DELLo sTEsso autore Gianrico Carofiglio Testimone inconsapevole Ad occhi chiusi Ragionevoli dubbi Sellerio editore Palermo Zero Quando Margherita disse che doveva parlarmi, pensai che aspettasse un bambino. Era un tardo pomeriggio di settembre. Con tutta la luce dram-matica dell'estate che finisce, che preannuncia la penombra e i misteri dell'autunno. Un buon momento per sapere che di-venteraipadre, pensai distintamente mentre ci sedevamo in ter-razza, ilsole basso alle nostre spalle. «Ho avuto un'offerta per un nuovo lavoro. Un'offerta molto buona. Ma se I'accetto devo partire e stare fuori pa-recchi mesi. Forse un anno». La guardai con I'espressione di chi non ha sentito bene, o non ha capito le parole. Cosa c'entrava questa of-ferta di lavoro con il bambino che avremmo avuto fra qual-che mese? Non capivo e lei mi spiegb. Una importante agenzia pubblicitaria americana - mi disse anche ilnome, ma lo dimenticai subito o forse non lo ascoltai nemmeno - le aveva offerto di coordinare la campagna per il rilancio di una compagnia aerea. Disse un nome grossissimo. Disse che era una opportunita ir-ripetibile. Opportunita irripetibile. Lasciai che queste parole rim-balzassero nella mia testa, facendomi male come le pul- 9 sazioni sorde di una emicrania. D'un tratto mi parve che il senso di tutto ruotasse attomo a un punto invisibile, che non ero capace di scoprire o definire. « Quando I'haiavuta, questa offerta?». «A luglio. Prima c'erano stati dei contatti, ma I'offer-ta e stata formalizzata a luglio ». « Prima che partissimo per le vacanze» dissi, come se la cosa avesse importanza. Maforse ne aveva davvero. Poi mi rest conto. Se me lo diceva a settembre, due me-si dopo aver ricevuto I'offerta, chissa quanto tempo dopo i contatti, voleva dire che aveva gia deciso, o aveva ad-dirittura gia accettato. «Hai gia accettato ». «No. Prima dovevo dirtelo». «Hai deciso ». Esitb brevemente - fu I'unico momento - e poi fece si con la testa. Pensavo stessi per dirmi che aspettavi un bambino. Pen-savo che a quarantadue anni la mia vita insulsa all'im-provviso, per magia, avrebbe trovato un senso e una ra-gione. Per questo bambino, o questa bambina cui avrei fat-to in tempo a insegnare delle cose, prima di diventare vec-chio. Non dissi cost. Mi tenni tutto dentro, come una cosa che ti vergogni anche solo di avere pensato. Perche ti vergogni della tua debolezza, della tua fragilita. Invece le chiesi quando sarebbe partita e la mia faccia doveva essere assurdamente calma, perche lei mi guardb con uno stupore leggero e inquieto. Dalla strada venne il ringhio rabbioso e prolungato di un ciclomotore con la mar-mitta alterata, e io pensai che me lo sarei ricordato, quel rumore. Pensai che lo avrei risentito ogni volta che mi fosse tornata alia mentě quella scena, inattesa e spietata. Non lo sapeva, quando sarebbe partita. Died, quindi-cigiomi. Entro la fine delmese, comunque, doveva essere a Milano, per la meta di ottobre a New York. E quindi lo sapeva, quando doveva partire. Pensai. Restammo in silenzio per due, tre minuti. O di piu. « Non vuoi sapere perché? ». Non lo volevo sapere il perché. O forse si, ma dissi di no lo stesso. Non volevo che mi scaricasse addosso le sue ragioni - che sicuramente erano ottime ragioni - allegge-rendosi il cuore, o I'anima o dovunque le nostre colpe si vanno a posare. Io mi tenevo la mia, di sofferenza, e lei si teneva la sua. Ci avrei pensato nelle prossime settima-ne e nei prossimi mesi, a tormentarmi con quella doman-da e con i ricordi e tutto il resto. Ma per quel tiepido, spietato pomeriggio di settembre, bastava. Mi alzai e dissi che tomavo a casa mia, o forse uscivo. «Guido, non fare cost. Di qualcosa, tiprego». lo perb non dissi niente. Non lo sapevo, cosa dire. «Non vado mica via per sempře. Sefai cosi mifai sen-tire un verme». Appena ebbe finito di dire quelle parole si penti. Forse vide qualcosa nella mia faccia sperduta, o forse semplice-mente capi che non era giusto. Probabilmente era inevitable - di sicuro ci aveva pensato a lungo in tutte quelle settimane -, ma certo non era giusto. 10 11 Disse altre parole, con la voce incrinata. E pero sem- Uno bráváno quello che erano. Scuse. E mentre diceva queste parole to smisi di ascoltarla, tut-ta la scéna prese la consistenza irreale di un negativa fo-tografico, e cosi nmase piantata nel mio ricordo Aspettavo che i giudici entrassero in aula e che il mio processo cominciasse, quando notai una ragazza sedu-ta fra il pubblico. Orientale, ma con qualcosa di euro-peo nei tratti; bella, con 1'espressione un po' smarrita. Mi domandai per chi fosse venuta e mi voltai a guar-darla piú di una volta, fingendo di aggirarmi attorno al mio banco. Sembrava guardasse me, il che naturalmente non aveva senso. Una cosi non mi avrebbe mai guardato, neanche in tempi migliori, pensai. Peraltro, quali fos-sero stati i tempi migliori non lo sapevo bene, pensai ancora. In questo modo passarono almeno dieci minuti. Poi finalmente i giudici uscirono dalla camera di consiglio, 1'udienza cominció e io smisi di fare riflessioni idiote. Era un processo per rapina a mano armata e dove-vamo sentire il teste principále, cioě la vittima. Un rap-presentante di gioielli cui avevano tolto il campiona-rio e anche 1'inutile pistola che portava con sé. Due dei responsabili erano stati arrestati poco dopo il fatto, con il bottino in macchina. Avevano scelto il 13 giudizio abbreviato ed erano gia stati condannati a pe-ne abbastanza miti. II mio cliente era accusato di ave-re fatto il palo. La vittima lo aveva riconosciuto in que-stura, su un album fotografico di pregiudicati. II pro-cesso era in contumacia perche il mio cliente - il signor Albanese, calciatore dilettante e criminale professio-nista - quando aveva saputo che lo cercavano si era da-to alia latitanza. Aveva appena finito di scontare una condanna e non voleva tornare dentro. In questo caso era innocente, diceva. L'esame da parte del pubblico ministero fu piuttosto rapido. II rappresentante di gioielli aveva l'aria decisa e non sembrava intimorito dalla situazione. Confermo tut-to quello che aveva gia detto durante le indagini, confermo il riconoscimento fotografico, la fotografia fu acquisita al fascicolo del dibattimento e il presidente mi diede la parola per procedere al controesame. «Lei ha riferito che gli autori della rapina erano tre. Due le tolsero materialmente il campionario e la pistola, il terzo si teneva a distanza e le parve facesse il palo. Giusto?». «Si. II terzo era all'angolo, ma poi se ne sono anda-ti tutti e tre insieme». «Pu6 confermarci che il terzo, quello che poi lei ha riconosciuto in fotografia, era a una ventina di metri di distanza?». «Quindici, venti metri». «Bene. Adesso vorrei che ci raccontasse brevemen-te come si svolse la ricognizione fotografica che lei ha fatto in questura, il giorno dopo la rapina». 14 «Mi diedero da guardare degli album e su uno di que-sti c'era la foto di questa persona». «Lo aveva mai visto prima? Voglio dire prima della rapina ?». «No. Ma quando ho visto la sua faccia sull'album mi sono detto subito: io questo lo conosco. E poi mi sono reso conto che era quello che faceva il palo». «Lei gioca a calcio?». «Scusi?». «Le chiedevo se lei gioca a calcio». Il presidente mi chiese che pertinenza avesse quella domanda con l'oggetto del processo. Io assicurai che sarebbe stato chiaro nel giro di un paio di minuti e lui mi disse di andare avanti. «Gioca a calcio? Partecipa a qualche campionato, a qualche torneo?». Quello disse di si. Io tirai fuori dal mio fascicolo una foto con due squadre di calcio, di quelle che si fanno prima delle partite. Chiesi al presidente il permesso di avvicinarmi e la mostrai al testimone. «Riconosce qualcuno in questa fotografia?». «Certo. Ci sono io, gli altri della mia squadra...». «Puö dirci quando e stata scattata?». «L'estate scorsa, era la finale di un torneo». «Ricorda la data?». «Credo fosse il venti, o il ventuno agosto». «Circa un mese prima della rapina». «Mi pare, si». «Quelli dell'altra squadra Ii conosceva?». «Qualcuno, non tutti». 15 «Vuole guardare di nuovo la foto e dirmi per piace-re chi riconosce, dell'altra squadra?». Quello prese la foto e la esaminö, scorrendo con Pindice le facce dei calciatori. «Questo lo conosco, ma non so come si chiama. Quesťaltro mi sembra si chiami Pasquale... non mi ri-cordo il cognome. Questo...». Fece una strana espressione. Si girö verso di nie, con una faccia stupita, poi tornö a guardare la foto. «Ha riconosciuto qualcun altro?». «Questo... assomiglia...». «A chi assomiglia?». «Assomiglia un poco a quella fotografia...». «Vuol dire a quello che lei ha riconosciuto neu'album della questura?». «Un poco si assomiglia. Ora non ě facile...». «Effettivamente ě la stessa persona. Lo ricorda ades-so?». «Si, potrebbe essere lui». «Adesso che si ě ricordato, puö affermare che la persona che giocö a pallone contro la sua squadra quella se-ra di agosto era la stessa che partecipö alla rapina?». «... adesso non so... ě difficile dopo tanto tempo». «Certo, mi rendo conto. Le faccio una domanda un po' diversa. Quando lei subi la rapina e vide, a venti metri di distanza, il terzo complice, si rese conto che poteva trattarsi della stessa persona con cui giocö a pallone circa un mese prima?». «No, come facevo... era lontano...». «Era lontano, giusto. Io ho finito presidente, grazie». Ii presidente dettö a verbale la data del rinvio e mentre diceva all'ufficiale giudiziario di chiamare un altro processo io mi voltai per cercare la ragazza Orientale. Ci misi qualche secondo, perché non era piü se-duta al suo posto, quello dove l'avevo vista all'inizio dell'udienza. Stava in piedi, vicinissima alTuscita, pron-ta ad andarsene. I nostri sguardi si incrociarono per pochi istanti. Poi lei si girö e scomparve nei corridoi del tribunále. 16 17