Da www.repubblica.it , 25 marzo 2012 (leggermente modificato) Intervsita a MARCO MALVALDI La cattiva notizia è che dalla ricerca universitaria italiana c'è un cervello in fuga in più. Quella buona è che Marco Malvaldi, chimico diventato giallista bestseller, non è fuggito lontano: dall'Università di Pisa a Vecchiano, dieci chilometri a nord. E anche la ricerca, giura che continuerà a farla («sono un chimico teorico, non mi serve laboratorio»), ma non dalla cattedra. Un debutto, quello del 2007, che è andato oltre la sua immaginazione: credeva di avere scritto un giallo, magari un buon giallo, ma mai Marco Malvaldi avrebbe pensato di diventare un uomo di classifica, una rivelazione col botto, un caso editoriale straordinario. La briscola in cinque è stato l’inizio di un percorso che all’attivo conta quattordici libri tra cui La carta più alta, quarto episodio della saga giallo-comica dei vecchietti del BarLume gestito dall'investigatore-barista Massimo, e dalla quale sono nati i due film de "I Delitti del BarLume" per la regia di Eugenio Cappuccio. Si rende conto, che lei è uno spot vivente contro i corsi di scrittura creativa... Sulla quarta di copertina dei suoi libri si legge che tutto è cominciato un po' per caso... «Togliamo pure "un po'". Se vuole il racconto per esteso, inizia quando stavo facendo la tesi di laurea e nei momenti di noia, per mio divertimento, mi sono messo a scrivere la prima storia dei vecchietti del bar. L'ho finita durante una vacanza a Pantelleria, l'ho fatta leggere a mia moglie Samantha, che fa la chimica anche lei, e con una risata è finita nel cassetto». Come ne è uscita? «Dopo la laurea passo un anno in Olanda con un assegno di ricerca, poi torno a Pisa per il dottorato. Una sera salto una riunione e i colleghi ne approfittano per eleggermi rappresentante dei dottorandi: una fregatura perché mi tocca scrivere tutte le relazioni. Così, per gioco, comincio a variare lo stile. La prima era una parodia in italiano medievale, la seconda scritta come un verbale di polizia, la terza in forma di fiaba, la quarta come redatta da uno studente indiano che confondeva i nomi dei professori. Il peggio è che un dottorando ungherese, un po' in difficoltà con la traduzione, va a chiedere al grassoccio presidente di corso a chi alludesse l'espressione "il nostro sferico superiore". Scoppia un casino, ma così si viene a scoprire che le mie relazioni, destinate a sette studenti, erano nella mailing list di 180 persone. Ci si stava sganasciando mezza università. E visto che ero diventato famoso, mi torna in mente la storia nel cassetto...». Cosa si fa di un manoscritto che ha bisogno di editore? «Si mette in una bella busta e lo si manda in giro, no? A quel punto, lo ammetto, ci vuole un colpo di fortuna, e io ne ho avuti due. Prima mia moglie che ha insistito perché lo mandassi anche a Sellerio, convinta, a differenza di me, che La briscola in cinque potesse interessare agli editori di Camilleri. Poi Antonio Sellerio che è l'unico a rispondermi proponendo un contratto». Da dove vengono i suoi personaggi? «È di nuovo questione di fortuna. Ho avuto una famiglia dove gli scherzi erano una specie di religione, e un nonno rutilante, ferroviere e appassionato ciclista, morto a 97 anni fumandosi fino all'ultimo un pacchetto di sigarette al giorno, che è il modello di nonno Ampelio nei miei libri». Gli avrà dovuto almeno trovare il nome adatto... «Sì, ma non per la ragione che pensa lei. È che mio nonno si chiamava Varisello, nella finzione c'è un limite alla fantasia, sarebbe stato troppo. Vallo a spiegare, che il bisnonno aveva fatto la prima guerra mondiale sul Moncenisio e aveva giurato che se fosse tornato vivo avrebbe chiamato i primi figli come i forti militari della zona. Furono due gemelli: Varisello e Roncia, poveretta. Gli altri vecchietti invece li ho inventati pensando alle regole di Teofrasto sui caratteri comici del coro nel teatro greco. Il del Tacca è il cinico, Remediotti quello che parla per luoghi comuni. E Aldo sono io da vecchio, con la passione per la musica barocca, la buona cucina e le donne». Come nasce l’idea di far ruotare tutto intorno al bar? «Dal semplice fatto che il bar è l’unica istituzione italiana democratica. E’ un imbuto sociale. Lì dentro la vita rallenta, ed è al tempo stesso un mondo che ti definisce. E’ l’agorà 2.0, il posto della chiacchiera sociale, dove si parla e si ascoltano gli altri. Il bar di provincia da me funziona che se sei un abituale cliente e un giorno non ti fai vivo il barista ti chiama a casa per sapere se ti è successo qualcosa. » Le sue trame sono da giallo classico, più che da thriller... «Confesso che sono un malato di polizieschi in tv, ma quando sento le sciocchezze di chimica che dicono in CSI m'arrabbio ogni volta. Per me il giallo perfetto è quello onesto, che ti dà tutti gli elementi per capire chi è stato, ma non ci arrivi lo stesso. Nel mio più recente della serie del BarLume, poi, mi concedo perfino una piccola parentesi sulla teoria del neuroscienziato tedesco Gerd Gigerenzer a proposito del metodo euristico. In breve, l'idea che poche informazioni di base favoriscono l'intuizione. Le neuroscienze sono un mio pallino, come i polizieschi». L'ambientazione nella provincia toscana è il suo marchio di fabbrica... «E il bar, sì. Ma vede, in Toscana si va al bar per chiacchierare, in Inghilterra ci si va per ubriacarsi. E in mezzo c'è il resto del mondo. Poi c'è la ricchezza culturale del territorio, a volte addirittura imbarazzante». Un debutto, quello del 2007, che è andato oltre la sua immaginazione: credeva di avere scritto un giallo, magari un buon giallo, ma mai Marco Malvaldi avrebbe pensato di diventare un uomo di classifica, una rivelazione col botto, un caso editoriale straordinario. La briscola in cinque è stato l’inizio di un percorso che all’attivo conta quattordici libri tra cui Il re dei giochi e La carta più alta editi da Sellerio Editore dai quali sono nati i due film de "I Delitti del BarLume" per la regia di Eugenio Cappuccio.