto su un divano, sul bordo delia stráda, e che quella urlava in africano. E chi lo sa, poteva pure essere vero. «Le negre non sentono neanche i pali delia luce, rotte come sono. Si mettono a ridere se vedono quel cosetto» aveva detto Pierini studiandogli ľuccello. 84 85 Ronca aveva imploralo in ginocehio Pierini di largli vedere i I suo. E Pierini si era acceso una sigaretta, aveva strizzato gli oc-chi e aveva tiralo fuori il pezzo. Ronca e Bacci erano rimasti impressionati. Ora finalmcn-te gli era chiaro perché le negre andavano con il loro capo. Quando era stata la volla di Bacci, questo aveva detto che non ne aveva tanla voglia. «Frocio! Sei lrocio!» urlava Ronca in estasi. E Pierini aveva aggiunto: «0 ce lo fai vedere o te ne vai 'affanculo». E il povero Bacci era stalo cost ret to a tirarlo fuori. «Quant'e piccolo... Guarda...» aveva cominciato a pren-derlo per il culo Ronca. «Perché sei ciccione» gli aveva spicgalo Pierini. «Se dima- grisci, ti cresce.» «Mi sono giá messo a dieta» disse Bacci fiducioso. «L'ho visto come ti sei messo a dicta. Ieri ti sei mangiato cinquemila lire di pizza» aveva rintuzzato Ronca. Il gioco dei preservalivi era degenerato quando Ronca aveva cominciato a pisciarci dentro e a girare tutto fclicc con quella palla gialla attaccata all'uccello. Pierini gliel'aveva bu- • cata con la cicca e Ronca si era bagnalo tutti i pantaloni e per poco non si era messo a piangere. Comunque, dopo erano andati a cercare i formicai nel bo-sco ma erano solo riusciti a prendere delle blatte grosse come saponette, a cospargerle di benzina e lanciarle come bombardieri in fiamme sui formicai. La buona volonta ce l'avevano messa. «Alla Rovi possiamo dire... che non abbiamo trovalo formi-i cai. Oppure che le foto non sono venule bene» ansimó Bacci. I Nonostante pedalassero piano e facesse un freddo cane • Bacci riusciva a sudare. «Figurali se se la beve...» obbiettó Ronca. «Forse potrem-mo copiare qualcosa. Tagliare le foto del libro.» «No. Domani non si va a scuola» dichiaro Pierini dopo aver preso una boccata dalla sigaretta che gli pendeva dalle labbra. Ci fu un secondo di silenzio. Ronca e Bacci slavano considerando 1'idea. In effelti era la soluzione piu semplice e precisa. Solo che: «Nooo. lo non posso proprio. Domani viene mio padre a prendermi a scuola e se non mi Irova... E poi 1'altra volta, quando siamo andati al mare, le ho prese» disse Bacci timidamente. «Pure io non posso» aggiunse Ronca facendosi scrio al-1'improvviso. «Siete i solili cagoni...» Pierini lasció passare qualche secondo perché assimilassero il concetto e poi aggiunse: «Co-munque non dovete fare sega. Domani ě giorno di festa, nes-suno va a scuola. Ho avuto un'idea». Era un'idea che gli ronzava in testa gia da qualche tempo. Ed era ora di metterla in pralica. Pierini aveva spesso idee geniali. Ed erano sempre e comunque a sfondo teppistico. . Eccone una manciala: a Capodanno aveva messo una bomba nella cassetta delle leltere, un'altra volta aveva sfon-dato la porta di servizio dello Station Bar e si era fregato le sigarette e le caramel le. Aveva anche bucato le ruote dclla macchina dclla professorcssa Palmieri. ■ «Come? In che senso?» Ronca non capiva. Il giorno dopo era un normalissimo mercoledi. Niente scioperi. Niente feste. Niente di niente. Pierini prese tempo, fini la cicca e poi la getto lontano, ca-ricando i suoi compagni di aspettative. p aAllora, ascollalemi bene. Adesso andiamo a scuola, poi prendiamo la tua catena e la chiudiamo intorno al cancello» eindicó la catena che pendeva sotto il sellino della bicicletta di Bacci. «C6si, domani matlina, nessuno potrá entrare e ci rimanderanno tutti a casa.» 27 «Grandiose»! Geniale!» Ronca era ammirato. Come gli usci-vano quelle idee a Pierini? «Capilo? Non ci va nessuno...» «Be', si. Solo che...» Bacci non sembrava complelamcnle soddislatto delia pensaia. A quclla catena ci teneva parce-chio. Aveva una Gra/.iella, piecola e sgangherata e senza il puraľango davanii, quando pedalava 1c ginocchia gli finivano in bocca e quclla catena che gli aveva regulato suo patlrc era ľunica cosa bella della bicicletta. «... Non m i va di butlarla cosi. Costa un saeco di soldi. E poi mi poircbbero fregare la bici.» «Sei completamente idiota? La tua bici ai ladri l'a schifo. Se un ladro la vede si melte a vomitare. Ě giusto, la polizia te la potrebbe prendere e usarc come lest per beccarc i ladri. Acchiappano uno c gli fanno vedere la tua Grazieila, se quel-lo vomita vuol dire che ě un ladro» sghignazzö Ronca. Bacci gli moslrö il pugno. «VafTancLilo, Ronca! Metlici la tua di catena!» «Ascoltami, Andrea» intervenne Pierini, «la mia catena e quclla di Stefano non sono abbastanza resistenti. Domani mattina il preside chiamerä il fabbro che ci mettc un attimo a spez/.arla e noi entriamo subito, sc invece trova la tua, col cazzo che la apre. Tc lo immagini, noi che cc nc stiamo tutti tran-quilli al bar menlrc qucllo non sa che fare e i professor! che beslemmiano come turchi. Dovranno chiamare i pompieri da Orbano. E tutto qucsto grazie alia lua catena. Capilo?» «E cosi neanchc ci dobbiamo preoccupare dclla ricerca sulle formichine del cazzo» aggiunse Ronca. Bacci era combatluto. Certo, pensare che la sua catena teneva in scacco una scuola e i pompieri di Orbano era bello. «Va be'. Usiamola. Chi sc nc frega. Alia bici rimetterö quclla vecchia.» «Bene! Andiamo.» Picrini era soddisfatto. Ora avevano da fare. Ma Ronca comincio a ridere e a ripelere: «Che idioti! Che idioli che siele! Che crelini! Non funziona...». «Che ce ora? E che cazzo ti ridi, imbecille» lo apostrofo Pierini. Prima o poi gli avrebbe fatto ingoiare tutti i denti. «Non avelc pensato a una cosa... ah ah ah.» «Cosa?» «Una cosa bruttissima. Ah ah ah.» «Che cosa?» «Italo. Ci vedľa quando la mettiamo... Dalla fineslra della sua casa si vede benissimo il cancello. Quello spara...» «E allora? Che cazzo ridi a fare, eh? Non c e nulla da ridere. Ě un casino, cazzo. Non capisci che se non la mettiamo domani dobbiamo portare la ricerca. Solo un idiota come te puô mellersi a ridere per una cosa del genere.» Pierini mollö uno spintone a Ronca che per poco non cadde dalla biciclelta. «Scusami...» mugugnö a occhi bassi. Ma Ronca aveva ragione. Ii problema c'era. Quel rompicoglioni del bidello poteva mandare a monte tutta l'operazionc. Viveva di fianco al cancello. E da quando erano enlrati i ladri sorvegliava la scuola come un mastino napoletano. Pierini era affranto. La cosa diventava pericolosa, Italo poleva vederli e dirlo al presiede e poi era pazzo, pazzo come un cavallo. Dicevano che tenesse una doppietta carica accanlo al letto. Come si fa? Bisogna lasciar perdere... no, non esiste. Non si poteva mandare al diavolo un'idea cosi geniale per quel vecchio stracciaeazzi. A costo di arrivarci seavando, co-' me larve nella merda, avrebbero messo la catena a quel cancello. Io non ci posso andare, rifletté. Ho beccato una sospensio-W un niese ja. Ci deve andare Ronca. Solo che ě talmente creti-no che si fa vedere al cento per cento. K* Perche si era trovato come amici i piu idioli di lutto il paese? Ma in quel momenLo appai-ve in lonlananza un raro di bi-cicletta. 11 Calmo. Stai calmo. Devi sembrare normale. Hon far vedere che hai paura. E neanche che hai fretta, si ripeteva Pietro come un'Avemaria. Avanzava lenlamente. Nonoslante si fosse imposto di non chiederselo, conlinua-va a lormcntarsi sul perche quei tre ce I'avesscro con lui. Era il loro giocattolo preferito. Il Lopolino su cui imparare a usare gli artigli. Che gli ho fat to di male? Lui non rompeva. Se ne stava per conlo suo. Non parlava con nessuno. Li lasciava fare. Volete essere i capi, va bene. Siete i piu du.fi della scuola, va bene. Allora perche non lo lasciavano in pace? E Gloria, che li odiava piu di lui, gli aveva detlo mille volte di stargli alia larga, che prima o poi lo avrebbero... {massacrato di botte) ... preso. Calmo. Ce li aveva davanli. A pochi metri. Ora non poteva piu scansarli, nascondersi, niente. Diminui la velocita. Incomincid a scorgere le sagome scu-re dietro i fari delle bici. Si mise di lalo, per lasciarli passare. Il cuore gli batteva in petto, la saliva gli era scomparsa e la lingua era secca e gonfia come un pezzo di gommapiuma. Stai calmo. Non parlavano piii. Fermi in mezzo alia strada. Dovevano averlo rieonosciuto. E si stavano preparando. Avanzo ancora. Erano a dieci otto cinque metri... Stai calmo. Fece un bel respiro e si costrinse a non abbassare gli occhi e a guardarli in laccia. Era pronto. Se tentavano di accerchiarlo, lui doveva prenderli in con-tropiede e passargli in mezzo. E se non lo pigliavano, erano costretti a girare Ie bici dandogli un po' di vantaggio. Forse sarebbe stato sufficiente per tornare a casa sano e salvo. Ma invece successe una cosa incredibile. Una cosa assurda, piu assurda che incontrare un marzia-no in groppa a una mucca che gorgheggia 'O sole mio. Una cosa che Pietro non si sarebbe mai aspettato. E che lo spiazzo completamente. «Ohi, Moroni, ciao. Sei tu? Dove stai andando?» si senti domandare da Pierini. La cosa era incredibile per varie ragioni. 1) Pierini non lo aveva chiamato Cazzone. 2) Pierini gli stava parlando con un lono gentile. Un tono che le corde vocali di quel bastardo non erano mai state in grado di produrre fino a quella sera. 3) Bacci e Ronca gli stavano facendo ciao. Agitavano la mano come bambini buoni ed educati che salutano la zia. Pietro era senza parole. Stai attento. E una trappola. Se ne stava fermo, come uno scemo, in mezzo alia strada. Oramai solo qualche metro lo divideva dai tre. «Ciao!» fecero in coro Ronca e Bacci. «Cia... o» si ritrovo a rispondere. Probabilmente questa era la prima volta che Bacci losalutava. «Dove stai andando di bello?» ripete Pierini. 90 91 «... a casa.» «Ah. A casa.,.» Pictro, piede sul pedale, era pronto a scattare. Se era una trappola, prima o poi gli sarebbero andati contro. «LTiai ľalia la ricerca di scienze?» «Si...» «E su cosa?» «Sulla malaria.» «Ah, bella la malária.» Nonostante il buio, Pietro vide Bacci c Ronca, allc spalle di Pierini, che annuivano. Come se fossero diventati improv-visamente tre microbiologi esperli in malattie tropicali. «Ľhai falta insieme a Gloria?» «Si.» «Ah, bene. É brava, no?» Pierini non altese risposta e conlinuô. «Noi abbiamo falto una ricerca sulle formiche. Mollo peggio delia malária. Senli, ma ci dcvi andare per forza a casa?» Ci devo andare per forza a casa? Che razia di domanda é? Cosa doveva rispondere? La verila. «Si.» «Ah, che peccato! Noi stavamo pensando di fare una cosa... una cosa bella. Polresti venire con noi, poi riguarda an-che te. Peccato, ci saremmo divertiti di piu se c'eri anche tu.» «É vero. Ci saremmo divertiti di piú» sottolineô Ronca. «Mollo di piu» ripelé Bacci. Una gran bella commedia. Tre attori scadenti che inter-pretavano un copione scadente. Pietro lo capi subito. E se stavano cercando ďincuriosirlo, si sbagliavano. A lui delia loro cosa bella non poteva fregare di meno. «Mi dispiace, ma devo andare a casa.» «Lo so, lo so. É che da soli non possiamo farcela, abbiamo bi-sognodi un quarto e pensavamoche tu... ecco, potevi aiutarci...» 11 buio nascondeva la faccia di Pierini. Pietro senlíva solo la sua voce flautata e il vento che frusciava tra gli alberi. «Däi, ci mettiamo poco...» «A fare cosa?» Pietro finalmente lo sputô fuori, ma a voce talmenle bassa che nessuno capi. Fu costretto a ripetere. «A fare cosa?» Pierini lo spiazzô ancora. Con un salto scése dal-la bici e gli afferrô il manubrio. Bravo. Ecco falto. Ti ha fregato. Ma, invece di picchiarlo, si guardô in giro e gli mise un braccio intorno al collo. Una via di mezzo tra un laccio da wreslling e un abbraccio fraterno. Bacci e Ronca si fecero piu vicini anche loro. Pietro non ebbe nemmeno il tempo di reagire che si trovô acccrchiato e si rese con to che se volcvano ora poleva no farlo a pezzet-lini. «Ascoltami. Vogliamo chiudcre il cancello delia scuola con una catena» gli bisbigliô Pierini in un orecchio come se gli rivelasse ľubicazione di un tesoro. Ronca dondolô la testa soddisfatto. «Geniale, eh?» Bacci gli mostrô la catcna. «Con questa. Non riusciranno mai a spezzarla. É mia.» «E perché?» chiese Pietro. «Cosi domani niente scuola, capisci? Noi quattro la chiu-deremo e ce ne torneremo a casa felici. Tutti si domanderan-no: chi é stato? E saremo stati noi. E per un sacco di tempo saremo gli eroi. Pcnsa quanto si puô incazzare il preside e la vicepreside e tutti gli altri.» «Pensa quanto si puô incazzare il preside e la vicepreside e tutti gi allri.» Ripeté Ronca come un pappagallo. «Che ne dici?» gli chiese Pierini. Pietro non sapeva che rispondere. La cosa non gli piaceva per niente. Lui a scuola ci voleva andare. Era pronto per ľinterrogazione e voleva mostrare al-la Rovi il cartellone. 92 93 E invnaginati se li scoprono... Se vogliono che ci vai pure tu, da qualche parte c'č tli sicuru la fregatura. «Allora ti va di venire con noi?» Pierini tirö fuori il pac-chctlo di sigarctlc e gliene offri una. Pietro Tece segno di no con la testa. «Non posso, mi spiace.» «Percha?» «Mio padre... mi sta... aspettando.» Poi si fece coraggio e domandö: «Ma perché volele che venga con voi?». «Cosi. Visto che ě una cosa lica... Potevamo farla insieme. In quattro ě piů facile.» Come puzzava la faccenda! «Mi dispiace, ma devo andare a casa. Non posso, vera-mente.» «Ci metliamo poco. E pensa a domani, pensa che diranno di noi gl i altri.» «Veramente... non posso.» «Che hai, eh? Ti cachi in mano, come al solito? Hai paura, eh? Devi correre da papá, a casetla, a mangiare i biscottini Plasmon e a farla nel vasino?» s'intromise Ronca con quella vocetta faslidiosa come il ronzio di un moscone. Ecco qua, adesso ti prenderanno in giro e poi ti ineneranno. F'udsce sempře cosi. Pierini lanciö uno sguardo di fuoco a Ronca. «Stai zitto, tu! Non ha paura! Ě solo che deve lornare a casa. Anch'io devo tornarc a casa presto.» E aecomodante. «Sennö a nonna le rode il culo.» «E che dovra mai fare a casa di cosi importante?» insistet- te ottusamente Ronca. «Ma sono cazzi tuoi? Deve fare quello che deve fare.» «Ronca, sempře a farti i cazzi degli altri» rincarö Bacci. «Basta. Lasciatelo decidere in santa pace...» La situazione era questa: Pierini gli stava offrendo un paio di possibililä. 1) Dire di no e ouelli, ci poteva scommettere su un milio- ne, avrebbero comíncíato a prenderlo a spinte c poi, appena fosse cadulo a terra lo avrebbero rieinpilo di calci. 2) Andare con loro alia scuola e vedere quello che succc-deva. Li poteva accadere di tulto: lo avrebbero menalo oppu-re sarebbe riuscito a scapparc oppure... Per essere sincero. t u 11 i quegli "oppure" li preferiva di gran lunga a essere piechiato subito. 11 Pierini buono sláva svanendo. «Allora?» gli domandô piú duro. «Andiamo. Ma facciamo presto.» «In un lampo» gli rispose ľallro. 12 Pierini era eontento. Molto contento. II Cazzone aveva abboccalo. Li slava seguendo. Se l'e hevuta. Doveva essere completamente idiota per pensare che ave-vano bisogno di uno come lui. E stalo facile. Me lo sono intoriato propria bene. Dai, vieni con noi. Sarenio degli eroi. Eroi di questo cazzo. Coglioue! Lo avrebbe mandato a meltere la calena a calci in culo. Gli veniva da ridere. Non sarebbe stalo male se Italo avesse visto il Cazzone armeggiare sul cancello. Quella era roba da una, Corse due, sellimane di sospensione. Gli sarebbe piaciuto tirare un urlaccio cosi forte da farlo saltare sul letto, quel vecchio scemo. Solo che poi sarebbe andalo a puttane tullo 1'affare. Quel mentecatlo di Bacci gli si era affiancalo e faceva dei versi d'intesa. Pierini lo lulmino con lo sguardo. Ese non ci vuole andare, a metterla? 94 95 Sorrise. Speriamo. 77 prego, Dio, ascoltami, fa' die liica che non et vitple aiidare. Allora si che ci divertiamo. Si awicinö al Cazzone. «Sarä uno scherzetto.» E il Cazzone gli lece segno di si con la sua testa di cazzo. Quanlo lo disprezzava. Per quel modo molliccio di piegare il capo. Gli faceva venire delle strane voglie. Voglie violente. Si, gli veniva voglia di ľargli del male, d i prendergli la testolina e fracassargliela su uno spigolo. Tan to a quello andava bene tullo. Se gli avesse detto che la madre era una grande troia e pi-gliava in culo i cazzi dei camionisti di giorno e di notte, quello aviebbe fatto segno di si con la testa. Ě vera. £ veto. Mia madre e una grande rotlinculo. Tutto era ugualc per Moroni. Non reagiva davanti a niente. Era peggio dei due idioti che si portava appresso. Almeno quel ciccione d i Bacci non si lace-va metlere i piedi in tesla e Ronca, ogni lanto, lo läceva ride-re (e Pierini non aveva un gran senso delí'umorismo). Era quelľariella superiore che metteva su ehe gli ľaceva prüdere le mani. Moroni é uno che in classe non paria mat, ehe a ginnastiea non gioca eon gli ahri e ehe cannnina a ire metri da terra e non ú nessnno. Non sei proprio nessiino, anzi sei ľtdíinio, hui capita, hello? Solo una ľichetla puttanella come Gloria Celani, la signo-rina ce-ľho-solo-io, poleva avere quell'essere insulso come (jidanzcito?) amico. Quei due facevano di tullo per non darlo a vedere, ma Pierini lo aveva capilo, che stáváno insieme, o roba del genere, insomnia che se la intendevano e poleva pure essere che scopassero. La sloria della signorina Gloria ce-l'ho-solo-io gli era ri-masta pianlata in gola come una spina. 96 A volte gli capitava di svegliarsi la nolle e non tiiiScire piü ad addormentarsi ripensando a quella IroietLa. Un larlo che lo stava facendo impazzire e se impazziva era capace di fare cose di cui poi si sarebbe penlito. Qualche mese prima quel cesso di Calerina Marrese, una delta ter/.a A, un sabalo pomeriggio aveva organizzato una festic-ciola d i compleannoa casa sua. Né Pierini né Bacci né lanlo meno Ronca eranoslali invitati (enemmeno Pietro, per la verila). Ma da ehe mondo ě mondo i noslri bravi non avevano mai avuto bisogno di un invito per aiidare a una festa. Per I'occasione aveva falto I'onore d'intervenire anche il Fiamma, un sedicenne microcefälo che aveva il carallere e il 01 di un pit-bull troppo selezionato. Un povero disadattato che scaricava cassette alla Coop di Orbano e rideva come un cerebroleso quando sparava con la pistola alle pecore e a qualunque organismo vivente che avesse avuto la sforluna di capitare sulla sua strada. Una nolle era enlrato nel recin-to dei Moroni e aveva sparato un colpo in fronte all'asino perché il giorno prima aveva vislo alia televisione Schindlers List e si era innamorato del nazista biondo. Per scusarsi di essere inlervenuli al party senza invito, si erano presentati con un regalo. Un gallo mono. U n gran bel gatlone soriano trovato spiaccicalo sull'Aurelia. «In verila, se non puzzasse in quel modo forse Marrese ci si potrebbe pure fare una pelliccia. Le starebbe bene. Ma anche cosi potrebbe andare, la puzza de] gallo si eonfondereb-be con quella di Marrese formando una puzza nuova» aveva detto Ronca studiando atlenlamente il eadavere. Quando i qualtro erano enlrati, avevano trovalo un'almo-sfera a dir poco da far cascare i coglioni a terra. Luci basse. Sedie conlro le pareti. Musichetta per froei. E coppiette d'imbranati che ballavano e si slrusciavano. Come prima eosa il Fiamma aveva cambiato musica e aveva messo su una casselta di Vasco Rossi. Poi aveva cominciato a ballare, da solo, al centro del salotto, e questo sarebbe anche potuto passare se non avesse fatto roteare il felino come una mazza chiodata, colpendo chiunque gli capitasse a tiro. Non contento, aveva preso a schiaffi tutti i maschi mentre Bacci e Ronca si erano getlati su patatine, pizzctte e bibitc. Pierini se nc slava sedulo su una pollrona n lumare e a guardare soddisfatto il lavoro d'inlrattenimento dei suoi amichetti. «Complimenti, sei venulo con tulla la banda di disadattati.» Pierini si era girato. Seduta sul bracciolo c'era Gloi'ia. Non indossava i soliti jeans e maglietta ma un vestitino rosso cor-lo che le stava incredibilmente bene. «Tu non sei capace di muoverli da solo, vero?» Pierini ci era rimasto come un coglione. «Certo che sono capace...» «Non li credo.» Lo guardava con un sorrisetto da putta-nella che gli faceva rimescolare le budella. «Ti senti perso senza gli idioti al seguito.» Pierini non sapeva che rispondcre. «Sai almeno ballare?» «No. Ballare mi fa schifo» aveva dctto lui tirando fuori dalla giacca di pelle una lattina di birra. «Vuoi?» «Grazie» aveva detlo lei. Pierini sapeva che Gloria era una losta. Era diversa da tut-te le altre creline che scappavano come tanle oche appena lui s'awicinava. Una che sapeva bere una birra. Una che ti guardava negli occhi. Ma era anche la piu stronza figliadi-papa di tutto il circondario. E lui i figli di papa li voleva ve-dere tutti appesi. Le aveva passato la birra. Gloria aveva storto la bocca. «Che schifo, ma e calda...» e poi gli aveva chieslo: «Vuoi ballare?». Ecco perche gli piaceva. I* Non si vergognava. Una raga/zina che ti chiede di ballare era una cosa che a Ischiano Scalo non si era mai vista. «Ti ho gia dctto che mi fa schifo...» In realta non gli sarebbe dispia-ciuto per niente farsi un lento con quella ragazzetta e stro-picciarsela un po'. Ma non aveva detto una cazzata, a ballare era una frana e poi era una figura di merda. Quindi non si poleva. Punto e basta. oHai paura? » aveva insisiilo lei, spiclala. «!lai paura che li prendano per il culo perche balli?» Pierini si era guardato in giro. Il Fiamma stava al piano di sopra e Bacci e Ronca erano in un angolo a sghignazzare Ira loro e c'era buio e quella canzone bellissima, Alba chiara, che era proprio adatta a spararsi un lento. Si era infilato la sigaretta in bocca, si era alzato e, come fosse una cosa che aveva sempre fatto, con una mano le aveva cinto la vita, l'altra se 1'era infilata nella tasca dei jeans e aveva incominciato a ballare muovendo le anche. Se 1'era slretta e aveva sentito l'odore buono che aveva addosso. Un odorc di pulito, di bagnoschiuma. Cazzo, se gli piaceva ballare con Gloria. «Visto che lo sai fare?» gli aveva sussurrato lei in un orec-chio, facendogli rizzare i peli del collo. Lui non aveva fiatato. II cuore gli batleva come un tamburo. «Ti piace questa canzone?" «Molto.» Bisognava assolulamente che ci si fidanzasse, aveva rifletlulo. Era fatta apposta per lui. «Parla di una ragazzina che sta sempre sola...» «Lo so» aveva mugugnato Pierini e a un tratto lei aveva cominciato a strusciargli il naso sul collo e per poco lui non si era sentito male. Un'erezione dolorosa gli era cresciuta nei jeans e insieme una voglia irresistibile di baciarla. E l'avrebbe fatto se le luci non si fossero accese. La polizia! 51 II Fiamma aveva prese) a gatiale il paelrc clella Marrese e quindi bisognava darsela a gambe. Laveva lasciata la ed era scappato, senza poterle dire ciao, ci vediamo, niente. Dopo, al bar, gli aveva preso proprio male. Aveva odiato quel coglione del Fiamma che aveva rovinato tutto. Se nera lornato a casa e si era chiuso nella sua stanza a rigirarsi nel-la mentě il rieordo del ballo come fosse una pietra preziosa. II giorno dopo, davanli a seuola, era andato deciso cla Gloria e le aveva chiesto: «Ti va di uscire insieme?». E lei prima lo aveva guardato come se non lo avesse mai visto, poi era scoppiata a ridere. «Sei scemo? lo, piutloslo che uscire con te, uscirei con Alatri (il přete che insegnava religione). Tu stai bene con i tuoi amichetti.» Lui le aveva aíTerralo con violenza un braccio (pere)ič a Hora hai voluto ballare con me?), ma lei si era divincolala. «Non ti permettere di toccarmi, capito?» E Pierini era rimasto ti, senza nemmeno darle uno schiaffo. Ecco perché gli stava sul culo Moroni, l'amichelto del cuo-re della signorina ce-1'ho-solo-io. Ma perché a una cosi... cosi come? ... bellá (quanťera bella! Se la sognava la notte. S'immagi-nava di levarle quel vestitino rosso e poi le mutande e di po-terla vedere ťinalmente nuda. E se la sarebbe toccata tulia come una bambola. Non si sarebbe slancalo mai di guardar-la, ďispezionarla dovunque perché, lui ne era cerlo, era per-fetta. In tulte le sue parti. Quelle tette piccole e quei capezzoli che s"míravedono dietro la maglietta e 1'onxhelico e quel po' di peli biondi soltu le ascelle e le gambe lunghe e la fica poco pelo-sa con i riccioli disordinati e chiari e morbidi come la pelliccia di coniglio... Bašta!) le piaceva un poveretlo cosi? Non riusciva a smettere di pensare, senza sentire un crampo alio stomaeo, senza desiderare di spaccarle la laccia per come lo aveva trallato: peggio di una merda. E a quella zoccolettapiaceva uno che quando lo meni non dice niente, non si lamenta nemmeno, non chiede piela e non piange, come tutli gli altri, ma se ne sta lermo, immobile, e ti guarda con quegli occhi... quegli occhi da cucciolo sfortunalo, da Gesu di Nazareth, occhi odiosi che li rimpro-vcrano. Uno di quelli che crede nella grandissima stronzata che raccontano i preti: se ti danno uno schiaffo, porgi l'altra guancia. Se mi dai uno schiaffo, io ti do un cazzotto che ti rincalco il naso nella faccia. Gli andava il sangue alia testa, quando lo vedeva seduto buono buono al suo banchetto a disegnare stronzatine men-tre in classe Eutti urlavano e si tiravano il cancellino. Ecco, se avesse polulo, gli sarebbe piaciuto trasl'ormarsi in un bastardo assetalo di sangue solo per inseguirlo per val-li, liumi e monti e stanarlo come una lepre e poi vederselo davanli, che striscia e arranca nel Tango, e allora prenderlo a calci e spezzargli le costole e vedere se non chiedeva pieta e perdono ed era finalmente come tutli gli altri, non una specie di i£T del cazzo. Una volta, d'estate, il piccolo Pierini aveva trovato nell'or-to una grossa larlaruga. Mangiava la lattuga e le carote Iran-quilla, come se fosse a casa sua. L'aveva presa e I'aveva porla-ta in garage, dove e'era il lavolo da lavoro di suo padre. L'aveva chiusa nella morsa. Aveva aspettato pazientemente che I'animale tirasse iuori gambe e testa e cominciasse ad agitarle e allora, con il martelio, quello grosso per spaccare i mattoni, l'aveva colpila proprio al cenlro della corazza. Stole. Era stato come rompere un uovo di pasqua ma molto, mol-to, piu duro. Una lunga crepa si era aperta Ira le piastre del ca- 100 101 rapace. E ne era uscita una poltiglia rossastra e molliceia. La tartaruga pero sembrava non esscrsene accorta, continuava ad agitare le gambe e la testa e a starsene muta tra le ganasce. Pierini si era awicinato e le aveva cercato qualcosa negli occhi. Ma non ci aveva trovato niente. Niente. Né dolore, né stupore, né odio. Niente di niente. Due pallinc nere c crctine. Ľaveva colpita ancora c ancora e ancora fino a quando non gli aveva fatto troppo male il braccio per continuare. La tartaruga giaceva con il carapace trasformato in un puzzle di ossa che grondava sanguc, ma gli occhi erano gli stessi. Fissi. Idioti. Senza segreti. Ľaveva tolta dalla morsa e ľaveva messa a terra, nel garage, c quclla aveva preso a camminarc lasciando-si dielro una striscia di sanguc e lui aveva preso a urlare. Ecco, il Cazzone assomigliava da morire a quella tartaruga. 13 Graziano Biglia si risvegliô vcrso le settc d i séra ancora gon-fio per ľabbuffata. Si fcce un paio di Alka-Seltzer c decise che avrebbe passato il rcsto del pomeriggio a casa. A godersi il dolce ťa r niente. Sua madrc gli preparô il té con i pasticcini in salotto. Graziano aíTerrô il telecomando, ma poi si disse che pote-va fare qualcosa di meglio, qualcosa che avrebbe dovuto co-minciare a fare con regolaritä, vislo che la vita di campagna ha lunghe pause da colmare e non bisogna abbrutirsi davan-ti alla scatola infernale. Poteva leggere un libro. La biblioteca di casa Biglia non offriva granché. ĽEnciclopedia degli animali. Una biografia di Mussolini di Mack Smith. Un libro di Enzo Biagi. Tre manuáli di cuci-na. E la Storia delia [ilosofia greca di Luciano De Crescenzo. 102 Optô per De Crescenzo. Si mise sul divano, lesse un paio di pagine e poi rifietté sul fatto che Erica non lo aveva ancora chiamato. Guardô ľorologio. Stľiuio. Quando quella mattina era partito da Roma, Erica, mezza addormentata, gli aveva detto che lo avrebbe chiamato appe-na fin i to il provino. E il provino era alle dieci. A quesťora dovrebbe essere bello che finito. Provô sul cellulare. Lulente non era al momento raggiungibile. Come mai? Lo tiene sempre acceso. Provô a chiamarla a casa, ma anche li non rispose nessuno. Chissá dov'e finita? Cercô di concentrarsi sulla filosofia greca. ■ 14 Erano a cinquanta metri dalla scuola. Le biciclette gettate in un fosso, i quattro. se ne stavano ac-cucciati dietro una siepe di alloro. Faceva freddo. II vento era aumentato e scuoteva gli alberi neri. Pietro si chiuse meglio nel giubbotto jeans e. si soffiô sulle mani cercando di scaldarle. «Allora, come facciamo? Chi va a mettere la catena?» chiese Ronca sottovoce. «Potremmo fare la conta» propose Bacci. «Niente conta.» Pierini si accese una sigaretta e poi si ri-volse a Pietro. «Allora, che cosa lo abbiamo portato a fare il Cazzone?» Cazwne... «Giusto. É il Cazzone che deve mettere la catena. Un bel 103 Cazzone ripicno di merda e vomilo clic non ha coraggio e che deve tornare da mammina bella» commcntö Ronca sod- disfatto. Eccola. Ecco la sacrosanta vcritä. Ii motivo per cui lo avevano fatto venire. Tulta quclla recita perche avevano paura di andare a met-tere la catena al cancello. Nei film di solito i caltivi sono persone eccezionali. Com-battono contro l'eroe, lo sfidano a duello e fanno cose incre-dibili lipo far saltare i ponLi, sequestrare famigüe di brava genle, rapinare le banche. Sylvester Stallone non si era mai scontralo con dei cattivi che devono fare la recita come que-sli tre cagasotlo. Questo fece sentire meglio Pietro. Gli avrcbbe fatto vedere lui. «Datemi la catena.» «Allento a Italo. Qucllo e pazzo. Spara. Ti riempie il culo di buchi e cosi avrai sei buchi di culo che spruzzano sciolla» rise sguaialo Ronca. Pietro non lo ascoltö nemmeno, superö la siepe e si awiö verso la scuola. Hanno paura di Italo. Fanno tanto i duri e non sono capaci nemmeno di nietlere un lucchetto a un cancello. lo non ho paura. Si concentrö su quello che doveva fare. La sagoma nera e lugubre della scuola sembrava galleg-giare nella nebbia. Via Righi di notte era deserta, non essen-doci abilazioni. Solo un giardinetto trascurato, con le allale-ne arrugginite e una fontana piena di fango e canne, il Bar Segafredo con le scritte sulla serranda e un lampione che crepitava producendo un ronzio fastidioso. Macchine non ne passavano. L'unico pericolo era quel pazzo di Italo. La casetta in cui vive era proprio lä, accanto al cancello. Pietro si fermö con la schien» contro il muro. Apri il luc-chetio. Ora doveva solo slrisciare fino al cancello, chiuderlo e tornare indietro. Era una stronzata, lo sapeva, ma il suo cuorc non era d'accordo, gli sembrava di avere denlro il petto una locoinutiva a vapure. Un rumore alle spalle. Si girö. I tre stronzi si erano awicinati e lo osservavano da dictro la siepe. Ronca si sbracciava, facendogli segno di muoversi. Si buttö giü e cominciö a strisciare, puntellandosi su go-miti e ginocchia. Strinse tra i denti la chiave c nella mano la catena. A terra faceva schifo, c'erano fango, foglie marce e carla fradicia. Si stava sporcando tutlo il giubbotto e i pan-taloni. Da dove si trovava non era facile capire se Italo fosse dietro la finestra. Ma notö che dalle feriloie degli scuri non tra-pelava luce e neanche il bagliore bluastro del televisore. Trattenne il respiro. C'era un silenzio totale. Ruppe gli indugi, si lirö su e con un salto agile si attaccö al cancello e lo scalö fino in cima. Guardö ollre la casa, dove Italo Leneva la 131 Mirafiori e... Non c'e. Non c'e la 131. Italo non c'e! Non c'e! Doveva essere a Orbano, oppure, piü probabile, era andato alla cascina che non era mollo lontana dalla casa di Pietro. Con un salto scese giü dal cancello e con tulta tranquillitä girö la catena allorno alla serralura e chiuse il lucchetto. Fatto! Se ne tornö indietro, camminando piü rilassato e molleg-giato di Fonzie e sentendo una voglia irresislibile di fischiet-tare. Attraversö invece le hasche ed enlrö nel giardinetto a cercare i cagasotlo. 104 105 15 II panda ha una dieta senza troppe pretese: a colazione man-gia foglie di bambu, a pranzo mangia foglie di bambu e a cena mangia foglie di bambu. Ma se gli mancano é fottuto, in un mese ě mot'to di fame. Poiché il bambu non ě facile da reperi-re, solo gli zoo piu ricchi si possono permettere di ospitare nel-Ia loropopolazioneearccraria il grandeoiso bianco e nem. Esseri specializzati che l'evoluzione ha spinto in piccole nicchie ecologiche dove la loro esistenza si regge precaria in un fragile rapporto con I'ambiente che li circonda. Basta le-vare un tassello (le foglie di bambu per il panda, le foglie di eucalyptus per il koala, le alghe per l'iguana marina delle Galapagos e cosi via) e per queste bestie ľestinzione e cerla. II panda non si adatta, il panda muore. Anche ltalo Miele, il padre di Bruno Miele il poliziotto amico di Graziano, era, per un certo verso, un essere specia-' lizzato. II bideilo della scuola Michelangelo Buonarroti era il classico tipo che, se non gli davi un piatto di bucatini ben. conditi e non lo facevi andare a puttane, si spegneva come un cero. Anche quella sera cercava di soddisfare le sue necessilä vítali. Se ne slava, tovagliolo al collo, a un tavolo del Vecchio Carro e si abbuffava della specialita delia casa, pappardelle mare & monti. Un inlruglio fatto con sugo di cinghiale, pi-selli, panna e cozze. Felice come una perla nelľostrica. O meglio, come una polpetla nel sugo d i pomodoro. Peso di Miele ltalo: centoventi chili. Allezza: un metro e sessantacinque. Va delto pero, a onor del vero, che la sua ciccia non era Haccida, anzi era compatta come un uovo sodo. Aveva mani |j tozze con dita corte. E quella testa pelata, londa e grossa co- me unanguria, era incassata tra le spalle spiovenli e lo face-va assomigliare a una mostruosa malrioska. Soffriva di diabete, ma non ci voleva credcre. 11 medico gli aveva detto che doveva seguire una dieta equilibrata, ma lui sc ne folicva. Ed era pure sciancato. II polpaccio destro era tondo e duro come una pagnotta e sotlo la pclle le vcnc gli si torccvano, gonfie, una sulTaltra, formando un groviglio di lombrichi biu. Cerano giorni, e questo era uno di quelli, in cui il dolore era cosi forte che il piede gli diventava insensibile, gli saliva un inlorpidimento fin su alTinguine e Halo dcsidcrava solo ampularsi quclla gamba del cazzo. Ma le pappardelle del Vccchio Carro lo rimettevano in pa-ee eon il cicalo. II Vecchio Carro era un Iocale immenso, costruito in uno stile rustico-messicano, recintato da fichidindia e ossi di vac-ca e piazzato accanto aIl'Aurelia, pochi chilomclri dopo An-tiano. Era anche albergo a ore, disco-pub-paninotcca, sala da biliardo, pompa di benzina, elettrauto e supermarket. Qualsiasi cosa cercavi, li la trovavi c, sc non la trovavi, irova-vi qualcosa che le assomigliava. Era frequentato soprattutto da camionisli e gente di pas-saggio. Una delle ragioni per cui era il ristoranlc prcfcrito di Halo. Noti ci sonu scassacazzi da salutare. Si mangia bene e si spende poco. Unallra ragione era che si trovava a un liro di schioppo dallo Zoccolificio. Lo Zoccolificio, come veniva chiamalo dalla genie del luo-go, era un pezzo di slrada asfaltata lungo cinquecento metri che partiva dalTAurelia e finiva in mezzo ai campi e, nelTin-tenzione di qualche ingegnere megalomane, sarebbc dovulo diventare il nuovo svincolo per Orvieto. Ma per il momento era solo lo Zoccolificio. 106 107 Aperlo ventiquallrore su veritiquatlroper Irecentosessan-tacinque giorni allanno, nicnte feste e niente giornate cli ri-poso. I prezzi erano modici e ealmierati. Non si accettavano carte di credito né assegni. Le pulUmc, tulle nigerinne, slavano ai láli della strada, sc-dute su degli sgabellini e, quando pioveva o balteva il sole, ti-ravano fuori gli ombrelli. A cento metri, sulla slatale, cera anebe un furgone dovc faecvano il lamoso panino Bomber, con pello di pollo alla piaslra, formaggio, melanzanc solťolio e peperoncino. Ma Italo non si aecontentava del Bomber e, una volta alla seltimana, si concedeva il massimo, la sua serata de luxe. Prima lo Zoecolifieio e poi il Vecchio Carro. Unaccoppia-ta imbaltibile. Unii volta aveva proválo a inverlire. Prima il Vecchio Carro e poi lo Zoecolifieio. Una slronzata. Si era semito male. Mentre scopava gli erano rilornaie su le pappardelle mare & monti e aveva faLto uno schilo sul cruscolio della maechina. Da circa un anno Italo aveva smesso di cambiare prostituta ed era diventato cliente affezionato di Alima. Italo arriva-va alle selte e mezzo precise e lei lo stava gia aspeLtando al solilo posto. Se la caricava nella 131 e parcheggiavano dietro un cartellone pubblicitario li vicino. II tutto durava circa una deci na di minuli, cosi che alle olto spaccale era a tavola. Alima, diciamocelo pure, non era Miss Africa. Piulloslo in carne, con un culo grosso come una boa di or-meggio, la cellulile e due telte piatle e vuole. In těsta aveva una parrucca bionda e stopposa da bambola. Italo ne aveva viste di meglio ma Alima era, usando le sue parole, unaspira-cazzi projessionale. Quando glielo pigliava in bocca, si appli-cava con la massima serielá. Lui non ci avrebbe messo una mano sul fuoco, ma era abbastanza sicuro che le piacesse. Qualche volta ci aveva pure scopalo, ma essendo lutli e due di taglia forte (e cera di mezzo pure la gamba scianca- r taj, dentro la 131 Cl slavano strčili e divenlava plil una solle-renza che un ptacere. E poi faceva cinquaniamila. Cosi, invece, era perfetlo. Trentamila per il pompino e trentamila per la cena. Due-cenloquaranlainila líre al inese bullate benissimo. Almena utni voltu alla selťuna bisogna faře la vita dei signoři, sennö che si canipa a faře? Italo aveva fallo anche una scoperla. Alima era una buona forchella. Amava la cucina ilaliana. E non era anlipatica per nienle. Riusciva a parlarci meglio che con la sua vecehia con cui non aveva un cazzo da dire piti o meno da venťanni. E quindi se la portava al Vecchio Carro, alla ťacciaccia delle malelingue. Quella sera erano stranamenle seduli a un lavolo diverso dal solilo, accanlo alla finestra che si affacciava sull'Aurelia. 1 fari delle maechine balenavano per un atlimo nel ristorante e sparivano risuechiali dal buio. lialo aveva davanti un pialto slracolmo di pappardelle e Alima uno di orecchielle al ragu. «Tu mi devi spiegare come mai il tuo Allah non vuole che mangi il maiale e che bevi il vino e poi li permetle di batlere in mezzo alla strada» domandö Italo continuando a maslicare. «Secondo nie, ě una slronzala, non dico che dovresli smettere di ballere ma, vislo che lan to non hai una vita cosi da santa, almeno mangiali una helia braciola o due salsiccetle. No?» Alima oramai non rispondeva neanche piú. Le aveva fallo quella domanda un milione volte. All'inizio aveva proválo a fargli entrare in těsta che Allah capiva tullo e che a lei non costava falica rinunciare al vino e al maiale, ma non poleva fare a meno di prostituirsi, che i soldi li man-dava ai suoi figli, in Africa. Ma Italo faceva segno di si e poi la volta dopo gliela rifaceva lale e quale. Alima aveva capilo che lui, in realta, non pretendeva risposte e che la domanda aveva un valore rituále, lipo buon appetito. 108 109 Ma quella sera 1'attendevano delle sorprese. «Com'e il ragu? E buono?» cliicse Halo soddisfalto. Si era praticamente gia finito una boltiglia di Morellino di Scansano. «Buono, buono!» fece Alima. Aveva un bel sorriso, grandc, che si apriva sui denli bianchi c regolari. «E buono, eh? Lo sai che quello non e ragu di manzo ma e salsiccia?» «Non ho capito.a «C'e carne... di ma... maiale la dentro.» Italo parlava con il boccone in bocca e intanto indicava il piatto di Alima con la forchetta. «Maiale?» Alima non capiva. «Ma-ia-le. Porco.» Italo comincio a grugnire per essere piu esplicito. Alima finalmente comprese. «Tu mi hai fatto mangiare maiale?» '