ABside. Rivista di Storia dell’Arte, 2 (2020), pp. 107-129 DOI: 10.13125/abside/4205 ISSN: 2704-8837 Decolonizzare il museo. Tate Modern e Brooklyn Museum fra nuovo istituzionalismo e attivismo Camilla MATTOLA Università degli Studi di Sassari camilla.mattola@hotmail.it Riassunto: Nel 2018 il Brooklyn Museum di New York ha annunciato la decisione di assumere una donna bianca come curatrice della sua collezione africana, provocando le reazioni nel mondo dell’attivismo. Collettivi come Decolonize This Place, da sempre impegnati per ottenere maggiore inclusione nelle istituzioni pubbliche, hanno espresso la necessità di un cambiamento delle narrazioni e delle pratiche museali, considerate ancora come fortemente etnocentriche. Questo episodio si inserisce in un più ampio fenomeno. Considerato il potenziale didattico dei musei e il fatto che rappresentano l’ideale di libertà democratica, gli attivisti hanno tentato negli ultimi decenni di ingaggiare un confronto diretto con queste istituzioni. Attacchi sui social media, manifestazioni e lettere aperte sembrano avere in questo contesto lo stesso obiettivo: decolonizzare i musei dall’esterno. Attraverso l’analisi comparativa delle narrazioni e delle pratiche curatoriali adottate da due importanti musei anglosassoni, la Tate Modern e il Booklyn Museum, ed utilizzando la critica post-coloniale come punto di riferimento teorico, questo articolo tenta di comprendere l’impatto che il movimento degli attivisti sta avendo nel dibattito istituzionale su accessibilità e inclusione nei musei. Parole chiave: Decolonizzazione, Critica istituzionale, Attivismo, Tate Modern, Brooklyn Mu- seum. Abstract: In 2018 the Brooklyn Museum of New York announced the decision to hire a white woman as a curator of its African collection causing some reactions in the activist world. Collectives committed to the cause of inclusion in public institutions, such as Decolonize This Place, have expressed the need for a change in the museums' narratives and practices, considered to be still too ethnocentric. This episode is just a part of a broader phenomenon. Considering the museums' educational potential and the ideal of democratic freedom they represent, activists have tried in the last decades to engage in a more profound confrontation with these institutions. Attacks on social media, public protests and petitions seem to aim at the same purpose: to decolonize museums from the outside. Through a comparative analysis of the narratives and the curatorial practices of two major Anglo-Saxons museums - the Tate Modern and the Brooklyn Museum - and using the post-colonial critique as theoric background, this study aims to understand the impact of the activist movements in the institutional debate about museum accessibility and inclusion. Keywords: Decolonization, Institutional critique, Activism, Tate Modern, Brooklyn Museum. Camilla MATTOLA 108 Nel 2018 il collettivo di attivisti americani Decolonize This Place1 diffonde su YouTube un video2 nel quale denuncia la mancanza di politiche inclusive nel Brooklyn Museum di New York. Il video si apre con una scena del film Black Panther3 di Ryan Coogler, il primo lungometraggio ad aver portato sul grande schermo le vicende di un supereroe africano. La sequenza vede l’antagonista della storia, l’anarchico Killmonger, visitare la sezione africana di un museo fittizio, ma modellato su istituzioni come il BritishMuseum o lo Smithsonian. Originario dell’immaginario regno africano del Wakanda, il giovane si mostra particolarmente interessato agli oggetti esposti, per lo più armi e maschere acquisite dal museo in epoca coloniale, e chiede perciò ulteriori dettagli sulla loro provenienza alla curatrice della sezione, una donna bianca. Dietro alle domande apparentemente innocenti del personaggio si nasconde però un secondo fine. La scena si chiude infatti con la morte della donna, uccisa da un caffè avvelenato, non prima che Killmonger le riveli di essere lì per rubare quei manufatti e le ponga un ultimo, fondamentale, quesito: il museo pos siede quegli oggetti in modo legittimo, o la loro presenza è frutto delle spoliazioni e delle violenze perpetrate dagli Europei in Africa durante l’epoca coloniale? (Fig. 1). Fig. 1. Michael B. Jordan in Black Panther, IMBD © 2018 – Disney / Marvel Studios. https://www.imdb.com/title/tt1825683/mediaviewer/rm1999391744 Quella di Killmonger è una domanda retorica e volutamente provocatoria. Se da un lato infatti la sua funzione è quella di legittimare il suo atto criminoso, il furto dei manufatti come retribuzione del torto inflitto ai suoi antenati dall’Impero coloniale britannico, dall’altro sembra voler delegittimare il ruolo del museo. In una prospettiva più ampia, la scena appena descritta e il suo utilizzo da parte di un collettivo impegnato per la difesa dei diritti delle minoranze etniche segnalano la presenza di una linea di contestazione dell’autorità museale e di un attacco diretto in particolare a mettere in dubbio il suo carattere di istituzione inclusiva e democratica. 1 Decolonize This Place. 2 Now This News (2018). 3 Black Panther (2018). Decolonizzare il museo. Tate Modern e Brooklyn Museum fra nuovo istituzionalismo e attivismo 109 Realtà e finzione, infatti, si concentrano qui attorno ad unico quesito: quanto ed in che misura i musei contemporanei includono e rappresentano le differenze culturali? Considerate la funzione educativa dei musei e la presenza nella nostra società di conflitti sociali fondati sulla paura delle differenze, la risposta a questa domanda è di grande importanza. Non a caso, il video arriva dopo una lunga serie di riflessioni critiche riguardo il ruolo del museo che si sono acutizzate negli ultimi decenni. A partire dagli anni Sessanta, infatti, ha avuto inizio un intricato e complesso processo di ridefinizione dell’entità museale basato sulla presa di coscienza del carattere esclusivo delle pratiche museali tradizionali. Le forze responsabili di questi primi movimenti critici risultano interne all’istituzione e sono da ricondurre ai due soggetti che ricoprono i ruoli di maggior rilievo nel museo, ovvero i curatori e gli artisti. La teoria istituzionale dell’arte ha per prima messo in evidenza la presenza, all’interno dell’istituzione, di rapporti di potere e di retoriche discriminanti. A partire dagli anni Sessanta alcuni critici e curatori cominciano ad elaborare il concetto di sistema dell’arte, inteso come l’insieme di attori e delle complesse dinamiche del mondo dell’arte, e a interrogarsi sui processi di attribuzione di valore artistico all’interno delle cornici istituzionali. Attraverso le riflessioni di questi autori, tra cui Arthur C. Danto4, considerato tra gli iniziatori del movimento, emerge la presenza di un gruppo sociale privilegiato che stabilisce e che è al contempo l’unico destinatario del canone artistico. Negli anni Ottanta è la critica Griselda Pollock5 a dare un volto al fruitore privilegiato dell’arte nella società post-moderna: si tratta dell’uomo borghese, bianco e eterosessuale6. In questi stessi anni si fa strada anche tra gli artisti l’esigenza di un contenitore/soggetto museale che rifletta e accolga le differenze sociali e artistiche: è la stagione della critica istituzionale che, con artisti come Daniel Buren e Marcel Broodthears, cerca di scuotere i musei dall’interno, utilizzando pratiche artistiche provocatorie, mirate a smascherare agli occhi del sistema il carattere elitario degli spazi istituzionali. Parallelamente, la lotta per le disuguaglianze sociali diventa essa stessa il soggetto di sperimentazioni artistiche: l’attivismo artistico7 cresce e si sviluppa nel clima delle rivolte sociali del secondo dopoguerra e pone vecchi e nuovi media al servizio di cause come la parità di genere, di orientamento sessuale e del riconoscimento dei diritti delle minoranze et- niche. Negli anni Ottanta, la crescente consapevolezza del ruolo sociale del museo e del fallimento degli intenti democratici dell’istituzione porta alla nascita della Nuova Museologia, un filone di riflessione che si concentra, in particolare, sul tema della rappresentazione delle differenze nella cornice museale – fortemente viziata, sostengono i teorici del movimento8, da pregiudizi sociali – e che adotta per la prima volta un approccio scienti- 4 Danto (1964). 5 Pollock (1987). 6 Haq (2015),10. 7 O’ Neillet et al. (2012), xx. 8 Vergo (1989). Camilla MATTOLA 110 fico nello studio delle pratiche museali. A partire dalla fine del decennio successivo invece, con il Nuovo Istituzionalismo9, gli ambienti della curatela decidono di fare proprie le istanze della critica istituzionale e di adattare le pratiche museali alla richiesta da parte di artisti e pubblico di un museo libero e alla portata di tutti. Nascono in quest’ambito i primi progetti sperimentali condotti su musei di media grandezza volti ad emancipare questi spazi dalle loro stesse gerarchie istituzionali e a coinvolgere maggiormente artisti e pubblico nelle attività museali. Traendo ispirazione dagli assunti del Nuovo Istituzionalismo, negli ultimi anni alcune istituzioni internazionali e europee hanno poi adottato nuovi percorsi espositivi, come quello tematico, per ovviare ai rischi della disposizione cronologica tradizionale, spesso causa circostanziale di rappresentazioni in negativo delle differenze etniche e culturali. È sempre in seno alla nuova corrente istituzionale che in ambito europeo sono nate numerose iniziative di carattere comunitario, come l’internationale, una piattaforma online che riunisce le ricerche sulle pratiche di inclusione condotte da sette musei, tra cui il Museo Reina Sofia di Madrid, il Van Abbemuseum di Eindhoven e il MACBA di Barcellona. In generale, quella condotta fino ad ora da curatori e artisti sembra essere una lotta intestina, un moto di ribellione proveniente dall’interno dell’istituzione e che, in ultima analisi, sempre al suo interno rimane. Forse è proprio in questo, nel suo essere una tendenza d’élite, che risiede il suo più grande limite. Alcuni dati, infatti, suggeriscono che nonostante questa lunga storia di fermenti e prese di posizione critiche il museo non sia ancora un luogo pienamente inclusivo. Nei musei etnografici viene ancora operata la distinzione tra oggetto etnografico e opera d’arte – lo status artistico è attribuito dal canone tradizionale alle sole pratiche artistiche occidentali, considerate, in una prospettiva etnocentrica, tecnicamente più raffinate e culturalmente superiori alle altre – e nei musei d’arte contemporanea gli artisti appartenenti ad etnie non occidentali rimangono tutt’ora poco e mal rappresentati, con comunità che risultano del tutto assenti, ad esempio, dagli eventi espositivi internazionali. Quello della rappresentazione sembra essere, in effetti, il problema principale del museo contemporaneo. All’interno dell’istituzione museale infatti, la differenza etnica e culturale viene espressa attraverso codici rappresentativi stereotipati, frutto di una comparazione continua e forzata con il prototipo artistico e sociale occidentale. Una pratica, quella di mettere a confronto più comunità sulla base di presunti traguardi tecnici e culturali, che a partire dalle origini dell’entità museale istituzionalizzata, nell’Ottocento, ha assunto connotazioni sempre più scientifiche e sistematiche. Il diverso, l’altro da sé - in cui con “sé” è implicitamente inteso il fantomatico eroe della società civile indicato da Pollock, rigorosamente bianco, borghese, eterosessuale e abile - risulta da secoli non soltanto politicamente sconfitto dal confronto con l’Occidente, ma anche denaturalizzato, disprezzato o, all’opposto, romanticizzato dai discorsi culturali. Seppur molti dei musei etnografici, storici e di arte contemporanea europei, in particolare, adottino ormai degli approcci curatoriali meno tradizionali e improntati alla costruzione di narrazioni inclusive, al loro interno lo sguardo esotizzante o l’interesse meramente scientifico d’epoca 9 Ekeberg (2003). Decolonizzare il museo. Tate Modern e Brooklyn Museum fra nuovo istituzionalismo e attivismo 111 coloniale per le differenze è stato semplicemente sostituito da nuove forme di subordinazione delle differenze. La differenza etnica e culturale viene infatti espressa ancora in parte secondo retoriche che oscillano tra la spettacolarizzazione delle tragedie umane che avvengono in contesti non occidentali e la messa in discussione del carattere di originalità delle pratiche artistiche altre, spesso dipinte come imitazioni dei più “alti” esempi occidentali. Queste tendenze indicano la persistenza nel museo di narrazioni etnocentriche che tendono a classificare le esperienze artistiche in modi differenti secondo gli interessi dei fruitori occidentali - considerati ancora come il pubblico di riferimento - e che limitano fortemente il diritto all’autorappresentazione delle minoranze. Alla luce di un quadro quindi non soddisfacente e di moti critici interni tutt’altro che risolutivi, il nuovo agente della decolonizzazione museale arriva dall’esterno: si tratta dell’attivismo. Nell’ultimo decennio diversi collettivi, impegnati nella lotta contro le disuguaglianze sociali e per la tutela dei diritti delle minoranze etniche, si sono scagliati contro le istituzioni museali. I moventi di questi gruppi sono spesso differenti e vanno dalla richiesta di rapporti di partnership più etici al riconoscimento dei diritti dei gruppi umani esclusi dalla società per motivi sociali e etnici. Nella maggior parte dei casi questi collettivi non sono legati all’ambiente dell’arte e della critica, sono profondamente radicati nel tessuto sociale locale e si avvalgono di mezzi di critica simili, come lettere aperte, l’organizzazione di marce e l’uso dei social network. Tutti però sembrano essere accumunati da un comune intento: decolonizzare il museo dall’esterno. Il termine decolonizzazione10 deriva dalla critica post-coloniale e intende un processo messo in atto da un insieme di pratiche volte a liberare un’istituzione culturale dal sistema di pensiero che in epoca coloniale sosteneva l’idea della superiorità culturale, morale e tecnologica dell’Occidente rispetto al resto del mondo. Gli studi post-colonali sviluppatisi in area anglosassone a partire dagli anni Ottanta, interessati al problema dell’esclusione etnica nella cultura e nelle arti, hanno affiancato allo studio multidisciplinare del pensiero etnocentrico di matrice coloniale la ricerca degli strumenti linguistici e teorici utili a scardinare il repertorio di immagini e pregiudizi che ancora sopravvivono nella contempo- raneità. Seguendo la logica post-coloniale, dunque, gli attacchi contro i musei che si sono susseguiti nel secolo scorso, intesi come pratiche di decolonizzazione, hanno sì determinato la progressiva democratizzazione dell’istituzione museale, ora diventata spazio aperto anche alle categorie sociali rimaste a lungo invisibili, ma non sono riuscite a raggiungere l’obiettivo ultimo di questa posizione critica: la normalizzazione delle differenze, la loro incondizionata accettazione. Collettivi come Decolonize This Place, e più di recente il movimento dei Black Lives Matter, che ha accusato alcuni musei di non essere abbastanza partecipi alle cause della blackness, tentano di rimediare ai parziali insuccessi delle lotte per l’inclusione interne al museo e di colmare le distanze che ancora esistono tra istituzioni di cultura e differenze 10 Per ulteriori approfondimenti si rimanda al saggio di Mellino (2005). Camilla MATTOLA 112 etniche e sociali, costringendo i musei ad un confronto serrato e spesso molto acceso. È forse proprio nella giusta risposta delle istituzioni a questi attacchi che si nasconde la chiave della piena decolonizzazione museale. L’obbiettivo di questo articolo è perciò stilare un bilancio provvisorio del grado di decolonizzazione del museo contemporaneo, utilizzando come base teorica la critica post-coloniale e come metro di valutazione del grado di sensibilità esterna al problema il contenuto e la frequenza delle proteste degli attivisti, considerati qui, appunto, come i protagonisti di nuove pratiche di decolonizzazione. Mentre il tema della decolonizzazione museale non sembra riscuotere particolare interesse in Italia, esso è al centro del dibattito critico internazionale. Per questo motivo si è ritenuto utile circoscrivere il campo di indagine all’analisi comparativa di due istituzioni museali rispettivamente inglese e americana, la Tate Modern di Londra e il Brooklyn Museum di NewYork. Questi musei costituiscono due termini di paragone utili per diversi motivi: da un lato per ciò che li accumuna, essendo entrambi molto popolari e necessariamente legati alle storie coloniali dei rispettivi Paesi (una storia che emerge in modo significativo nelle loro stesse collezioni), dall’altro perché esemplificano i differenti risultati raggiunti dalle pratiche di decolonizzazione museale contemporanee. I dati qui considerati sono il contesto in cui i due musei operano, le rispettive mission, le conseguenti pratiche curatoriali e gli attacchi degli attivisti. Per studiare la portata e gli effetti di questi attacchi è stato necessario affiancare allo studio delle fonti accademiche la ricerca di dati e notizie nel web, attraverso i canali social dei collettivi e le reazioni della stampa. Negli ultimi anni, la critica post-coloniale è ricorsa spesso al termine rimediazione per indicare le pratiche di decolonizzazione delle strutture sociali e culturali contemporanee. Il significato stesso del termine offre una panoramica generale sui concetti attorno i quali si sono sviluppati questi studi culturali. Il suo corrispettivo inglese, remediation, appare per la prima volta nello studio incentrato sulle scienze tecnologiche di Jay David Bolter e Richard Grusin11 per indicare il processo di riadattamento dei media precedenti, come fotografia e cinema, da parte dei nuovi media digitali. Letteralmente, questa espressione indica invece il tentativo di correggere un errore, di porre rimedio ad una situazione che ha avuto origine nel passato e che continua ad avere i suoi effetti nel presente. Fin dal loro inizio, che si può far risalire alla pubblicazione nel 1978 del testo cardine Orientalism, di Edward Said12, per gli studi post-coloniali l’errore per eccellenza a cui era necessario porre rimedio era il pensiero etnocentrico. Una sorta di habitus che, stando a Said, spinge una comunità ad esorcizzare la paura del diverso attraverso la costruzione di narrazioni discriminanti, in una logica che presuppone l’esistenza di una cultura superiore e dominante rispetto alle altre. L’orientalismo, come lo definisce Said, si avvale della ripetizione di alcune immagini utili a sostenere questo sistema comparativo, le quali si sarebbero sviluppate a loro volta durante l’epoca coloniale attraverso la letteratura e le arti. In particolare, i discorsi sull’altro, spesso connotati da rappresentazioni fortemente negative da un punto di vista morale, o al contrario, idealistiche ed esotiche, 11 Bolter et al. (1999). 12 Said (1978). Decolonizzare il museo. Tate Modern e Brooklyn Museum fra nuovo istituzionalismo e attivismo 113 sarebbero stati funzionali al giustificare le azioni violente perpetrate dagli imperi europei ai danni delle colonie. Come sostenuto da Said e da altri studiosi, quali Gayatri Chakravorty Spivak13 e Homi K. Bhabha14, questi stereotipi culturali si sarebbero poi estesi oltre i confini temporali del ventesimo secolo, periodo di progressivo smantellamento del sistema coloniale, diffondendosi aldilà dei confini di imperi ed ex colonie attraverso la tecnologia, i nuovi media ed il fenomeno della globalizzazione. Una prima riflessione sull’etnocentrismo nelle pratiche espositive si registra con le mostre “Primitivism” in 20th Century Art e Les Magiciens de la terre15, due eventi ideati per introdurre il grande pubblico ad alcune produzioni artistiche non occidentali. Stando alla critica16, però, entrambe le mostre rimasero impantanate in modelli narrativi etnocentrici: la prima, allestita al MoMA di New York nel 1984, finì infatti per assimilare le produzioni “altre” ai canoni estetici occidentali, mentre la seconda, tenutasi nel 1989 al Centre Georges Pompidou di Parigi, mise l’accento sul carattere esotico delle culture rappresentate. Più di recente, la ricerca di metodi espositivi che superino le classificazioni etnocentriche ha conosciuto un decisivo sviluppo, grazie a una nuova volontà di decostruzione degli assunti spaziali e storiografici tradizionali. Una delle cause del sistema di discriminazione etnica ancora visibile nei musei è stata identificata nella considerazione della storia dell’arte come un processo dall’andamento lineare e progressivo. Da questa visione, propria, in particolare, delle culture occidentali, deriverebbero le distinzioni tra manifestazioni artistiche “primitive” e moderne e tra luoghi di produzione centrali e periferici. In alternativa, alcune istituzioni si sono attivate per riscrivere le narrazioni legate alle loro collezioni secondo la prospettiva opposta, quella che Claire Bishop17 definisce delle multiple modernities, delle modernità multiple, basata sulla compresenza in una data epoca di esperienze artistiche differenti ma di eguale valore. Da un punto di vista pratico, alcuni esempi dell’applicazione di questa logica si possono individuare nell’esperienza di Documenta XI, svoltasi nel 2002, e nel riallestimento del Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía di Madrid. L’edizione 2002 di Documenta, uno dei principali format artistici internazionali, è stata diretta da Okwui Enwezor, curatore nigeriano recentemente scomparso, secondo logiche inclusive, transnazionali e atemporali, che hanno portato la rassegna a diventare per la prima volta una piattaforma di incontri e dibattiti legati al tema delle disuguaglianze sociali. Mentre DocumentaXI non è riuscita, secondo la critica18, a raggiungere l’obiettivo della piena accessibilità (soprattutto a causa del tenore accademico dei dibattiti), Manuel Borja-Villel, direttore del museo di Madrid, sembra aver trovato il giusto equilibrio tra narrative decolonizzate e accessibilità. Citata dalla stessa Bishop19, la collezione del Reina Sofia è distribuita, infatti, lungo un percorso cronologico caratterizzato 13Spivak (1988), 271-313. 14 Bhabha (1994). 15 Cfr. Foster et al. (2017), 719-723. 16 Ibidem. 17 Bishop (2013), 18. 18 Greenberg (2005), 92. 19 Bishop (2013), 37. Camilla MATTOLA 114 dalla compresenza nelle stesse sale di produzioni artistiche differenti, libere da classificazioni gerarchiche (fig. 2). Fig. 2. Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía, Pavilion of the Spanish Republic, 1937 © Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia, 2020. https://www.museoreinasofia.es/en/collection/room/room-20606 Sui processi che hanno condotto al generale abbandono della concezione cronologica tradizionale ha influito anche la Tate Modern. A partire dalla sua fondazione, avvenuta nel 2000 nell’area londinese di Bankside, il museo ha adottato una logica espositiva fino ad allora inedita, suddividendo le collezioni in macro aree determinate da campi tematici e prive di rapporti gerarchici. Questo approccio curatoriale è diventato il biglietto da visita dell’istituzione, che ancora oggi vi rimane fedele con le categorie Start Display, Materials and Objects, Artist and Society, In The Studio, Media Networks e Living Cities20 (fig. 3). 20 Tate, Collection on display. Decolonizzare il museo. Tate Modern e Brooklyn Museum fra nuovo istituzionalismo e attivismo 115 Fig. 3. Tate, Sezione Materials and Objects, (foto R. Österlund). Tatehttps://www.tate.org.uk/visit/tate-modern/display/materials-and-objects L’allestimento tematico, nel caso della Tate Modern, sembra assolvere non solo al dovere morale della rappresentazione inclusiva delle specificità, ma anche all’obiettivo di proiettare l’istituzione nel panorama internazionale. Questo aspetto appare particolarmente importante se si considera che il museo di Bankside, come evidenziato dalla critica, corrisponde per struttura ed intenti al profilo di un mega-museo21, un fenomeno tipico della contemporaneità basato sulla scissione dell’entità museale in sedi differenti, spesso dislocate anche al di fuori dei confini nazionali e amministrate secondo una logica simile a quella delle compagnie multinazionali. Nel caso del complesso Tate, la cui sede originaria, la Tate Britain, è stata fondata nel 1897 nell’area londinese di Millbank, la ricerca di espansione ha determinato la nascita di tre succursali: la Tate Liverpool, la Tate Saint Ives e la Tate Modern. Il numero record di visitatori della Tate Modern22 da un lato denota il successo delle politiche adottate dai mega-musei, dall’altro rafforza la percezione di un legame molto flebile con le realtà locali. I musei contemporanei si muovono oggi nel mercato globale della fruizione artistica, in cui grandiosità degli edifici, servizi di qualità, merchandising e esperienza museale offerta possiedono un valore economico e rappresentano fattori di competitività. Questo è particolarmente vero per i mega-musei, la cui fondazione avviene spesso in aree in cui il tessuto urbano e sociale locale ha già subito profonde trasformazioni e si presta così a diventare presidio di enti istituzionali con vocazione internazionale. 21 Foster et al. (2017), 837. 22 BBC News (2019). Camilla MATTOLA 116 Una di queste trasformazioni è legata a quella che in antropologia urbana viene chiamata gentrificazione: dall’inglese gentry (classe sociale media), questa definizione indica i processi di rinnovamento urbano delle aree popolari operate dalle classi agiate, attirate in queste zone dal basso costo degli immobili e dalla ricerca nostalgica di un antico senso di comunità. Il fenomeno della gentrificazione è seguito dal displacement23, l’esodo delle comunità che in origine abitavano questi quartieri, impossibilitate ora a sostenere il rincaro della vita causato dai nuovi investimenti: un fattore che determina, inevitabilmente, anche la dispersione delle identità culturali preesistenti. Il quartiere di Bankside, così come le aree in cui sorgono Tate Liverpool e Tate Saint Ives, sono andate incontro nel tempo ad un processo simile24, cosa che spiega, almeno in parte, perché il museo londinese risulti poco legato alla realtà locale. Il profilo internazionale della Tate Modern non è solo connaturato alle dinamiche urbane e sociali che hanno condotto alla sua fondazione, ma appare anche abilmente ricercato. La Tate è infatti in possesso di una collezione molto vasta, composta da opere datate tra il sedicesimo secolo e il contemporaneo, che ricostruisce la storia del Regno Unito e delle numerose comunità etniche25 che lo abitano. Una storia che include anche scontri e conflitti, risalenti in maniera particolare all’epoca coloniale, quando l’impero britannico governava circa un quarto della popolazione mondiale26, e su cui sarebbe opportuno proporre continue riflessioni. Eppure, piuttosto che tentare la costruzione di un percorso museale improntato alla ricerca di spazi condivisi in cui intrecciare differenti esperienze artistiche (forse il modo più diretto per creare confronto sociale), la Tate ha scelto di separare la propria collezione, dislocando la sezione storica e autoctona nella Tate Britain, ed affidando il restante catalogo contemporaneo e internazionale alla Tate Modern. Questa frattura è confermata dalla mission27 dell’istituzione, in cui spicca l’intento di contribuire a diffondere la conoscenza dell’arte britannica e, in secondo luogo, dell’arte contemporanea internazionale. Dal punto di vista comunicativo la Tate adotta un approccio politicamente corretto. Molte schede presenti nel sito ufficiale e dedicate alle opere della collezione sono minimali, con la rinuncia, da parte dei curatori, alla proposta di chiavi di lettura per il pubblico, mentre in quelle più complete vi sono poche informazioni relative al background culturale e etnico degli artisti. Soffermandosi su questi supporti didattici e sulla disposizione tematica generalmente imparziale delle collezioni contemporanee, si ha l’impressione che nei musei Tate le differenze spariscano. Ma in realtà, sempre sul sito ufficiale, è presente una sezione in cui queste compaiono e vengono anche rigorosamente categorizzate: si tratta della pagina 23 Per approfondimenti cfr. Deutsche R. et al. (1984), 91-111. 24 Nixon et al. (2001), 3-25. 25 GOV.UK. 26 Lloyd (2002), ix- x. 27 Tate Governance. Decolonizzare il museo. Tate Modern e Brooklyn Museum fra nuovo istituzionalismo e attivismo 117 dedicata alle politiche di gestione delle risorse umane28. Sotto il titolo Diversity and Inclusion29, la sezione si apre con una foto che ritrae un uomo in sedia a rotelle, bardato con il logo Tate, mentre offre indicazioni sul museo a due visitatrici (fig. 4). Fig. 4. Tate, Diversity and Inclusion, © Tate 2020. https://www.tate.org.uk/about-us/working-at-tate/diversity-inclusion L’immagine preannuncia (e dovrebbe in qualche modo anche rafforzare) un elenco di dichiarazioni nella quali l’istituzione si proclama pronta ad accogliere tutte le diversità. Vengono infatti invitati a presentare la propria candidatura i “disable people and people from black, Asian and minority ethnic backgrounds”30, in quanto riconosciuti come poco rappresentati dai musei. Gli intenti della Tate vengono quindi dichiarati attraverso l’associazione tra la parola Diversity del titolo ed un elenco molto specifico di categorie, il che costituisce, secondo una prospettiva post-coloniale, non una semplice impasse linguistica ma una contraddizione ideologica. La questione delle implicazioni negative insite nell’uso del termine diversità è stata infatti oggetto degli studi di critici come Homi K. Bhabha31, il quale ha osservato come il termine diverso sostenga in realtà l’opposizione discriminante tra un prototipo umano con caratteristiche etniche e sociali “normali” ed i suoi opposti, i “diversi”, e ha suggerito in alternativa l’uso del termine “differenze”. Quest’ultimo ammette infatti la compresenza di specificità senza lasciare spazio a possibili comparazioni. L’atteggiamento politicamente corretto del museo, che tende a oscurare le differenze piuttosto che rappresentarne la realistica compresenza, non manca di alcune falle che 28 Tate, Diversity and Inclusion. 29 “Diversità e Inclusione” (trad. autonoma). 30 “disabili e persone provenienti da backgrounds neri, asiatici e minoranze etniche” (trad. autonoma). 31 Cfr. Bhabha (1994). Camilla MATTOLA 118 generano un’inconsapevole contraddizione di intenti. È quello che sembra essere accaduto anche nel luglio del 2019, quando la visita della giornalista Ciara O’Connor alla retrospettiva In Real Life32 dell’artista Olafur Eliasson ha generato un vero caso mediatico. La giornalista dell’Irish Indipendent ha infatti lamentato sui social33 la mancanza di un percorso strutturato per essere fruito anche da chi, come lei, è affetto da disabilità. Tra le installazioni dell’artista danese infatti, lo stretto tunnel caleidoscopico Spiral View viene citato come esempio da O’Connor per testimoniare la mancanza di considerazione per i visitatori che si spostano in sedia a rotelle, un problema spesso ignorato dalle istituzioni che organizzano grandi mostre. Le esternazioni della giornalista sono diventate virali, al punto da costringere la Tate ad aprirsi al confronto: artista e portavoce del museo34 si sono infatti scusati pubblicamente per l’accaduto ma non hanno potuto apportare alcuna modifica al percorso perché, a quanto pare, nessuna soluzione avrebbe comunque garantito una fruizione adeguata35. L’episodio è stato particolarmente increscioso, considerato anche il titolo, ottenuto dal museo nel 201436, di attrazione turistica più accessibile per la popolazione disabile di tutto il Regno Unito. Più specificatamente legate al tema dell’attivismo come pratica di decolonizzazione sono le azioni del collettivo chiamato Liberate Tate37, nato appositamente per richiedere l’immediata cessazione dei rapporti di sponsorship tra la Tate e la British Petroleum (BP), una compagnia petrolifera considerata tra i responsabili del disastro ambientale38 avvenuto nel Golfo del Messico nel 2010. Le manifestazioni, le lettere aperte e le performance provocatorie organizzate all’interno della stessa Turbine Hall, il maestoso atrio della Tate Modern, che contestavano il codice etico dell’istituzione hanno ottenuto però una vittoria solo parziale: su insistenza del collettivo, nel 2014 la Tate è stata chiamata in causa da un tribunale dell’informazione di Londra39, schierato dalla parte degli attivisti, il quale ha imposto al complesso museale di rivelare l’ammontare delle donazioni ricevute nel tempo dalla BP. Seppur i finanziamenti incriminati fossero stimati solo al 0,5 per cento40 delle entrate complessive del museo e ritenuti non necessarie al suo sostentamento, l’annuncio41 della fine del sodalizio trentennale con il colosso petrolifero è giunto solo nel 2016, e ha visto entrambe le parti dell’accordo negare l’influenza delle proteste sulla decisione. La reticenza nel rendere pubbliche le informazioni relative ai suoi partner e la presa di distanza finale dell’istituzione dalle azioni degli attivisti riconfermano il disequilibrio 32 Tate, Olafur Eliasson. In real life. 33 Per prendere visione dei tweet cfr. O’ Connor (2019a). 34 Small (2019). 35 O’ Connor (2019b). 36 Business Disability Forum (2014). 37 Liberate Tate (2010). 38 Bryant (2011). 39 Brown (2016). 40 Brown (2016). 41 Clark (2016). Decolonizzare il museo. Tate Modern e Brooklyn Museum fra nuovo istituzionalismo e attivismo 119 tra gli intenti democratici della Tate, il loro potenziale sociale e la loro effettiva attuazione. È difficile negare l’aspetto rivoluzionario dei musei Tate: l’ex direttore, Nicholas Serota, colui che ha presieduto all’inaugurazione della Tate Modern, ha lasciato ai suoi successori un complesso museale che con i suoi percorsi espositivi inediti si pone in netto contrasto con il sistema museale canonico. Il complesso inglese inoltre ha spesso ospitato artisti legati all’attivismo politico e si è persino schierato in loro favore, come quando, ad esempio, espose degli striscioni per richiedere la liberazione di Ai WeiWei42, artista incarcerato dal governo cinese di cui è da anni strenuo oppositore. Eppure, davanti a proteste che pongono sotto processo il suo stesso codice etico, la Tate ha scelto di abbandonare la via del dialogo. In generale gli incontri tra il museo inglese e il mondo dell’attivismo segnalano da parte dell’istituzione un atteggiamento di negazione e di apertura insieme. Mentre la presenza e lo schieramento a favore di WeiWei possono essere spiegati dal fatto che si tratta di un artista ormai ampiamente istituzionalizzato dal sistema dell’arte occidentale43 ed esponente per altro di un tipo di attivismo artistico che ha spesso derive spettacolarizzanti44 (che non necessitano perciò di essere contestualizzate o spiegate per attirare il pubblico occidentale), la chiusura davanti alla richieste di Liberate Tate appartiene a una serie di pratiche che hanno l’obiettivo di salvare il museo da responsabilità politiche e sociali, e che rientrano nel progetto di costruzione di un’esperienza museale standardizzata, godibile per qualsiasi fruitore e assolutamente neutrale. Dal punto di vista inclusivo questa ricerca ha prodotto, come si è visto, una rappresentazione imparziale delle differenze, la quale però, per salvaguardare l’immagine e la flessibilità delle narrazioni dei musei, evita confronto sociale e prese di posizione coerenti, ponendo Tate ai margini del dibattito sulle disuguaglianze sociali e neutralizzando parte del suo potenziale civico e didattico. Un possibile cambio di marcia è giunto di recente, all’indomani dell’omicidio dell’afroamericano George Floyd da parte di un ufficiale di polizia e delle conseguenti manifestazioni del movimento globale Black Lives Matter: il museo ha diffuso un comunicato45 in cui manifesta solidarietà nei confronti degli attivisti, impegnati per portare all’attenzione delle autorità le ingiustizie perpetrate ai danni delle minoranze etniche, e ha predisposto per l’apertura post lockdown un programma di retrospettive dedicate ad artisti di origine africana (fig. 5). 42 Anderson (2012), 218. 43 Sorace (2014), 396. 44 Si veda a titolo d’esempio l’installazione Sunflower Seeds di WeiWei, un’enorme distesa di piccoli semi di girasole realizzati in porcellana e disposti a ricoprire l’intero pavimento della Turbine Hall. Cfr. Tate,The Unilever Series: Ai WeiWei: SunflowerSeeds. 45 Tate, Our commitment to race equality. Camilla MATTOLA 120 Fig. 5. La protesta di Liberate Tate al ricevimento estivo della galleria d'arte Tate, 2010 (foto I. Klink), Recommon, 2020. https://www.recommon.org/bp-ritira-la-sponsorizzazione-alla-tate/ Anche il Brooklyn Museum sorge in un quartiere che ha subito il fenomeno della gentrificazione e che presenta una particolare eterogeneità etnica. A Brooklyn infatti risiedono comunità etniche bianche, afroamericane, latino-americane e native in percentuali discrete46. Non sorprende dunque, considerata anche la vasta collezione del museo, caratterizzata da opere storiche e contemporanee prodotte in diversi contesti culturali, che l’istituzione abbia dovuto fare i conti con le differenze fin dalla sua fondazione. Paradossalmente, nel 1890, anno di inizio della costruzione dell’edificio, nella mente dei promotori vi era il progetto47 di realizzare niente di meno che il più grande tempio dedicato alla cultura del mondo occidentale. Con il fallimento di questa ambizione, che implicava dei costi troppo elevati, la storia del museo è stata segnata da tentativi di progressivo avvicinamento alla comunità locale. Dalla demolizione, nel 1934, dell’imponente scalinata originale, la quale collocava il museo in posizione sopraelevata rispetto al quartiere, alla costruzione di una piazza pubblica davanti all’ingresso negli anni Duemila, fino ai radicali cambiamenti susseguitisi al suo interno per dare più spazio alle produzioni artistiche locali, l’identità del Brooklyn Museum è stata costruita sul proposito di radicarsi saldamente al tessuto urbano e soprattutto sociale della città. Questa tendenza ha portato negli ultimi anni ad una profonda rimediazione delle pratiche curatoriali adottate dal museo (fig. 6). A partire dalla mission48, che si propone di sfruttare il potenziale educativo dell’arte per la creazione di 46 World Population Review. 47 Brooklyn Museum, Brooklyn Museum Building. 48 Brooklyn Museum, About the Museum. Decolonizzare il museo. Tate Modern e Brooklyn Museum fra nuovo istituzionalismo e attivismo 121 una società empatica ed inclusiva, luogo di scambio e di confronti coraggiosi, l’istituzione ha operato una riscrittura del canone tradizionale. Fig. 6. Brooklyn Museum, Pannello introduttivo sezione American Art, (foto dell’A.). Questo è avvenuto, dal punto di vista narrativo, con la reinterpretazione dell’identità nazionale, qui intesa come una Pan-America fondata sulle differenze, e dal punto di vista espositivo con la suddivisione della collezione in sezioni cronologiche i cui spazi sono divisi equamente tra opere realizzate secondo il canone occidentale e opere coeve prodotte nei vari contesti etnici delle due Americhe. Nella sezione Visions and Myths of a Nation, 1800-189049, ad esempio, ci si imbatte nell’esposizione di oggetti tradizionali appartenuti alle comunità Sioux e Chippewa accanto alle teche ospitanti le porcellane dell’azienda storica di Philadelphia Cornelius & Baker. Questo esempio suggerisce anche come il museo abbia provato a superare la distinzione canonica tra arti minori e maggiori, tra arte pura e decorativa, ma soprattutto tra oggetti solitamente considerati etnografici e opere d’arte. Per ciascun oggetto vengono inoltre segnalati prima l’artista, se conosciuto, e in un secondo momento la cultura di 49 “Visioni e Miti di una Nazione, 1800-1890” (trad. autonoma). Brooklyn Museum, American Art Galleries, 5th Floor, Visions and Myths of a Nation, 1800–1890. Camilla MATTOLA 122 appartenenza, là dove nei musei tradizionali è pratica comune quella di indicare nei supporti informativi degli oggetti etnografici il solo contesto culturale di produzione. Il particolare riguardo per le comunità locali si manifesta anche nella traduzione delle schede dedicate alle singole opere in lingua spagnola, la più utilizzata dalle minoranze etniche americane. Proprio nel relazionarsi con queste il Brooklyn Museum opera una scelta che, in una prospettiva inclusiva, risulta particolarmente radicale: nel processo di ricostruzione dei significati originali dei trofei coloniali esposti, il museo si confronta direttamente con le comunità native, le quali vengono anche invitate a suggerire i migliori metodi di conservazione degli oggetti tradizionali. In questo processo di confronto e ricostruzione, nulla di ciò che riguarda storia e significati dei manufatti viene trascurato, comprese le circostanze di appropriazione dell’oggetto da parte dell’istituzione, spesso di natura violenta e risalenti all’epoca coloniale. In una sorta di pubblica rinuncia alla propria autorità istituzionale, il museo americano invita perciò il pubblico stesso a farsi avanti se in possesso di informazioni riguardanti la collezione. L’opera d’arte diventa dunque patrimonio e responsabilità del cittadino stesso: individui esterni al museo possono influenzare l’esposizione, soprattutto possono soprattutto condurre la propria narrazione. È così che viene garantito il diritto all’autorappresentazione. Queste stesse logiche guidano anche la ripartizione delle sezioni dedicate all’artecon temporanea: dalla fondazione nel 2007 dell’Elizabeth A. Sackler Center for Feminist Art, uno spazio predisposto per ospitare opere dell’arte femminista, fino alla sezione dedicata all’arte contemporanea americana in generale, che reca il titolo significativo Beyond Borders and Boundaries, 20th and 21st Centuries50, il Brooklyn Museum sembra voler perseguire l’obiettivo di normalizzare le differenze. Paradossalmente, nonostante la radicalizzazione delle sue politiche inclusive, il museo americano è fortemente soggetto agli attacchi degli attivisti. Già nel 2015 è stato accusato, ad esempio, di avere sostenuto gli agenti responsabili della gentrificazione del quartiere per aver affittato i propri spazi al Brooklyn Real Estate Summit51, una rassegna locale ideata per attirare potenziali investitori immobiliari. Il problema della gentrificazione, che incide particolarmente sulle minoranze etniche, è ancora presente a Brooklyn, al punto da spingere gli attivisti locali a creare collettivi appositi come il Brooklyn Anti - Gentrification Network (BAN). Il museo52 non ha però ignorato le manifestazioni e le lettere aperte degli attivisti e ha invece invitato i collettivi a considerare il Summit come una piattaforma di dibattito utile per portare la loro causa all’attenzione di investitori ed alte sfere (fig. 7). 50 “Oltre limiti e confini, ventesimo e ventunesimo secolo” (trad. autonoma). Brooklyn Museum, American Art Galleries, 5th Floor, Beyond Borders and Boundaries, 20th and 21st Centuries. 51 Voon (2015). 52 Pasternak. Decolonizzare il museo. Tate Modern e Brooklyn Museum fra nuovo istituzionalismo e attivismo 123 Fig. 7. Brooklyn Museum, veduta della sezione American Art, Visions and Myths of a Nation, 1800-1890, (foto dell’A. 2019). A scatenare, nel 2018, le proteste di Decolonize This Place, con cui si è aperto il presente contributo, è stata invece la decisione del Brooklyn Museum di assumere una curatrice bianca, Kirsten Windmuller-Luna, a capo della sezione africana. Attivo dal 2016 nell’area di NewYork, Decolonize This Place è nato dall’unione di diverse associazioni per la tutela dei diritti delle categorie sociali in difficoltà, da movimenti femministi a quelli impegnati per la difesa di nativi e afro-americani. Il collettivo aveva già attirato l’attenzione dell’opinione pubblica nel suo primo anno di attività, Camilla MATTOLA 124 quando si era scagliato contro l’American Museum of Natural History53 per la celebrazione del Columbus Day, una ricorrenza che, stando agli attivisti, dovrebbe essere abolita, in quanto non rispettosa del genocidio dei nativi operato dagli europei al loro arrivo, e sostituita con una parata dedicata alle comunità americane originarie. Come si è detto Decolonize This Place lamenta la scelta del Brooklyn Museum di non affidare la responsabilità della sezione africana ad un professionista proveniente da uno stesso background etnico54. Perciò, approfittando del successo di Black Panther, anch’esso raffigurante una curatrice bianca a capo di una sezione africana, il collettivo ha cercato di sensibilizzare il pubblico alla causa della decolonizzazione museale e, attraverso lo stesso video ed una lettera aperta55, ha presentato alcune richieste al museo. Tra queste spiccano la diversificazione del personale, la predisposizione di un catalogo decolonizzato della sua collezione e la restituzione dei trofei coloniali ai nativi. La protesta appare interessante proprio perché rivolta ad un’istituzione che con le sue pratiche curatoriali, il suo personale già diversificato56 e l’adesione al Native American Graves Protection and Repatriation Act (NAGPRA)57 (decreto che regolamenta in America la restituzione dei trofei coloniali alle comunità native) ha già iniziato il processo di rimediazione della propria identità e delle proprie strutture. Forse per lo stesso motivo, il museo58 ha risposto pubblicamente agli attacchi del collettivo dimostrandosi accogliente ma limitandosi a difendere la preparazione professionale di Windmuller-Luna. Oggi le proposte di Decolonize This Place vengono rinnovate dai collettivi uniti sotto la bandiera del Black Lives Matter: dalle istituzioni di cultura – come università e musei ai classici del cinema internazionale, fino ai monumenti pubblici, ogni struttura o figura simbolica che conservi le tracce del passato coloniale è messa sotto processo. Anche in merito alle nuove proteste, la posizione del Brooklyn Museum è chiara: “Siamo solidali con la comunità nera. Siamo contro la violenza delle forze di polizia e contro il razzismo istituzionale e strutturale”59 (fig. 8). 53 Decolonize This Place (2010). 54 Cfr. D’Souza (2018). 55 Decolonize This Place (2018). 56 Brooklyn Museum, Curatorial Staff. 57 Per informazioni sul decreto cfr. Conn (2011), 500. 58 Salam (2018). 59 “We stand in solidarity with the Black community. We stand against police brutality and institutional and structural racism.” (trad. autonoma), Brooklyn Museum. Decolonizzare il museo. Tate Modern e Brooklyn Museum fra nuovo istituzionalismo e attivismo 125 Fig. 8 Proteste Decolonize This Place all’ingresso del Brooklyn Museum, © Decolonize this Place. https://decolonizebrooklynmuseum.wordpress.com/ Osservando le manifestazioni organizzate contro la Tate Modern e il Brooklyn Museum, è possibile individuare un comune determinatore: la necessità da parte degli attivisti di riappropriarsi dell’istituzione museale. Per quanto infatti, nel caso degli attacchi alla Tate, le proteste siano state motivate oltre che da intenti inclusivi anche dalla richiesta di rapporti di partnership più etici, pare evidente che alla base vi sia un più generale tentativo di rimediare l’istituzione dall’esterno. Ma per quanto riguarda la decolonizzazione museale nello specifico, come mettere a confronto le due istituzioni? La Tate Modern, come si è visto, esemplifica le tendenze più diffuse nei mega-musei, ovvero il ricorso alla strategia del politicamente corretto e la costruzione di un’esperienza museale standardizzata, fruibile da un pubblico diversificato. Il Brooklyn Museum invece rispecchia il profilo di un museo le cui politiche sono rivolte in primo luogo al contesto sociale di appartenenza ed in un secondo momento ad un pubblico interna- zionale. Il museo americano inoltre, piuttosto che scegliere una linea comunicativa imparziale, sembra aver optato per prese di posizione più radicali con l’obbiettivo di stabilire una comunicazione diretta con le sue comunità di riferimento. La scelta di limitare la propria autorità in favore della creazione di narrazioni condivise pare, in definitiva, essere l’unica soluzione per ottenere la normalizzazione delle differenze e rispettare il diritto di autorappresentazione di ciascun individuo. Ma perché allora il museo americano è più soggetto alle proteste degli attivisti e in che misura questo può suggerire la giusta direzione per le pratiche di decolonizzazione museale contemporanee? Jacques Rancière60 nel 2008 scriveva nel suo saggio Lo spettatore emancipato che arte e politica, quest’ultima intesa – nell’accezione più classica del termine - come pratica al servizio della vita pubblica, trovano il loro punto d’incontro proprio nel dissenso, nella facoltà dell’individuo di associarsi o dissociarsi da una certa interpretazione della realtà. 60 Rancière (2018). Camilla MATTOLA 126 Il dissenso degli attivisti quindi può essere considerato come un atto democratico, come un segnale che l’istituzione è diventata cosa di tutti, una zona di contatto dove il dialogo si manifesta anche attraverso il conflitto. Quest’ultimo rappresenta dunque un pericolo ma anche un sintomo di successo, perché arriva come conseguenza della reale apertura del museo. Al contrario, un’istituzione che offre un’esperienza standardizzata, quasi turistica, pensata per tutti senza rivolgersi direttamente a nessuno, non rischia rappresaglie esterne ma allo stesso tempo contribuisce al bene comune da un punto di vista più superficiale e ludico che realmente educativo e arricchente. Alla luce di queste considerazioni, si conclude che la svolta nei processi di decolonizzazione del sistema museale potrebbe essere determinata proprio dal maggior coinvolgimento di agenti esterni all’istituzione. Attraverso pratiche di avvicinamento ai collettivi locali e internazionali - come ad esempio la creazione di appuntamenti di dibattito che ammettano anche il dissenso e che coniughino i discorsi sull’arte e sul sistema museale a quelli sulle criticità sociali più sentite dalla collettività - i musei potrebbero essere in grado di colmare definitivamente il divario tra istituzione di cultura e comunità. Tuttavia, per evitare che in questo quadro i musei risultino il mero contenitore di dibattiti sociali e che i discorsi sull’inclusione rimangano ancora limitati ai suoi confini spaziali, è necessario che al confronto con l’attivismo seguano anche azioni concrete, in modo che gli stimoli verso la trasformazione culturale provenienti dall’esterno possano tornare a loro volta alla collettività, amplificati dalle pratiche museali. Queste ultime devono necessariamente fare i conti, in particolare, con il problema della rappresentazione da un lato e con la necessità che i musei prendano una presa di posizione radicale sul fronte delle disuguaglianze sociali dall’altro. Il confronto con l’attivismo dovrebbe servire in questo senso a comprendere come e con quali termini una data comunità vuole essere rappresentata all’interno del museo, con la consapevolezza che l’ascolto e la messa in pratica delle istanze che essa esprime comportano la parziale rinuncia alla propria autorità istituzionale. Un’autorità che, tuttavia, viene ripristinata quando il museo si espone e si schiera dalla parte delle vittime delle ingiustizie sociali, abbandonando la sua parvenza di contenitore imparziale e impegnandosi a chiarire la sua posizione non solo attraverso pratiche curatoriali che raccontino del passato e del presente in maniera schietta o onesta, senza omettere responsabilità e giudizi, ma anche attraverso pubbliche dichiarazioni ed azioni di solidarietà. “I musei non sono mai neutrali” scrive Laura Raicovich61 nel commentare la posizione dei musei nell’era Covid, nella quale le disuguaglianze sociali si fanno più marcate, ma più che un dato di fatto, questa frase rappresenta evidentemente un auspicio. Perché il conflitto è, dopotutto, una forma di comunicazione più produttiva del silenzio ed un museo sotto attacco è già, anche solo in potenza, un museo più inclusivo. 61 “Museums are never neutral” (trad. autonoma), Raicovivh (2020). Decolonizzare il museo. 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