Scegliere: Articolo 1 oppure Articolo 2. Selezionare in giallo le parti ritenute rilevanti. Realizzare un riassunto di max 150 parole (e min. 130 parole). Mettere insieme i pensieri, rielaborare le frasi. Ricordate di mantenere il carattere argomentativo del testo. Ricordate di “spersonalizzare” quanto è “personalizzato” (l’autrice scrive in un modo decisamente personale, come se parlasse al lettore) e di usare un registro neutro. Consegna NON OLTRE il 19 maggio. Entrambi gli articoli sono tratti da www.nuovoeutile.com, un sito che vi invito a visitare e leggere ogni tanto perché ricco di idee, riflessioni e informazioni utili e piacevoli e... scientifiche! Annamaria Testa è una esperta di comunicazione, pubblicità, copyright. E se interessate ad approfondire, potete seguire i link arancioni dal suo tito. ARTICOLO 1 Perfezionismo? Sì, ma quanto basta e non di più - Metodo 65 Due cose possono danneggiare qualsiasi lavoro, e in modo particolare un lavoro creativo: la prima è accontentarsi subito di un risultato mediocre, rinunciando a migliorarlo. La seconda è non accontentarsi mai ed è, paradossalmente, più grave: significa, alla fin fine, rinunciare del tutto a produrre, perché niente sembrerà mai buono abbastanza. È il perfezionismo che la psicologia definisce “maladaptive” (disadattativo). Chiarisco: l’insoddisfazione è una potente leva per la creatività, e in generale per agire. Ci porta a farci domande. A svolgere un compito con dedizione e in modo meticoloso. Ad andare oltre. A essere tenaci e a porre riparo agli (inevitabili) errori che, fra l’altro, fanno parte di qualsiasi processo di invenzione o di scoperta. La tensione a fare del proprio meglio e a dare il massimo (quella che, ahimé, la scuola non sempre riesce a trasmettere agli studenti) è sana e positiva: suvvia, non siamo dei mollaccioni e il cimento ci appassiona, no? Inoltre, in un paese a cui spesso tocca fare i conti con le proprie tendenze furbette, pressapochiste e autoindulgenti, una sana vocazione al perfezionismo andrebbe a maggior ragione considerata massimamente preziosa. Ho scritto “sana vocazione”, però. Qualcosa di diverso da “tensione irrealistica e ansiogena”. La differenza, sottile ma cruciale, è analoga a quella che passa tra essere rigorosi oppure rigidi, e da una parte riguarda gli obiettivi che ci poniamo (“dare il meglio di noi” verso “realizzare il massimo di tutto, di tutti, di sempre”). Dall’altra illumina il rapporto che abbiamo con noi stessi e col nostro lavoro. Il desiderio di dare il meglio possibile, mettendoci per certi versi “al servizio” del nostro compito, ci aiuta a focalizzarci su quanto stiamo facendo fino a dimenticarci di noi stessi e a entrare nello stato di flow, il flusso creativo e produttivo di cui parla Mihaly Csikszentmihalyi. La tensione irrealistica verso una perfezione assoluta, invece, ci riempie di ansia e senso di inadeguatezza, ci fa temere gli errori fino a paralizzarci, mina l’autostima e ci lascia sfiniti, insoddisfatti, piagnucolosi e depressi. Di fatto, siamo talmente preoccupati di noi, e di quanto siamo o non siamo all’altezza delle nostre stesse gigantesche aspettative, da finire per trascurare le logiche, lo scopo, la materia stessa del compito che dovremmo svolgere. Mind Tools segnala che, tra le altre cose, il perfezionismo disadattativo toglie alla creatività la sua componente più incantevole, quella giocosa, e il desiderio di sognare. Dà alcune dritte per riconoscere quel tipo lì di perfezionismo e alcuni consigli di buonsenso per venirne a capo: i due più rilevanti, mi sembra, sono “datti mete realistiche” e “stai attento alle tue emozioni”, mentre l’ultimo, “sii spontaneo” è una bella ingiunzione paradossale e, secondo me, non aiuta. Psychology Today esordisce con la clamorosa affermazione che “il perfezionismo è un crimine contro l’umanità”. Subito dopo, per fortuna, articola un ragionamento piuttosto convincente: il perfezionismo irrigidisce i comportamenti, e in quanto tale contrasta la capacità di adattarsi, fondamentale per la sopravvivenza. E poi: impedisce di affrontare nuove sfide e di assimilare nuova conoscenza, non è tanto connesso con l’avere alti criteri di qualità quanto con la paura di sbagliare e con uno stile educativo familiare intrusivo, ipercritico e intollerante degli errori. Al termine dell’articolo alcune buone dritte per i genitori, riguardanti il come fare critiche costruttive e apprezzamenti non costrittivi. Se volete capite quanto e come siete perfezionisti, potete fare il test proposto da Psychology Today (sono quarantasei domande, per venti minuti). Non è male. Invece Huffington Post, vi presenta una lista intitolata 14 segni che il vostro perfezionismo è andato fuori controllo. Uno dei più rivelatori è la tendenza a procrastinare ad ogni costo: di nuovo, ecco la paura di sbagliare, di essere malgiudicati e di incorrere nella disapprovazione sociale. David Foster Wallace, che lo conosceva bene, racconta il “blocco da perfezionismo” in un’intervista del 1996 trasformata in una graziosa animazione: “Se la tua fedeltà al perfezionismo è troppo alta, non farai mai nulla”, dato che “fare qualcosa è intrinsecamente tragico, perché significa sacrificare ciò che è meraviglioso e perfetto nella nostra testa per quello che è davvero”. È la psicologa Tamar Chansky a proporre un’ulteriore, interessante strategia per contrastare il perfezionismo deteriore: pensare che l’opposto del perfezionismo non è la mediocrità, ma la realt (incognite, ambiguità ed errori compresi) e, soprattutto, la possibilità. Quella che ci fa, a volte, incappare in un errore fertile e fortunato. E che, in tutti gli altri casi e da tutti gli altri errori, ci fa imparare qualcosa. Articolo 2 Farsi una risata aiuta sempre, anche quando c'è poco da ridere D’accordo, in tempi come questi c’è poco da ridere: ma, proprio perché è meno facile del solito che una risata ci venga spontanea, forse dovremmo cominciare a coltivarle, le risate e le occasioni per ridere, come se si trattasse di un bene prezioso. Cominciamo col ricordare alcuni fatti. Ridere è una risposta emotiva a uno stimolo esterno. Indica sorpresa, gioia, eccitazione, sollievo, felicità. Il respiro si modifica, una serie di muscoli si contrae, i denti si scoprono, gli occhi si inumidiscono e, come scrive un bell’articolo della BBC, noi facciamo un sacco di strani rumori primitivi. ESSERI UMANI E GRANDI SCIMMIE. Ridiamo trenta volte di più quando siamo in compagnia che quando siamo da soli, ricorda il New York Times, e non necessariamente lo facciamo per una battuta. Le persone ridono più o meno tutte allo stesso modo, a qualsiasi cultura appartengano e qualsiasi lingua parlino. Pochi altri esseri viventi sanno ridere: lo fanno le grandi scimmie, nostre vicine cugine e, come noi, ridono anche quando vengono solleticate. Qui potete vedere e sentire come ride uno scimpanzé: produce un ha alla volta, mentre noi (che, sapendo parlare, sappiamo anche controllare meglio il respiro) produciamo sequenze di ha-ha-ha e di ho-ho-ho. I neonati umani ridono come gli scimpanzé. I NEONATI RIDONO. Già: i neonati sanno ridere. Ci riescono molti mesi prima di crescere abbastanza per essere in grado di parlare, e ridendo stabiliscono un legame affettivo più forte con i genitori. Da diverse parti, in rete e non solo, si sostiene che un bambino di quattro anni rida 300 volte al giorno mentre le risate di un adulto arriverebbero a stento alla ventina, ma non sono riuscita a trovare una fonte primaria affidabile. Che i bambini ridano più degli adulti è però un fatto piuttosto evidente. UN VANTAGGIO EVOLUTIVO. Ridono i topi (se volete convincervene, trovate un ratto e fategli il solletico). Ridono, o almeno fanno qualcosa di piuttosto simile, anche i cani. Ride, più o meno, un uccellino australiano: il Kookaburra sghignazzante (Dacelo novaguinaeae). Se volete sentire come fa, ci sono diversi video su YouTube. A parte questi, nessun altro animale sa ridere. Il fatto che condividiamo con i primati la capacità di ridere fa pensare che la risata abbia radici biologiche, e che saper ridere costituisca un vantaggio evolutivo. In effetti, ridere è un’emozione sociale e un positivo strumento di interazione: indica una propensione giocosa e rafforza i legami. Per questo, e dato che ridere è anche contagioso, una risata si trasforma facilmente in una specie di collante sociale. DONNE E UOMINI. E poi: ridere favorisce l’apprendimento. Ed è un segnale importante nel corteggiamento, specie nelle prime fasi. Qui vien fuori un fatto curioso: sembra che le donne apprezzino di più gli uomini che le fanno ridere (uh!, questo tizio è proprio intelligente, aperto e creativo!), e che gli uomini apprezzino di più le donne che ridono (uh, questa tizia sì che mi capisce e si interessa a me!). Una lunga serie di studi condotti in diverse università americane nel corso degli ultimi trent’anni sta a dimostrare questa divisione dei ruoli. Tutto ciò, fra l’altro, può anche farci pensare che i meccanismi del corteggiamento, almeno negli Stati Uniti, siano meno misteriosi e più prevedibili di quanto pensiamo o vorremmo. RISATE ATTRAENTI. La cosa più interessante è che le risate sono, nelle singole relazioni, un ottimo indicatore del livello di attrazione reciproca tra le persone. Insomma: più ridiamo insieme, più ci piacciamo (e molto probabilmente viceversa). Dunque, se avete un appuntamento a cui tenete, disponetevi a ridere o a far ridere. Evitate però toni più sarcastici e aggressivi: quelli che non suscitano la risata aperta, ma una reazione più complessa di sorpresa, spaesamento e disagio. Dai, è intuitivo capire come mai è uno stile che proprio non funziona. RISATE BENEFICHE. E ancora: ridere migliora il flusso sanguigno. Riduce il livello degli ormoni dello stress come il cortisolo e l’adrenalina e aumenta il livello delle endorfine e degli anticorpi. Insomma: fa proprio bene. Ma non solo: ridere ha un effetto anestetico e migliora la soglia di tolleranza al dolore fisico. Il primo ad accorgersene, già alla fine degli anni Settanta, è il giornalista e attivista per i diritti civili Norman Cousins, che afferma di essere riuscito a curarsi da una grave forma di artrite con alte dosi di vitamina C e di film dei fratelli Marx. RIDERE PER NEGOZIARE MEGLIO. Ridere può perfino attutire le situazioni di disagio sociale e le tensioni politiche, scrive Slate: sembra che, prima della caduta del muro di Berlino, molte battute antisovietiche fossero diffuse dal KGB stesso, proprio con questo scopo. Ma ridere è anche un potente strumento per l’attivismo non violento: attenua la paura e sottolinea da una parte l’intrinseca stupidità dei regimi, dall’altra l’intelligenza e l’acutezza di chi protesta. Ridere aiuta a ottenere successi negoziali: una risata condivisa incoraggia a fare qualche concessione alla controparte. Ridere aiuta a migliorare la salute mentale e aumenta la resilienza in condizioni di stress. Per questo, non così paradossalmente, dovremmo ridere di più proprio nelle situazioni in cui non c’è proprio niente da ridere. Dopotutto, farsi una risata costa così poco. E, gente!, vale così tanto.