I TRABOCCHI ABRUZZESI I trabocchi sono strane e complesse macchine da pesca, issate su palafitte e sorrette quasi miracolosamente da una ragnatela di cavi e assi. Non hanno una forma stabile ma, nelle loro parti essenziali, consistono in piattaforme, composte da tavole e travi non completamente connesse, elevate su primitivi pilastri conficcati sul fondo del mare o su scogli, e congiunte alla vicina riva da esili passerelle. Dalle piattaforme si staccano le antenne, che sostengono le reti per mezzo di un complicato sistema di carrucole e funi. Il termine trabocco (o trabucco) è di origine dialettale; si pensa derivi dal latino trabs – trabis, trave o albero, essendo il trabucco composto quasi esclusivamente da travi. I trabocchi hanno un’architettura leggera, verrebbe voglia di dire aerea, ma solida, in grado di sopportare il peso della robusta rete da pesca e le sollecitazioni delle tempeste marine. Non sono un elemento architettonico stabile, ma dinamico, in rapporto costante con le forze della natura, con cui le loro strutture interagiscono continuamente in quanto a ogni mareggiata perdono pezzi più o meno importanti e, dopo ogni tempesta, hanno bisogno di aggiustamenti e riparazioni. A ripararli pensano “i traboccanti”, custodi di un’antica e affascinante arte, apparentemente primitiva e improvvisata, ma in realtà evoluta quanto le più complesse tecniche ingegneristiche. I materiali adoperati sono i più vari e inizialmente erano legati alle disponibilità locali: il pino d’Aleppo, l’olmo, l’abete e l’acacia erano i legni più usati, insieme alle corde di canapa. Il pino d’Aleppo per esempio, tipico del Gargano e comune in tutto il medio Adriatico, è un materiale pressoché inesauribile, data la diffusione nella zona, modellabile, resistente alla salsedine ed elastico (il trabocco deve resistere alle forti raffiche di Maestrale che battono il basso Adriatico). Oggi si adoperano molto anche i fili di ferro e le traversine delle ferrovia: l’importante è che tutti i materiali usati siano rigorosamente di riciclo. Nonostante la varietà dei legnami e dei materiali, i trabocchi risultano molto armonici ed eleganti nel complesso gioco di fili, corde e pali che si intrecciano tra loro, rendendoli simili a “ragni colossali”, come dice il celebre poeta abruzzese Gabriele D’Annunzio. Molto del fascino che i trabocchi emanano, e che sta conquistando i turisti e i visitatori provenienti anche dall’estero, deriva soprattutto dai luoghi in cui sono posizionati. Infatti, nella maggior parte dei casi, i trabocchi sorgono lungo le sporgenze della costa, dove questa forma una punta sul mare, e dove dalla riva si diparte una fila di scogli che permette di raggiungere un punto avanzato sull’acqua, in modo da poter permettere la pesca su uno specchio profondo, dove possono essere sfruttate le correnti che fiancheggiano la costa. Affascinante è anche la tecnica usata dai traboccanti per pescare: le ampie reti vengono calate a mare con un argano girevole fissato nel centro della piattaforma o del casotto. Di tanto in tanto vengono rialzate un poco sul livello del mare. I pesci intrappolati, per lo più cefali, spigole e pesce azzurro in generale, restano sospesi fuori dall’acqua, nel cavo della fittissima rete, guizzando in uno scintillìo di luce. Le origini dei trabocchi sono in parte ancora oscure. Pare comunque certo che la loro costruzione risalga all’VIII sec. d.C., quando contadini-pastori, non esperti di flutti e di barche, intuirono che potevano integrare il loro raccolto proiettandosi sul mare aperto con veri e proprio prolungamenti della terra, ovvero con palafitte piantate sugli scogli sottostanti. I primi traboccanti, dunque, non sarebbero stati pescatori ma agricoltori che avevano capito che, raggiungendo con costruzioni artificiali posizioni avanzate sul mare, avrebbero potuto trarre dalle acque il sostentamento necessario per integrare i magri frutti offerti dalla coltivazione delle loro scomode e poco fertili terre costiere. Oggi, dopo un periodo di scarso utilizzo e di oblìo, i trabocchi sono tornati al centro dell’attenzione, anche grazie a una legge della Regione Abruzzo, emanata nel 1994, che ne promuove il recupero, considerandoli importante patrimonio culturale e ambientale, vere e proprie opere d’arte da trasmettere ai posteri. Grazie a questa legge molti trabocchi, ormai in stato di degrado, sono stati recuperati e resi funzionanti, divenendo il vero motivo di attrazione della costa su cui sorgono. Alcuni trabocchi sono stati persino convertiti in ristoranti. La loro primitiva architettura, le vecchie reti, gli utensili di lavoro raccontano storie di epoche lontane ed emanano un fascino d’altri tempi, che accende l’immaginazione e stimola la curiosità di tutti coloro che al misterioso mondo dei trabocchi si accostano. Ecco cosa al proposito scrisse Gabriele D’Annunzio (nato a Pescara nel 1863) nel suo Il trionfo della morte (1894). Alle estremità forcute delle quattro antenne pendevano le carrucole con i canapi corrispondenti agli angoli della rete quadrata. Altri canapi passavano per le carrucole in cima a travi minori; fin negli scogli più lontani eran conficcati pali a sostegno de cordami di rinforzo; innumerevoli assicelle erano inchiodate su per i tronchi a confortarne i punti deboli. La lunga e pertinace lotta contro la furia e l’insidia del flutto pareva scritta su la gran cassa per mezzo di quei nodi, di quei chiodi, di quelli ordigni. La macchina pareva vivere d’una vita propria, avere un’aria e un’effigie di corpo animato. Il legno esposto per anni ed anni al sole, alla pioggia, alla raffica, mostrava tutte le fibre, metteva fuori tutte le sue asprezze e tutti i suoi nocchi, rivelava tutte le particolarità resistenti della sua struttura, si sfaldava, si consumava, si faceva candido come una tibia o lucido come l’argento o grigiastro come la selce, acquistava un carattere e una significazione cui la vecchiaia e la sofferenza avesser compiuta la loro opera crudele. L’argano strideva girando per l’impulso delle quattro leve; e tutta la macchina tremava e scricchiolava allo sforzo, la vasta rete emergendo a poco a poco su dalla profondità verde con un luccichio aurino.