Gian Giorgio Trissino Sofonisba (1515) PERSONAGGI DELLA TRAGEDIA SOFONISBA ERMINIA MASSINISSA LELIO CATONE SCIPIONE SIFACE Un MESSO Un altro MESSO Un FAMIGLIO di Sofonisba Una SERVA di Sofonisba CORO di donne Cirtensi La scena de la favola si pone in Cirta, città di Numidia. ATTO PRIMO SCENA PRIMA SOFONISBA, ERMINIA SOFONISBA Lassa, dove poss'io voltar la lingua, se non là 've la spinge il mio pensiero? Che giorno e notte sempre mi molesta. E come posso disfogare alquanto questo grave dolor, che 'l cor m'ingombra, se non manifestando i miei martìri? I quali ad un ad un voglio narrarti. ERMINIA Regina Sofonisba, a me regina per dignità, ma per amor sorella, sfogate meco pure il cuor, che certo non possete parlar con chi più v'ami; né che si doglia più dei vostri mali. SOFONISBA Questo conobbi infin da' miei prim'anni, Erminia mia, che siam nutrite insieme; e so che 'l grande amor, che tu mi porti, più che null'altra affinità, ti spinse a venir meco a la città di Cirta. Però vo' ragionar più lungamente, e cominciar da largo le parole. Né starò di ridir cosa che sai, perché si sfoga ragionando il cuore. Quando la bella moglie di Sicheo dopo l'indegna morte del marito, in Africa passò con certe navi, comprando ivi terren vicino al mare, fermossi, e fabricovvi una cittate, la qual chiamò Cartagine per nome. Questa città, poi che s'uccise Dido (che così nome avea quella regina) visse continuamente in libertade; e di tal pondo fu la sua virtute, che non sol dai nemici si difese, Ma sopra ogni città divenne grande. Or (come accade) ebbe una orribil guerra (ben dopo molto tempo) coi Romani, che discesero già da quell'Enea, il qual venne da Troia in queste parti, e ingannando la infelice Dido, partissi, e fu cagion de la sua morte. Questa guerra durò molti e molt'anni; pur dopo il variar della fortuna (sì come piacque a Dio) sorse la pace; la qual durando un tempo ancor si ruppe. Allora incomincior più dure offese; perché Annibale poi passando l'alpe giunse in Italia, e con favor del cielo sul Ticin, Trebbia, Trasimeno e a Canne gli ruppe, e uccise un'infinita gente; e sedici anni or son, ch'ivi dimora. In questo tempo Asdrubale mio padre in Ispagna n'andò contra costoro. Quivi prima gli arrise la fortuna, ma non molto da poi si volse in modo che convenne per forza indi partirsi; e con sette galee passando il mare, venne a Siface qui, re de' Numìdi. In quel medesmo giorno ancor vi giunse il superbo Roman che l'avea vinto, chiamato Scipione, il qual volea tirar Siface in lega coi Romani; e tanto seppe far, che la conchiuse. Or questa lega a' nostri assai dispiacque, e per guastarla e rivocar costui ne la loro amicizia, a lui mi diero per moglie, in sul fiorir degli anni miei; non avendo risguardo che mio padre m'avea prima promessa a Massinissa, figliuol di Gala, già re de' Massuli; il qual salì per questo in tanto sdegno, che sempre ci fu poi mortal nimico. Così ne venni a Cirta, ove son ora. Ma questa dolce mia regale altezza tosto mi fu cagion d'amara vita; che Scipione in Africa ne venne; contra del quale Asdrubale e Siface con valorosa gente insieme andaro; e nel campo una notte acceso il fuoco, e assaliti dai nimici armati, arsi, rotti, e sconfitti alfin fuggiro. Quinci il principio fu dei nostri affanni; che 'l desir di vittoria e la paura di servitù sì m'occuparo il cuore, ch'ad ogni altro pensier chiuser la via. Pur dopo questo, un'altra volta insieme posero gente, e ritornaro al campo, e combattero ancor poco felici. Ma quei seguendo la vittoria loro, son giunti nei confin del nostro regno, con Massinissa, il cui paterno impero era già pervenuto a nostre mani. Or ce l'han tolto ne la prima giunta: onde Siface, accolta ogni sua forza, là se n'è gito, e da colui, che venne questa notte dal campo, mi fu detto ch'oggi si dovea far nuova giornata. Sì ch'io temo dolente una ruina tal, che più non potrem levar la testa; che se vecchi soldati, integri e freschi non vi poter durar, come faranno questi novelli, affaticati e rotti? Appresso, un duro sogno mi spaventa, ch'io vidi innanzi l'apparir de l'alba. Esser pareami in una selva oscura, circondata da cani e da pastori, che avean preso e legato il mio consorte; ond'io, temendo l'empio suo furore, mi volsi ad un pastor, pregando lui che da la rabbia lor mi diffendesse; ed ei pietoso aperse ambe le braccia, e mi raccolse; ma d'intorno udìo un sì fiero latrar, ch'ebbi temenza che mi pigliassen fin dentr'al suo grembo. Onde mostrommi una spelonca aperta, e disse: «Poi che te salvar non posso, entra costì, che non potran pigliarti». E io v'entrai; così disparve il sonno, che m'ha lasciata, ohimé troppo confusa. ERMINIA Veramente, regina, il parlar vostro mi dimostra chiaro quant'è grave il dolor, che vi tormenta. Pur tropp'alta ruina v'imaginate, e senz'alcun riparo. Non piaccia a Dio che tanto mal consenta. A quel sogno crudel, che vi spaventa, non dovete prestare alcuna fede, ch'ogni fiso pensier, che il giorno adduce, partita poi la luce, con la notte e col sonno a noi si riede; e con varie apparenze alor c'inganna. Sì che lasciate omai, donna, lasciate la dolente paura, che v'affanna; che già non vi condanna la sentenzia del ciel, come pensate. SOFONISBA O che felice stato è il tuo! che quello i' chiamo esser felice, che vive quieto senz'alcuna altezza; e meno assai beato è l'esser di color, a cui non lice far, se non come vuol la lor grandezza. ERMINIA La gloria, e l'altro ben, che il mondo apprezza, si truova pur in quell'altera vita. SOFONISBA Sì, ma tal gloria è debile, e fallace. Il dominar ti piace mentre l'aspetti; e par cosa gradita; ma come l'hai, sempre dolor ne senti. Or fame, or peste, or guerra ti molesta; or le voci importune de le genti, veneni, tradimenti; e se tu fuggi l'un, l'altro t'infesta. ERMINIA Questa vita mortale non si può trappassar senza dolore; che così piacque a la giustizia eterna. Né sciolta d'ogni male del bel ventre materno usciste fuore; che in stato buono o reo nessun s'eterna. Di quel sommo fattor, che 'l ciel governa, appresso ciascun piede un vaso sorge, l'un pien di male e l'altro è pien di bene, e d'indi or gioia, or pene trae mescolando insieme, e a noi le porge. Poi vi ricordo ancor fra voi pensare che a valoroso spirto s'appartiene porsi a le degne imprese, e ben sperare, e da poi sopportare con generoso cuor, quel che n'avviene. SOFONISBA Ben conosch'io che quello bisognerebbe far, che tu ragioni, ma il soverchio dolor troppo mi sforza; e il senso, ch'è rubello de le più salde e ottime ragioni, subitamente il lor volere ammorza; così mi truovo senza alcuna forza da contrapormi al duol, che mi distrugge; se il ciel pietoso questa mia sciagura non fa che sia men dura, ben sono al fin, per cui la vita fugge. ERMINIA Andiamo adunque e rivoltiam la mente a pregar quell'Idio ch'ha di noi cura, che ci conservi, e questo mal presente fra la nimica gente sparga, e discioglia noi da tal paura. SOFONISBA Questo consiglio tuo molto mi piace; che solamente Idio ci può mandar la disiata pace. SCENA SECONDA CORO CORO Che farò io? Debbo chiamar di fuore qualcuna de le serve, che a la nostra regina entro rapporte come la terra è tutta in gran terrore, perché molte caterve nimiche giunte son presso a le porte? O pur debbio aspettar che qualche sorte, qualch'altro caso a lei nel manifesti? Acciò ch'io non molesti suo riposo, o turbi la sua pace. Che quel che ti dispiace, non fu sì lungamente mai sospeso, ch'a te nol paia aver per tempo inteso. O meglio è non aver tanto rispetto? Che il non sapere il male, nol fa minore, anzi il consiglio intrica e benché allor non sturbi alcun diletto, c'induce a caso tale, che 'l soccorso impedisce e 'l mal nutrica: sì come l'ozio arreca al fin fatica, così simil diletto apporta noia. O fuggitiva gioia, o speme, sogno de la gente desta, quanto, quanto molesta pare a' mortali vostra dipartenza; quanto meglio sarìa viverne senza. Che senza voi la nuova mia regina forse nel nido suo paterno ancora si farebbe dimora. Sprezzando in tutto la regale altezza, onde sarìa di tanti affanni fuora che tosto avrà d'intorno. Ahi poverina, quanta grazia divina, quanta modestia è in lei, quanta bellezza! E ora, lassa! al dominare avezza, la servitù le parerìa sì amara, ch'assai più tosto elegerìa il morire. Non far, signor del ciel, non far servire a gente iniqua una beltà sì rara. So ch'esser ti dee cara, se mai cara ti fue cosa terrena. Ecco un famiglio del signor, ch'a pena può trarre il fiato, e ciò per lunga via, o per altro disturbo, par che sia.