ULTIMI VOLUMIPUBBLICATI Lisa Ginzburg Malta Bahia Paolo Nori Slam poi gente delicata. Bologna 'Parma, novanta chilometri Roberto Alajmo 1982. Memorie di un giovane vecchio Howard Sounes Anni 70. La musica, le idee, i miti Carola Susani L'infanzia e un terremoto Cristiano de Majo Francesco Longo Vita di Isaia Carter, avatar Muin Masri Ingy Mubiayi Zhu Qifeng Igiaba Scego Amori bicolori. Racconti Massimo Nunzi Jazz, htruzioni per l'uso Beppe Sebaste Panchine. Come uscire dal mondo senza uscirne Franco Arminio Vento forte tra hacedonia e Candela. Esercizi dt paesologia Marcello Fois In Sardegna non c'e il mare Daniele Benati Paolo Nori Baltica 9. Guida ai misteri d'Oriente Marco Cassini Refusi. Diario di un editore incorreggibile Gianrico Carofiglio ISSe qui ne altrove. Una notte a Bari Gianrico Carofiglio Ne qui ne altrove Una notte a Bari Editori Laterza Contromano Allora me ne andavo a guardare nelľoblô delia piscina. Era un'attivitä meno esposta alia disturbante percezione del conflitto di classe e delle sue metafore. Avevamo guardato da lontano la spiaggia di San Francesco, eravamo passati dalla Pineta (luogo per me carico del ricordo di frustrazioni infantili, come l'osservazione piena d'invidia dei bambini che sfrecciavano sulla pista di patti-naggio mentre io, Tunica volta che ci avevo provato, ero rovinosamente caduto fra le risate) e ci eravamo fermati all'inizio del ponte che, per portare al quartiere San Giro-lamo, attraversa il canalone attaccato alia spiaggia del Trampolino. Eravamo dunque proprio in corrispondenza di quel confine - uno dei tanti, palesi e occulti, di cui ě disseminata la cittä - fra il territorio dei ricchi e quello dei poveri. Non eravamo scesi dall'auto, la strada era deserta, avevamo aperto i finestrini e dalla radio a basso volume, in una specie di ossimoro musicale, venivano le note di Born to run. "Vi ricordate quelli che facevano il bagno qua davanti con i salvagente neri, fatti con le camere d'aria dei camion?" chiese Paolo. Ottavo Certo che me li ricordavo. Me li ricordo bene perché sono cresciuto sulľultimo isolato di via Putignani, a cinquanta metri da via Manzo-ni. Cioě praticamente su una linea di frontiera. Via Putignani ě una delle vie simbolo delia cittä moderna, ricca e commerciale. Parte da Corso Cavour con il Tea-tro Petruzzelli, passa davanti al Palazzo Mincuzzi che as-somiglia alle Galeries Lafayette, e arriva, dopo un chilome-tro esatto di oleandri, su Piazza Risorgimento con l'Edi-ficio Scolastico Garibaldi, fabbricato dall'aria vagamente coloniale dove Zeffirelli giro il film sul giovane Toscanini. Prima che attorno alia cittä fossero realizzati i grandi canaloni di deflusso delle acque piovane, quando si scate-navano le grandi piogge, era lungo la direttrice di via Man-zoni ehe si materializzava il torrente Picone, alluvionando a ripetizione le case dei poveracci. Via Manzoni segna il confine fra il quartiere Liberta e il quartiere Murat. U nome viene da Gioacchino Murat, seminarista fallito, locandiere, soldato semplice, ufficiale rivoluzionario, generale napoleonico, maresciallo di Francia, re di Napoli 93 per grazia di Napoleone Bonaparte. Fra le cose che fece nei suoi pochi anni di regno, prima di venire fucilato alla fine delTawentura napoleonica, ci fu la promulgazione del decreto di costruzione del "borgo nuovo" di Bari in una zona pianeggiante a sud del vecchio centro storico. II "borgo nuovo" a maglia ortogonale fu in realtá edificato solo qualche anno dopo la mořte di Murat, contempora-neamente allo smantellamento di parte delle mura che proteggevano a sud (dove adesso c'ě Corso Vittorio Emanuele) la cittá medievale, la cui struttura urbanistica inve-ce ě araba. II groviglio dei vicoli era una trappola per i ne-mici e per gli aggressori che vi si fossero addentrati: e nel-la contrapposizione fra i due modelli urbanistici taluni colgono una metafora delle diverse anime della cittá. II quartiere Liberta fu realizzato nella prima metá del ventesimo secolo a partire dal margine occidentale della cittá, e si sviluppó come quartiere proletario. Oggi ci abi-tano 60.000 persone, se includiamo gli immigrati piú o meno regolari, ed ě diventato un territorio piuttosto inte-ressante, ma in čerte zone rimane un posto non del tutto sicuro, se non decisamente pericoloso. Quando eravamo ragazzini noi, era quasi tutto decisamente pericoloso. O almeno cosi ci sembrava, il che per molti aspetti ě la stessa cosa. Noi stavamo dal lato delle famiglie borghesi, delle case confortevoli, dei teatri, delle librerie, dei negozi eleganti. Dall'altra parte del confine c'era una moltitudine popola-re chiassosa, aggressiva e minacciosa. Cerano case dagli androni bui e maleodoranti, spacci in cui uomini come or-chi giocavano alla birra, bassi dai quali veniva odore di ci- bo cucinato un po' rancido e varechina, contrabbandieri, circoli ricreativi con biliardi, flipper, calciobalilla, e stanze segrete, nel retro, dove si giocava ďazzardo. Cerano negozi che venivano dal passato remoto; fra questi, alcu-ne drogherie che vendevano ogni sorta di merci straně e negozi di giocattoli e dolciumi aťfogati nelTodore di plastica, liquirizia, zucchero e caramelle. Dalle case si senti-vano, ad alto volume, le canzoni napoletane o, in alternativa, l'inconfondibile sound melodico degli anni 70, pro-dotto da complessi con nomi come Bottega dell'arte, Collage, Alunni del sole, Teppisti dei sogni e, naturalmente, Cugini di campagna. Era dall'altra parte che abitavano quelli dei salvagente fatti con le camere d'aria dei camion. Erano i ragazzini che vivevano per strada in un mondo diverso dal nostro, fatto di oggetti concreti, di odori intensi, di voci fořti e guttu-rali. Parlavano una lingua straniera e minacciosa che noi, ragazzini per bene del quartiere Murat - figli di mammilla, ci chiamavano con tono pieno di disprezzo -, capiva-mo poco e non parlavamo affatto. I nostri genitori stáváno molto attenti, a casa, a proibire il dialetto barese e a sanzionarne l'uso anche solo dilettantesco e occasionale. Non ě che noi stessimo chiusi in casa. Si giocava per strada il pomeriggio o all'uscita da scuola. I nostri giochi appartenevano, piú che a un'altra epoca, a un'altra dimen-sione, e avevano nomi dalťetimo ignoto o incerto. A pro-nunciarli adesso, ti sembra di sentire in bocca il sapore dei rotoli di liquirizia che compravamo - tre per dieci lire - al chioschetto di Piazza Risorgimento, nelle drogherie anti-che o in čerti scantinati poco raccomandabili. Quei giochi 94 95 si chiamavano virruzzo, ramette, staccio, sguincio, campa-na, scartucce, pioggia delle figurine, salatino. Erano gio-chi rigorosamente per maschi e si facevano con trottole di legno, biglie, tappi delle bottiglie di birra, figurine, cer-bottane e frecce di carta - le cosiddette scartucce. Aveva-no a che fare con l'inseguirsi, con il saltarsi addosso in mo-do doloroso, con il togliere i pantaloni al nuovo arrivato nel gruppo, costringendolo a farsi un pezzo di strada in mutande per andarli a recuperare, la dove erano stati but-tati. Una specie di rito di iniziazione. E poi c'erano le bombette e le fiale puzzolenti che com-pravamo negli stessi scantinati delle liquirizie e scagliava-mo nei negozi lussuosi del centro, scommettendo sul fat-to che all'interno non ci fosse nessuno abbastanza veloce da raggiungerci mentre scappavamo via come forsennati. A volte perdevamo la scommessa e quello che ne segui-va non era divertente. E poi owiamente giocavamo a calcio. Per quelle partite c'erano tre tipi di pallone, in ordine crescente di qua-litá: il leggerissimo Super Tele, doe il peggior pallone in commercio, il Super Santos, arancione, con il migliore rapporto qualitá-prezzo, e il San Siro, che era di plastica ma aveva il peso e la consistenza di un pallone di cuoio ed era quello piú ambito e piú rubato. Insomma, stavamo per strada e giocavamo per strada. E pero i nostri erano normali, a volte appena un po' vio-lenti giochi da ragazzini. Anche quelli che stavano dall'altra parte del confine, ol-tre via Manzoni, nei territori pericolosi del quartiere Liberta, facevano piú o meno gli stessi giochi, per strada. Ma nel loro modo di vivere, e quindi anche nei loro giochi, c'erano una serietä e una veritä che rendevano tutto diverso. Quegli altri vivevano completamente liberi e, senza che nessuno provasse nemmeno a controllarli, facevano tutte le cose che a noi erano tassativamente vietate. Giocavano a pallone nei posti proibiti; andavano sui motorini anche se non avevano quattordici anni; sfottevano le ragazze; si aggrappavano ai tram in movimento e circolavano perico-losamente per la cittä, a tutte le ore, tarda sera inclusa. Be-vevano birra, fumavano sigarette e facevano il bagno nel-le acque velenose del porto, fra topi, macchie di petrolio e grassi cefali un po' osceni. Le nostre mamme ci dicevano che se solo avessimo mes-so piede in quelle acque avremmo preso hepatite virale o, dopo l'epidemia di colera del 1973, appunto il colera. Quegli altri se ne fottevano dell'epatite virale, del colera, delle macchie di petrolio e dei grossi topi nuotatori. Quegli altri se ne fottevano di tutto. Si tuffavano sguaia-tamente e giocavano con le grandi, nere camere d'aria dei camion, usandole come salvagente, materassini, canotti. Quelle camere d'aria nere erano un simbolo inquietan-te della differenza fra noi e loro. Noi, con i nostri genitori, frequentavamo spiagge recin-tate, pulite e sorvegliate; e facevamo il bagno con grande cautela, muniti di salvagente e canotti leziosamente colo-rati. Quegli altri si awenturavano da soli in acque scure e minacciose muniti di oggetti grezzi e virili, metafore della loro capacitä di sbrigarsela, comunque. La capacitä che noi non avevamo e che in qualche modo avremmo dovu-to imparare a nostre spese. 96 97 Avevo sentimenti contraddittori rispetto a loro. Uffi-cialmente, e in accordo con la retorica moralistica della scuola e di čerti adulti, li compativo. Appartenevano a fa-miglie povere e disagiate, stáváno per strada perché non avevano altri posti dove andare e spesso erano costretti a lavorare come garzoni nei panifici, nelle salumerie, nelle drogherie. Se andavano a scuola venivano ripetutamente bocciati e, insomma, erano destinati a diventare dei poco di buono. Segretamente, li invidiavo per la loro vitalita, il disprez-zo del pericolo, la capacita di collegare immediatamente ľimpulso alľazione. E per le stesse ragioni mi facevano paura. Ci facevano paura. Eravamo ossessionati da quei ragazzi e questa ossessione nasceva da tanti episodi in cui qualcuno di noi aveva subito un sopruso, un'aggressione o anche una piccola rapina. Un pomeriggio io e un mio amico, che chiameremo Da-nilo per tacerne la vera identita e tutelarne la reputazione, eravamo andati, come capitava spesso, a passare una mez-z'ora al negozio dei fumetti usati di via Bovio, alle spalle di Piazza Risorgimento. Negozio che esiste ancora, ugua-le, cosi come, a trentacinque anni di distanza, ě uguale il proprietario. Commerciare in giornalini usati non ě un mestiere usurante. Andavamo in quel negozio perché ci piacevano i fumetti, perché li potevamo comprarne di rari o vendere quelli che non ci piacevano piú, quando avevamo bisogno di sol-di. E poi, diciamocelo, li dentro potevamo guardare i fumetti porno in santa pace, senza che nessuno ci disturbas-se e senza genitori che apparivano aľľimprowiso. Non ho mai comprato in vita mia uno di quei giornalini. Non perché non ne avessi voglia, ma semplicemente perché ero un vigliaccone. La sola idea che i miei genitori potessero scoprirmi con quella roba mi generava un senso di panico del tutto insopportabile. Allora sbirciavo e bašta. E fu in quel negozio di fumetti usati che diventai bravo a leggere abusivamente. Qualitá che poi misi a frut-to per leggere senza comprare nelle varie librerie cittadi-ne, prima fra tutte Laterza. Tutto era affascinante in quegli albi, dai disegni ai dia-loghi, alia sofisticata psicologia dei personaggi. Quello che pero era leggendario erano i titoli. Cerano quelli di impostazione sociologica, con narrazione della vita del proletariato urbano, come Lando, detto lo sciupafemmine, e il mitico Montatore. Questo secondo titolo tutto garba-tamente imperniato sull'ambiguita fra 1'attivitá professio-nale del signor Montatore, operaio in una catena di mon-taggio, e il suo hobby principále nel tempo libero. Poi c'era il genere sexy-fantahorror. Sono sicuro che qualche genio si nascondesse nelle case editrici di questi fumetti e fosse incaricato di inventáře i nomi dei personaggi. Me ne ricordo alcuni. Per esempio Walalla, 1'india-na bionda; Tartan; Isabella, duchessa dei diavoli; oppure, con meno attenzione alle sfumature, Cosmine, 1'atomica del ses so. Meglio di tutto era il sottogenere delle vampire. Tutte dai nomi sobri e appena allusivi come Zora, Sukia e Jacu-la. Quesťultimo destinato ai lettori meno intuitivi, perché il sottotitolo precisava con una čerta pedanteria che si trattava di una pornovampira. Cosi, per evitare gli equivo- 98 99 ci e prevenire l'eventualita che qualcuno chiedesse indie-tro i soldi avendo acquistato l'albo nell'erronea convinzio-ne che si trattasse di un saggio storico. Andavamo in quel negozio con una certa frequenza, come dicevo, ma ben consapevoli dei rischi. Via Bovio, in prossimitá di via Ravanas, era un posto pericoloso, per noi ragazzini dell'altra parte del confine. Quel pomeriggio, quando uscimmo, ci trovammo cir-condati da una banda di- giovanissime facce da galéra. II loro capo lo conoscevamo bene. Era un gigante pustoloso e grasso che andava in giro sempře - d'inverno e d'estate - con una maglia a righe orizzontali che lo faceva appari-re ancora piú grosso. Aveva al massimo quattordici anni ma sembrava un uomo, adulto e cattivo. Gli piaceva can-tare canzoni napoletane e picchiare, a volte contempora-neamente. In particolare gli piaceva picchiare quelli come me e il mio amico. II suo soprannome era "Colin' u' ftinte". Fetente nel senso di uno che emanava fieto, cioě puzza. Insomma, in italiano: Nicolino il Puzzolente. In quella circostanza eb-bi modo di verificare che non si trattava di un soprannome usurpato. Lui e i suoi amici quel pomeriggio avevano voglia di di-vertirsi. Noi eravamo il divertimento. Per cominciare ci diedero qualche schiaffetto, poi il Puzzolente acchiappó per il collo il mio amico e lo inchiodó al muro. "Ě ver' ca si' rcchion'?" (Dkono che tu sia omosessuale. E una voce che risponde a verita?) II mio amico si guardó attorno. Vide la faccia del pustoloso che lo teneva inchiodato al muro e, come me, ne senti 1'aroma delicato. Vide le facce degli altri che pregustava-no il massacro. Pensó freneticamente e, mentre 1'altro ri-peteva la domanda con tono spazientito, ebbe un'intuizio-ne geniale. "Si" rispose annuendo vigorosamente. Intendeva: cer-to che sono omosessuale, come si potrebbe dubitarne? U pustoloso lo guardó spalancando gli occhi, stupito, preso in contropiede. Chiaramente avrebbe voluto pic-chiarlo, intonando una canzone napoletana. Ma il mio amico gli aveva fatto perdere il ritmo, se capite cosa inten-do, e lui se ne rese conto. Allentó la stretta sul collo, lasció libero Danilo e gli diede un buffetto - niente piú che un buffetto - sulla guancia. "Si' rcchion', ma si' 'ntelligenť" (Saraipure omosessuale, ma bisogna riconoscere che sei intelligente). Io ero pronto -laddove avessero voluto interpellare an-che me sui miei gusti sessuali - a dichiarare che anch'io ero ricchione o tutto quello che volete, bašta che non mi uccidiate. II Puzzolente, pero, che non era abituato alla sconfitta, fisica o dialettica che fosse, si voltó e andó via, e i suoi con lui. Quella volta andó bene, ma non finiva sempře in ma-niera cosi indolore. Una sera - avevo poco piú di tredici anni - stavo an-dando alla pizzeria vicino a casa, appunto a comprare le pizze, ed ero di buon úmore, oltre che distratto, come sempře. Un ragazzo, che in zona era conosciuto come "u sghign'" per via di un incisivo mancante, mi venne ad-dosso deliberatamente con la bicicletta mentre attraver-savo la strada. Dopo averlo evitato per un pelo, dissi 100 101 qualcosa per protestare. Quello si fermó, scese dalla bi-cicletta e, senza una parola, mi diede un pugno in un oc-chio. Mi parve che me 1'avesse fatto schizzare dentro la těsta. Cerchi concentrici si allargarono dentro la mia orbita cieca fino a colmare tutto il mondo attorno. La těsta mi si riempi di un rumore muto e assordante mentre sen-tivo arrivare gli altri colpi. Schiaffi, pugni, calci. Sulle gambe, nella pancia, in faccia. Cercando di ripararmi dai colpi io dicevo: perché? Perché lo fece? Owiamente non c'era un vero motivo, nel senso di un motivo valido. Lo fece per il gusto di far-lo, visto che poteva farlo. Alla fine si scocció e mi lasció andare, non prima di avermi sputato in faccia. Nemmeno mi asciugai, fino a quando non fu risalito sulla sua bicicletta - sicuramente rubata, pensai con odio disperato - e scomparve dietro 1'angolo della chiesa di San Rocco. Fu allora che cominciai a singhiozzare, per un minuto o due. Poi mi asciugai la faccia, andai in pizzeria e ordinai le solite quattro margherite senza pepe. II pizzaiolo, che non era né cieco né scemo, mi chiese cosa fosse successo e io dissi che ero inciampato, ero caduto e mi ero fatto male. Stava per aggiungere qualcosa ma poi pensó che non erano affari suoi. Cosi prese i quattro pezzi di massa e fece il suo lavoro, in silenzio come sempře. Tornai a casa, poggiai le pizze sulla tavola riuscendo a non farmi vedere dai miei e scappai in bagno per elimina-re dalla mia faccia le tracce del pestaggio. Poi andai a tavola, mangiai ingoiando a fatica ogni boccone e andai su-bito a letto. Nel dormiveglia agitato di quella notte, fra umiliazione e rabbia, giurai a me stesso che una cosa del genere non sarebbe mai piú successa. E che un giorno avrei incontrato di nuovo quel ragazzo, e le cose sarebbe-ro andate molto diversamente. Qualche mese dopo iniziai a frequentare una palestra di arti marziali. Era in fondo a via Brigata Bari quella palestra (c'ě an-cora, peraltro, e di li sono usciti campioni di karate, italia-ni, europei e mondiali) e io ci andavo tutti i lunedi, mer-coledi e venerdi pomeriggio, dalle 6 alle 9. Uscivo di casa su via Putignani, raggiungevo via Man-zoni, giravo verso sud in direzione Corso Italia e poi verso ovest - via Principe Amedeo o via Dante - in direzione di via Brigata Bari e, appunto, attraverso la giungla del quartiere Liberta. Quasi due chilometri di camminata che sembrava un'incursione dietro le linee del nemico. Via Dante e via Principe Amedeo collegano Corso Ca-vour con via Brigata Bari, sono lunghe un chilometro e mezzo e raccontano, lungo il loro percorso, il passaggio da una cittá all'altra. Man mano che cammini su queste stradě vedi il paesag-gio urbano che si modifica, impercettibilmente, di metro in metro. Si comincia dalle case eleganti e vagamente ari-stocratiche del segmento fra Corso Cavour e via Andrea da Bari, per passare ai palazzi medioborghesi della zona piú a ovest, fino alle vie Quintino Sella, Sagarriga Viscon-ti, Manzoni, per arrivare alle case popolari che sono all'al-tezza delle vie Liberta, Mayer, De Bernardis e ai territori che furono teatro, alia fine degli anni '90, di guerre di mafia a colpi di calibro 9 e kalashnikov. 102 103 Per molto tempo feci quella strada in preda se non alia paura, quantomeno a un senso di inquietudine costante. Era una terra straniera, poteva capitare di tutto. La palestra era frequentata da un pubblico molto varie-gato. C'erano apprendisti muratori, apprendisti meccani-ci, ragazzi che lavoravano con i genitori al mercato di via Nicolai, imbianchini, elettricisti, carrozzieri, falegnami, tanti studenti degli istituti tecnici e anche alcuni liceali, provenienti dall'altra parte della cittä e guardati con un misto di compatimento, diffidenza, a volte ostilitä. Que-st'ultima categoria era quella che, di regola, durava meno, li dentro. Per essere accettato dovetti innanzitutto imparare il dialetto, come si impara una lingua straniera. Per essere accettato, soprattutto, dovetti dimostrare che potevo stare li in mezzo, alle loro regole e non alle mie. Per-che eravamo nella loro parte della cittä, e non nella mia. Non fu una cosa facile e nemmeno breve. Ci fu un momen-to preciso che concluse questo percorso di iniziazione. Frequentavo la palestra da quasi due anni, ero diventa-to cintura marrone, assieme ad altri partecipavo alle gare e qualche volta mi capitava anche di vincere, ma continua-vo a essere percepito come un corpo parzialmente estra-neo, li dentro. Una sera mi stavo allenando al sacco e un mio coetaneo, anche lui cintura marrone, si awicinö e mi disse di spostarmi - velocemente - perche il sacco serviva a lui. Era uno grosso, forte e cattivo, ed era venuto a det-tare la sua legge al figlio di mammina che ero. Lo guardai per qualche istante e poi, sentendo le gam-be che mi tremavano, ma cercando di mantenere calmo il tono della voce, gli comunicai che avrebbe dovuto aspet tare il suo turno. Se aveva fretta, poteva anche fottersi. Dopo un attimo di pausa incredula, disse che doveva-mo andare a discutere la questione in privato. Io feci sem-plicemente di si con la těsta e mentre andavamo verso gli spogliatoi pensai che avevo una sola possibilitá: colpirlo di sorpresa e fargli molto male. Lui entró per primo dandomi le spalle, si giró verso di me con un movimento lento e straťottente, e prese due pu-gni in faccia. Li diedi piú forte che potevo e gli feci male di sicuro. Non andó giú, perché aveva un collo da bufalo, ma io avevo guadagnato il vantaggio che mi serviva. Lo colpii ancora - un calcio suíťorecchio, e poi ancora altri pugni - mentre lui tentava di reagire. Era tardi pero, e i suoi colpi non facevano male. Tornando a casa, quella séra, sapevo che nessuno mi avrebbe mai piú trattato da figlio di mammina. E, come poche volte nella mia vita, fui orgoglioso di me. Quel ragazzo lo avrei rivisto molti anni dopo. Era diven-tato un omaccione grasso e completamente calvo, sembra-va dieci anni piú vecchio della sua etá e camminava per i corridoi del tribunále, con le manette ai polsi, fra due agenti di custodia. Ci incrociammo, i nostrí occhi si incon-trarono per qualche istante e poi, contemporaneamente, tutti e due distogliemmo lo sguardo, e ce ne andammo in direzioni opposte. 104