DINO BUZZATI. SESSANTA RACCONTI. PREMIO STREGA 1958. I SETTE MESSAGGERI Partito ad esplorare il regno di mio padre, di giorno in giorno vado allontanandomi dalla citt`a e le notizie che mi giungono si fanno sempre piú rare. Ho cominciato il viaggio poco piú che trentenne e piú di otto anni sono passati, esattamente otto anni, sei mesi e quindici giorni d,i ininterrotto cammino. Credevo, alla par- tenza, che in poche settimane avrei facilmente raggiun- to i confini del regno, invece ho continuato ad incontrare "sempre nuove genti e paesi; e dovunque uomini che parla-" vano la mia stessa lingua, che dicevano di essere sudditi miei. Penso talora che la bussola del mio geografo sia impaz- zita e che, credendo di procedere sempre verso il meridio- ne, noi in realt`a siamo forse andati girando su noi stessi, senza mai aumentare la distanza che ci separa dalla capi- "tale; questo potrebbe spiegare il motivo per cui ancora non" siamo giunti all'estrema frontiera. Ma piú sovente mi tormenta il dubbio che questo con- fine non esista, che il regno si estenda senza limite alcuno e che, per quanto io avanzi, mai potro arrivare alla fine. Mi misi in viaggio che avevo gi`a piú di trent'anni, trop- po tardi forse. Gli amici, i familiari stessi, deridevano il mio progetto come inutile dispendio degli anni migliori della vita. Pochi in realt`a dei miei fedeli acconsentirono a partire. Sebbene spensierato - ben piú di quanto sia ora! - mi preoccupai di poter comunicare, durante il viaggio, con i miei cari, e fra i cavalieri della scorta scelsi i sette migliori, che mi servissero da messaggeri. Credevo, inconsapevole, che averne sette fosse addirittura un'esagerazione. Con l'andar del tempo mi accorsi al con- "trario che erano ridicolmente pochi; e sí che nessuno di" essi e mai caduto malato, né e incappato nei briganti, né ha sfiancato le cavalcature. Tutti e sette mi hanno servito con una tenacia e una devozione che difficilmente riusciro mai a ricompensare. Per distinguerli facilmente imposi loro nomi con le ini- ziali alfabeticamente progressive: Alessandro, Bartolomeo, Caio, Domenico, Ettore, Federico, Gregorio. Non uso alla lontananza dalla mia casa, vi spedii il pri- mo, Alessandro, fin dalla sera del mio secondo giorno di viaggio, quando avevamo percorso gi`a un'ottantina di leghe. La sera dopo, per assicurarmi la continuit`a delle comuni- cazioni, inviai il secondo, poi il terzo, poi il quarto, con- secutivamente, fino all'ottava sera di viaggio, in cui partí Gregorio. Il primo nGn era ancora tornato. Ci raggiunse la decima sera, mentre stavamo disponendo il campo per la notte, in una valle disabitata. Seppi da Ales- "sandro che la sua rapidit`a era stata inferiore al previsto;" avevo pensato che, procedendo isolato, in sella a un ottimo destriero, egli potesse percorrere, nel medesimo tempo, una "distanza due volte la nostra; invece aveva potuto solamen-" "te una volta e mezza; in una giornata, mentre noi avanza-" vamo di quaranta leghe, lui ne divorava sessanta, ma non piú. Cosí fu degli altri. Bartolomeo, partito per la citt`a alla "terza sera di viaggio, ci raggiunse alla quindicesima; Caio," partito alla quarta, alla ventesima solo fu di ritorno. Ben presto constatai che bastava moltiplicare per cinque i giorni fin lí impiegati per sapere quando il messaggero ci avrebbe rlpresi. Allontanandoci sempre piú dalla capitale, I'itinerario dei messi si faceva ogni volta piú lungo. Dopo cinquanta gior- ni di cammino, I'intervallo fra un arrivo e l'altro dei mes- "saggeri comincio a spaziarsi sensibilmente; mentre prima" me ne vedevo arrivare al campo uno ogni cinque giorni, "questo intervallo divenne di venticinque; la voce della mia" "citt`a diveniva in tal modo sempre piú fioca; intere setti-" mane passavano senza che io ne avessi alcuna notizia. Trascorsi che furono sei mesi - gi`a avevamo varcato i monti Fasani - I'intervallo fra un arrivo e l'altro dei mes- saggeri aumento a ben quattro mesi. Essi mi recavano ora- "mai notizie lontane; le buste mi giungevano gualcite, talora" con macchie di umido per le notti trascorse all'addiaccio da chi me le portava. Procedemmo ancora. Invano cercavo di persuadermi che le nuvole trascGrrenti sopra di me fossero uguali a quelle della mia fanciulleza, che il cielo della citt`a lontana non fosse diverso dalla cupola azzurra che mi sovrastava, che l'aria fosse la stessa, uguale il soffio del vento, identiche le voci degli uccelli. Le nuvole, il cielo, I'aria, i venti, gli uc- "celli, mi apparivano in verit`a cose nuove e diverse; e io mi" sentivo straniero. Avanti, avanti! Vagabondi incontrati per le pianure mi dicevano che i confini non erano lontani. Io incitavo i miei uomini a non posare, spegnevo gli accenti scoraggiati che si facevano sulle loro labbra. Erano gi`a passati quattro anni "dalla mia partenza; che lunga fatica. La capitale, la mia" casa, mio padre, si erano fatti stranamente remoti, quasi non ci credevo. Ben i/enti mesi di silenzio e di solitudine in- tercorrevano ora fra le successive comparse dei messagge- ri. Mi portavano curiose lettere ingiallite dal tempo, e in esse trovavo nomi dimenticati, modi di dire a me insoliti, sentimenti che non riuscivo a capire. Il mattino successivo, dopo una sola notte di riposo, mentre noi ci rimettevamo in camminO' il messo partiva nella direzione opposta, recan- do alla citt`a le lettere che da parecchio tempo io avevo apprestate. Ma otto anni e mezzo sono trascorsi. Stasera cenavo da solo nella mia tenda quando e entrato Domenico, che riu- sciva ancora a sorridere benché stravolto dalla fatica. Da quasi sette anni non lo rivedevo. Per tutto questo periodo lunghissimo egli non aveva fatto che correre, attraverso praterie, boschi e deserti, cambiando chiss`a quante volte ca- valcatura, per portarmi quel pacco di buste che finora non ho avuto voglia di aprire. Egli e gi`a andato a dormire e ripartir`a domani stesso all'alba. Ripartir`a per l'ultima volta. Sul taccuino ho calcolato che, se tutto andr`a bene, io continuando il cammino come ho fatto finora e lui il suo, non potro rivedere Domenico che fra trentaquattro anni. Io allora ne avro settantadue. Ma comincio a sentirmi stanco ed e probabile che la morte mi coglier`a prima. Cosí non lo potro mai piú rivedere. Fra trentaquattro anni (prima anzi, molto prima) Dome- nico scorger`a inaspettatamente i fuochi del mio accampa- mento e si domander`a perché mai nel frattempo, io abbia fatto cosí poco cammino. Come stasera. i`i buon messag- gero entrer`a nella mia tenda con le lettere ingiallite dagli "anni, cariche di assurde notizie di un tempo gi`a sepolto;" ma si fermer`a sulla soglia, vedendomi immobile disteso sul giaciglio, due soldati ai fianchi con le torce, morto. Eppure, va, Domenico, e non dirmi che sono crudele ! Porta, il mio ultimo saluto alla citt`a dove io sono nato. Tu sei il superstite legame con il mondo che un tempo fu anche mic. I piú recenti messaggi mi hanno fatto sapere che molte cose sono cambiate, che mio padre e morto .e la Corona e passata da mio fratello maggiore, che mi considerano perduto, che hanno costruito alti palazzi di pietra l`a dove prima erano le querce sotto cui andavo soli- tamente a giocare. Ma e pur sempre la mia vecchia patria. Tu sei l'ultimo legame con loro, Domenico. Il quinto messaggero, Ettore, che mi raggiunger`a, Dio volendo, fra un anno e otto mesi, non potr`a ripartire perché non farebbe piú in tempo a tornare. Dopo di te il silenzio, o Domenico, a meno che finalmente io non trovi i sospirati confini. Ma quanto piú procedo, piú vado convincendomi che non esi- ste frontiera. Non esiste, io sospetto, frontiera, almeno nel senso che noi siamo abituati a pensare. Non ci sono muraglie di se- parazione, né valli divisorie, né montagne che chiudano il passo. Probabilmente varchero il limite senza accorgerme- ne neppure, e continuero ad andare avanti, ignaro. Per questo io intendo che Ettore e gli altri messi dopo di lui, quando mi avranno nuovamente raggiunto, non ri- prendano piú la via della capitale ma partano innanzi a precedermi, affinché io possa sapere in antecedenza cio che mi attende. Un'ansia inconsueta da qualche tempo si accende in me alla sera, e non e piú rimpianto delle gioie lasciate, come "accadeva nei primi tempi del viaggio; piuttosto e l'impa-" zienza di conoscere le terre ignote a cui mi dirigo. Vado notando - e non l'ho confidato finora a nessuno - vado notando come di giorno in giorno, man mano che avan- zo verso l'improbabile meta, nel cielo irraggi una luce inso- "lita quale mai mi e apparsa, neppure nei sogni; e come le" piante, i monti, i fiumi che attraversiamo, sembrino fatti di una essenza diversa da quella nostrana e l'aria rechi pre- sagl che non so dlre. Una speranza nuova mi trarr`a domattina ancora piú avan- ti, verso quelle montagne inesplorate che le ombre della notte stanno occultando. Ancora una volta io levero il cam- po, mentre Domenico scomparir`a all'orizzonte dalla par- te opposta, per recare alla citt`a lontanissima l'inutile mio messaggio. L'ASSALTO AL GRANDE CONVOGLIO Arrestato in una via del paese e condannato soltanto per contrabbando- poiché non lo avevano riconosciuto - Ga- spare Planetta, il capo brigante, rimase tre anni in pri- gione. Ne venne fuori cambiato. La malattia lo aveva consunto, gli era cresciuta la barba, sembrava piuttosto un vecchietto che non il famoso capo brigante, il miglior schioppo co- nosciuto, che non sapeva sbagliare un colpo. Allora, con le sue robe in un sacco, si mise in cammino per Monte Fumo, che era stato il suo regno, dove erano rimasti i compagni. Era una domenica di giugno quando si addentro per la valle in fondo alla quale c'era la loro casa. I sentieri del bosco non erano mutati: qua una radice affiorante, l`a un ca- ratteristico sasso ch'egli ricordava bene. Tutto come prima. Siccome era festa, i briganti si erano riuniti alla casa. AvvicinandGsi, Planetta udí voci e risate. Contrariamente all'uso dei suoi tempi, la porta era chiusa. Batté due tre volte. Dentro si fece silenzio. Poi doman- darono: « Chi e? ». « Vengo dalla citt`a » egli rispose « vengo da parte di Planetta. » Voleva fare una sorpresa, ma invece quando gli apriro- no e gli si fecero incontro, Gaspare Planetta si accorse su- bito che non l'avevano riconosciuto. Solo il vecchio cane della compagnia, lo scheletrico Tromba, gli salto addosso con guaiti di gioia. Da principio i suoi vecchi compagni, Cosimo, Marco, Felpa ed anche tre quattro facce nuove gli si strinsero at- torno, chiedendo notizie di Planetta. Lui racconto di avere "conosciuto il capo brigante in prigione; disse che Planetta" sarebbe stato liberato fra un mese e intanto aveva mandato lui lassú per sapere come andavano le cose. DGPO poco pero i briganti si disinteressarono del nuovo venuto e trovarono pretesti per lasciarlo. Solo Cosimo ri- mase a parlare con lui, pur non riconoscendolo. « E al suo ritorno cosa intende fare? » chiedeva accen- nando al vecchio capo, in carcere. « Cosa intende fare? » fece Planetta « forse che non puo tornare qui ? » « Ah, sí, sí, io non dico niente. Pensavo per lui, pensavo. Le cose qui sono cambiate E lui vorr`a comandare ancGra si capisce, ma non so... » « Non sai che cosa? » « Non so se Andrea sar`a disposto... far`a certo delle que- stioni... per me torni pure, anzi, noi due siamo sempre andati d'accordo... » Gaspare Planetta seppe cosí che il nuovo capo era An- drea, uno dei suoi compagni di una volta, quello che anzi pareva allora il piú bestia. In quel momento si spalanco la porta, lasciando entrare proprio Andrea, che si fermo in mezzo alla stanza. Pla- netta ricordava uno spilungone apatico. Adesso gli stava davanti un pezzo formidabile di brigante, con una faccia dura e un paio di splendidi baffi. Quando seppe del nuovo venuto, che anch'egli non ri- conobbe: « Ah, cosí ? » disse a proposito di Planetta « ma come mai non e riuscito a fuggire? Non deve essere poi cosí difficile. Marco anche lui l'hanno messo dentro, ma non ci e rimasto che sei giorni. Anche Stella ci ha messo poco a fuggire. Proprio lui, che era il capo, proprio lui, non ha fatto una bella figura. » « Non e piú come una volta, cosí per dire » fece Planetta 10 I TNO RU77.ATT L'ASSALTO AL GRANDE CONVOGLIO 11 con un furbesco sorriso. « Ci sono molte guardie adesso, le inferriate le hanno cambiate, non ci lasciavano mai soli. E poi lui s'e ammalato. » " Cosí disse; ma intanto capiva di essere rimasto tagliato" fuori, capiva che un capo brigante non puo lasciarsi impri- gionare, tanto meno restar dentro tre anni come un disgra- ziato qualunque, capiva di essere vecchio, che per lui non c'era piú posto, che il suo tempo era tramontato. « Mi ha detto » riprese con voce stanca lui di solito gio- viale e sereno « Planetta mi ha detto che ha lasciato qui il suo cavallo, un cavallo bianco, diceva, che si chiama Po- l`ak, mi pare, e ha un gonfio sotto un ginocchio. » « Aveva, vuoi dire aveva » fece Andrea arrogante, co- minciando a sospettare che fosse proprio Planetta presente. « Se il cavallo e morto la colpa non sar`a nostra... » « Mi ha detto » continuo calmo Planetta « che aveva la- sciato qui degli abiti, una lanterna, un orologio. » E sGrri- deva intanto sottilmente e si avvicinava alla finestra per- ché tutti lo potessero veder bene. E tutti infatti lo videro bene, riconobberG in quel magro vecchietto cio che rimaneva del loro capo, del famoso Ga- spare Planetta, del migliore schioppo conosciuto, che non sapeva sbagliare un colpo. Eppure nessuno fiato. Anche Cosimo non oso dir nulla. Tutti finsero di non averlo riconosciuto, perché era pre- sente Andrea, il nuovo capo, di cui avevano paura. Ed Andrea aveva fatto finta di niente. « Le sue robe nessuno le ha toccate » disse Andrea « de- vono essere l`a in un cassetto. Degli abiti non so niente. Probabilmente li ha adoperati qualcun altro. » « Mi ha detto » continuo imperturbabile Planetta, que- sta volta senza piú sorridere « mi ha detto che ha lasciato qui il suo fucile, il suo schioppo di precisione. » « Il suo fucile e sempre qui » fece Andrea « e potr`a ve- nire a riprenderselo. » « Mi diceva » proseguí Planetta « mi diceva sempre: chis- s`a come me lo adoperano, il mio fucile, chiss`a che ferra- vecchio trovero al mio ritorno. Ci teneva tanto al suo fu- cile. » « L'ho adoperato io qualche volta » ammise Andrea con un leggero tono di sfida « ma non credo per questo di aver- lo mangiato. » Gaspare Planetta sedette su una panca. Si sentiva addos- so la sua solita febbre, non grande cosa, ma abbastanza da fare la testa pesante. « Dimmi » fece rivolto ad Andrea « me lo potresti far vedere? » « Avanti » rispose Andrea, facendo segno a uno dei bri- ganti nuovi che Planetta non conosceva « avanti, va di l`a a prenderlo. » Fu portato a Planetta lo schioppo. Egli lo osservo minu- tamente con aria preoccupata e via via parve rasserenarsi. Accarezzo con le mani la canna. « Bene » disse dopo una lunga pausa « e mi ha detto an- che che aveva lasciato qui delle munizioni. Mi ricordo anzi precisamente: polvere, sei misure, e ottantacinque palle. » « Avanti » fece Andrea con aria seccata « avanti, anda- tegliele a prendere. E poi c'e qualcosa d'altro? » « Poi c'e questo » disse Planetta con la massima calma, alzandosi dalla panca, avvicinandosi ad Andrea e staccan- dogli dalla cintura un lungo pugnale inguainato. « C'e an- cora questo » confermo « il suo coltello da caccia. » E tor- no a sedere. Seguí un lungo pesante silenzio. Finalmente fu Andrea che disse: « Be', buonasera » disse, per fare capire a Planetta che se ne poteva ormai andare. Gaspare Planetta alzo gli occhi misurando la potente cor- poratura di Andrea. Avrebbe mai potuto sfidarlo, patito e stanco come si sentiva? Percio si alzo lentamente, aspet- to che gli dessero anche le altre sue cose, mise tutto nel sacco, si getto lo schioppo sulle spalle. « Allora buonasera, signori » disse avviandosi alla polTa. I briganti rimasero muti, immobili per lo stupore, per- ché mai avrebbero immaginato che Gaspare Planetta, il famoso capo brigante, potesse andarsene cosí, lasciandosi mortificare a quel modo. Solo CGsimo trovo un po' di vo- ce, una voce stranamente fioca. « Addio Planetta! » esclamo, lasciando da parte ogni fin- zione. « Addio, buona fortuna! » Planetta si allontano per il bosco, in mezzo alle ombre della sera, fischiettando una allegra arietta. Cosí fu di Planetta, ora non piú capo brigante, bensí soltanto Gaspare Planetta fu Severino, di anni 48, senza fissa dimora. Pero una dimora l'aveva, un suo baracchino sul Monte Fumo, met`a di legno e met`a di sassi, nel mezzo delle boscaglie, dove una volta si rifugiava quando c'era- no troppe guardie in giro. Planetta raggiunse la sua baracchetta, accese il fuoco, conto i soldi che aveva (potevano bastargli per qualche mese) e comincio a vivere solo. Ma una sera, ch'era seduto al fuoco, si aprí di colpo la porta e comparve un giovane, con un fucile. Avr`a avuto diciassette anni. « Cosa succede? » domando Planetta, senza neppure al- zarsi in piedi. Il giovane aveva un'aria ardita, assomiglia- va a lui, Planetta, una trentina d'anni prima. « Stanno qui quelli del Monte Fumo? Sono tre giorni che vado in cerca. » Il ragazzo si chiamava Pietro. Racconto senza esitazione che voleva mettersi coi briganti. Era sempre vissuto da vagabondo ed erano anni che ci pensava, ma per fare il brianzte occorreva almeno un fucile e aveva dovuto aspet- L'ASSALTO AL GRANDE CONVOGLIO 13 tare un pezzo, adesso pero ne aveva rubato uno, ed anche uno schioppo discreto. « Sei capitato bene i> fece Planetta allegramente « io sono Planetta. » « Planetta il capo, vuoi dire? » « Sí, certo, proprio lui. » « Ma non eri in prigione? » « Ci sono stato, cosí per dire » spiego furbescamente Pla- netta. « Ci sono stato tre giorni. Non ce l'hanno fatta a tenermi di piú. » Il ragazzo lo guardo con entusiasmo. « E allora mi vuoi prendere con te? » « Prenderti con me? » fece Planetta « be', per stanotte dormi qui, poi domani vedremo. » I due vissero insieme. Planetta non disilluse il ragazzo, gli lascio credere di essere sempre lui il capo, gli spiego che preferiva viversene solo e trovarsi con i compagni sol- tanto quando era necessario. Il ragazzo lo credette potente e aspetto da lui grandi cose. Ma passavano i giorni e Planetta non si muoveva. Tut- t'al piú girava un poco per cacciare. Del resto se ne stava sempre vicino al fuoco. « Capo » diceva Pietro « quand'e che rni conduci con te a far qualcosa? » « Ah » rispondeva Planetta « uno di questi giorni combi- neremo bene. Faro venire tutti i compagni, avrai da ca- varti la soddisfazione. » Ma i giorni continuavano a passare. « Capo » diceva il ragazzo « ho saputo che domani, giú nella strada della valle, domani passa in carrozza un mer- cante, un certo signor Francesco, che deve avere le tasche piene. » « Un certo Francesco? » faceva Planetta senza dimostrare intereSSe. « Peccato, proprio lui, lo conosco bene da un pezzo. Una bella volpe, ti dico, quando si mette in viag- gio non si porta dietro neanche uno scudo, e tanto se porta i vestiti, dalla paura che ha dei ladri. » « Capo » diceva il ragazzo « ho saputo che domani pas- sano due carri di roba buona, tutta roba da mangiare, cosa ne dici, capo? » « Davvero? » faceva Planetta « roba da mangiare? » e la- sciava cadere la cosa, come se non fosse degna di lui. « Capo » diceva il ragazzo « domani c'e la festa al paese, c'e un mucchio di gente che gira, passeranno tante car- rozze, molti torneranno anche di nGtte. Ncn ci sarebbe da far qualcosa? » « Quando c'e gente » rispondeva Planetta « e meglio la- sciar stare. Quando c'e la festa vanno attorno i gendarmi. Non val la pena di fidarsi. E proprio in quel giorno che mi hanno preso. » « Capo » diceva dopo alcuni giorni il ragazzo « di' la ve- rit`a, tu hai qualcosa. Non hai piú voglia di muoverti. Nem- meno piú a caccia vuoi venire. I compagni non li vuoi vedere. Tu devi essere malato, anche ieri dovevi avere la febbre, stai sempre attaccato al fuoco. Perché non mi parli chiaro? » « Puo darsi che io non stia bene » faceva Planetta sorri- dendo « ma non e come tu pensi. Se vuoi proprio che te lo dica, dopo almeno mi lascerai tranquillo, e cretino sfac- chinare per mettere insieme qualche marengo. Se mi muo- vo, voglio che valga la fatica. Bene, ho deciso, cosí per dire, di aspettare il Gran Convoglio. » Voleva dire il Grande Convoglio che una volta all'an- no, precisamente il 12 settembre, portava alla Capitale un carico d'oro, tutte le tasse delle provincie del sud. Avan- zava tra suoni di corni, lungo la strada maestra, tra lo scal- pitare della guardia armata. Il Grande Convoglio imperiale, con il grande carro di ferro, tutto pieno di monete, chiuse in tanti sacchetti. I briganti lo sognavano nelle notti buone, ma da cent'anni nessuno era riuscito impunemente ad as- saltarlo. Tredici briganti erano morti, venti ficcati in pri- "gione. Nessuno osava pensarci piú; d'anno in anno poi il" provento delle tasse cresceva e si aumentava la scorta ar- mata. Cavalleggeri davanti e di dietro, pattuglie a cavallo di fianco, armati i cocchieri, i cavallanti e i servi. Precedeva una specie di staffetta, con tromba e bandiera. A una certa distanza seguivano ventiquattro cavalleggeri, con schioppi, pistole e spadoni. Poi veniva il carro di ferro, con lo stemma imperiale in rilievo, tirato da sedici cavalli. Ventiquattro cavalleggeri, anche dietro, dodici altri dalle due parti. Centomila ducati d'oro, mille once d'argento, ri- senati alla cassa imperiale. Dentro e fuori per le valli il favoloso convoglio passava a galoppo serrato. Luca Toro, cent'anni prima, aveva avuto il coraggio di assaltarlo e gli era andata miracolosamente bene. Era quella la prima volta: la scorta aveva preso pau- ra. Luca Toro era poi fuggito in Oriente e si era messo a fare il signore. A distanza di parecchi anni, anche altri briganti avevano tentato: Giovanni Borso, per dire solo alcuni, il Tedesco, Sergio dei Topi, il Conte e il Capo dei trentotto. Tutti, · al mattino dopo, distesi al bordo della strada, con la testa spaccata. « Il Gran Convoglio? Vuoi rischiarti sul serio? » doman- do il ragazzo meravigliato. « Sí certo, voglio rischiarla. Se riesce, sono a posto per sempre. » Cosí disse Gaspare Planetta, ma in cuor suo non ci pen- sava nemmeno. Sarebbe stata un'assoluta follia, anche a essere una ventina, attaccare il Gran Convoglio. Figurarsi poi da solo. L'aveva detto cosí per scherzare, ma il ragazzo lo prese sul serio e guardo Planetta con ammirazione. · «Dimmi » fece il ragazzo « e quanti sarete? » «Una quindicina almeno, saremo. » « E quando ? » « C'e tempo » rispose Planetta « bisogna che lo domandi ai compagni. Non c'e mica tanto da scherzare. » Ma i giorni, come avviene, non fecero fatica a passare e i boschi cominciarono a diventar rossi. Il ragazzo aspet- tava con impazienza. Planetta gli lasciava credere e nelle lunghe sere, passate vicino al fuoco, discuteva del grande progetto e ci si divertiva anche lui. In qualche momento perfino pensava che tutto potesse essere anche vero. L'l 1 settembre, alla vigilia, il ragazzo stette in giro fino a notte. Quando torno aveva una faccia scura. « Cosa c'e? » domando Planetta, seduto al solito davanti al fuoco. « C'e che finalmente ho incontrato i tuoi compagni. » Ci fu un lungo silenzio e si sentirono gli scoppiettii del fuoco. Si udí pure la voce del vento che fuori soffiava nelle boscaglie. « E allora » disse alla fine Planetta con una voce che vo- leva sembrare scherzosa. « Ti hanno detto tutto, cosí per dire? » « Sicuro » rispose il ragazzo. « Proprio tutto mi hanno detto. » « Bene » soggiunse Planetta, e si fece ancora silenzio nel- la stanza piena di fumo, in cui c'era solo la luce del fuoco. « Mi hanno detto di andare con loro » oso alla fine il ragazzo. « Mi hanno detto che c'e molto da fare. » « Si capisce » approvo Planetta « saresti stupido a non andare. » « Capo » domando allora Pietro con voce vicina al pianto « perché non dirmi la verit`a, perché tutte quelle storie? » « Che storie? » ribatté Planetta che faceva ogni sforzo per mantenere il suo solito tono allegro. « Che storie ti ho mai contato? Ti ho lasciato credere, ecco tutto. Non ti ho voluto disingannare. Ecco tutto, cosí per dire. » « Non e vero » disse il ragazzo. « Tu mi hai tenuto qui con delle promesse e lo facevi solo per sfottermi. Domani, lo sai bene... » « Che cosa domani? » chiese Planetta, ritornato nuova- mente tranquillo. « Vuoi dire del Gran Convoglio? » « Ecco, e io fesso a crederti » brontolo irritato il ragazzo. « Del resto, lo potevo ben capire, malato come sei, non so cosa avresti potuto... » Tacque per qualche secondo, poi concluse a bassa voce: « Domani allora me ne vado ». Ma all'indomani fu Planetta ad alzarsi per primo. Si levo senza svegliare il ragazzo, si vestí in fretta e prese il fu- cile. Solo quando egli fu sulla soglia, Pietro si desto. «Capo » gli domando, chiamandolo cosí per l'abitudine «dove vai a quest'ora, si puo sapere?» « Si puo sapere, sissignore » rispose Planetta sorridendo. «Vado ad aspettare il Gran Convoglio. » Il ragazzo, senza rispondere, si volto dall'altra parte del letto, come per dire che di quelle stupide storie era stufo. Eppure non erano storie. Planetta, per mantenere la pro- messa, anche se fatta per scherzo, Planetta, ora che era ri- masto solo, ando ad assalire il Gran Convoglio. I compagni l'avevano abbastanza sfottuto. Che almeno fosse quel ragazzo a sapere chi era Gaspare Planetta. Ma no, neanche di quel ragazzo gliene importava. Lo faceva in fondo per sé, per sentirsi quello di prima, sia pure per l'ultima volta. Non ci sarebbe stato nessuno a vederlo, "forse nessuno a saperlo mai, se rimaneva subito ucciso;" ma questo non aveva importanza. Era una questione per- sonale, con l'antico potente Planetta. Una specie di scom- messa, per un'impresa disperata. Pietro lascio che Planetta se n'andasse. Ma piú tardi gli nacque un dubbio: che Planetta andasse davvero all'as- salto ? Era un dubbio debole e assurdo, eppure Pietro si alzo e uscí alla ricerca. Parecchie volte Planetta gli aveva mostratO il posto buono per aspettare il Convoglio. Sa- rebbe andato l`a a vedere. Il giorno era gi`a nato, ma lunghe nubi temporalesche si stendevano attraverso il cielo. La luce era chiara e gri- gia. Ogni tanto qualche uccello cantava. Negli intervalli si udiva il silenzio. Pietro corse giú per le boscaglie, verso il fondo della valle dove passava la strada maestra. Procedeva guardingo tra i cespugli in direzione di un gruppo di castagni, dove Planetta avrebbe dovuto trovarsi. Planetta infatti c'era, appiattato dietro a un tronco e si era fatto un piccolo parapetto di erbe e rami, per esser slcuro che non lo potessero vedere. Era sopra una specie di gobba che dominava una brusca svolta della strada: un tratto in forte salita dove i cavalli erano costretti a rallen- tare. Percio si sarebbe potuto sparare bene. Il ragazzo guardo giú in fondo la pianura del sud, che si perdeva nell'infinito, tagliata in due dalla strada. Vide in fondo un polverone che si muoveva. Il polverone che si muoveva, avanzando lungo la stra- da, era la polvere del Gran Convoglio. Planetta stava collocando il fucile con la massima flem- ma quando udí qualcosa agitarsi vicino a lui. Si volto e vide il ragazzo appiattato con il fucile proprio all'albero vicino. « Capo » disse ansando il ragazzo « Planetta, vieni via. Sei diventato pazzo ? » « Zitto » rispose sorridendo Planetta « finora pazzo non lo sono. Torna via immediatamente. » « Sei pazzo, ti dico, Planetta, tu aspetti che vengano i tuoi compagni, ma non verranno, me l'hanno detto, non se la sognano neppure. » « Verrannoperdio se verranno, e questione d'aspettare un poco. un po' la loro mania di arrivare sempre in rltardo. » - « Planetta » supplico il ragazzo « fammi il piacere, vieni via. Ieri sera scherzavo, io non ti voglio lasciare. » « Lo so, I'avevo capito » rise bonariamente Planetta. « Ma adesso basta, va via, ti dico, fa presto, che questo non e un posto per te. » « Planetta » insisté il ragazo. « Non vedi che e una paz- zia? Non vedi quanti sono? Cosa vuoi fare da solo? » « Perdio, vattene » grido con voce repressa Planetta, fi- nalmente andato in bestia. « Non ti accorgi che cosí mi rovlm? » In quel momento si cominciavano a distinguere, in fon- do alla strada maestra, i cavalleggeri del Gran Convoglio, il carro, la bandiera. « Vattene, per l'ultima volta » ripeté furioso Planetta. E il ragazzo finalmente si mosse, si ritrasse strisciando tra i cespugli, fino a che disparve. Planetta udí allora lo scalpitío dei cavalli, diede un'oc- chiata alle grandi nubi di piombo che stavano per crepare, vide tre quattro corvi nel cielo. Il Gran Convoglio ormai rallentava, iniziando la salita. Planetta aveva il dito al grilletto, ed ecco si accorse che il ragazzo era tornato strisciando, appostandosi nuovamente dietro l'albero. « Hai visto ? » sussurro Pietro « hai visto che non sono venuti ? » « Canaglia » mormoro Planetta, con un represso sorriso, ` senza muovere neppure la testa. « Canaglia, adesso sta fer- mo, e troppo tardi per muoversi, attento che incomincia il bello. » Trecento, duecento metri, il Gran Convoglio si avvici- nava. Gi`a si distingueva il grande stemma in rilievo sui fianchi del prezioso carro, si udivano le voci dei cavalleg- geri che discorrevano tra loro. Ma qui il ragazzo ebbe finalmente paura. Capí che era una impresa pazza, da cui era impossibile venir fuori. « Hai visto che non sono venuti ? » sussurro con accento disperato. « Per carit`a, non sparare. » Ma Planetta non si commosse. « Attento » mormoro allegramente, come se non avesse sentito. « Signori, qui si incomincia. » Planetta aggiusto la mira, la sua formidabile mira, che non poteva sbagliare. Ma in quell'istante, dal fianco op- posto della valle, risuono secca una fucilata. « Cacciatori! » commento Planetta scherzoso, mentre si allargava una terribile eco « cacciatori! niente paura. Anzi, meglio, far`a confusione. » Ma non erano cacciatori. Gaspare Planetta sentí di fianco a sé un gemito. Volto la faccia e vide il ragazzo che aveva lasciato il fucile e si abbandonava riverso per terra. « Mi hanno beccato! » si lamento « oh mamma! » Non erano stati cacciatori a sparare, ma i cavalleggeri di scorta al Convoglio, incaricati di precedere il carriaggio, disperdendosi lungo i fianchi della valle, per sventare in- sidie. Erano tutti tiratori scelti, selezionati nelle gare. Ave- vano fucili di precisione. Mentre scrutava il bosco, uno dei cavalleggeri aveva vi- sto il ragazzo muoversi tra le piante. L'aveva visto poi stendersi a terra, aveva finalmente scorto anche il vecchio brigante. Planetta lascio andare una bestemmia. Si alzo con pre- cauzione in ginocchio, per soccorrere il compagno. Crepi- to una seconda fucilata. La palla partí diritta, attraverso la piccola valle, sotto alle nubi tempestose, poi comincio ad abbassarsi, secondo le "leggi dclla traiettoria. Era stata spedita alla testa; entro in-" vece dentro al petto, passando vicino al cuore. Planetta cadde di colpo. Si fece un grande silenzio, co- me egli nGn aveva mai udito. Il Gran Convoglio si era fermato. Il temporale non si decideva a venire. I corvi era- no l`a nel cielo. Tutti stavano in attesa. L'ASSALTO AL GRANDE CONVOGLIO Il ragazzo volto la testa e sorrise: « Avevi ragione » bal- betto. « Sono venuti, i compagni. Li hai visti, capo? » Planetta non riuscí a rispondere ma con un supremo sforzo volse lo sguardo dalla parte indicata. Dietro a loro, in una radura del bosco, erano apparsi una trentina di cavalieri, con il fucile a tracolla. Sembra- vano diafani come una nube, eppure spiccavano nettamen- te sul fondo scuro della foresta. Si sarebbero detti briganti, dall'assurdit`a delle divise e dalle loro facce spavalde. Planetta infatti li riconobbe. Erano proprio gli antichi compagni, erano i briganti morti, che venivano a pren- derlo. Facce spaccate dal sole, lunghe cicatrici di traverso, orribili baffoni da generale, barbe strappate dal vento, oc- chi duri e chiarissimi, le mani sui fianchi, inverosimili spe- roni, grandi bottoni dorati, facce oneste e simpatiche, im- polverate dalle battaglie. Ecco l`a il buon Paolo, lento di comprendonio, ucciso all'assalto del Mulino. Ecco Pietro del Ferro, che non ave- va mai saputo cavalcare, ecco Giorgio Pertica, ecco Fre- diano, crepato di freddo, tutti i buoni vecchi compagni, visti ad uno ad uno morire. E quell'omaccione coi grandi baffi e il fucile lungo come lui, su per quel magro ca- vallo bianco, non era il Conte, il famigerato capo, pure lui caduto per il Gran Convoglio? Sí, era proprio lui. Il Conte, col volto luminoso di cordialit`a e straordinaria sod- disfazione. E si sbagliava Planetta oppure l'ultimo a sini- stra, che se ne stava diritto e superbo, si sbagliava Pla- netta o non era Marco Grande in persona, il piú famoso degli antichi capi ? Marco Grande impiccato nella Capi- tale, alla presenza dell'imperatore e di quattro reggimenti in armi ? Marco Grande che cinquant'anni dopo nomina- vano ancora a bassa voce ? Precisamente lui era, anch'egli ptesente per onorare Planetta, I'ultimo capo sfortunato e prode. I briganti morti se ne stavano silenziosi, evidentemente commossi, ma pieni di una comune letizia. Aspettavano che Planetta si movesse. Infatti Planetta, cosí come il ragazo si levo ritto da terra, non piú in carne ed ossa come prima, ma diafano al pari degli altri e pure identico a se stesso. Gettato uno sguardo al suo povero corpo, che giaceva raggomitolato al suolo, Gaspare Planetta fece un'alzata di spalle come per dire a se stesso che se ne fregava e uscí nella radura, ormai indifferente alle possibili schioppettate. Si avanzo verso gli antichi compagni e si sentí invadere da contentezza. Stava per cominciare i saluti individualmente, quando noto che proprio in prima hla c'era un cavallo perfetta- mente sellato ma senza cavaliere. Istintivamente si avanzo sorridendo. « Cosí per dire » esclamo, meravigliandosi per il tono stranissimo della sua nuova voce. « Cosí per dire non sa- rebbe questo il mio Pol`ak, piú in gamba che mai? » Era davvero Pol`ak, il suo caro cavallo, e riconoscendo il padrone mando una specie di nitrito, bisogna dire cosí perché quella dei cavalli morti e una voce piú dolce di quella che noi conosciamo. Planetta gli diede due tre manate affettuose e gi`a pre- gusto la bellezza della prossima cavalcata, insieme ai fedeli amici, via verso il regno dei briganti morti ch'egli non conosceva ma ch'era legittimo immaginare pieno di sole, dentro a un'aria di primavera, con lunghe strade bianche senza polvere che conducevano a miracolose avventure. Appoggiata la sinistra al colmo della sella, come accin- gendosi a balzare in groppa, Gaspare Planetta disse: « Grazie, ragazzi miei » disse, stentando a non lasciarsi vincere dalla commozione. « Vi giuro che... » Qui s'interruppe perché si era ricordato del ragazzo, il quale, pure lui in forma di ombra, se ne stava in disparte, in atteggiamento d'attesa, con l'imbarazzo che si ha in com- pagnia di persone appena conosciute. « Ah, scusa » disse Planetta. « Ecco qua un bravo com- pagno » aggiunse rivolto ai briganti morti. « Aveva appena diciassett'anni, sarebbe stato un uomo in gamba. » I briganti, tutti chi piú chi meno sorridendo, abbassaro- no leggermente la testa, come per dare il benvenuto. Planetta tacque e si guardo attorno indeciso. Cosa do- veva fare ? Cavalcare via coi compagni, piantando il ra- gazzo solo? Planetta diede altre due tre manate al cavallo, tossicchio furbescamente, poi disse al ragazzo: « Be' avanti, salta su te. E giusto che sia tu a divertirti. Avanti, avanti, poche storie » aggiunse poi con finta se- verit`a vedendo che il ragazzo non osava accettare. « Se proprio vuoi... » esclamo infine, il ragazzo, eviden- temente lusingato. E con un'agilit`a che egli stesso non a- vrebbe mai preveduto, poco pratico come era stato fino allora di equitazione, il ragazzo fu di colpo in sella. I briganti agitarono i cappelli, salutando Gaspare Pla- netta, qualcuno strizzo benevolmente un occhio, come per dire arrivederci. Tutti diedero di sprone ai cavalli e parti- rono di galoppo. Partirono come schioppettate, allontanandosi tra le pian- te. Era meraviglioso come essi si gettassero negli intrichi del bosco e li attraversassero senza rallentare. I cavalli te- nevano un galoppo soffice e bello a vedere. Anche da lon- tano, qualcuno dei briganti e il ragazzo agitarono ancora il cappello. Planetta, rimasto solo, diede un'occhiata circolare alla valle. Sogguardo, ma appena con la coda dell'occhio, I'or- mai inutile corpo di Planetta che giaceva ai piedi dell'al- bero. Diresse quindi gli sguardi alla strada. Il Convoglio era ancora fermo, al di l`a della curva e percio non era visibile. Sulla strada c'erano soltanto sei o "sette cavalleggeri della scorta; erano fermi e guardavano" verso Planetta. Benché possa apparire incredibile, essi ave- vano potuto vedere la scena: I'ombra dei briganti morti, i saluti, la cavalcata. In certi giorni di settembre, sotto alle nuvole temporalesche, non e poi detto che certe cose non pcssano avvenire. Quando Planetta, rimasto solo, si volto, il capo di quel drappello si accorse di essere guardato. Allora drizzo il busto e saluto militarmente, come si saluta tra soldati. Planetta si tocco la falda del cappello, con un gesto molto confidenziale ma pieno di bonomia increspando le labbra a un sorriso. Poi diede un'altra alzata di spalle, la seconda della gior- nata. Fece perno sulla gamba sinistra, volto le spalle ai cavalleggeri, sprofondo le mani nelle tasche e se n'ando fischlettando, fischiettando, sissignori, una marcetta milita- re. Se n'ando nella direzione in cui erano spariti i com- pagni, verso il regno dei briganti morti ch'egli non cono- sceva ma ch'era lecito supporre migliore di questo. I cavalleggeri lo videro farsi sempre piú piccolo e dia- "fano; aveva un passo leggero e veloce che contrastava con" la sua sagoma ormai di vecchietto, un'andatura da festa quale hanno solo gii uomini sui vent'anni quando sono felici. SETTE PIANI Dopo un giorno di viaggio in treno, Giuseppe Corte arrivo, una mattina di marzo, alla citt`a dove c'era la famosa casa di cura. Aveva un po' di febbre, ma volle fare ugualmente a piedi la strada fra la stazione e l'ospedale, portandosi la sua valigetta. Benché avesse soltanto una leggerissima forma incipiente, Giuseppe Corte era stato consigliato di rivolgersi al cele- bre sanatorio, dove non si curava che quell'unica malattia. Cio garantiva un'eccezionale competenza nei medici e la piú razionale ed efficace sistemazione d'impianti. Quando lo scorse da lontano - e lo riconobbe per averne gi`a visto la fotografia in una circolare pubblicitaria - Giu- seppe Corte ebbe un'ottima impressione. Il bianco edificio a sette piani era solcato da regolari rientranze che gli da- vano una fisonomia vaga d'albergo. Tutt'attorno era una cinta di alti alberi. Dopo una sommaria visita medica, in attesa di un esame piú accurato Giuseppe Corte fu messo in una gaia camera del settimo ed ultimo piano. I mobili erano chiari e lindi come la tappezzeria, le poltrone erano di legno, i cuscini rivestiti di policrome stoffe. La vista spaziava su uno dei piú bei quartieri della citt`a. Tutto era tranquillo, ospitale e rassicurante. Giuseppe Corte si mise subito a letto e, accesa la lam- padina sopra il capezzale, comincio a leggere un libro che aveva portato con sé. Poco dopo entro un'infermiera per chiedergli se desiderasse qualcosa. Giuseppe Corte non desiderava nulla ma si mise volen- - r tieri a discorrere con la giovane, chiedendo informazioni sulla casa di cura. Seppe cosí la strana caratteristica di quel- I'ospedale. I malati erano distribuiti piano per piano a se- conda della gravit`a. Il settimo, cioe l'ultimo, era per le for- me leggerissime. Il sesto era destinato ai malati non gravi ma neppure da trascurare. Al quinto si curavano gi`a affe- zioni serie e cosí di seguito, di piano in piano. Al secondo erano i malati gravissimi. Al primo quelli per cui era inu- tile sperare. Questo singolare sistema, oltre a sveltire grandemente il servizio, impediva che un malato leggero potesse venir tur- bato dalla vicinanza di un collega in agonia, e garantiva in ogni piano un'atmosfera omogenea. D'altra parte la cura poteva venir cosí graduata in modo perfetto. Ne derivava che gli ammalati erano divisi in sette pro- gressive caste. Ogni piano era come un piccolo mondo a sé, con le sue particolari regole, con le sue speciali tradi- zioni. E siccome ogni settore era affidato a un medico di- verso, si erano formate, sia pure minime, ma precise diffe- renze nei metodi di cura, nonostante il direttore generale avesse impresso all'istituto un unico fondamentale indirizzo. Quando l'infermiera fu uscita, Giuseppe Corte, sembran- dogli che la febbre fosse scomparsa, raggiunse la finestra e guardo fuori, non per osservare il panorama della citt`a, che pure era nuova per lui, ma nella speranza di scorgere, attra- verso le finestre, altri ammalati dei piani inferiori. La strut- tura dell'edificio, a grandi rientranze, permetteva tale gene- re di osservazione. Soprattutto Giuseppe Corte concentro la sua attenzione sulle finestre del primo piano che sembravano lontanissime, e che si scorge- ano solo di sbieco. Ma non pote vedere nulla di interessante. Nella maggioranza erano ermeticamente sprangate dalle grigie persiane scorrevoli. Il Corte si accorse che a una finestra di fianco alla sua stava affacciato un uomo. I due si guardarono a lungo con crescente simpatia, ma non sapevano come rompere il silen- zio. Finalmente Giuseppe Corte si fece coraggio e disse: « Anche lei sta qui da poco ? ». « Oh no » fece l'altro « sono qui gi`a da due mesi... » tacque qualche istante e poi, non sapendo come continuare la conversazione, aggiunse: « Guardavo giú mio fratello ». « Suo fratello ? » « Sí » spiego lo sconosciuto. « Siamo entrati insieme, un caso veramente strano, ma lui e andato peggiorando, pensi che adesso e gi`a al quarto. » « Al quarto che cosa? » « Al quarto piano » spiego l'individuo e pronuncio le due parole con una tale espressione di commiserazione e di or- rore, che Giuseppe Corte resto quasi spaventato. « Ma son cosí gravi al quarto piano? » domando cauta- mente. « Oh Dio » fece l'altro scuotendo lentamente la testa « non sono ancora cosí disperati, ma c'e comunque poco da stare allegri. » « Ma allora » chiese ancora il Corte, con una scherzosa disinvoltura come di chi accenna a cose tragiche che non lo riguardano « allora, se al quarto sono gi`a cosí gravi, al pri- mo chi mettono allora? » « Oh, al primo sono proprio i moribondi. Laggiú i me- dici non hanno piú niente da fare. C'e solo il prete che la- vora. E naturalmente... » « Ma ce n'e pochi al primo piano » interruppe Giuseppe Corte, come se gli premesse di avere una conferma « quasi tutte le stanze sono chiuse laggiú. » « Ce n'e pochi, adesso, ma stamattina ce n'erano parec- chi » rispose lo sconosciuto cvn un sottile sorriso. « Dove le persiane sono abbassate l`a qualcuno e morto da poco. Non vede, del resto, che negli altri piani tutte le imposte sono aperte? Ma ni scusi » aggiunse ritraendosi lentamen- te « mi pare che cominci a far freddo. Io ritorno in letto. Auguri, auguri... » L'uomo scomparve dal davanzale e la finestra venne chiu- "sa con energia; poi si vide accendersi dentro una luce. Giu-" seppe Corte se ne stette ancora immobile alla finestra fissan- do le persiane abbassate del primo piano. Le fissava con un'intensit`a morbosa, cercando di immaginare i funebri se- greti di quel terribile primo piano dove gli ammalati veni- "vano confinati a morire; e si sentiva sollevato di sapersene" cosí lontano. Sulla citt`a scendevano intanto le ombre della sera. Ad una ad una le mille finestre del sanatorio si illumi- navano, da lontano si sarebbe potuto pensare a un palazzo in festa. Solo al primo piano, laggiú in fondo al precipi- zio, dffine e decine di finestre rimanevano cieche e buie. Il risultato della visita medica generale rassereno Giu- seppe Corte. Incline di solito a prevedere il peggio, egli si era gi`a in cuor suo preparato a un verdetto severo e non sarebbe rimasto sorpreso se il medico gli avesse dichiarato di doverlo assegnare al piano inferiore. La febbre infatti non accennava a scomparire, nonostante le condizioni gene- rali si mantenessero buone. Invece il sanitario gli rivolse pa- role cordiali e incoraggianti. Un principio di male c'era - "gli disse - ma leggerissimo; in due o tre settimane proba-" bilmente tutto sarebbe passato. « E allora resto al settimo piano? » aveva domandato an- siosamente Giuseppe Corte a questo punto. « Ma naturalmente! » gli aveva risposto il medico batten- dogli amichevolmente una mano su una spalla. « E dove pensava di dover andare? Al quarto forse? » chiese riden- do, come per alludere alla ipotesi piú assurda. « Meglio cosí, meglio cosí » fece il Corte. « Sa? Quando si e ammalati si immagina sempre il peggio... » Giuseppe Corte infatti rimase nella stanza che gli era sta- ta assegnata originariamente. Imparo a conoscere alcuni dei suoi compagni di ospedale, nei rari pomeriggi in cui gli ve- niva concesso d'alzarsi. Seguí scrupolosamente la cura, mise tutto l'impegno a guarire rapidamente, ma ciononostante le sue condizioni pareva rimanessero stazionarie. Erano passati circa dieci giorni, quando a Giuseppe Corte si presento il capo-infermiere del settimo piano. Aveva da chiedere un favore in via puramente amichevole: il giorno dopo doveva entrare all'ospedale una signora con due bam- "bini; due camere erano libere, proprio di fianco alla sua," "ma mancava la terza; non avrebbe consentito il signor Cor-" te a trasferirsi in un'altra camera, altrettanto confortevole? " Giuseppe Corte non fece naturalmente nessuna diffcolt`a;" "una camera o un'altra per lui erano lo stesso; gli sarebbe" anzi toccata forse una nuova e piú graziosa infermiera. « La ringrazio di cuore » fece allora il capo-infermiere "con un leggero inchino; « da una persona come lei le con-" fesso non mi stupisce un cosí gentile atto di cavalleria. Fra un'ora, se lei non ha nulla in contrario, procederemo al tra- sloco. Guardi che bisogna scendere al piano di sotto » ag- giunse con voce attenuata come se si trattasse di un parti- colare assolutamente trascurabile. « Purtroppo in questo pia- no non ci sono altre camere libere. Ma e una sistemazione assolutamente provvisoria » si affretto a specificare vedendo che Corte, rialzatosi di colpo a sedere, stava per aprir bocca in atto di protesta « una sistemazione assolutamente provvi- soria. Appena rester`a libera una stanza, e credo che sar`a fra due o tre giorni, lei potr`a tornare di sopra. » « Le confesso » disse Giuseppe Corte sorridendo, per di- mostrare di non essere un bambino « le confesso che un tra- sloco di questo genere non mi piace affatto. » " «Ma non ha alcun motivo medico questo trasloco; capi-" sco benissimo quello che lei intende dire, si tratta unica- mente di una cortesia a questa signora che preferisce non rimaner separata dai suoi bambini... Per carit`a » aggiunse ridendo apertamente « non le venga neppure in mente che ci siano altre ragioni ! » « Sar`a » disse Giuseppe Corte « ma mi sembra di cattivo augurio. » Il Corte cosí passo al sesto piano, e sebbene fosse con- vinto che questo trasloco non corrispondesse a un peggiora- mento del male, si sentiva a disagio al pensiero che tra lui e il mondo normale, della gente sana, gi`a si frapponesse un netto ostacolo. Al settimo piano, porto d'arrivo, si era in un certo modo ancora in contatto con il consorzio degli uo- "mini; esso si poteva anzi considerare quasi un prolunga-" mento del mondo abituale. Ma al sesto gi`a si entrava nel "corpo autentico dell'ospedale; gi`a la mentalit`a dei medici" delle infermiere e degli stessi ammalati era leggermente di- versa. Gi`a si ammetteva che a quel piano venivano accolti dei veri e propri ammalati, sia pure in forma non grave. Dai primi discorsi fatti con i vicini di stanza, con il per- sonale e con i sanitari, Giuseppe Corte si accorse come in quel reparto il settimo piano venisse considerato come uno scherzo, riservato ad ammalati dilettanti, affetti piú che altro "da fisime; solo dal sesto, per cosí dire, si cominciava dav-" vero. Comunque Giuseppe Corte capí che per tornare di sopra al posto che gli competeva per le caratteristiche del suo ma- "le, avrebbe certamente incontrato qualche difficolt`a; per tor-" nare al settimo piano, egli doveva mettere in moto un com- "plesso orgamsmo, sia pure per un minimo sforzo; non c'era" dubbio che se egli non avesse fiatato, nessuno avrebbe pen- "sato a trasferirlo di nuovo al piano superiore dei ""quasi-" "sani""." Giuseppe Corte si propose percio di non transigere sui suoi diritti e di non cedere alle lusinghe dell'abitudine. Ai compagni di reparto teneva molto a specificare di trovarsi con loro soltanto per pochi giorni, ch'era stato lui a voler scendere d'un piano per fare un piacere a una signora, e che appena fosse rimasta libera una stanza sarebbe tornato di sopra. Gli altri lo ascoltavano senza interesse e annuiva- no con scarsa convinzione. Il convincimento di Giuseppe Corte trovo piena confer- ma nel giudizio del nuovo medico. Anche questi ammetteva che Giuseppe Corte poteva benissimo essere assegnato al set- "timo piano; la sua forma era as-so-lu-ta-men-te leg-ge-ra -" e scandiva tale definizione per darle importanza - ma in fon- do riteneva che al sesto piano Giuseppe Corte forse potesse essere meglio curato. « Non cominciamo con queste storie » interveniva a que- sto punto il malato con decisione « lei mi ha detto che il "settimo piano e il mio posto; e voglio ritornarci. »" « Nessuno ha detto il contrario » ribatteva il dottore « il mio era un puro e semplice consiglio non da dot-to-re, ma da ! La sua forma, le ripeto, e leggeris- sima, non sarebbe esagerato dire che lei non e nemmeno ammalato, ma secondo me si distingue da forme analoghe per una certa maggiore estensione. Mi spiego: L'intensit`a "del male e minima, ma considerevole l'ampiezza; il proces-" so distruttivo delle cellule » era la prima volta che Giusep- pe Corte sentiva l`a dentro quella sinistra espressione « il processo distruttivo delle cellule e assolutamente agli inizi, forse non e neppure cominciato, ma tende, dico solo tende, a colpire contemporaneamente vaste porzioni dell'organismo. Solo per questo, secondo me, lei puo essere curato piú efffi- cacemente qui, al sesto, dove i metodi terapeutici sono piú tipici ed intensi. » Un giorno gli fu riferito che il direttore generale della casa di cura, dopo essersi lungamente consultato con i suoi collaboratoriaveva deciso un mutamento nella suddivisione dei malati. Il grado di ciascuno di essi - per cosí dire - ve- niva ribassato di un mezzo punto. Ammettendosi che in ogni piano gli ammalati fossero divisi, a seconda della loro gra- vit`a, in due categorie, (questa suddivisione veniva effettiva- mente fatta dai rispettivi medici, ma ad uso esclusivamente interno) L'inferiore di queste due met`a veniva d'uffficio tra- slocata a un piano piú basso. Ad esempio, la met`a degli ammalati del sesto piano, quelli con forme leggermente piú "avanzate, dovevano passare al quinto; e i meno leggeri del" settimo passare al sesto. La notizia fece piacere a Giuseppe Corte, perché in un cosí complesso quadro di traslochi, il suo ritorno al settimo piano sarebbe riuscito assai piú facile. Quando accenno a questa sua speranza con l'infermiera egli ebbe pero un'amara sorpresa. Seppe cioe che egli sa- rebbe stato traslocato, ma non al settimo bensí al piano di sotto. Per motivi che l'infermiera non sapeva spiegargli, egli "era stato compreso nella met`a piú ""grave"" degli ospiti del" sesto piano e doveva percio scendere al quinto. Passata la prima sorpresa, Giuseppe Corte ando in furo- "re; grido che lo truffavano, che non voleva sentir parlare di" altri traslochi in basso, che se ne sarebbe tornato a casa, che i diritti erano diritti e che l'amministrazione dell'ospedale non poteva trascurare cosí sfacciatamente le diagnosi dei sa- nitari. Mentre egli ancora gridava arrivo il medico per tranquil- lizzarlo. Consiglio al Corte di calmarsi se non avesse voluto veder salire la febbre, gli spiego che era successo un malin- teso, almeno parziale. Ammise ancora una volta che Giu- seppe Corte sarebbe stato al suo giusto posto se lo avessero messo al settimo piano, ma aggiunse di avere sul suo ca- so un concetto leggermente diverso, se pure personalissi- mo. In fondo in fondo la sua malattia poteva, in un certo senso s'intende, essere anche considerata di sesto grado, data l'ampiezza delle manifestazioni morbose. Lui stesso pero non riusciva a spiegarsi come il Corte fosse stato catalogato nel- la met`a inferiore del sesto piano. Probabilmente il segreta- rio della direzione, che proprio quella mattina gli aveva te- lefonato chiedendo l'esatta posizione clinica di Giuseppe Corte, si era sbagliato nel trascrivere. O meglio la direzio- "ne aveva di proposito leggermente ""peggiorato"" il suo giu-" dizio, essendo egli ritenuto un medico esperto ma troppo indulgente. Il dottore infine consigliava il Corte a non in- "quietarsi, a subire senza proteste il trasferimento; quello che" contava era la malattia, non il posto in cui veniva collocato un malato. Per quanto si riferiva alla cura - aggiunse ancora il me- dico - Giuseppe Corte non avrebbe poi avuto da rammari- "carsi; il medico del piano di sotto aveva certo piú esperien-" "za; era quasi dogmatico che l'abilit`a dei dottori andasse cre-" scendo, almeno a giudizio della direzione, man mano che si scendeva. La camera era altrettanto comoda ed elegante. La vista ugualmente spaziosa: solo dal terzo piano in giú la visuale era tagliata dagli alberi di cinta. Giuseppe Corte, in preda alla febbre serale, ascoltava ascoltava le meticolose giustificazioni con una progressiva stanchezza. Alla fine si accorse che gli mancavano la forza e soprattutto la voglia di reagire ulteriormente all'ingiusto trasloco. E senza altre proteste si lascio portare al piano di sotto. L'unica, benché povera, consolazione di Giuseppe Corte, una volta che si trovo al quinto piano, fu di sapere che per giudizio concorde di medici, di infermieri e ammalati, egli era in quel reparto il meno grave di tutti. Nell'ambito di quel piano insomma egli poteva considerarsi di gran lunga il piú fortunato. Ma d'altra parte lo tormentava il pensiero che oramai ben due barriere si frapponevano fra lui e il mondo della gente normale. Procedendo la primavera, L'aria intanto si faceva piú te- pida, ma Giuseppe Corte non amava piú come nei primi "giorni affacciarsi alla finestra; benché un simile timore fosse" una pura sciocchezza, egli si sentiva rimescolare tutto da uno strano brivido alla vista delle finestre del primo piano, sempre nella maggioranza chiuse, che si erano fatte assai piú vicine. Il suo male sembrava stazionario. Dopo tre giorni di per- manenza al quinto piano, si manifesto anzi sulla gamba de- stra una specie di eczema che non accenno a riassorbirsi nei giorni successivi. Era un'affezione - gli disse il medico - "assolutamente indipendente dal male principale; un disturbo" che poteva capitare alla persona piú sana del mondo. Ci sa- rebbe voluta, per eliminarlo in pochi giorni, una intensa cura di raggi digamma. « E non si possono avere qui i raggi digamma? » chiese Giuseppe Corte. « Certamente » rispose compiaciuto il medico « il nostro ospedale dispone di tutto. C'e un solo inconveniente... » « Che cosa? » fece il Corte con un vago presentimento. « Inconveniente per modo di dire » si corresse il dotto- re « volevo dire che l'installazione per i raggi si trova sol- tanto al quarto piano e io le sconsiglierei di fare tre volte al giorno un simile tragitto. » « E allora niente ? » « Allora sarebbe meglio che fino a che l'espulsione non sia passata lei avesse la compiacenza di scendere al quarto. » « Basta ! » urlo allora esasperato Giuseppe Corte. « Ne ho gi`a abbastanza di scendere! Dovessi crepare, al quarto non ci vado ! » « Come lei crede » fece conciliante il medico per non ir- ritarlo « ma come medico curante, badi che le proibisco di andar da basso tre volte al giorno. » Il brutto fu che l'eczema, invece di attenuarsi, ando len- tamente ampliandosi. Giuseppe Corte non riusciva a trovare requie e continuava a rivoltarsi nel letto. Duro cosí, rabbio- so, per tre giorni, fino a che dovette cedere. Spontaneamen- te prego il medico di fargli praticare la cura dei raggi e di essere trasferito al piano inferiore. Quaggiú il Corte noto, con inconfessato piacere, di rap- presentare un'eccezione. Gli altri ammalati del reparto era- no decisamente in condizioni molto serie e non potevano lasciare neppure per un minuto il letto. Egli invece poteva prendersi il lusso di raggiungere a piedi, dalla sua stanza, la sala dei raggi, fra i complimenti e la meraviglia delle stesse infermiere. Al nuovo medico, egli preciso con insistenza la sua posi- zione specialissima. Un ammalato che in fondo aveva di- ritto al settimo piano veniva a trovarsi al quarto. Appena l'espulsione fosse passata, egli intendeva ritornare di sopra. Non avrebbe assolutamente ammesso alcuna nuova scusa. Lui, che sarebbe potuto trovarsi legittimamente ancora al settimo. « Al settimo, al settimo! » esclamo sorridendo il medico che finiva proprio allora di visitarlo. « Sempre esagerati voi ammalati! Sono il primo io a dire che lei puo essere con- "tento del suo stato; a quanto vedo dalla tabella clinica," grandi peggioramenti non ci sono stati. Ma da questo a parlare di settimo piano - mi scusi la brutale sincerit`a - c'e una certa differenza! Lei e uno dei casi meno preoccupanti, ne convengo, ma e pur sempre un ammalato! » « E allora, allora » fece Giuseppe Corte accendendosi tut- to nel volto « lei a che piano mi metterebbe? » « Oh, Dio, non e facile dire, non le ho fatto che una breve visita, per poter pronunciarmi dovrei seguirla per al- meno una settimana. » « Va bene » insistette Corte « ma pressapoco lei sapr`a. » Il medico per tranquillizzarlo, fece hnta di concentrarsi un momento in meditazione e poi, annuendo con il capo a Se stesso, disse lentamente: « Oh Dio! proprio per accon- tenhrla, ecco, ma potremmo in fondo metterla al sesto ! Sí sí » aggiunse come per persuadere se stesso. « Il sesto potrebbe andar bene. » Il dottore credeva cosí di far lieto il malato. Invece sul volto di Giuseppe Corte si diffuse un'espressione di sgo- mento: si accorgeva, il malato, che i medici degli ultimi "piani l'avevano ingannato; ecco qui questo nuovo dottore," evidentemente piú abile e piú onesto, che in cuor suo - era evidente - lo assegnava, non al settimo, ma al quinto pia- no, e forse al quinto inferiore! La delusione inaspettata pro- stro il Corte. Quella sera la febbre salí sensibilrnente. La permanenza al quarto piano segno il periodo piú tran- quillo passato da Giuseppe Corte dopo l'entrata all'ospeda- le. Il medico era persona simpaticissima, premurosa e cor- "diale; si tratteneva spesso anche per delle ore intere a chiac-" chierare degli argomenti piú svariati. Giuseppe Corte discor- reva pure molto volentieri, cercando argomenti che riguar- dassero la sua solita vita d'avvocato e d'uomo di mondo. Egli cercava di persuadersi di appartenere ancora al consor- zio degli uomini sani, di essere ancora legato al mondo de- gli affari, di interessarsi veramente dei fatti pubblici. Cer- cava, senza riuscirvi. Invariabilmente il discorso finiva sem- pre per cadere sulla malattia. Il desiderio di un miglioramento qualsiasi era divenuto in Giuseppe Corte un'ossessione. Purtroppo i raggi digamma, se erano riusciti ad arrestare il diffondersi dell'espulsione cutanea, non erano bastati ad eliminarla. Ogni giorno Giu- seppe Corte ne parlava lungamente col medico e si sforzava in questi colloqui di mostrarsi forte, anzi ironico, senza mai riuscirvi . « Mi dica, dottore » disse un giorno « come va il proces- so distruttivo delle mie cellule? » « Oh, ma che brutte parole! » lo rimprovero scherzosa- mente il dottore. «Dove mai le ha imparate? Non sta be- ne, non sta bene, soprattutto per un malato! Mai piú vo- glio sentire da lei discorsi simili. » « Va bene » obietto il Corte « ma cosí lei non mi ha risposto. » «Oh, le rispondo subito » fece il dottore cortese. « Il processo distruttivo delle cellule, per ripetere la sua orribile espressione, e, nel suo caso minimo, assolutamente minimo. Ma sarei tentato di definirlo ostinato. » « Ostinato, cronico vuol dire ? » « Non mi faccia dire quello che non ho detto. Io voglio dire soltanto ostinato. Del resto sono cosí la maggioranza dei casi. Affezioni anche lievissime spesso hanno bisogno di cure energiche e lunghe. » « Ma mi dica, dottore, quando potro sperare in un mi- glioramento ? » « Quando? Le predizioni in questi casi sono piuttosto dif- ficili... Ma senta » aggiunse dopo una pausa meditativa « ve- do che lei ha una vera e propria smania di guarire... se non temessi di farla arrabbiare, sa che cosa le consiglierei? » « Ma dica, dica pure, dottore... » « Ebbene, le pongo la questione in termini molto chiari. Se io, colpito da questo male in forma anche tenuissima, capitassi in questo sanatorio, che e forse il migliore che esi- sta, mi farei assegnare spontaneamente, e fin dal primo gior- no, fin dal primo giorno, capisce? a uno dei piani piú bas- si. Mi farei mettere addirittura al... » « Al primo? » suggerí con uno sforzato sorriso il Corte. « Oh no ! al primo no ! » rispose ironico il medico « que- "sto poi no! Ma a; terzo o anche al secondo di certo. Nei" piani inferiori la cura e fatta molto meglio, le garantisco, gli impianti sono piú completi e potenti, il personale e piú abile. Lei sa poi chi e l'anima di questo ospedale? » « Non e il professore Dati? » « Gi`a il professore Dati. ilui l'inventore della cura che qui si pratica, lui il progettista dell'intero impianto. Ebbene, lui, il maestro, sta, per cosí dire, fra il primo e il secondo piano. Di l`a irraggia la sua forza direttiva. Ma, glielo ga- rantisco io, il suo influsso non arriva oltre al terzo piano: piú in l`a si direbbe che gli stessi suoi ordini si sminuzzino, "perdano di consistenza, deviino; il cuore dell'ospedale e in" · basso e in basso bisogna stare per avere le cure migliori. » « Ma insomma » fece Giuseppe Corte con voce tremante « allora lei mi consiglia... » « Aggiunga una cosa » continuo imperterrito il dottore « aggiunga che nel suo caso particolare ci sarebbe da badare anche all'espulsione. Una cosa di nessuna importanza ne convengo, ma piuttosto noiosa, che a lungo andare potreb- "be deprimere il suo ""morale; e lei sa quanto e importante" per la guarigione la serenit`a di spirito. Le applicazioni di raggi che io le ho fatte sono riuscite solo a met`a fruttuose. Il perché? Puo darsi che sia un puro caso, ma puo darsi anche che i raggi non siano abbastanza intensi. Ebbene, al terzo piano le macchine dei raggi sono molto piú potenti. Le probabilit`a di guarire il suo eczema sarebbero molto maggiori. Poi vede? una volta awiata la guarigione, il pas- so piú difficile e fatto. Quando si comincia a risalire e poi diffficile tornare ancora indietro. Quando lei si sentir`a dav- vero meglio, allora nulla impedir`a che lei risalga qui da "not o anche piú In su, secondo i suoi ""meriti` anche al" quinto, al sesto, persino al settimo oso dire... » « Ma lei crede che questo potr`a accelerare la cura? » « Ma non ci puo essere dubbio. Le ho gi`a detto che cosa farei io nei suoi panni. » Discorsi di questo genere il dottore ne faceva ogni giorno a Giuseppe Corte. Venne infine il momento in cui il mala- to, stanco di patire per l'eczema, nonostante l'istintiva rilut- tanza a scendere, decise di seguire il consiglio del medico e si trasferí al piano di sotto. Noto subito al terzo piano che nel reparto regnava una speciale gaiezza, sia nel medico, sia nelle infermiere, seb- bene laggiú fossero in cura ammalati molto preoccupanti Si accorse anzi che di giorno in giorno questa gaiezza andava aumentando: incuriosito, dopo che ebbe preso un po' di con- fidenza con l'infermiera, domando come mai fossero tutti cosí allegri. « Ah, non lo sa? » rispose l'infermiera « fra tre giorni andiamo in vacanza. » 1-- "« Come; andiamo in vacanza? »" « Ma sí. Per quindici giorni, il terzo piano si chiude e il personale se ne va a spasso. Il riposo tocca a turno ai vari planl. » « E i malati? come fate? » « Siccome ce n'e relativamente pochi, di due piani se ne fa uno solo. » « Come? riunite gli ammalati del terzo e del quarto? » « No, no » corresse l'infermiera « del terzo e del secon- do. Quelli che sono qui dovranno discendere da basso. » « Discendere al secondo? » fece Giuseppe Corte, pallido come un morto. « Io dovrei cosí scendere al secondo? » «Ma certo. E che cosa c'e di strano? Quando torniamo, fra quindici giorni, lei ritorner`a in questa stanza. Non mi pare che ci sia da spaventarsi. » Invece Giuseppe Corte - un misterioso istinto lo avvertiva - fu invaso da una crudele paura. Ma, visto che non poteva trattenere il personale dall'andare in vacanza, convinto che la nuova cura coi raggi piú intensi gli facesse bene - L'ec zcma si era quasi completamente riassorbito - egli non oso muovere formale opposizione al nuovo trasferimento. Pre- tese pero, incurante dei motteggi delle infermiere, che sulla porta della sua nuova stanza fosse attaccato un cartello con "su scritto ""Giuseppe Corte, del terzo piano, di passaggio." Una cosa simile non trovava precedenti nella storia del sa- natorio, ma i medici non si opposero, pensando che in un temperamentO nervoso quale il Corte anche una piccola con- trariet`a potesse provocare una grave scossa. Si trattava in fondo di aspettare quindici giorni né uno di piú, né uno di meno. Giuseppe Corte si mise a contarli con avidit`a ostinata, restando per delle ore intere immobile sul letto, con gli occhi fissi sui mobili, che al secondo pia- no non erano piú cosí moderni e gai come nei reparti su- periori, ma assumevano dimensioni piú grandi e linee piú solenni e severe. E di tanto in tanto aguzzava le orecchie poiché gli pareva di udire dal piano di sotto, il piano dei "moribondi, il reparto dei ""condannati"", vaghi rantoli di" agome. Tutto questo naturalmente contribuiva a scoraggiarlo. E la minore seremt`a sembrava aiutare la malattia, la febbre ten- deva a salire, la debolezza generale si faceva piú fonda. Dal- la finestra- si era oramai in piena estate e i vetri si tene- vano quasi sempre aperti non si scorgevano piú i tetti e neppure le case della citt`a, ma soltanto la muraglia verde degli alberi che circondavano l ospedale. Dopo sette giorni, un pomeriggio verso le due, entrarono improvvisamente il capo-infermiere e tre infermieri, che spingevano un lettuccio a rotelle. « Siamo pronti per il tra- sloco? » domando in tono di bonaria celia il capo-infer- miere. « Che trasloco ? » domando con voce stentata Giuseppe Corte «che altri scherzi sono questi? Non tornano fra set- te giorni quelli del terzo piano? » « Che terzo piano? » disse il capo-infermiere come se non capisse « io ho avuto l'ordine di condurla al primo, guardi qua » e fece vedere un modulo stampato per il passaggio al piano inferiore firmato nientemeno che dallo stesso profes- sore Dati. Il terrore, la rabbia infernale di Giuseppe Corte esplosero allora in lunghe irose grida che si ripercossero per tutto il reparto. « Adagio, adagio per carit`a » supplicarono gli in- fermieri « ci sono dei malati che non stanno bene! » Ma ci voleva altro per calmarlo. Finalmente accorse il medico che dirigeva il reparto, una persona gentilissima e molto educata. Si informo, guardo il modulo, Si fece splegare dal Corte. Poi si rivolse incollerito al capo-infermiere, dichiarando che c'era stato uno sbaglio lui non aveva dato alcuna disposizione del genere, dá qual- che tempo c'era una insopportabile confusione, lui veniva tenuto all'oscuro di tutto... Infine, detto il fatto suo al di- pendente, si rivolse, in tono cortese, al malato, scusandosi profondamente. « Purtroppo pero » aggiunse il medico « purtroppo il pro- fessor Dati proprio un'ora fa e partito per una breve li- cenza, non torner`a che fra due giorni. Sono assolutamente desolato, ma i suoi ordini non possono essere trasgrediti. Sar`a lui il primo a rammaricarsene, glielo garantisco... un errore simile! Non capisco come possa essere accaduto! » Ormai un pietoso tremito aveva preso a scuotere Giusep- pe Corte. La capacit`a di dominarsi gli era completamente sfuggita. Il terrore l'aveva sopraffatto come un bambino. I suoi singhiozzi risuonavano lenti e disperati per la stanza. Giunse cosí, per quell'esecrabile errore, all'ultima stazio- ne. Nel reparto dei moribondi lui, che in fondo, per la gravit`a del male, a giudizio anche dei medici piú severi, aveva il diritto di essere assegnato al sesto, se non al set- timo piano! La situazione era talmente grottesca che in cer- ti istanti Giuseppe Corte sentiva quasi la voglia di sghignaz- zare senza ritegno. Disteso nel letto, mentre i! caldo pomeriggio d'estate pas- sava lentamente sulla grande citt`a, egli guardava il verde degli alberi attraverso la finestra, con l'impressione di essere giunto in un mondo irreale, fatto di assurde pareti a pia- strelle sterilizzate, di gelidi androni mortuari, di bianche fi- gure umane vuote di anima. Gli venne persino in mente che anche gli alberi che gli sembrava di scorgere attraverso la "finestra non fossero veri; finí anzi per convincersene, notan-" do che le foglie non si muovevano affatto. Questa idea lo agito talmente, che il Corte chiamo col campanello l'infermiera e si fece porgere gli occhiali da "miope, che in letto non adoperava; solo allora riuscí a tran-" quillizzarsi un poco: con l'aiuto delle lenti poté assicurars`i che erano proprio alberi veri e che le foglie, sia pur leggc-r- mente, ogni tanto erano mosse dal vento Uscita che fu l'infermiera, passo un quarto d'ora di com- pleto silenzio. Sei piani, sei terribili muraglie, sia pure per un errore formale, sovrastavano adesso Giuseppe Corte con implacabile peso. In quanti anni, sí, bisognava pensare pro- prio ad anni, in quanti anni egli sarebbe riuscito a risalire fino all'orlo di quel precipizio ? Ma come mai la stanza si faceva improvvisamente cosí buia ? Era pur sempre pomeriggio pieno. Con uno sforzo supremo Giuseppe Corte, che si sentiva paralizzato da uno strano torpore, guardo l'orolcgio, sul comodino, di fianco al letto. Erano le tre e mezzo. Volto il capo dall'altra parte, e vide che le persiane scorrevoli, obbedienti a un misterioso comando, scendevano lentamente, chiudendo il passo alla luce. OMBRA DEL SUD Tra le case pencolanti, le balconate a traforo marce di pol- vere, gli anditi fetidi, le pareti calcinate, gli aliti della soz- zura annidata in ogni interstizio, sola in mezzo a una via io vidi a Porto Said una figura strana. Ai lati, lungo i piedi "delle case, si muoveva la gente miserabile del quartiere; e" benché a pensarci bene non fosse molta, pareva che la stra- da ne formicolasse, tanto il brulichío era uniforme e conti- nuo. Attraverso i veli della polvere e i riverberi abbacinan- ti del sole, non riuscivo a fermare l'attenzione su alcuna cosa, come succede nei sogni. Ma poi, proprio nel mezzo della via (una strada qualsiasi identica alle mille altre, che si perdeva a vista d'occhio in una prospettiva di baracche fastose e crollanti) proprio nel mezzo, immerso completa- mente nel sole, scorsi un uomo, un arabo forse, vestito di una larga palandrana bianca, in testa una specie di cappuc- cio - o cosí mi parve- ugualmente bianco. Camminava len- tamente in mezzo alla strada, come dondolando, quasi stes- se cercando qualcosa, o titubasse, o fosse anche un poco stor- no. Si andava allontanando tra le buche polverose sempre con quel suo passo d'orso, senza che nessuno gli badasse e l'insieme suo, in quella strada e in quell'ora, pareva con- centrare in sé con straordinaria intensit`a tutto il mondo che lo contornava. Furono pochi istanti. Solo dopo che ne ebbi tratto via gli sguardi mi accorsi che l'uomo, e specialmente il suo passo inconsuetomi erano di colpo entrati nell'animo senza che sapessi spiegarmene la ragione. « Guarda che buffo quello l`a in fondo! » dissi al compagno, e speravo da lui una pa- - 1 rola banale che riportasse tutto alla normalit`a (perché sen- tivo essere nata in me certa inquietudine). Cio dicendo di- ressi ancora gli sguardi in fondo alla strada per osservarlo. «Chi buffo?» fece il mio compagno. Io risposi: «Ma sí, quell'uomo che traballa in mezzo alla strada ». Mentre dicevo cosí l'uomo disparve. Non so se fosse en- trato in una casa, o in un vicolo, o inghiottito dal brulichío che strisciava lungo le case, o addirittura fosse svanito nel nulla, bruciato dai riverberi meridiani. « Dove ? dove ? » disse il mio compagno e io risposi: « Era l`a, ma adesso e scomparso ». Poi risalimmo in macchina e si ando in giro benché fos- sero appena le due e facesse caldo. L'inquietudine non c'era piú e si rideva facilmente per stupidaggini qualsiasi, fino a che si giunse ai confini del borgo indigeno dove i falansteri polverosi cessavano, cominciava la sabbia e al sole resisteva- no alcune baracche luride, che per piet`a speravo fossero di- sabitate. Invece, guardando meglio, mi accorsi che un filo di fumo, quasi invisibile tra le vampate del sole, saliva su da uno di quei tuguri, alzandosi con fatica al cielo. Uomini dunque vivevano l`a dentro, pensai con rimorso, mentre ri- muovevo un pezzetto di paglia da una manica del mio vesti- to bianco. Stavo cosí gingillandomi con queste filantropie da turista quando mi manco il respiro. « Che gente! » stavo dicendo al compagno. « Guarda quel ragazzetto con una terrina in mano, per esempio, che cosa spera di... » Non terminai per- ché gli sguardi, non potendo sostare per la luce su alcuna cosa e vagando irrequieti, si posarono su di un uomo vesti- to di una palan`arana bianca, che se n'andava dondolando al di l`a dei tuguri, in mezzo alla sabbia, verso la sponda di una laguna. « Che ridicolo » dissi ad alta voce per tranquillizzarrni. « mez'ora che giriamo e siamo capitati nello stesso po- sto di prima! Guarda quel tipo, quello che ti dicevo! » Era lui infatti, non c'era dubbio, con il suo passo vacillante, co- me se andasse cercando qualcosa, o titubasse, o fosse anche un poco storno. E anche adesso voltava le spalle e si andava allontanando adagio, chiudendo - mi pareva- una fatalit`a paziente e ostinata. " Era lui; e l'inquietudine rinacque piú forte perché sapevo" bene che quello non era il posto di prima e che l'auto, pur facendo giri viziosi, si era allontanata di qualche chilome- tro, la qual cosa un uomo a piedi non avrebbe potuto. Ep- pure l'arabo indecifrabile era l`a, in cammino verso la spon- da della laguna, dove non capivo che cosa potesse cercare. No, egli non cercava nulla, lo sapevo perfettamente. Di car- ne ed ossa o miraggio, egii era comparso per me, miraco- losamente si era spostato da un capo all'altro della citt`a in- digena per ritrovarmi e fui consapevole (per una voce che mi parlava dal fondo) di una oscura complicit`a che mi le- gava a quell'essere. « Che tipo? » rispose il compagno spensierato. « Quel ra- gazzo col piatto, dici ? » « Ma no! » feci con ira. « Ma non lo vedi l`a in fondo? Non c'e che lui, quello lí che... che... » Era un effetto di luce, forse, un'illusione banale degli oc- chi, ma l'uomo si era ancora dissolto nel nulla, sinistro in- ganno. In realt`a le parole mi si ingorgavano in bocca. Io balbettavo, smarrito fissando 1. sabbie vuote. « Tu non stai bene » mi disse il compagno. « Torniamo al piroscafo. » Al- lora cercai di ridere e dissi: « Ma non capisci che scher- zavo ? » . Alla sera partimmo, la nave scese per il canale verso il Mar Rosso, in direzione del Tropico e nella notte l'imma- gine dell'arabo mi restava fissa nell'animo, mentre inutil- mente tentavo di pensare alle cose di tutti i giorni. Mi pa- reva anzi oscuramente di seguire in un certo modo deter- minazioni non mie, mi mettevo addirittura in mente che l'uomo di Porto Said non fosse estraneo alla cosa, quasi che ci fosse stato in lui il desiderio di indicarmi le strade del sud, che il suo barcollare, i suoi tentennamenti d'orso fossero ingenue lusinghe, sul tipo di certi stregoni. Ando la nave e a poco a poco mi convinsi di essere stato in errore: gli arabi si vestono pressapoco tutti uguali, mi ero evidentemente confuso, complice la fantasia sospettosa. Tuttavia sentii ritornare vaga eco di disagio il mattino che approdammo a Massaua. Quel giorno me ne andai girando solo, nelle ore piú calde, e mi fermavo agli incroci per esplo- rare attorno. Mi sembrava di fare una specie di collaudo, come attraversare un ponticello per vedere se tenga. Sareb- be ricomparso l'individuo di Porto Said, uomo o fantasma che fosse? Girai per un'ora e mezza e il sole non mi dava pena (il sole celebre di Massaua) perché la prova sembrava riuscire secondo le mie speranze. Mi spinsi a piedi attraverso Tau- lud, mi fermai a perlustrare la diga, vidi arabi, eritrei, su- danesi, volti puri od abbietti, ma lui non vidi. Lietamente mi lasciavo cuocere dal caldo, come liberato da una perse- cuzi0ne. Poi venne la sera e si ripartí per il meridione. I compa- gni di viaggio erano sbarcati, la nave era quasi vuota, mi sentivo solo ed estraneo, un intruso in un mondo di altri. Gli ormeggi erano stati tolti, la nave comincio a scostarsi lentamente dalla banchina deserta, nessuno c'era a salutare e d'un tratto mi passo per la mente che in fondo il fanta- sma di Porto Said in qualche modo si era occupato di me, sia pure per angustiarmi, meglio che niente. Sí, egli mi ave- va fatto paura con le sue sparizioni magiche, nello stesso tempo pero c'era un motivo di orgoglio. L'uomo infatti era venuto per me (il mio compagno di passeggiata non lo aveva neppure notato). Considerato a distanza, quell'essere mi risultava adesso come una personificazione, racchiudente il segreto stesso dell'Africa. Tra me e questa terra c'era dunque, prima che lo sospettassi, un legame. Era venuto a me un messaggero, dai regni favolosi del sud, a indicarmi la via? La nave era gi`a a duecento metri dalla banchina ed ecco una piccola figura bianca muoversi sull'estremit`a del molo. Solissimo sulla striscia grigia di cemento, si allontanava len- tamente - mi parve- barcollando come se titubasse o an- dasse cercando qualcosa, o fosse anche un poco storno. Il cuore mi comincio a battere. Era lui, ne fui sicuro, chiss`a se uomo o fantasma, probabilmente (ma non potevo distin- guere a motivo della distanza) mi voltava le spalle, se n'an- dava in direzione del sud, assurdo ambasciatore di un mon- do che sarebbe potuto essere anche mio. Ed oggi, ad Harar, finalmente l'ho incontrato di nuovo. Io sono qui che scrivo, nella casa di un amico piuttosto iso- lata, il ronzío del Petromax mi ha riempito la testa, i pen- sieri vanno su e giú come le onde, forse la stanchezza, forse l'aria presa in macchina. No, non e piú paura, come avven- ne presso la laguna di Porto Said, e invece come sentirsi deboli, inferiori a cio che ci aspetta. L'ho rivisto oggi, mentre perlustravo i labirinti della cit- t`a indigena. Gi`a camminavo da mezz'0ra per quei budelli, tutti uguali e diversi, e c'era luce bellissima dopo un tem- porale. Mi divertivo a gettare un'occhiata nei rari pertugi, dove si aprono cortiletti da fiaba, chiusi come in minuscoli fortilizi tra muri rossi di sassi e di fango. I viottoli erano per lo piú deserti, le case (per cos`i dire) silenziose, alle volte veniva in mente che fosse una citt`a morta, sterminata "dalla peste, e che non ci fosse piú via d'uscita; la notte ci" avrebbe colti alla ricerca affannosa della liberazione. Facevo questi pensieri quando lui mi riapparve. Per una combinazione la stradicciola ripida per dove scendevo non era tortuosa come le altre ma abbastanza diritta. cosicché se ne poteva scorgere un'ottantina di metri. Lui camminava tra i sassi, barcollando piú che mai come un orso e volgendo la schiena si allontanava, estremamente significativo: non pro- prio tragico e nemmeno grottesco, non saprei proprio come dire. Ma era lui, sempre l'uomo di Porto Said, il messag- gero di favolosi regni, che non mi potr`a piú lasciare. Corsi giú tra i sassi scoscesi, con la maggiore lestezza pos- sibile. Questa volta finalmente non mi sarebbe sfuggito, due muri rossi e uniformi rinserravano la stradicciola e non vi erano porte. Corsi fino a che il vicolo faceva un'ansa e mi aspettavG, alla svolta, di trovarmi l'uomo a non piú di tre metri. Invece non c'era. Come le altre volte egli era sva- nito nel nulla. L'ho rivisto piú tardi, sempre uguale, che si allontanava ancora per uno di quei budelli, non verso il mare ma verso l'interno. Non gli sono piú corso dietro. Sono rimasto fer- mo a guardarlo, con una vaga tristezza, finché e sparito in un vicolo laterale. Che cosa voleva da me ? Dove vo- leva condurmi? Non so chi tu sia, se uomo, fantasma, o miraggio, ma temo che ti sia sbagliato. Non sono, ho pau- ra, colui che tu cerchi. La faccenda non e molto chiara ma mi pare di avere capito che tu vorresti condurmi piú in l`a, ogni volta piú in l`a, sempre piú nel centro, fino alle frontiere del tuo incognito regno. Lo capisco e sarebbe anche bello. Tu sei paziente, tu mi aspetti ai bivi solitari per insegnarmi la strada, tu sei vera- mente discreto, tu fai perfino mostra di fuggirmi, con di- plomazia tutta orientale, e non osi neppure rivelare il tuo volto. Tu vuoi soltanto farmi capire - mi sembra - che il tuo monarca mi aspetta in mezzo al deserto, nel palazzo bianco e meraviglioso, vigilato da leoni, dove cantano fon- tane incantate. Sarebbe bello solo vorrei proprio. Ma la mia anima e deprecabilmente timida, invano la redar- guisco, le sue ali tremano, i suoi dentini diafani battono appena la si conduce verso la soglia delle grandi avven- ture. Cosí sono fatto, purtroppo, e ho davvero paura che il tuo re sprechi il suo tempo ad aspettarmi nel palazzo bianco in mezzo al deserto, dove probabilmente sarei felice. OMBRA DEL SUD 49 No, no, in nome del Cielo. Sia come sia, o messaggero, porta la notizia che io vengo, non occorre neanche che tu ti faccia vedere ancora. Questa sera mi sento veramente bene, sebbene i pensieri ondeggino un poco, e ho preso la decisione di partire (Ma saro poi capace? Non far`a storie poi la mia anima al momento buono non si metter`a a tremare, non nasconder`a la testa tra le pavide ali dicendo di nGn andare piú avanti ?). EPPURE BATTONO ALLA PORTA La signora Maria Gron entro nella sala al pianterreno della villa col cestino del lavoro. Diede uno sg-uardo at- torno, per constatare che tutto procedesse secondo le nor- me familiari, depose il cestino su un tavolo, si avvicino a un vaso pieno di rose, annusando gentilmente Nella sala c'erano suo marito Stefano, il figlio Federico detto Fedri, entrambi seduti al caminetto, la figlia Giorgina che leggeva, il vecchio amico di casa Eugemo Martora, me- dico, intento a fumare un sigaro. « Sono tutte fattute andate> mormoro parlando a se stessa e passo una mano, carezzando, sui fiori. Parecchi petali si staccarono e caddero. Dalla poltrona dove stava seduta leggendo, Giorgina chia- mo: « Mamma ! ». Era gi`a notte e come al solito le imposte degli alti fine- stroni erano state sprangate. Pure dall'esterno giungeva un ininterrotto scroscio di pioggia. In fondo alla sala, verso il vestibolo d'ingresso, un solenne tendaggio rosso chiu- deva la larga apertura ad arco: a quell'ora, per la poca luce che vi giungeva, esso sembrava nero. « Mamma ! » disse Giorgina. « Sai quei due cani di pie- tra in fondo al viale delle querce, nel parco? » « E come ti saltano in mente i cani di pietra, cara? » ri- spose la mamma con cortese indifferenza, riprendendo il cestino del lavoro e sedendosi al consueto posto, presso un paralume. « Questa mattina » spiego la graziosa ragazza « mentre tornavo in auto, li ho visti sul carro di un contadino, pro- prio vicino al ponte. » Nel silenzio della sala, la voce esile della Giorgina spic- co grandemente. La signora Gron, che stava scorrendo un giornale, piego le labbra a un sorriso di precauzione e guar- do di sfuggita il marito, come se sperasse che lui non avesse ascoltato. « Questa e bella! » esclamo il dottor Martora. « Non ci manca che i contadini vadano in giro a rubare le statue Collezionisti d'arte, adesso! » « E allora? » chiese il padre, invitando la figliola a con- tinuare. « Allora ho detto a Berto di fermare e di andare a chie- dere... » " La signora Gron, contrasse lievemente il naso; faceva" sempre cosí quando uno toccava argomenti ingrati e bi- sognava correre ai ripari. La faccenda delle due statue na- "scondeva qualcosa e lei aveva capito; qualcosa di spiace-" vole che bisognava quindi tacere. « Ma sí, ma sí, sono stata io a dire di portarli via » e lei cosí tentava di liquidar la questione « li trovo cosí anti- patici. » Dal caminetto giunse la voce del padre, una voce pro- fonda e oscillante, forse per la vecchiaia, forse per inquie- tudine: « Ma come? ma come? Ma perché li hai fatti por- tar via, cara ? Erano due statue antiche, due pezzi di sca- vo... » « Mi sono spiegata male » fece la signora accentuando la "gentilezza (""che stupida sono stata"" pensava intanto ""non" "potevo trovare qualcosa di meglio?""). « L'avevo detto, sí," di toglierli, ma in termini vaghi, piú che altro per scherzo L'avevo detto, naturalmente... » « Ma stammi a sentire, mammina » insisté la ragazza. « Berto ha domandato al contadino e lui ha detto che aveva trovato il cane giú sulla riva del fiume... » Si fermo perché le era parso che la pioggia fosse cessata. Invece, fattosi silenzio, si udí ancora lo scroscio immobile, fondo, che opprimeva gli animi (benché nessuno se ne ac- corgesse). " « Perché ""il cane""? » domando il giovane Federico, sen7.a" nemmeno voltare la testa. « Non avevi detto che c'erano tutti e due? » « Oh Dio, come sei pedante» ribatté Giorgina ridendo « io ne ho visto uno, ma probabilmente c'era anche l'altro. » Federico disse: « Non vedo, non vedo il perché ». E an- che il dottor Martora rise. « Dimmi, Giorgina » chiese allora la signora Gron, ap- profittando subito della paus'a. «Che libro leggi? E l'ulti- mo romanz0 del Massin, quello che mi dicevi ? Vorrei leggerlo anch'io quando l'avrai finito. Se non te lo si dice prima, tu lo presti immediatamente alle amiche. Non si trova piú niente dopo. Oh, a me piace Massin, cosí perso- nale, cosí strano... La Frida oggi mi ha promesso... » Il marito pero interruppe: « Giorgina » chiese alla figlia « tu allora che cosa hai fatto? Ti sarai fatta almeno dare il nome! Scusa sai, Maria » aggiunse alludendo all'interru- zione. « Non volevi mica che mi mettessi a litigare per la stra- da, spero » rispose la ragazza. « Era uno dei Dall'Oca. Ha detto che lui non sapeva niente, che aveva trovato la statua giú nel fiume. » « E sei proprio sicura che fosse uno dei cani nostri ? » « Altro che sicura. Non ti ricordi che Fedri e io gli ave- vamo dipinto le orecchie di verde? » « E quello che hai visto aveva le orecchie verdi ? » fece il padre, spesso un poco ottuso di mente. « Le orecchie verdi, proprio » disse la Giorgina. « Si capi- ir sce che ormai sono un po' scolorite. » Di nuovo intervenne la mamma: « Sentite » domando con garbo perfino esagerato « ma li trovate poi cosí interes- EPPURE BATTOnO ALLA PORTA santi questi cani di pietra? Non so, scusa se te lo dico, Stefa- no, ma non mi sembra che ci sia da fare poi un gran ca- so... ». Dall'esterno - si sarebbe detto quasi subito dietro il ten- done - giunse, frammisto alla voce della pioggia, un rom- bo sordo e prolungato. « Avete sentito? » esclamo subito il signor Gron. « Avete sentito? » « Un tuono, no? Un semplice tuono. E inutile, Stefano, tu hai bisogno di essere sempre nervoso nelle giornate di pioggia » si affretto a spiegare la moglie. Tacquero tutti, ma a lungo non poteva durare. Sembra- va che un pensiero estraneo, inadatto a suel palazzo da si- gnori, fosse entrato e ristagnasse nella grande sala in pe- nombra. « Trovato giú nel fiume! » commento ancora il padre, tornando all'argomento dei cani. « Come e possibile che sia finito giú nel fiume? Non sar`a mica volato, dico. » « E perché no? » fece il dottor Martora gioviale. « Perché no cosa, dottore? » chiese la signora Maria, dif- fidente, non piacendole in genere le facezie otel vecchio amico. « Dico: e perché e poi escluso che la statua abbia fatto un volo ? Il fiume passa proprio lí, sotto. Venti metri di salto, dopo tutto. » « Che mondo, che mondo ! » ancora una volta Maria Gron tentava di respingere il soggetto dei cani, quasi vi si celas- sero coSe sconvenienti. « Le statue da noi si mettono a vo- "lare e sapete cosa dice qua il giornale? ""Una razza di pesci" "parlanti scoperta nelle acque di Giava."" »" " « Dice anche: ""Tesaurizzate il tempo!"" » aggiunse stupi-" damente Federico che pure aveva in mano un giornale. « Come, che cosa dici? » chiese il padre, che non aveva capito, con generica apprensione. " « Sí, c'e scritto qui: ""Tesaurizzate il tempo! Nel bilancio" di un produttore di affari dovrebbe figurare all'attivo e al passivo, secondo i casi, anche il tempo. » « Al passivo, direi allora, al passivo, con questo po' po' di pioggia! » propose il Martora divertito. E allora si udí il suono di un campanello, al di l`a della grande tenda. Qualcuno dunque giungeva dall'infida not- te, qualcuno aveva attraversato le barriere di pioggia, la quale diluviava sul mondo, martellava i tetti, divorava le "rive del fiume facendole crollare a spicchi; e nohili alberi" precipitavano col loro piedestallo di terra giú dalle ripe, scrosciando, e poco dopo si vedevano emergere per un "istante cento metri piú in l`a, succhiati dai gorghi; il fiume" che aveva inghiottito i margini dell'antico parco, con le balaustre di ferro settecentesco, le panchine, i due cani di pietra. « Chi sar`a? » disse il vecchio Gron, togliendosi gli occhia- li d'oro. « Anche a quest'ora vengono? Sar`a quello della sottoscrizione, scommetto, L'impiegato della parrocchia, da qualche giorno e sempre tra i piedi. Le vittime dell'inon- dazione! Dove sono poi queste vittime! Continuano a do- mandare soldi, ma non ne ho vista neanche una, io, di que- ste vittime! Come se... Chi e? Chi e?» domando a bassa voce al cameriere uscito dalla tenda. « Il signor Massigher » annuncio il cameriere. Il dottor Martora fu contento: « Oh eccolo, quel simpa- tico amico ! Abbiam fatto una discussione l'altro giorno... oh, sa quel che si vuole il giovanotto. » « Sar`a intelligente fin che volete, caro Martora » disse la signora « ma e proprio la qualit`a che mi commuove meno. Questa gente che non fa che discutere... Confesso, le di- scussioni non mi vanno... Non dico di Massigher che e un gran bravo ragazzo... Tu, Giorgina » aggiunse a bassa voce « farai il piacere, dopo aver salutato, di andartene a letto. E tardi, cara, lo sai. » « Se Massigher ti fosse piú simpatico » rispose la figlia se. » audacemente, tentando un tono scherzoso « se ti fosse piú simpatico scommetto che adesso non sarebbe tardi, scom- metto. >) « Basta, Giorgina, non dire sciocchezze, lo sai... Oh buo- nasera, Massigher. Oramai non speravamo piú di vedervi... di solito venite piú presto... » Il giovine, i capelli un po' arruffati, si fermo sulla soglia, "guardando i Gron con stupore. ""Ma come, loro non sape-" "vano?"" Poi si fece avanti, vagamente impacciato." « Buonasera, signora Maria » disse senza raccogliere il rimprovero. « Buonasera, signor Gron, ciao Giorgina, ciao Fedri, ah, scusatemi dottore, nell'ombra non vi avevo ve- duto... » Sembrava eccitato, andava di qua e di l`a salutando, qua- si ansioso di dare importante notizia. « Avete sentito dunque? » si decise infine, siccome gli al- tri non lo provocavano. « Avete sentito che l'argine... » « Oh sí » intervenne Maria Gron con impeccabile sciol- tezza. « Un tempaccio, vero? » E sorrise, socchiudendo gli occhi, invitando l'ospite a capire (pare impossibile, pensa- va intanto, il senso dell'opportunit`a non e proprio il suo forte !). Ma il padre Gron si era gi`a alzato dalla poltrona. « Dite- mi, Massigher, che cosa avete sentito? Qualche novit`a for- « Macché novit`a » fece vivamente la moglie. « Non ca- pisco proprio, caro, questa sera sei cosí nervoso... » Massigher resto interdetto. « Gi`a » ammise, cercando una scappatoia « nessuna novi t`a che io sappia. Solo che dal ponte si vede... » « Sfido io, mi immagino, il fiume in piena! >) fece la si- gnora Maria aiutandolo a trarsi d'impaccio. « Uno spetta- colo imponente, immagino... ti ricordi, Stefano, del Nia- gara? Quanti anni, da allora... » A questo punto Massigher si avvicino alla padrona di ca- sa e le mormoro sottovoce, approfittando che Giorgina e Federico si erano messi a parlare tra loro: « Ma signora, ma signora » i suoi occhi sfavillavano « ma il fiume e ormai qui sotto, non e prudente restare, non sentite il...? ». « Ti ricordi, Stefano? » continuo lei come se non avesse neppure sentito « ti ricordi che paura quei due olandesi ? Non hanno voluto neppure avvicinarsi, dicevano ch'era un rischio inutile, che si poteva venire travolti... » « Bene » ribatté il marito « dicono che qualche volta e proprio successo. GeAte che si e sporta troppo, un capogi- ro, magari... » Pareva aver riacquistato la calma. Aveva rimesso gli oc- chiali, si era nuovamente seduto vicino al caminetto, allun- gando le mani verso il fuoco, allo scopo di scaldarle. Ed ecco per la seconda volta quel rombo sordo e inquie- tante. Ora sembrava provenire in realt`a dal fondo della terra, giú in basso, dai remoti meandri delle cantine. An- che la signora Gron resto suo malgrado ad ascoltare. « Avete sentito? » esclamo il padre, corrugando un po- chetto la fronte. « Dl', Giorgina, hai sentito ?... » « Ho sentito, sí, non capisco » fece la ragazza sbiancatasi in volto. « Ma e un tuono! » ribatté con prepotenza la madre. « Ma e un tuono qualsiasi... che cosa volete che sia?... Non saranno mica gli spiriti alle volte! » « Il tuono non fa questo rumore, Maria » noto il marito scuotendo la testa. « Pareva qui sotto, pareva. » « Lo sai, caro: tutte le volte che fa temporale sembra che crolli la casa » insisté la signora. « Quando c'e temporale in questa casa saltan fuori rumori di ogni genere... Anche voi avete sentito un semplice tuono, vero, Massigher? » concluse, certa che l'ospite non avrebbe osato smentirla. Il quale sorrise con garbata rassegnazione, dando risposta elusiva: « Voi dite gli spiriti, signora..., proprio stasera, at- traverso il giardino, ho avuto una curiosa impressione, mi EPPURE BATTONO ALLA PORTA pareva che mi venisse dietro qualcuno... sentivo dei passi, come... dei passi ben distinti sulla ghiaietta del viale... ». « E naturalmente suono di ossa e rantoli, vero ? » suggerí la signora Gron. « Niente ossa, signora, semplicemente dei passi, proba- bilmente erano i miei stessi » soggiunse « si verificano certi strani echi, alle volte. » " « Ecco, cosí; bravo Massigher... Oppure topi, caro mio" volete vedere che erano topi ? Certo non bisogna essere romantici come voi, altrimenti chiss`a cosa si sente... » « Signora » tento nuovamente sottovoce il giovane, chi- nandosi verso di lei. « Ma non sentite, signora ? Il fiume qua sotto, non sentite? » « No, non sento, non sento niente » rispose lei, pure sot- tovoce, recisa. Poi piú forte: « Ma non siete divertente con queste vostre storie, sapete? ». Non trovo da rispondere, il giovane. Tento soltanto una risata, tanto gli pareva stolta l'ostinazione della signora. "Non ci volete credere, dunque ? penso con acrimonia;" anche in pensiero, istintivamente, finiva per darle del voi. Le cose spiacevoli non vi riguardano, vero ? Vi pare da zotici il parlarne ? Il vostro prezioso mondo le ha sempre rifiutate, vero ? Voglio vedere, la vostra sdegnosa immu- "nit`a dove andr`a a finire!""" « Senti, senti, Stefano » diceva lei intanto con slancio, parlando attraverso la sala « Massigher sostiene di aver in- contrato gli spiriti, qui fuori, in giardino, e lo dice sul serio... questi giovani, un bell'esempio, mi pare. » « Signor Gron, ma non crediate » e rideva con sforzo, arrossendo « ma io non dicevo questo, io... » Si interruppe, ascoltando. E dal silenzio stesso soprav- venuto gli parve che, sopra il rumore della pioggia, altra voce andasse crescendo, minacciosa e cupa. Egli era in piedi, col cono di luce di una lampada un poco azzurra, la bocca socchiusa, non spaventato in verit`a, ma assorto e come vibrante, stranamente diverso da tutto cio che lo circondava, uomini e cose. Giorgina lo guardava con de- siderio. Ma non capisci, giovane Massigher? Non ti senti abba- stanza sicuro nell'antica magione dei Gron ? Come fai a dubitare ? Non ti bastano queste vecchie mura massicce, questa controllatissima pace, queste facce impassibili ? Co- me osi offendere tanta dignit`a coi tuoi stupidi spaventi giovanili ? « Mi sembri uno spiritato >osservo il suo amico Fedri. « Sembri un pittore..., ma non potevi pettinarti, stasera? Mi raccomando un'altra volta... Io sai che la mamma ci tiene » e scoppo in una risata. Il padre allora intervenne con la sua querula voce: « Be- ne, lo cominciamo questo ponte? Facciamo ancora in tem- po, sapete. Una partita e poi andiamo a dormire. Gior- gina, per favore, va a prendere la scatola delle carte ». In quel mentre si affaccio il cameriere con faccia stranitd. « Che cosa c'e adesso? » chiese la padrona, malcelando l ir- ritazione. «arrivato qualcun altro? » « C'e di l`a Antonio, il fattore... chiede di parlare con uno di lor signori, dice che e una cosa importante. » « Vengo io, vengo io » disse subito Stefano, e si alzo con precipitazione, come temesse di non fare in tempo. La moglie infatti lo trattenne: « No, no, no, tu rimani qui, adesso. Con l'umido che c'e fuori... lo sai bene... i tuoi reumi. Tu rimani qui, caro. Andr`a Fedri a sentire ». « Sar`a una delle solite storie » fece il giovane, avviandosi verso la tenda. Poi da lontano giunsero voci incerte. «Vi mettete qui a giocare? » chiedeva nel frattempo la signora. «Giorgina, togli quel vaso, per favore... poi va a dormire, cara, e gi`a tardi. E voi, dottor Martora, che cosa fate, dormite ? » L'amico si riscosse, confuso: « Se dormivo? Eh sí, un poco » rise. « Il caldo del caminetto, L'et`a... » EPPURE BATTONO ALLA PORTA « Mamma! » chiamo da un angolo la ragazza. « Mam- ma, non trovo piú la scatola delle carte, erano qui nel cas- setto, ieri. » « Apri gli occhi, cara. Ma non la vedi lí sulla mensola? Voi almeno non trovate mai niente... » Massigher dispose le quattro sedie, poi comincio a me- scolare un mazzo. Intanto rientrava Federico. Il padre do- mando stancamente: « Che cosa voleva Antonio? ». « Ma niente! » rispose il figliolo allegro. « Le solite paure dei contadini. Dicono che c'e pericolo per il fiume, dicono che anche la casa e minacciata, figurati. Volevano che io andassi a vedere, figurati, con questo tempo ! Sono tutti l`a che pregano, adesso, e suonano le campane, sentite? » « Fedri » propose allora Massigher. « Andiamo insieme a vedere? Solo cinque minuti. Ci stai? » « E la partita, Massigher ? » fece la signora. « Volete pian- tare in asso il dottor Martora ? Per bagnarvi come pul- cini, poi... » " Cosí i quattro comincia;ano il gioco, Giorgina se n'ando" a dormire, la madre in un angolo prese in mano il ricamo. Mentre i quattro giocavano, i tonfi di poco prima di- vennero piú frequenti. Era come se un corpo massiccio piombasse in una buca profonda piena di melma, tale era il suono: un colpo tristo nelle viscere della terra. Ogni volta esso lasciava dietro a sé sensazione di pena, le mani indugiavano sulla carta da gettare, il respiro restava so- speso, ma poi tutto quanto spariva. Nessuno- si sarebbe detto -- osava parlarne. Solo a un certo punto il dottor Martora osservo: « Deve essere nella cloaca, qui sotto. C'e una specie di condotta antichissima che sbocca nel fiume. Qualche rigurgito forse... ». Gli altli non aggiunsero parola. Ora conviene osservare gli sguardi del signor Gron, no- biluomo. Essi sono rivolti principalmente al piccolo ven- taglio di carte tenuto dalla mano sinistra, tuttavia essi pas- sano anche oltre il margine delle carte, si estendono alla testa e alle spalle del Martora, seduto dinanzi, e raggiun- gono perfino l'estremit`a della sala l`a dove il lucido pavi- mento scompare sotto le frange del tendaggio. Adesso in- vece gli occhi di Gron non si indugiavano piú sulle carte, né sull'onesto volto dell'amico, ma insistevano al di l`a "verso il fondo, ai piedi del cortinaggio; e si dilatavano per" di piú, accendendosi di strana luce. Fino a che dalla bocca del vecchio signore uscí una voce opaca, carica di indicibile desolazione, e diceva semplice- mente: « Guarda ». Non si rivolgeva al figlio, né al dotto- re, né a Massigher in modo particolare. Diceva solamente « Guarda » ma cosí da suscitare paura. Il Gron disse questo e gli altri guardarono, compresa la consorte che sedeva nell'angolo con grande dignit`a, accu- dendo al ricamo. E dal bordo inferiore del cupo tendaggio videro avanzarc lentamente, strisciando sul pavimento un'in- forme cosa nera. « Stefano, Stefano, per l'amor di Dio, perché fai quella voce? » esclamava la signora Gron levatasi in piedi e gi`a in cammino verso la tenda: « Non vedi che e acqua? ». Dei quattro che stavano giocando nessuno si era ancora alzato. Era acqua infatti. Da qualche frattura o spiraglio essa si era finalmehte insinuata nella villa, come serpente era an- data strisciando qua e l`a per gli anditi prima di affacciarsi nella sala, dove figurava di colore nero a causa della pe- nombra. Una cosa da ridere, astrazion fatta per l'aperto oltraggio. Ma dietro quella povera lingua d'acqua, scolo di lavandino, non c'era altro? iproprio certo che sia tutto qui l'inconveniente ? Non sussurrío di rigagnoli giú per i muri, non paludi tra gli alti scaffali della biblioteca, non stillicidio di flaccide gocce dalla volta del salone vicino (percotenti il grande piatto d'argento donato dal Principe per le nozze, molti molti anni or sono)? EPPURE BATTONO ALLA PORTA Il giovane Federico esclamo: « Quei cretini hanno di- menticato una finestra aperta! ». Il padre suo: « Corri, va a chiudere, va! ». Ma la signora si oppose: «Ma neanche per idea, state quieti voi, verr`a bene qualcheduno spero! ». Nervosamente tiro il cordone del campanello e se ne udí lo squillo lontano. Nel medesimo tempo i tonfi mi- steriosi succedevano l'uno all'altro con tetra precipitazione, perturbando gli estremi angoli del palazzo. Il vecchio Gron, accigliato, fissava la lingua d'acqua sul pavimento: lenta- mente essa gonfiavasi ai bordi, straripava per qualche cen- timetro, si fermava, si gonfiava di nuovo ai margini, di nuovo un altro passo in avanti e cosí via. Massigher mesco- lava le carte per coprire la propria emozione, presentendo cose diverse dalle solite. E il dottor Martora scuoteva ada- gio il capo, il quale gesto poteva voler dire: che tempi, che tempi, di questa servitú non Ci si puo piú fidare!, op- pure, indifferentemente: niente da fare oramai, troppo tar- di ve ne siete accorti. Attesero alcuni istanti, nessun segno di vita proveniva dalle altre sale. Massigher si fece coraggio: « Signora » dis- se « L'avevo pur detto che... ». « Cielo! Sempre voi, Massigher! » rispose Maria Gron non lasciandolo neppur finire. « Per un po' d'acqua per terra! Adesso verr`a Ettore ad asciugare. Sempre quelle be- nedette vetrate, ogni volta lasciano entrare acqua, bisogne- rebbe rifare le serramenta! » Ma il cameriere di nome Ettore non veniva, né alcun altro dei numerosi servi. La notte si era fatta ostile e greve. Mentre gli inesplicabili tonfi si mutavano in un rombo pressoché continuo simile a rotolío di botti nelle fonda- menta della casa. Lo scroscio della pioggia all'esterno non si udiva gi`a piú, sommerso dalla nuova voce. « Signora! » grido improvvisamente Massigher, balzando in piedi, con estrema risolutezza. « Signora, dove e andata Giorgina? Lasciate che vada a chiamarla. » « Che c'e ancora, Massigher? » e Maria Gron atteggiava ancora il volto a mondano stupore. « Siete tutti terribil- mente nervosi, stasera. Che cosa volete da Giorgina ? Fa- temi il santo piacere di lasciarla dormire. » « Dormire! » ribatté il giovanotto ed era piuttosto bef- fardo. « Dormire! Ecco, ecco... » Dall'andito che la tenda celava, come da gelida spelon- ca, irruppe nella sala un impetuoso soffio di vento. Il cor- tinaggio si gonfio qual vela, attorcigliandosi ai lembi, cosí che le luci della sala poterono passare di l`a e riflettersi nel- L'acqua dilagata per terra. « Fedri, perdio, corri a chiudere ! » impreco il padre « per- dio, chlama i servl, chiama! » Ma il giovane pareva quasi divertito dall'imprevisto. Ac- corso verso l'andito buio andava gridando: « Ettore! Et- tore! Berto! Berto! Sofia! ». Egli chiamava i facenti parte della servitú ma le sue grida si perdevano senza eco nei vestiboli deserti. « Pap`a » si udí ancora la voce di Federico. « Non c'e luce, qui. Non riesco a vedere... Madonna, che cos'e suc- cesso ! » Tutti nella sala erano in piedi, sgomenti per l'improvviso appello. La villa intera sembrava ora, inesplicabilmente, scrosciare d'acqua. E il vento, quasi i muri si fossero spa- lancati, la attraversava in su e in giú, protervamente, fa- cendo dondolare le lampade, agitando carte e giornali, ro- vesciando fiori. Federico, di ritorno, comparve. Era pallido come la ne- ve e un poco tremava. «Madonna! » ripeteva macchinal- mente. « Madonna, cos'e successo! » E occorreva ancora spiegare che il fiume era giunto lí sotto, scavando la riva, con la sua furia sorda e inumana? Che i muri da quella parte stavano per rovinare ? Che servi tutti erano dileguati nella notte e fra poco presumi- bilmente sarebbe mancata la luce? Non bastavano, a spie- EPPURE BATTONO ALLA PORTA 63 gare tutto, il bianco volto di Federico, i suoi richiami affan- nosi (lui solitamente cosí elegante e sicuro di sé), L'orribile rombo che aumentava aumentava dalle fonde voragini del- la terra ? « Andiamo, presto, andiamo, c e anche la mia macchina qui fuori, sarebbe da pazzi... » diceva il dottor Martora, fra tutti passabilmente calmo. Poi, accompagnata da Mas- sigher, ecco ricomparire Giorgina, avviluppata in un pe- "sante mantello; ella singhiozzava lievemente, con assoluta" decenza, senza quasi farsi sentire. Il padre comincio a fru- gare un cassetto raccogliendo i valori. « Oh no! no! » proruppc infine la signora Maria, esa- sperata. « Oh, non voglio! I miei fiori, le mie belle cose, non voglio, non voglio! » la sua bocca ebbe un tremito, la faccia si contrasse quasi scomponendosi, ella stava per cedere. Poi con uno sforzo meraviglioso, sorrise. La sua maschera mondana era intatta, salvo il suo raffinatissimo incanto. « Me la ricordero, signora » incrudelí Massigher, odian- dola sinceramente. « Me la ricordero sempre questa vostra villa. Com'era bella nelle notti di luna! » « Presto, un mantello, signora » insisteva Martora rivolto alla padrona di casa. « E anche tu, Stefano, prendi qualcosa da coprirti. And!amG prima che manchi la luce. » Il signor Stefano Gron non aveva nemmeno paura, si poteva veramente dirlo. Egli era come atono e stringeva la busta di pelle contenente i valori. Federico girava per la sala sguazzando nell'acqua, senza piú dominarsi. « E fi- nita, e finita » andava ripetendo. La luce elettrica comincio a affievolire. Allora rintrono, piú tenebroso dei precedenti e ancor piú vicino, un lungo tonfo da catastrofe. Una gelida tenaglia si chiuse sul cuore dei Gron. « Oh, no ! no ! » ricomincio a gridare la signora. « Non voglio, non voglio! » Pallida anche lei come la morte, una piega dura segnata sul volto, ella avanz0 a passi ansiosi verso il tendaggio che palpitava. E faceva di no col capo: per significare che lo proibiva, che adesso sarebbe venuta lei in persona e l'acqua non avrebbe osato passare. La videro scostare i lembi sventolanti della tenda con gesto d'ira, sparire al di l`a nel buio, quasi andasse a cac- ciare una turba di pezzenti molesti che la servitú era inca- pace di allontanare. Col suo aristocratico sprezzo presumeva ora di opporsi alla rovina, di intimidire l'abisso ? Ella sparí dietro il tendaggio, e benché il rombo funesto andasse crescendo, parve farsi il silenzio. Fino a che Massigher disse: « C'e qualcuno che batte alla porta ». « Qualcuno che batte alla porta ? » chiese il Martora. « Chi volete che sia? » « Nessuno » rispose Massigher. « Non c'e nessuno, natu- ralmente, oramai. Pure battono alla porta, questo e posi- tivo. Un messaggero forse, uno spirito, un'anima, venuta ad avvertire. iuna casa di signori, questa. Ci usano dei ri- guardi, alle volte, quelli dell'altro mondo. » I IL MANTELLO Dopo interminabile attesa quando la speranza gi`a comin- ciava a morire, Giovanni ritorno alla sua casa. Non era- no ancora suonate le due, sua mamma stava sparecchiando, era una giornata grigia di marzo e volavano cornacchie. Egli comparve improvvisamente sulla soglia e la mamma grido: « Oh benedetto! » correndo ad abbracciarlo. Anche Anna e Pietro, i due fratellini molto piú giovani, si misero a gridare di gioia. Ecco il momento aspettato per mesi e mesi, cosí spesso balenato nei dolci sogni dell'alba, che doveva riportare la felicit`a. Egli non disse quasi parola, troppa fatica costandogli trattenere il pianto. Aveva subito deposto la pesante scia- bola su una sedia, in testa portava ancora il berretto di pelo. « Lasciati vedere » diceva tra le lacrime la madre, tirandosi un po' indietro « lascia vedere quanto sei bello. Pero sei pallido, sei. » Era alquanto pallido infatti e come sfinito. Si tolse il berretto, avanz0 in mezzo alla stanza, si sedette. Che stan- co, che stanco, perfino a sorridere sembrava facessa fatica. « Ma togliti il mantello, creatura » disse la mamma, e lo guardava come un prodigio, sul punto d'esserne intimidi- "ta; com'era diventato alto, bello, fiero (anche se un po'" troppo pallido). « Togliti il mantello, dammelo qui, non senti che caldo? » Lui ebbe un brusco movimento di difesa, istintivo, ser- randosi addosso il mantello, per timore forse che glielo strappassero via. « No, no lasciami » rispose evasivo « preferisco di no, tanto, tra poco devo uscire... » «Devi uscire? Torni dopo due anni e vuoi subito usci- re? » fece lei desolata, vedendo subito ricominciare, dopo tanta gioia, L'eterna pena delle madri. « Devi uscire subito? E non mangi qualcosa? » « Ho gi`a mangiato, mamma » rispose il figlio con un sorriso buono, e si guardava attorno assaporando le amate penombre. « Ci siamo fermati a un'osteria, qualche chilo- metro da qui... » «Ah, non sei venuto solo? E chi c'era con te? Un tuo compagno di reggimento? Il figliolo della Mena forse? » « No, no, era uno incontrato per via. E fuori che aspetta adesso. » « lí che aspetta? E perché non l'hai fatto entrare? L'hai lasciato in mezzo alla strada? » Ando alla finestra e attraverso l'orto, di l`a del cancel- lctto di legno, scorse sulla via una figura che camminava "su e giú lentamente; era tutta intabarrata e dava sensazione" di nero. Allora nell'animo di lei nacque, incomprensibile, in mezzo ai turbini della grandissima gioia, una pena mi- steriosa ed acuta. " «;meglio di no » rispose lui, reciso. « Per lui sarebbe" una seccatura, e un tipo cosí. » «Ma un bicchiere di vino? glielo possiamo portare, no, un bicchiere di vino? » « Meglio di no, mamma. E un tipo curioso, e capace di andar sulle furie. » «Ma chi e allora? Perché ti ci sei messo insieme? Che cosa vuole da te? » « Bene non lo conosco » disse lui lentamente e assai grave. « L'ho incontrato durante il viaggio. venuto con me, ecco. » Sembrava preferisse altro argomento, sembrava se ne ver- gognasse. E la mamma, per non contrariarlo, cambio im- mediatamente discorso, ma gi`a si spegneva nel suo volto amabile la luce di prima. « Senti » disse « ti figuri la Marietta quando sapr`a che sei tornato? Te l'immagini che salti di gioia? E per lei che volevi uscire ? » Egli sorrise scltanto, sempre con quell'espressione di chi vorrebbe essere lieto eppure non puo, per qualche segreto peso. La mamma non riusciva a capire: perché se ne stava se- duto, quasi triste, come il giorno lontano della partenza ? Ormai era tornato, una vita nuova davanti, un'infinit`a di giorni disponibili senza pensieri, tante belle serate insieme, una fila inesauribile che si perdeva di l`a delle montagne, nelle immensit`a degli anni futuri. Non piú le notti d'an- goscia quando all'orizzonte spuntavano bagliori di fuoco e si poteva pensare che anche lui fosse l`a in mezzo, disteso immobile a terra, il petto trapassato, tra le sanguinose ro- vine. Era tornato, finalmente, piú grande, piú bello, e che gioia per la Marietta. Tra poco cominciava la primavera, "si sarebbero sposati in chiesa, una domen;ca mattina, tra" suono di campane e fiori. Perché dunque se ne stava smorto e distratto, non rideva di piú, perché non raccontava le battaglie ? E il mantello ? perché se lo terreva stretto ad- dosso, col caldo che faceva in casa ? Forse perché, sotto, L'uniforme era rotta e infangata? Ma con la mamma, come poteva vergognarsi di fronte alla mamma ? Le pene sem- bravano finite, ecco invece subito una nuova inquietudine. Il dolce viso piegato un po' da una parte, lo fissava con ansia, attenta a non contrariarlo, a capire subito tutti i suoi desideri. O era forse ammalato? O semplicemente sfi- nito dai troppi strapazi? Perché non parlava, perché non la guardava nemmeno? In realt`a il figlio non la guardava, egli pareva anzi evi- tasse di incontrare i suoi sguardi come se ne temesse qual- cosa. E intanto i due piccoli fratelli lo contemplavano muti, con un curioso imbarazzo. « Giovanni » mormoro lei non trattenendosi piú. « Sei qui finalmente, sei qui finalmente ! Aspetta adesso che ti faccio il caffe. » Si affretto alla cucina. E Giovanni rimase coi due fra- telli tanto piú giovani di lui. Non si sarebbero neppure riconosciuti se si fossero incontrati per la strada, che cam- biamento nello spazio di due anni. Ora si guardavano a vicenda in silenzio, senza trovare le parole, ma ogni tanto sorridevano insieme, tutti e tre, quasi per un antico patto non dimenticato. Ed ecco tornare la mamma, ecco il caffe fumante con una bella fetta di torta. Lui vuoto d'un fiato la tazza, ma- "stico la torta con fatica. ""Perché ? Non ti piace piú ? Una" "volta era la tua passione!"" avrebbe voluto domandargli la" mamma, ma tacque per non importunarlo. « Giovanni » gli propose invece « e non vuoi rivedere la tua camera ? C'e il letto nuovo, sai ? ho fatto imbiancare i muri, una lampada nuova, vieni a vedere... ma il man- tello, non te lo levi dunque?... non senti che caldo? » Il soldato non le rispose ma si alzo dalla sedia movendo alla stanza vicina. I suoi gesti avevano una specie di pe- sante lentezza, come s'egli non avesse venti anni. La mam- ma era corsa avanti a spalancare le imposte (ma entro sol- tanto una luce grigia, priva di qualsiasi allegrezza). « Che bello ! » fece lui con fioco entusiasmo, come fu sulla soglia, alla vista dei mobili nuovi, delle tendine im- macolate, dei muri bianchi, tutto quanto fresco e pulito. Ma, chinandosi la mamma ad aggiustare la coperta del letto, anch'essa nuova fiammante, egli poso lo sguardo sulle sue gracili spalle, sguardo di inesprimibile tristezza e che nessuno poteva vedere. Anna e Pietro infatti stavano die- tro di lui, i faccini raggianti, aspettandosi una grande sce- na di letizia e sorpresa. IL MANTELLO 69 Invece niente. «Com'e bello! Grazie, sai? mamma» ri- peté lui, e fu tutto. Muoveva gli occhi con inquietudine, come chi ha desiderio di conchiudere un colloquio penoso. Ma soprattutto, ogni tanto, guardava, con evidente preoc- cupazione, attraverso la finestra, il cancelletto di legno verde dietro il quale una figura andava su e giú lentamente. « Sei contento, Giovanni? sei contento? » chiese lei im- paziente di vederlo felice. « Oh, sí, e proprio bello » ri- spose il figlio (ma perché si ostinava a non levarsi il man- tello?) e continuava a sorridere con grandissimo sforzo. « Giovanni » supplico lei. « Che cos'hai ? che cos'hai, Gio- vanni ? Tu mi tieni nascosta una cosa, perché non vuoi dire? » Egli si morse un labbro, sembrava che qualcosa gli in- gorgasse la gola. « Mamma » rispose dopo un po' con voce opaca «mamma, adesso io devo andare. » «Devi andare? Ma torni subito, no? Vai dalla Marietta, vero? dimmi la verit`a, vai dalla Marietta? » e cercava di scherzare, pur sentendo la pena. « Non so, mamma » rispose lui sempre con quel tono "contenuto ed amaro; si avviava intanto alla porta, aveva" gi`a ripreso il berretto di pelo « non so, ma adesso devo andare, c'e quello l`a che mi aspetta. » «Ma torni piú tardi? torni? Tra due ore sei qui, vero? Faro venire anche zio Giulio e la zia, figurati che festa anche per loro, cerca di arrivare un po' prima di pranz0... » « Mamma » ripeté il figlio, come se la scongiurasse di non dire di piu, di tacere, per carit`a, di non aumentare la pena. « Devo andare, adesso, c'e quello l`a che mi aspetta, e stato fin troppo paziente. » Poi la fisso con sguardo da cavar l'anima. Si avvicino alla porta, i fratellini, ancora festosi, gli si strinsero addosso e Pietro sollevo un lembo del mantello per sapere come il fratello fosse vestito di sotto. « Pietro, Pietro! su, che cosa fai? Iascia stare, Pietro! » grido la mamma, temendo che Giovanni si arrabbiasse. « No, no! » esclamo pure il soldato, accortosi del gesto del ragazzo. Ma ormai troppo tardi. I due lembi di panno azzurro si erano dischiusi un istante. « Oh, Giovanni, creatura mia, che cosa ti han fatto ? » balbetto la madre, prendendosi il volto tra le mani. « Gio- vanni, ma questo e sangue! » « Devo andare, mamma » ripeté lui per la seconda volta, con disperata fermezza. « L'ho gi`a fatto aspettare abbastanza. Ciao Anna, ciao Pietro, addio mamma. » Era gi`a alla porta. Uscí come portato dal vento. Attra- verso l'orto quasi di corsa, aprí il cancelletto, due cavalli partirono al galoppo, sotto il cielo grigio, non gi`a verso il paese, no, ma attraverso le praterie, su verso il nord, in direzione delle montagne. Galoppavano, galoppavano. E allora la mamma finalmente capí, un vuoto immenso, che mai e poi mai i secoli sarebbero bastati a colmare, si aprí nel suo cuore. Capí la storia del mantello, la tristezza del figlio e soprattutto chi fosse il misterioso individuo che passeggiava su e giú per la strada, in attesa, chi fosse quel sinistro personaggio fin troppo paziente. Cosí mise- ricordioso e paziente da accompagnare Giovanni alla vec- chia casa (prima di condurselo via per sempre), anché "potesse salutare la madre; da aspettare parecchi minuti fuo-" ri del cancello, in piedi, lui signore del mondo, in mezzo alla polvere, come pezzente affamato. L'UCCISIONE DEL DRAGO Nel maggio 1902 un contadino del conte Gerol, tale Gio- sue Longo, che andava spesso a caccia per le montagne, racconto di aver visto in valle Secca una grossa bestiac- cia che sembrava un drago. A Palissano, l'ultimo paese della valle, era da secoli leggenda che fra certe aride gole vivesse ancora uno di quei mostri. Ma nessuno l'aveva mai preso sul serio. Questa volta invece l'assennatezza del Lon- go, la precisione del suo racconto, i particolari dell'avven- tura piú volte ripetuti senza la minima variazione, persua- sero che ci dovesse essere qualche cosa di vero e il conte Martino Gerol decise di andare a vedere. Certo egli non "pensava a un drago; poteva darsi tuttavia che qualche" grosso serpente di specie rara vivesse fra quelle gole di- sabitate. Gli furono compagni nella spedizione il governatore del- la provincia Quinto Andronico con la bella e intrepida moglie Maria, il naturalista professore Inghirami e il suo collega Fusti, versato specialmente nell'arte dell'imbalsa- mazione. Il fiacco e scettico governatore da tempo si era accorto che la moglie aveva per il Gerol grande simpatia, ma non se ne dava pensiero. Acconsentí anzi volentieri quando Maria gli propose di andare col conte alla caccia del drago. Egli non aveva per il Martino la minima ge- "losia; né lo invidiava, pure essendo il Gerol molto piú" giovane, bello, forte, audace e ricco di lui. Due carroze partirono poco dopo la mezzanotte dalla citt`a con la scorta di otto cacciatori a cavallo e giunsero verso le sei del mattino al paese di Palissano. Il Gerol, la "bella Maria e i due naturalisti dormivano; solo lAndro-" nico era sveglio e fece fermare la carroza dinanzi alla casa di un'antica conoscenza: il medico Taddei. Poco dopo, awertito da un cocchiere, il dottore, tutto assonnato, il berretto da notte in testa, comparve a una finestra del pri- mo piano. Andronico, fattosi sotto, lo saluto giovialmente, "spiegandogli lo scopo della spedizione; e si aspetto che" l'altro ridesse, sentendo parlare di draghi. Al contrario il Taddei scosse il capo a indicare disapprovazione. « Io non ci andrei se fossi in voi » disse recisamente. « Perché? Credete che non ci sia niente? Che siano tutte fandonie? » « Non lo so questo » rispose il dottore. « Personalmente anzi credo che il drago ci sia, benché non l'abbia mai vi- sto. Ma non mi ci metterei in questo pasticcio. E una cosa di malaugurio. » «Di malaugurio? Vorreste sostenere, Taddei, che voi ci credete realmente ? » « Sono vecchio, caro governatore » fece l'altro « e ne ho viste. Puo darsi che sia tutta una storia, ma potrebbe anche "essere vero; se fossi in voi, non mi ci metterei. Poi, state" a sentire: la strada e difficile a trovare, sono tutte monta- gne marce piene di frane, basta un soffio di vento per far nascere un finimondo e non c'e un filo d'acqua. Lasciate stare, governatore, andate piuttosto lassú, alla Crocetta (e indicava una tonda montagna erbosa sopra il paese), l`a ci sono lepri fin che volete. » Tacque un istante e aggiunse: « Io non ci andrei davvero. Una volta poi ho sentito dire, ma e inutile, voi vi metterete a ridere... ». « Perché dovrei ridere » esclamo l'Andronico. « Ditemi, dite, dite pure. » « Bene, certi dicono che il drago manda fuori del fumo, che questo fumo e velenoso, basta poco per far morire. » Contrariamente alla promessa, l'Andronico diede una bel- la risata: « Vi ho sempre saputo reazionario » egli concluse « stram- bo e reazionario. Ma questa volta passate i limiti. Medioe- vale siete, il mio caro Taddei. Arrivederci a stasera, e con la testa del drago! » Fece un cenno di saluto, risalí nella carrozza, diede or- dine di ripartire. Giosue Longo, che faceva parte dei cac- ciatori e conosceva la strada, si mise in testa al convoglio. « Che cosa aveva quel vecchio da scuotere la testa? » do- mando la bella Maria che nel frattempo si era svegliata. « Niente » rispose l'Andronico « era il buon Taddei, che fa a tempo perso anche il veterinario. Si parlava dell'afta epizo0tica. » « E del drago ? » disse il conte Gerol che sedeva di fronte. « Gli hai chiesto se sa niente del drago? » « No, a dir la verit`a » fece il governatore. « Non volevo farmi ridere dietro. Gli ho detto che si e venuti quassú per un po' di caccia, non gli ho detto altro, io. » Alzandosi il sole, la sonnolenza dei viaggiatori scompar- ve, i cavalli accelerarono il passo e i cocchieri si misero a canticchiare. « Era medico della nostra famiglia il Taddei. Una volta #NOME? Un bel giorno non so piú per che delusione d'amore si e ritirato in campagna. Poi deve essergli capitata un'altra disgrazia ed e venuto a rintanarsi quassú. Ancora un'altra "disgrazia e chiss`a dove andr`a a finire; diventer`a anche lui" una specie di drago! » « Che stupidaggini ! » disse Maria un po' seccata. « Sem- pre la storia del drago, comincia a diventare noiosa questa solfa, non avete parlato d'altro da che siamo partiti. » « Ma sei stata tu a voler venire ! » ribatté con ironica dolcezza il marito. « E poi come potevi sentire i nostri di- corsi se hai continuato a dormire? Facevi finta forse? » Maria non rispose e guardava inquieta, fuori dal fine- strino. Osservava le montagne che si facevano sempre piú alte, dirupate e aride. In fondo alla valle si intravvedeva una successione caotica di cime, per lo piú di forma conica, nude di boschi o prato, dal colore giallastro, di una deso- lazione senza pari. Battute dal sole, esse risplendevano di una luce ferma e fortissima. Erano circa le nove quando le vetture si fermarono per- ché la strada hniva. I cacciatori, scesi dalla carrozza, si ac- corsero di trovarsi ormai nel cuore di quelle montagne si- nistre. Viste da presso, apparivano fatte di rocce fradice e crollanti, quasi di terra, tutta una frana dalla cima in fon- do. « Ecco, qui comincia il sentiero » disse il Longo, indi- cando una traccia di passi umani che saliva all'imboccatura di una valletta. Procedendo di l`a, in tre quarti d'ora si arriva- va al Burel, dove il drago era stato visto. « E stata presa l'acqua? » domando Andronico ai caccia- tori. " « Ce ne sono quattro fiaschi; e poi due altri di vino," eccellenza » rispose uno dei cacciatori. « Ce n'e abbastan- za, credo... » Strano. Adesso che erano lontani dalla citt`a, chiusi den- tro alle montagne, l'idea del drago cominciava a sembrare meno assurda. I viaggiatori si guardavano attorno, senza scoprire cose tranquillizzanti. Creste giallastre dove ncn era mai stata anima viva, vallette che si inoltravano ai lati na- scondendo alla vista i loro meandri: un grandissimo ab- bandono. S'incamminarono senza dire parola. Precedevano i cac- ciatori coi fucili, le colubrine e gli altri arnesi da caccia, poi veniva Maria, ultimi i due naturalisti. Per fortuna il "sentiero era ancora in ombra; fra le terre gialle il sole sa-" rebbe stato una pena. Anche la valletta che menava al Burel era stretta e tor- tuosa, non c'era torrente sul fondo, non c'erano piante né erba ai lati, solamente sassi e sfasciumi. Non canto di uc- celli o di acque, ma isolati sussurri di ghiaia. Mentre il gruppo cosí procedeva, sopraggiunse dal bas- so, camminando piú presto di loro, un giovanotto con una capra morta sulle spalle. « Va dal drago, quello » fece il "Longo; e lo disse con la massima naturalezza, senza alcuna" intenzione di celia. La gente di Palissano, spiego, era su- perstiziosissima, e ogni giorno mandava una capra al Bu- rel, per rabbonire gli umori del mostro. L'offerta era por- tata a turno dai giovani del paese. Guai se il mostro fa- ceva sentire la sua voce. Succedeva disgrazia. « E ogni giorno il drago si mangia la capra? » domando scherzoso il conte Gerol. « Il mattino dopo non trovano piú niente, questo e po- sitivo. » « Nemmeno le ossa ? » « Eh no, nemmeno le ossa. La va a mangiare dentro la caverna. » « E non potrebbe darsi che fosse qualcuno del paese a mangiarsela? » fece il governatore. « La strada la sanno tutti. L'hanno veramente mai visto il drago acchiapparsi la capra ? » « Non so questo, eccellenza » rispose il cacciatore. Il giovane con la capra li aveva intanto raggiunti. « Dl', giovanotto ! » disse il conte Gerol con il suo tono autoritario « quanto vuoi per quella capra? » « Non posso venderla, signore » rispose quello. « Nemmeno per dieci scudi? » « Ah, per dieci scudi... » accondiscese il giovanotto « vuol dire che ne andro a prendere un'altra. » E depose la be- stia per terra. Andronico chiese al conte Gerol: «E a che cosa ti serve quella capra? Non vorrai mica mangiarla, spero. » « Vedrai, vedrai a che cosa mi serve » fece l'altro elusi- vamente. La capra venne presa sulle spalle da un cacciatore, il gio- vanotto di Palissano ridiscese di corsa verso il paese (evi- dentemente andava a procurarsi un'altra bestia per il dra- go) e la comitiva si rimise in cammino. Dopo meno di un'ora finalmente arrivarono. La valle si apriva improvvisamente in un ampio circo selvaggio, il Burel, una specie di anfiteatro circondato da muraglie di terra e rocce crollanti, di colore giallo-rossiccio. Proprio nel mezo, al culmine di un cono di sfasciumi, un nero pertugio: la grotta del drago. «E l`a » disse il Longo. Si fermarono a poca distanza, sopra una terrazza ghiaiosa che offriva un ottimo punto di osservazione, una decina di metri sopra il livello della caverna e quasi di fronte a questa. La terrazza aveva anche il vantaggio di non essere accessibile dal basso perché di- fesa da una paretina a strapiombo. Maria ci poteva stare con la massima sicurezza. Tacquero, tendendo le orecchie. Non si udiva che lo smisurato silenzio delle montagne, toccato da qualche sus- surro di ghiaia. Ora a destra ora a sinistra una cornice di terra si rompeva improvvisamente, e sottili rivoli di sasso- lini cominciavano a colare, estinguendosi con fatica. Cio "dava al paesaggio un aspetto di perenne rovina; montagne" abbandonate da Dio, parevano, che si disfacessero a poco a poco. «E se oggi il drago non esce?» domando Quinto An- dronico. « Ho la capra » replico il Gerol. « Ti dimentichi che ho la capra ! » Si comprese quello che voleva dire. La bestia sarebbe ser- vita da esca per far uscire il mostro dalla caverna. Si cominciarono i preparativi: due cacciatori si inerpi- carono con fatica una ventina di metri sopra l'ingresso della LUCCISIONE DEL DRAGO caverna per scaraventare giú sassi se mai ce ne fosse biso- gno. Un altro ando a depositare la capra sul ghiaione, non lontano dalla grotta. Altri si appostarono ai lati, ben difesi dietro grossi macigni, con le colubrine e i fucili. L'Andro- nico non si mosse, con l'intenzione di stare a vedere. La bella Maria taceva. Ogni intraprendenza era in lei sva- nita. Con quanta gioia sarebbe tornata subito indietro. Ma non osava dirlo a nessuno. I suoi sguardi percorrevano le pareti attorno, le antiche e le nuove frane, i pilastri di terra rcssa che sembrava dovessero ad ogni momento cadere. Il marito, il conte Gerol, i due naturalisti, i cacciatori gli pa- revano pochi, pochissimi, contro tanta solitudine. Deposta che fu la capra morta dinanzi alla grotta, comin- ciarono ad aspettare. Le 10 erano passate da un pezzo e il sole aveva invaso completamente il Burel, portandolo a un intenso calore. Ondate ardenti si riverberavano dall'una al- L'altra parte. Per riparare dai raggi il governatore e sua mo- glie, i cacciatori alzarono alla bell'e meglio una specie di "baldacchino, con le coperte della carrozza; e Maria mai si" stancava di bere. « Attenti! » grido a un tratto il conte Gerol, in piedi so- pra un macigno, giú sul ghiaione, con in mano una carabi- na, appeso al fianco un mazzapicchio metallico. Tutti ebbero un tremito e trattennero il fiato scorgendo dalla bocca della caverna uscire cosa viva. « Il drago ! il dra- go! » gridarono due o tre cacciatori, non si capiva se con letizia o sgomento. L'essere emerse alla luce con dondolio tremulo come di biscia. Eccolo, il mostro delle leggende la cui sola voce fa- ceva tremare un intero paese! « Oh, che brutto! » esclamo Maria con evidente sollievo perché si era aspettata ben di peggio. «Forza, forza! » grido un cacciatore scherzando. E tutti ripreserO sicurezza in se stessi. « Sembra un piccolo e ratorauru! » disse il prof. Inghi- rami a cui era tornata sufficiente tranquillit`a d'animo per i problemi della scienza. Non appariva infatti tremendo, il mostro, lungo poco piú di due metri, con una testa simile ai coccodrilli sebbene piú corta, un esagerato collo da lucertola, il torace quasi gonfio, la coda breve, una specie di cresta molliccia lungo la schie- na. Piú che la modestia delle dimensioni erano pero i suoi movimenti stentati, il colore terroso di pergamena (con qual- che striatura verdastra) L'apparenza complessivamente floscia del corpo a spegnere le paure. L'insieme esprimeva una vec- chiezza immensa. Se era un drago, era un drago decrepito, quasi al termine della vita. « Prendi » grido sbeffeggiando uno dei cacciatori saliti so- pra l'imbocco della caverna. E lancio una pietra in direzione della bestiaccia. Il sasso scese a piombo e raggiunse esattamente il cranio del drago. Si udí nettissimo un toc sordo come di zucca. Ma- ria ebbe un sussulto di repulsione. La botta fu energica ma insufficiente. Rimasto qualche istante immobile, come intontito, il rettile comincio ad agi- tare il collo e la testa lateralmente, in atto di dolore. Le mascelle si aprivano e chiudevano alternativamente, lascian- do intravedere un pettine di acuti denti, ma non ne usciva alcuna voce. Poi il drago mosse giú per la ghiaia in dire- zione della capra. « Ti hanno fatto la testa storna eh? » ridacchio il conte Gerol che aveva improvvisamente smesso la sua alterigia. Sembrava invaso da una gioiosa eccitazione, pregustando il massacro. Un colpo di colubrina, sparato da una trentina di metri, sbaglio il bersaglio. La detonazione lacero l'aria stagnante, desto tristi boati fra le muraglie da cui presero a scivolare giú innumerevoli piccole frane. Quasi immediatamente sparo la seconda colubrina. Il pro- L'UCCISIONE DEL DRAGO iettile raggiunse il mostro a una zampa posteriore, da cui sgorgo subito un rivolo di sangue. « Guarda come balla! » esclamo la bella Maria, presa anche lei dal crudele spettacolo. Allo spasimo della ferita la bestiaccia si era messa infatti a girare su se stessa, sus- sultando, con miserevole affanno. La zampa fracassata le ciondolava dietro, lasciando sulla ghiaia una striscia di li- quido nero. inalmente il rettile riuscí a raggiungere la capra e ad afferrarla coi denti. Stava per ritirarsi quando il conte Ge- rol, per ostentare il proprio coraggio, gli si fece vicino, "quas; a due metri, scaricandogli la carabina nella testa." Una specie di fischio uscí dalle fauci del mostro. E par- ve che cercasse di dominarsi, reprimesse il furGre, non emettesse tutta la voce che aveva in corpo, che un motivo ignoto agli uomini lo inducesse ad aver pazienza. Il proiet- tile della carabina gli era entrato nell'occhio. Gerol fatto il colpo, si ritrasse di corsa e si aspettava che il drago ca- desse stecchito. Ma la bestia non cadde stecchita, la sua vita pareva inestinguibile come fuoco di pecc. Con la pal- lottola di piombo nell'occhio, il mostro trangugio tranquil- Jamente la capra e si vide il collo dilatarsi come gomma man mano che vi passava il gigantesco boccone. Poi si ri- trasse indietro alla base delle rocce, prese a inerpicarsi per la parete, di fianco alla caverna. Saliva affannosamente, spesso franandogli la terra sotto le zampe, ansioso di scam- po. Sopra s'incurvava un cielo limpido e scialbo, il sole asciugava rapidamente le tracce di sangue. « Sembra uno scarafaggio in un catino » disse a bassa voce il governatore Andronico, parlando a se stesso. « Comdici? » gli chiese la moglie. « Niente, niente » fece lui. « Chiss`a perché non entra nella caverna! » osservo il prof. Inghirami, apprezzando lucidamente ogni aspetto scientifico della scena. « Ha paura di restare imprigionato » suggerí il Fusti. « Deve essere, piuttosto completamente intontito. E poi co- me vuoi che faccia un sirnile ragionamento? Un ceratosau- rus... Non e un ceratosaurus » fece il Fusti. « Ne ho rico- struiti parecchi per i musei, ma sono diversi. Dove sono gli aculei della coda? » « Li tiene nascosti » replico l'Inghirami. « Guarda che addome gonfio. La coda si accartoccia di sotto e non si puo vedere. » Stavano cosí parlando quando uno dei cacciatori, quello che aveva sparato il secondo colpo di colubrina, si avvio di corsa verso la terrazza dove stava l'Andronico, con l'e- vidente intenzione di andarsene. « Dove vai? Dove vai? » gli grido il Gerol. « Sta al tuo posto fin che non abbiamo finito. » « Me ne vado » rispose con voce ferma il cacciatore. « Questa storia non mi piace. Non e caccia per me, que- sta. » « Che cosa vuoi dire? Hai paura. E questo che vuoi di- re? » « No signore, io non ho paura. » « Hai paura sí, ti dico, se no rimarresti al tuo posto. » « Non ho paura, vi ripeto. Vergognatevi piuttosto voi, signor conte. » « Ah, vergognatevi? » impreco Martino Gerol. « Porco furfante che non sei altro! Sei uno di Palissano, scommet- to, un vigliaccone sei. Vattene prima che ti dia una lezio- ne. » « E tu, Beppi, dove vai tu adesso? » grido ancora il con- te poiché un altro cacciatore si ritirava. «Me ne vado anch'io, signor conte. Non voglio averci mano in questa brutta faccenda. » « Ah, vigliacchi! » urlava il Gerol. «Vigliacchi, ve la farei pagare, se potessi muovermi! » « Non e paura signor conte » ribatté il secondo caccia- tore. « Non e paura, signor conte. Ma vedrete che finir`a male! » « Vi faccio vedere io adesso! » E, raccattata una pietra da terra, il conte la lancio di tutta forza contro il cacciato- re. Ma il tiro ando a vuoto. Vi fu qualche minuto di pausa mentre il drago arran- cava sulla parete senza riuscire a innalzarsi. La terra e i sassi cadevano, lo trascinavano sempre piú in giú, l`a don- de era partito. Salvo quel rumore di pietre smosse, c'era silenzio. Poi si udí la voce di Andronico. « Ne abbiamo ancora per un pezzo? » grido al Gerol. « C'e un caldo d'inferno. Falla fuori una buona volta, quella bestiaccia. Che gusto tormentarla cosí, anche se e un drago? » « Che colpa ce n'ho io? » rispose il Gerol irritato. « Non vedi che non vuol morire? Con una palla nel cranio e piú vivo di prima... » S'interruppe scorgendo il giovanotto di prima compa- rire sul ciglio del ghiaione con un'altra capra in spalla. Stu- pito dalla presenza di quegli uomini, di quelle armi, di quelle tracce di sangue e soprattutto dall'affannarsi del dra- go su per le rocce, lui che non l'aveva mai visto uscire dal- la caverna si era fermato, fissando la strana scena. « Ohi! Giovanotto! » grido il Gerol. « Quanto vuoi per quella capra ? » « Niente, non posso » rispose il giovane. «Non ve la do neanche a peso d'oro. Ma che cosa gli avete fatto? » ag- giunse, sbarrando gli occhi verso il rnostro sanguinolento. « Siamo qui per regolare i conti. Dovreste essere con- tenti. Basta capre da domani. » « Perché basta capre ? » « Domani il drago non ci sar`a piú » fece il conte sorri- dendo. « Ma non potete, non potete farlo, io dico » esclamo il giovane spaventato. « Anche tu adesso cominci! » grido Martino Gerol. « Dammi subito qua la capra. » « No, vi dico » replico duro l'altro ritirandosi. « Ah, perdio! » E il conte fu addosso al giovane, gli vi- bro un pugno in pieno viso, gli strappo la capra di dosso, lo scaravento a terra. « Ve ne pentirete, vi dico, ve ne pentirete, vedrete se non ve ne pentirete! » impreco a bassa voce il giovane rial- zandosi, perché non osava reagire. Ma Gerol gli aveva gi`a voltato le spalle. Il sole adesso incendiava la conca, a stento si riusciva a tenere gli occhi aperti tanto abbacinava il riflesso delle "ghiaie gialle, delle rocce, delle ghiaie ancora e dei sassi;" niente, assolutamente, che potesse riposare gli sguardi. Maria aveva sempre piú sete, e bere non serviva a nien- te. « Dio, che caldo ! » si lamentava. Anche la vista del con- te Gerol cominciava a darle fastidio. Nel frattempo, come sbucati dalla terra, decine di uo- mini erano apparsi. Venuti probabilmente da Palissano alla voce che gli stranieri erano saliti al Burel, essi se ne sta- vano immobili sul ciglio di vari crestoni di terra gialla e osservavano senza far motto. « Hai un bel pubblico adesso! » tento di celiare l'An- dronico, rivolto al Gerol che stava trafficando intorno alla capra con due cacciatori. Il giovane alzo gli sguardi fin che scorse gli sconosciuti che lo stavano fissando. Fece una smorfia di disprezzo e riprese il lavoro. Il drago, estenuato, era scivolato per la parete fino al ghiaione e giaceva immobile, palpitando solo il ventre ri- gonfio. « Pronti! » fece un cacciatore sollevando col Gerol la capra da terra. Avevano aperto il ventre alla bestia e in- trodotto una carica esplosiva collegata a una miccia. Si vide allora il conte avanzare impavido per il ghiaio- L'UCCISIONE DEL DRAGO ne, farsi vicino al drago non piú di una decina di metri, con tutta calma deporre per terra la capra, quindi ritirarsi svolgendo la miccia. Si dovette aspettare mezz'0ra prima che la bestia si mo vesse. Gli sconosciuti in piedi sul ciglio dei crestoni sem- bravano statue: non parlavano neppure fra loro, il loro volto esprimeva riprovazione. Insensibili al sole che aveva assunto una estrema potenza, non distoglievano gli sguardi dal rettile, quasi implorando che non si muovesse. Invece il drago, colpito alla schiena da un colpo di ca- rabina, si volto improvvisamente, vide la capra, vi si tra- scino lentamente. Stava per allungare la testa e afferrare la preda quando il conte accese la miccia. La fiammella cor- se via rapidamente lungo il cordone, ben presto raggiunse la capra, provoco l'esplosione. Lo scoppio non fu rumoroso, molto meno forte dei col- pi di colubrina, un suono secco ma opaco, come di asse che si spezzi. Ma il corpo del drago fu ributtato indietro di schianto, si vide quindi che il ventre era stato squarcia- to. La testa riprese ad agitarsi penosamente a destra e a si- nistra, pareva che dicesse di no, che non era giusto, che erano stati troppo crudeli, e che non c'era piú nulla da fare. Rise di compiacenza il conte, ma questa volta lui solo. « Oh che orrore ! Basta ! » esclamo la bella Maria co- prendosi la faccia con le mani. « Sí » disse lentamente il marito « anch'io credo che fi- nir`a male. » Il mostro giaceva, in apparenza sfinito, sopra una pozza di sangue nero. Ed ecco dai suoi fianchi uscire due fili di fumo scuro, uno a destra e uno a sinistra, due fumacchi grevi che stentavano ad alzarsi. « Hai visto? » fece l'Inghirami al collega. « Sí, ho visto » confermo l'altro. « Due sfiatatoi a mantice, come nel Ceratosaurus, i cosid- detti operculi hammeriani. » « No » disse il Fusti. « Non e un Ceratosaurus. » A questo punto il conte Gerol, di dietro al pietrone dove si era riparato, si avanz0 per finire il mostro. Era proprio in mezzo al cono di ghiaia e stava impugnando la mazza metallica quando tutti i presenti mandarono un urlo. Per un istante Gerol credette fosse un grido di trionfG per luccisione del drago. Poi avvertí che una cosa stava muovendosi alle sue spalle. Si volto di un balzo e vide, oh ridicola cosa, vide due bestiole pietose uscire incespi- cando dalla caverna, e avanzarsi abbastanza celermente ver- so di lui. Due piccoli rettili informi, lunghi non piú di mezzo metro, che ripetevano in miniatura l'immagine del drago morente. Due piccoli draghi, i figli, probabilmente usciti dalla caverna per fame. Fu questione di pochi istanti. Il conte dava bellissima prova di agilit`a. «Tieni! Tieni! » gridava gioiosamente roteando la clava di ferro. E due soli colpi bastarono. Vi- brato con estrema energia e decisione, il mazzapicchio per- cosse successivamente i mostriciattoli, spezzo le teste come bocce di vetro. Entrambi si afflosciarono, morti, da lontano sembravano due cornamuse. Allora gli uomini sconosciuti, senza dare la minima vo- ce, si allontanarono correndo giú per i canali di ghiaia. Si sarebbe detto che fuggissero una improvvisa minaccia. Essi non provocarono rumore, non smossero frane, non volsero il capo neppure per un istante alla caverna del drago, scom- parvero cosí come erano apparsi, misteriosamente. Il drago adesso si moveva, sembrava che mai e poi mai sarebbe riuscito a morire. Trascinandosi come lumaca, si avvicinava alle bestiole morte, sempre emettendo due fili di fumo. Raggiunti che ebbe i figli, si accascio sul ghiaione allungo con infinito stento la testa, prese a leccare dolce- L'UCCISIONE DEL DRAGO mente i due mostriciattoli morti, forse allo scopo di ri- chiamarli in vita. Infine il drago parve raccogliere tutte le superstiti forze, levo il collo verticalmente al cielo, come non aveva ancora fatto e dalla gola uscí, prima lentissimo, quindi con pro- gressiva potenza un urlo indicibile, voce mai udita nel mon- do, né animalesca né umana, cosí carica d'odio che persino il Conte Gerol ristette, paralizzato dall'orrore. Ora si capiva perché prima non aveva voluto rientrare nella tana, dove pure avrebbe trovato scampo, perché non aveva emesso alcun grido o ruggito, limitandosi a qualche sibilo. Il drago pensava ai due figli e per risparmiarli ave- "va rifiutato la propria salvezza; se si fosse infatti nascosto" nella caverna, gli uomini lo avrebbero inseguito l`a dentro, "scoprendo i suoi nati; e se avesse levato la voce, le bestiole" "sarebbero corse fuori a v edere. Solo adessc"" che li aveva" visti morire, il mostro mandava il suo urlo di inferno. Invocava un aiuto il drago, e chiedeva vendetta per i suoi figli. Ma a chi? alle montagne forse, aride e disabita- te? al cielo senza uccelli né nuvole, agli uomini che lo sta- vano suppliziando, al demonio forse ? L'urlo trapanava le muraglie di roccia e la cupola del cielo, riempiva l'intero mondo. Sembrava impossibile (anche se non c'era alcun ragionevole motivo) sembrava impossibile che nessuno gli rispondesse. « Chi chiamer`a ? » domando l'Andronico tentando inu- tilmente di fare scherzosa la propria voce. « Chi chiama? Non c'e nessuno che venga, mi pare? » « Oh, che muoia presto ! » disse la donna. Ma il drago non si decideva a morire, sebbene il conte Gerol, accecato dalla smania di finirla, gli sparasse contro con la carabina.an.l Tan.l Era inutile. Il drago accarez- "zava CGn la lingua le bestiole morte; pur con moto sempre" piú lento, un sugo biancastro gli sgorgava dall'occhio il- leso. « Il sauro! » esclamo il professor Fusti. « Guarda che piange! » Il governatore disse: « tardi. Basta, Martino, e tardi, e ora di andare ». Sette volte si levo al cielo la voce del mostro, e ne rin- tronarono le rupi e il cielo. Alla settima volta parve non hnire mai, poi improvvisamente si estinse, piombo a pic- co, sprofondo nel silenzio. Nella mortale quiete che seguí si udirono alcuni colpi di tosse. Tutto coperto di polvere, il volto trasfigurato dalla fatica, dall'emozione e dal sudore, il conte Martino, get- tata tra i sassi la carabina, attraversava il cono di sfasciumi tossendo, e si premeva una mano sul petto. « Che cosa c'e adesso? » domando l'Andronico con volto "serio per present;mento di male. « Che cosa ti sei fatto? »" « Niente » fece il Gerol sforzando a giocondit`a il tono della voce. « Mi e andato dentro un po' di quel fumo. » « Di che fumo? » Gerol non rispose ma gli fece segno con la mano al dra- go. Il mostro giaceva immobile, anche la testa si era abban- "donata fra i sassi; si sarebbe detto ben morto, senza quei" due sottili pennacchi di fumo. « Mi pare che sia finita » disse l'Andronico. Cosí infatti sembrava. L'ostinatissima vita stava uscendo dalla bocca del drago. Nessuno aveva risposto al suo grido, in tutto il mondo non si era mosso nessuno. Le montagne se ne stavano im- mobili, anche le piccole frane si erano come riassorbite, il cielo era limpido, neppure una minuscola nuvoletta e il sole andava calando. Nessuno, né bestia né spirito, era ac- corso a vendicare la strage. Era stato l'uomo a cancellare quella residua macchia del mondo, l'uomo astuto e poten- te che dovunque stabilisce sapienti leggi per l'ordine, L'uo- mo incensurabile che si affatica per il progresso e non puo ammettere in alcun modo la sopravvivenza dei draghi, sia L'UCCISIONE DEL DRAGO pure nelle sperdute montagne. Era stato l'uomo ad ucci- dere e sarebbe stato stolto recriminare. Cio che l'uomo aveva fatto era giusto, esattamente con- forme alle leggi. Eppure sembrava impossibile che nes- suno avesse risposto alla voce estrema del drago. Andro- nico, cosí come sua moglie e i cacciatori, non desiderava "altro che fuggire; persino i naturalisti rinunciarono alle" pratiche dell'imbalsamazione, pur di andarsene presto lon- tani. Gli uomini del paese erano spariti, come presentissero maledizione. Le ombre salivano su per le pareti crollanti. Dal corpo del drago, carcame incartapecorito, si levavano ininterrotti i due fili di fumo e nell'aria stagnante si attor- cigliavano lentamente. Tutto sembrava finito, una triste cosa da dimenticare e nient'altro. Ma il conte Gerol continuava a tossire, a tossire. Sfinito, sedeva sopra un pietrone, ac- canto agli amici che non osavano parlargli. Anche la in- trepida Maria guardava da un'altra parte. Si udivano solo quei brevi colpi di tosse. Inutilmente Martino Gerol cer- "cava di dominarli; una specie di fuoco colava nell'interno" del suo petto sempre piú in fondo. « Me la sentivo » sussurro il governatore Andronico alla moglie che tremava un poco. « Me la sentivo che doveva finire malamente. » UNA COSA CHE COMINCIA PER ELLE Arrivato al paese di Sisto e sceso alla solita locanda, dove soleva capitare due tre volte all'anno, Cristoforo Schroder, mercante in legnami, ando subito a letto, perché non si sentiva bene. Mando poi a chiamare il medico dottor Lu- gosi, ch'egli conosceva da anni. Il medico venne e sembro rimanere perplesso. Escluse che ci fossero cose gravi, si fe- ce dare una bottiglietta di orina per esaminarla e promise di tornare il giorno stesso. Il mattino dopo lo Schroder si sentiva molto meglio, tan- to che volle alzarsi senza aspettare il dottore. In maniche di camicia stava facendosi la barba quando fu bussato al- L'uscio. Era il medico. Lo Schroder disse di entrare. « Sto benone stamattina >) disse il mercante senza nep- pure voltarsi, continuando a radersi dinanzi allo specchio. « Grazie di essere venuto, ma adesso potete andarem> «Che furia, che furia!» disse il medico, e poi fece un colpettino di tosse a esprimere un certo imbarazzo. « So- no qui con un amico, questa mattina. » Lo Schroder si volto e vide sulla soglia, di fianco al dot- tore, un signore sulla quarantina, solido, rossiccio in volto e piuttosto volgare, che sorrideva insinuante. Il mercante, uomo sempre soddisfatto di sé e solito a far da padrone, guardo seccato il medico con aria interrogativa. «Un mio amico » ripeté il Lugosi « Don Valerio Me- lito. Piú tardi dobbiamo andare insieme da un malato e co- sí gli ho detto di accompagnarmi. » « Servitor suo » fece lo Schroder freddamente. « Sedete, UNA COSA CHE COMINCIA PER ELLE 89 « Tanto » proseguí il medico per giustificarsi maggior- mente « oggi, a quanto pare, non c'e piú bisogno di vi- sita. Tutto bene, le orine. Solo vorrei farvi un piccolo salasso. » « Un salasso ? E perché un salasso ? » « Vi far`a bene » spiego il medico. « Vi sentirete un altro, dopo. Fa sempre bene ai temperamenti sanguigni. E poi e questione di due minuti. » Cosí disse e trasse fuori dalla mantella un vasetto di vetro contenente tre sanguisughe. L'appoggio ad un ta- volo e aggiunse: « Mettetevene una per polso. Basta te- nerle ferme un momento e si attaccano subito. E vi prego, di fare da voi. Cosa volete che vi dica? Da vent'anni che faccio il medico, non sono mai stato capace di prendere in mano una sanguisuga ». « Date qua » disse lo Schroder con quella sua irritante aria di superiorit`a. Prese il vasetto, si sedette sul letto e si applico ai polsi le due sanguisughe come se non avesse fatto altro in vita sua. Intanto il visitatore estraneo, senza togliersi l'ampio man- tello, aveva deposto sul tavolo il cappello e un pacchetto oblungo che mando un rumore metallico. Lo Schroder no- to, con un senso di vago malessere, che l'uomo si era seduto quasi sulla soglia come se gli premesse di stare lontano da lui. « Don Valerio, voi non lo immaginate, ma vi conosce gi`a » disse allo Schroder il medico, sedendosi pure lui, chiss`a perché, vicino alla porta. « Non mi ricordo di aver avuto l'onore » rispose lo Schroder che, seduto sul letto, teneva le braccia abbando- nate sul materasso, le palme rivolte in su, mentre le san- guisughe gli succhiavano i polsi. Aggiunse: « Ma dite, Lu- gosi, piove stamattina? Non ho ancora guardato fuori. Una L bella seccatura se piove, dovro andare in giro tutto il gior- no. » «No, non piove » disse il medico senza dare peso alla cosa. « Ma don Valerio vi conosce davvero, era ansioso di rivedervi. » « Vi diro » fece il Melito con voce spiacevolmente ca- vernosa. « Vi diro: non ho mai avuto l'onore di incon- trarvi personalmente, ma so qualche cosa di voi che certo non immaginate. » « Non saprei proprio » rispose il mercante con assoluta indifferenza. « Tre mesi fa ? » chiese il Melito. « Cercate di ricordare: tre mesi fa non siete passato con la vostra carrozzella per la strada del Confine vecchio? » « Mah, puo darsi » fece lo Schroder. « Puo darsi benis- simo, ma esattamente non ricordo. » « Bene. E non vi ricordate allora di essere slittato a una curva, di essere andato fuori strada? » « Gi`a, e vero » ammise il mercante, fissando gelidamente la nuova e non desiderata conoscenza. « E una ruota e andata fuori di strada e il cavallo non riusciva a rimetterla in careggiata? » « Proprio cosí. Ma, voi, dove eravate? » « Ah, ve lo diro dopo » rispose il Melito scoppiando in una risata e ammiccando al dottore. « E allora siete sceso, ma neanche voi riuscivate a tirar su la carrozzella. Non e stato cosí, dite un po'? » « Proprio cosí. E pioveva che Dio la mandava. » « Caspita se pioveva! » continuo don Valerio, soddisfat- tissimo. « E mentre stavate a faticare, non e venuto avanti U[l curioso tipo, un uomo lungo, tutto nero in faccia? » « Mah, adesso non ricordo bene » interruppe lo Schro- der. « Scusate, dottore, ma ce ne vuole ancora molto di queste sanguisughe ? Sono gi`a gonfie come rospi. Ne ho abbastanza io. E poi vi ho detto che ho molte cose da fare. » « Ancora qualche minuto! » esorto il medico. « Un po' UNA COSA CHE COMINCIA PER ELLE 9í di pazienza, caro Schroder ! Dopo vi sentirete un altro, vedrete. Non sono neanche le dieci, diamine, c'e tutto il tempo che volete ! » «Non era un uomo alto, tutto nero in faccia, con uno strano cappello a cilindro? » insisteva don Valerio. « E non aveva una specie di campanella? Non vi ricordate che con- tinuava a suonare? » « Bene: sí, mi ricordo » rispose scortesemente lo Schro- der. « E, scusate, dove volete andare a finire? » « Ma niente ! » fece il Melito. « Solo per dirvi che vi conoscevo gi`a. E che ho buona memoria. Purtroppo quel giorno ero lontano, al di l`a di un fosso, ero almeno cin- quecento metri distante. Ero sotto un albero a ripararmi dalla pioggia e ho potuto vedere. » « E chi era quell'uomo, allora? » chiese lo Schroder con asprezza, come per far capire che se il Melito aveva qual- che cosa da dire, era meglio che lo dicesse subito. « Ah, non lo so chi fosse, esattamente, L'ho visto da lontano! Voi, piuttosto, chi credete che fosse? » «Un povero disgraziato, doveva essere » disse il mer- cante. « Un sordomuto pareva. Quando l'ho pregato di ve- nire ad aiutarmi, si e messo come a mugolare, non ho capito una parola. » « E allora voi gli siete andato incontro, e lui si e tirato indietro, e allora voi lo avete preso per un braccio, L'avete costretto a spingere la carrozza insieme a voi. Non e co- si? Dite la verit`a. » « Che cosa c'entra questo? » ribatté lo Schroder inso- spettito. « Non gli ho fatto niente di male. Anzi, dopo gli ho dato due lire. » « Avete sentito? » sussurro a bassa voce il Melito al me- "dico; poi, piú forte, rivolto al mercante: « Niente di ma-" le, chi lo nega? Pero ammetterete che ho visto tutto ». « Non c'e niente da agitarsi, caro Schroder » fece il me- dico a questo punto vedendo che il mercante faceva una faccia cattiva. « L'ottimo don Valerio, qui presente, e un tipo scherzoso. Voleva semplicemente sbalordirvi. » Il Melito si volse al dottore, assentendo col capo. Nel movimento, i lembi del mantello si dischiusero un poco e lo Schroder, che lo fissava, divenne pallido in volto. « Scusate, don Valerio » disse con una voce ben meno disinvolta del solito. « Voi portate una pistola. Potevate la- sciarla da basso, mi pare. Anche in questi paesi c e l'usan- za, se non mi inganno. » « Perdio! Scusatemi proprio! » esclamo il Melito bat- tendosi una mano sulla fronte a esprimere rincrescimento. « Non so proprio come scusarmi ! Me ne ero proprio di- menticato. Non la porto mai, di solito, e per questo che mi sono dimenticato. E oggi devo andare fuori in cam- pagna a cavallo. » Pareva sincero, ma in realt`a si tenne la pistola alla cin- "tola; continuando a scuotere il capo. « E dite » aggiunse" sempre rivolto allo Schroder. « Che impressione vi ha fat- to quel povero diavolo? » « Che impressione mi doveva fare? Un povero diavolo, un disgraziato. » « E quella campanella, quell'affare che continuava a suo- nare, non v`i siete chiesto che cosa fosse? » « Mah » rispose lo Schroder, controllando le parole per "il presentimento di qualche insidia. « Uno z;ngaro, pote-" "va essere; per far venire gente li ho visti tante volte suo-" nare una campana. » «Uno zingaro! » grido il Melito, mettendosi a ridere come se l'idea lo divertisse un mondo. « Ah, L'avete cre- duto uno zingaro? » Lo Schroder si volto verso il medico con irritazione. « Che cosa c'e? » chiese duramente. « Che cosa vuol dire questo interrogatorio ? Caro il mio Lugosi, questa storia non mi piace un bel niente! Spiegatevi, se volete qualcosa da me! » UNA COSA CHE COMINCIA PER ELLE 93 « Non agitatevi, vi prego... » rispose il medico interdetto. « Se volete dire che a questo vagabondo e capitato un accidente e la colpa e mia, parlate chiaro » proseguí il mercante alzando sernpre piú la voce « parlate chiaro, cari i miei signori. Vorreste dire che l'hanno ammazzato? » « Macché ammazzato! » disse il Melito, sorridendo, com- pletamente padrone della situazione « ma che cosa vi siete messo in mente? Se vi ho disturbato mi spiace proprio. Il dottore mi ha detto: don Valerio, venite su anche voi, c'e il cavaliere Schroder. Ah lo conosco, gli ho detto io. Bene, mi ha detto lui, venite su anche voi, sar`a lieto di vedervi. Mi dispiace proprio se sono riuscito importuno... » Il mercante si accorse di essersi lasciato portare. « Scusate me, piuttosto, se ho perso la pazienza. Ma pa- reva quasi un interrogatorio in piena regola. Se c'e qual- che cosa, ditela senza tanti riguardi. » « Ebbene » intervenne il medico con molta cautela. « Eb- bene: c'e effettivamente qualche cosa. » « Una denuncia? » chiese lo Schroder sempre piú sicuro di sé, mentre cercava di riattaccarsi ai polsi le sanguisughe staccatesi durante la sfuriata di prima. « C'e qualche so- spetto contro di me? » « Don Valerio » disse il medico. « Forse e meglio che parliate voi. » « Bene » comincio il Melito. « Sapete chi era quell'indi- viduo che vi ha aiutato a tirar su la carrozza? » « Ma no, vi giuro, quante volte ve lo devo ripetere? » « Vi credo » disse il Melito. « Vi domando solo se im- maginate chi fosse. » « Non so, uno zingaro, ho pensato, un vagabondo... » « No. Non era uno zingaro. O, se lo era stato una volta, non lo era piú. Quell'uomo, per dirvelo chiaro, e una cosa che comincia per elle. » « Una cosa che comincia per elle ? » ripeté meccanica- mente lo Schroder, cercando nella memoria, e un'ombra di apprensione gli si era distesa sul volto. « Gi`a. Comincia per elle » confermo il Melito con un malizioso sorriso. « Un ladro ? volete dire? » fece il mercante illuminandosi in volto per la sicurezza di aver indovinato. Don Valerio scoppio in una risata: « Ah, un ladro ! Buona davvero questa! Avevate ragione, dottore: una per- sona piena di spirito, il cavaliere Schroder! ». In quel mo- mento si sentí fuori della finestra il rumore della pioggia. « Vi saluto » disse il mercante recisamente, togliendosi le due sanguisughe e rimettendole nel vasetto. « Adesso piove. Io me ne devo andare, se no faccio tardi. » « Una cosa che comincia per elle » insistette il Melito alzandosi anche lui in piedi e manovrando qualcosa sotto l'ampla mantella. « Non so, vi dico. Gli indovinelli non sono per me. Decidetevi, se avete qualche cosa da dirmi... Una cosa che comincia per elle?... Un lanzichenecco forse?... » ag- giunse in tono di beffa. Il Melito e il dottore, in piedi, si erano accostati l'un 1 altro, appoggiando le schiene all'uscio. Nessuno dei due ora sorrideva piú. « Ne un ladro né un lanzichenecco » disse lentamente il Melito. « Un lebbroso, era. » Il mercante guardo i due uomini, pallido come un morto. « Ebbene ? E se anche fosse stato un lebbroso ? » « Lo era purtroppo di certo » disse il medico, cercando pavidamente di ripararsi dietro le spalle di Don Valerio « E adesso lo siete anche voi. » « Basta ! » urlo il mercante tremando per l'ira. « Fuori di qua ! Questl scherzi non mi vanno. Fuori di qua tutti e due! » Allora il Melito insinuo fuori del mantello una canna della pistola. « Sono l'alcade, caro signore. Calmatevi, vi torna conto. » « Vi faro vedere io chi sono ! » urlava lo Schroder. « Che cosa vorreste farmi, adesso? » Il Melito scrutava lo Schroder, pronto a prevenire un eventuale attacco. « In quel pacchetto c'e la vostra cam- panella » rispose. « Uscirete immediatamente di qm e con- tinuerete a suonarla, fino a che sarete uscito fuori del paese, e poi ancora, fino a che non sarete uscito dal regno. » « Ve la faro vedere io la campanella! » ribatté lo Schro- der, e tentava ancora di gridare ma la voce gli si era spenta in gola, l'orrore della rivelazione gli aveva agghiacciato il cuore. Finalmente capiva: il dottore, visitandolo il giorno prima, aveva avuto un sospetto ed era andato ad avvertire l'alcade. L'alcade per caso lo aveva visto afferrare per un braccio, tre mesi prima, un lebbroso di passaggio, ed ora lui, Schroder, era condannato. La storia delle sanguisughe era servita per guadagnar tempo. Disse ancora: « Me ne vado senza bisogno dei vostri ordini, canaglie, vi faro vedere, vi faro vedere... » « Mettetevi la giacca » ordino il Melito, il suo volto essendosi illuminato di una diabolica compiacenza. « La giacca, e poi fuori immediatamente. » « Aspetterete che prenda le mie robe » disse lo Schroder, oh quanto meno fiero di un tempo. « Appena ho impac- chettato le mie robe me ne vado, statene pur slcurl. » « Le vostre robe devono essere bruciate » awertí sog- ghignando l'alcade. « La campanella prenderete, e basta. » « Le mie robe almeno ! » esclamo lo Schroder, fino allora "cosí soddisfatto e intrepido; e supplicava il magistrato co-" me un bambino. « I miei vestiti, i miei soldi, me li la- scerete almeno! » « La giacca, la mantella, e basta. L'altro deve essere bru- ciato. Per la carrozza e il cavallo si e gi`a provveduto. » « Come ? Che cosa volete dire ? » balbetto il mercante. « Carrozza e cavallo sono stati bruciati, come ordina la. legge » rispose l'alcade, godendo della sua disperazione. «Non vi immaginerete che un lebbroso se ne vada in giro in carrozzella, no?» E diede in una triviale risata. Poi, brutalmente: « Fuori ! fuori di qua! » urlava allo Schroder. «Non immaginerai che stia qui delle ore a discutere? Fuori immediatamente cane ! » Lo Schroder tremava tutto, grande e grosso com era, quando uscí dalla camera, sotto la canna puntata della pistola, la mascella cadente, lo sguardo inebetito. « La campana! » gli grido ancora il Melito facendolo "sobbalzare; e gli sbatté dinanzi, per terra, il pacchetto mi-" sterioso, che diede una risonanza metallica. « Tirala fuori, e legatela al collo. » Si chino lo Schroder, con la fatica di un vecchio cadente raccolse il pacchetto, spiego lentamente gli spaghi, trasse fuori dell'involto una campanella di rame, col manico di legno tornito, nuova fiammante. « Al collo! » gli urlo il Melito. « Se non ti sbrighi, perdio, ti sparo! » Le mani dello Schroder erano scosse da un tremito e non era facile eseguire l'ordine dell'alcade. Pure il mer- cante riuscí a passarsi attorno al collo la cinghia attaccata alla campanella, che gli pendette cosí sul ventre, risuo- nando ad ogni movimento. «Prendila in mano, scuotila, perdio! Sarai buono, no? Un marcantonio come te. Va' che bel lebbroso! » infierí don Valerio, mentre il medico si tirava in un angolo, sba- lordito dalla scena ripugnante. Lo Schroder con passi da infermo comincio a scendere le scale. Dondolava la testa da una parte e dall'altra come certi cretini che si incontrano lungo le grandi strade. Dopo due gradini si volto cercando il medico e lo fisso lunga- mente negli occhi. « La colpa non e mia! » balbetto il dottor Lugosi. « stata una disgrazia, una grande disgrazia! » « Avanti, avanti! » incitava intanto l'alcade come a una bestia. « Scuoti la campanella, ti dico, la gente deve sapere che arrivi ! » Lo Schroder riprese a scendere le scale. Poco dopo egli comparve sulla porta della locanda e si avvio lentamente attraverso la piazza. Decine e decine di persone facevano ala al suo pas.saggio, ritraendosi indietro man mano che lui si avvicinava. La piazza era grande, lunga da attraver- sare. Con gesto rigido egli ora scuoteva la campanella che "dava un suono limpido e festoso; den, den, faceva." VECCHIO FACOCERO Occorre considerare la psicologia del vecchio facocero. Giun- to a una certa et`a, il cinghiale africano spesso e porta- to a considerare con disdegno le miserie della vita. Le gioie della famiglia si appannano, i facocerini irrequieti e famelici, sempre tra i piedi, divengono un continuo fa- "stidio; e non parliamo della invadente alterigia dei giova-" notti ormai fatti, convinti che il mondo e le femmine siano tutti per loro. Adesso lui crede di essersene andato a vivere da solo per impulso spontaneo, di avere raggiunto il vertice della mae- st`a belluina, vuol convincersi di essere felice. Eppure guar- datelo come si aggira irrequieto tra le stoppie, come ogni tanto annusa l'aria sorpreso da improvvise memorie e come risulta sfavorevolmente asimmetrico nel grande quadro del- la natura che ha fatto tutte le vite a due a due. In realt`a ti hanno cacciato via dalla tua famiglia patriarcale, vec- chio facocero, perché eri diventato scorbutico e pretenzio- "so; i giovani avevano perduto ritegno, ti davano colpi" di zanna per spingerti da parte, e le donne hanno lasciato fare, segno che anch'esse ne avevano di te abbastanza. Co- sí per giorni e giorni, fino a che tu li hai abbandonati al loro destino. Eccolo qui, nel mezzo della piana di Ibad, mentre si avvicina la sera, intento a spilluzzicare entro una specie di vecchio canneto secco. E attorno non c'e nulla, eccezion fatta per la desolazione del piatto deserto, con aridi ter- mitai qua e l`a, e qualche piccolo misterioso cono nerastro a fior di terra. Verso il sud, tuttavia, si posson scorgere L "alcune montagne, veramente troppo lontane; ma sconsi-" gliamo dal crederci, probabilmente si tratta di parvenze vuote, nate solo dal desiderio. Del resto lui non le vede per- ché gli occhi dei facoceri sono diversi dai nostri. Invece poiché il sole discende, il verro scruta soddisfatto la pro- "pria ombra farsi di minuto in minuto piú oblunga; e a-" vendo poca memoria, come succede ogni sera, monta in superbia, per l'illusione di essere diventato grande in modo meraviglioso. No, non e specialmente grande rispetto ad altri giovani compagni, ma in un certo senso e magnifico, lui che e una delle bestie piú brutte del mondo. Perché l'et`a gli ha generosamente allungato le zanne, gli ha donato una im- portante criniera di setole gialle, gli ha inturgidito le quat- tro verruche ai lati del muso, lo ha trasformato in un mo- stro corporeo di favola, inerme pronipote dei draghi. In lui ora si esprime l'anima stessa della selva, un incanto di tenebre, protetto da antiche maledizioni. Ma nella testa immonda dovr`a pur esserci un barlume di luce, sotto il pelame scabro una specie di cuore. Un cuore che si e messo a battere essendo nel pieno de- "serto comparso una sorta di mostro nuovissimo e nero;" il quale mugola lievemente e si avvicina in modo strano, né correndo né strisciando, come non si era mai visto. Questo mostro e grandissimo, forse piú alto di un gaz- zellone, ma il facocero aspetta, fermo, e lo guarda con in- tenzioni malvage (benché tutt'attorno, dalle solitudini, stia nascendo un avverso presagio). Anche la nostra automobile si e adesso arrestata. « Che cosa guardi ? » faccio al compagno. « Perché hai fermato? Non vedi che e un bue? » « Anche a me pareva » dice lui « ma e un facocero, in- vece. Aspetta che sparo. » Lo strano mostro che mugola si e taciuto ed e fermo, apparentemente privo di vita. Eppure il facocero ha sen- "tito di improvviso un colpo tremendo; poi un rumore" secco e sinistro come di antico albero che crolli, o di certe frane. « Bravo, perdio, L'hai preso ! » grido io. « Guarda come si rivolta per terra, guarda che polverone! » Proprio cosí: attraverso i resti del vecchio canneto, il bestione e stato visto compiere una specie di capriola e rotolarsi in furore. « Macché » fa il mio compagno. « Non vedi che scappa ? » Fugge infatti il cinghiale, con la zampa posteriore de- stra spezzata. Assume un piccolo trotto ostinato, in dire- zione di est, allontanandosi dal sole morente, quasi timo- roso di questa siderale allusione. E il mostro metallico ri- prende il mugolío di prima, si mette a corrergli dietro, né guadagnando né perdendo terreno, per via di certi ciuf- fi di erba morta che ostacolano il cammino. Ora lui e solo e perduto. Né dal cielo vuoto, né dagli ermetici termitai, né da alcuna parte della terra potr`a ve- nire il soccorso. La sua ombra personale lo precede, trot- "tando di conserva, sempre piú mostruosa ed ambigua; ma" oramai essa non serve, l'orgoglio di poco fa gocciola fuori, col sangue, dalla ferita, e resta seminato per via. Ed ecco, ma quanto lontana, al limite di congiunzione fra terra e cielo, mentre la luce lentamente declina, ecco una striscia scura, le acacie spinose, il fiume. Laggiú sono gli altri, lui lo sa bene, tutta la patriarcale famiglia, le mo- gli, i giovanotti brutali, gli antipatici facocerini. Oh, e inutile negare, forse senza che se ne rendesse ben conto, anche nei giorni scorsi lui ha continuato a seguirli, a di- stanza, curando di non farsi vedere. Ed e ridicolo, certo ma lui provava piacere ad annusare le loro peste recenti, "a riconoscere le orme di questo o di quello; ecco, qui de-" vono essersi azzuffati, l`a hanno fatto scorpacciata di ra- dici, non me ne hanno lasciata neppure una. Reietto, non aveva potuto staccarsi, non era stato capace di vivere solo, presuntuoso vecchio, e adesso l'unica speranza superstite deriva ancora da loro. Ma una seconda fucilata l'ha preso a met`a di una co- scia, il sole tra poco affonder`a sotto terra e dal fiume trop- po lontano si avanzano a imbuto tetri abissi di buio. Ve- diamo, dall'automobile, che il suo trotto si e fatto in un certo senso svogliato e pesante, come se l'istinto ancora lo traesse alla fuga, ma non piú sincera velleit`a di vita. Il deserto del resto sembra divenire sempre piú sterminato, allontanandosi anziché approssimarsi il verde segno del fiu- me. Io dico al compagno: «Guarda, si e fermato, e stanco. Fatti sotto, ci sono ancora pochi minuti di luce ». E sic- come noi possiamo continuare la strada (su di noi nes- suno ha sparato a tradimento colpi di Mauser con pallot- tole dilaceranti) siccome noi ci awiciniamo, il facocero comincia a farsi piú grande, scorgiamo finalmente il laido volto, le orecchie irte di setole, la molto nobile criniera. Esso e immobile, in piedi e ci guarda con due occhi a spillo. Deve essere oramai esausto, ma puo darsi anche sia stato un solingo dio dancalo a trattenerlo, col vitreo scettro di sale, rimproverandogli la vilt`a della fuga. La canna dello schioppo e gi`a stata disposta secondo "l'esatta linea di mira; a questa breve distanza sbagliare sa-" rebbe impossibile, il dito indice si appoggia all'incavo del grilletto. Ed allora (mentre i draghi della notte sopraggiun- gevano dalle spente caverne d'oriente con la precipitazione di chi teme d'arrivare in ritardo) allora lo vedemmo vol- gere lentamente il muso in direzione del sole, di cui re- stava sopra il deserto soltanto una piccola fetta purpurea. C'era una pace immensa e ci nacque l'immagine di una villa ottocentesca alla medesima ora, con le vetrate gi`a accese e affacciata una vaga figurina di donna che tra echi di musica mandasse un sospiro, mentre i cani viziati chiac- chierano al cancello del giardino su aneddoti nobiliari e di caccia. Il mugolío del motore si spense e forse allora, per mise- ricordioso fiato di vento, giunse al facocero la voce dei compagni liberi e felici, rintanati sulle rive del fiume. Era pero troppo tardi. Intorno a lui stava per calare l'estremo sipario. Ne gli restava piú nulla se non dare uno sguardo al sole residuo, come positivamente fece, non gi`a per sen- timentali rimpianti, né per succhiarne con gli occhi l'ulti- ma luce, solo per chiamarlo a testimone dell'ingiustizia che Sl compiva. Quando tacque il colpo della fucilata, esso giaceva sul fianco sinistro, con gli occhi gi`a chiusi, le zampe abban- donate. Sotto i nostri occhi - in alto accendevansi le pri- me stelle - esalo gli ultimi respiri: due borbottii profondi da vecchio, commisti ai rigurgiti sanguigni. E non suc- cesse nulla, non il piú sottile spirito si involo dal mostro defunto per navigare nei cieli, neppure una minuscola bol- liciQa. Perché il sapientissimo Geronimo, che di queste cose se ne intende, e disposto ad ammettere un'anima, sia pure rudimentale, al leone, all'elefante e ai piú eletti car- "nivori; nei giorni di ottimismo si mostra benevolmente" disposto perfino col pellicano, ma col facocero mai, asso- "lutamente; per quanto insistessimo, egli ha sempre rifiu-" tato di concedergli il privilegio di una seconda vita. PAURA ALLA SCALA Per la prima rappresentazione della Strage degli innocenti di Pierre Grossgemuth (novit`a assoluta in Italia) il vec- chio maestro Claudio Cottes non esito a mettere il frac. Si era gi`a, e vero, in maggio inoltrato quando la stagione della Scala, a giudizio dei piú intransigenti, volge al de- clino, quando al pubblico, composto in gran parte di tu- risti, e buona norma offrire spettacoli di esito sicuro, non di eccessivo impegno, scelti nel repertorio tradizionale di "tutta tranquillit`a; e non importa se i direttori non sono" proprio i massimi, se i cantanti, per lo piú elementi di vec- chia rotine scaligera, non destano curiosit`a. In questo pe- riodo i ra.ffinati si concedono confidenze formali che da- rebbero scandalo nei mesi piú sacri alla Scala: par quasi di buon gusto alle signore non insistere nelle toilettes da sera e vestire semplici abiti da pomeriggio, agli uomini venire in blu o in grigio scuro con cravatte di colore come se si trattasse di visita a una famiglia amica. E qualche abbonato, per snobismo, giunge al punto di non farsi neanche vedere, senza pero cedere ad altri il palco o la poltrona che riman- gono percio vuoti (e tanto meglio se i conoscenti vorranno accorgersene). Ma quella sera c'era spettacolo di gala. Prima di tutto la Strage degli innocenti costituiva in sé un avvenimento, a mo- tivo delle polemiche che il lavoro aveva provocate cinque mesi prima in meza Europa quando era stata messa in scena a Parigi. Si diceva che in quest'opera (a dir la verit`a "si trattava, secondo la definizione dell'autore, di un ""Ora-" "torio popolare, per coro e voci, in dodici quadri"") il musi-" cista alsaziano, uno dei maggiori capiscuola dell'epoca mo- derna, avesse, benché a tarda et`a, preso una nuova via (do- po averne cambiate tante) assumendo forme ancora piú scon- certanti e audaci delle precedenti, con la dichiarata inten- "zione pero di ""richiamare finalmente il melodramma dal" gelido esilio dove gli alchimisti tentano di tenerlo in vita con pesanti droghe, verso le dimenticate contrade della verit`a: cioe, a sentire i suoi ammiratori, aveva rotto i ponti col passato prossimo, tornando (ma bisognava sa- pere come) alla gloriosa tradizione dell'Ottocento: qual- cuno aveva perfino trovato riferimenti con le tragedie gre- che. L'interesse maggiore nasceva comunque dalle ripercussio- ni di genere politico. Nato da famiglia evidentemente ori- ginaria della Germania, di aspetto quasi prussiano pure lui benché ormai ingentilito in volto dall'et`a e dalla pratica dell'arte, Pierre Grossgemuth, da molti anni stabilito presso Grenoble, aveva avuto, al tempo dell'occupazione, un con- tegno dubbio. Non aveva saputo dire di no quando i te- deschi lo avevano invitato a dirigere un concerto a scopo di beneficenza, era stato d'altra parte, si raccontava, largo di aiuti verso i maqt~is della zona. Aveva fatto cioe di tutto per non dover prendere un atteggiamento aperto, stando- sene rinserrato nella sua ricca villa, donde, nei mesi piú critici prima della liberazione, non veniva neanche piú la solita inquietante voce del pianoforte. Ma Grossgemuth era un grande artista e la sua crisi non sarebbe stata rinvangata se egli non avesse scritto e fatto rappresentare la Strage de- gli innoeenti. La piú ovvia interpretazione di questo oratorio - su libretto di un giovanissimo poeta francese, Philippe Lasalle, ispirato dall'episodio biblico - era che fosse un'alle- goria dei massacri compiuti dai nazisti, con l'identificazione di Hitler nella torva figura di Erode. Critici d'estrema si- nistra avevano pero attaccato Grossgemuth accusandolo di adombrare, sotto la superficiale e illusoria analogia anti- hitleriana, le eliminazioni compiute dai vincitori, dalle ven- dette spicciole avvenute in ogni borgo fino alle forche di Norimberga. Ma c'era chi andava piú in l`a: la Strage degli innoee1zti, secondo questi, voleva essere una specie di pro- fezia e alludere a una futura rivoluzione e massacri rela- "tivi; condanna quindi anticipata di tale rivolta e ammoni-" mento a quanti avrebbero avuto il potere di soffocarla in tempo: un libello, insomma, di spirito addirittura medio- evale. Grossgemuth aveva, com'era prevedibile, smentito le in- sinuazioni con pcche ma secche parole: se mai, la Strage degli innoeenti doveva essere considerata una testimonianza di fede cristiana e niente piú. Ma alla premiere di Parigi c'era stata battaglia e a lungo i giornali ne avevano dispu- tato in termini di fuoco e di veleno. Si aggiunga la curiosit`a per la difficile realizzazione mu- sicale, L'aspettativa per le scene- che si annunciavano paz- zesche - e per le coreografie ideate dal famoso Johan Mon- clar, fatto venire apposta da Bruxelles. Da una settimana, per seguire le prove, Grossgemuth si trovava a Milano con "la moglie e la segretaria; e naturalmente avrebbe assistito" alla rappresentazione. Tutto questo dava insomma allo spet- tacolo un tono di eccezione. Nell'intera stagione non c'era stata anzi una soirée cosí importante. Per l'occasione i mag- giori critici e musicisti d'Italia si erano trasferiti a Milano, da Parigi era giunto un gruppetto di fanatici grossgemu- thiani. E il questore aveva previsto uno straordinario ser- vizio d'ordine nell'eventualit`a che si scatenasse la burrasca. Vari funzionari e molti agenti di polizia, in un primo tem- po destinati alla Scala, furono invece impiegati altrove. Una diversa e ben piú preoccupante minaccia si era delineata al- limprovvi50 nel tardo pomeriggio. Varie segnalazioni an- nunciavanO imminente, forse per la notte stessa, un'azione di forza da parte della comunit`a dei Morzi. I capi di que- sto grande movimento non avevano mai fatto mistero che il loro ultimo scopo era di rovesciare l'ordine costituito "e di instaurare la ""nuova giustizia"". Sintomi di agitazione" c'erano gi`a stati nei mesi precedenti. Adesso era in corso una offensiva dei Morzi contro la legge, che stava per essere approvata al Parlamento, sulla migrazione interna. Il pre- testo poteva essere buono per un tentativo a fondo. Durante tutta la giornata gruppetti dall'aspetto deciso e quasi provocante si erano notati nelle piazze e nelle vie del centro. Non avevano né distintivi, né bandiere, né cartelli, non erano inquadrati, non tentavano di formare dei cor- tei. Ma era fin troppo facile indovinare di che razza fos- sero. Niente di strano, a dir la verit`a, perché manifesta- zioni come questa, innocue e in sordina, si ripetevano da anni con frequenza. E anche stavolta la forza pubblica ave- va lasciato fare. Le informazioni riservate della Prefettura lasciavano temere invece, entro poche ore, una manovra in grande stile per la conquista del potere. Roma era stata subito avvertita, polizia e carabinieri messi in stato di emer- genza, anche i reparti dell'esercito stavano sul chi vive. Non si poteva pero escludere che fcsse un falso allarme. Gi`a altre volte era successo. Gli stessi Morzi diffondevano voci del genere, era un loro gioco favorito. Una vaga e inespressa sensazione di pericolo, come av- viene, si era tuttavia diffusa per la citt`a. Non c'era un fatto concreto che la giustificasse, non c'erano neppure dicerie che si riferissero a qualcosa di preciso, nessuno sapeva nulla, eppure nell'aria si era fatta una sensibile tensione. Usciti dagli uffici, molti borghesi quella sera affrettavano il passo verso casa, scrutando con apprensione la prospettiva delle strade se mai dal fondo avanzasse una massa nereggiante a sbarrare la via. Non era la prima volta che la tranquillit`a della cittadinanza veniva minacciata: parecchi cominciava- no a farci l'abitudine. Anche per questo la maggioranza continuo a badare alle sue faccende come se fosse una sera qualsiasi fra le tante. Singolare poi una circostanza che fu notata da parecchi: benché, filtrato attraverso chiss`a quali indiscrezioni, un presentimento di cose grosse avesse preso a serpeggiare qua e l`a, nessuno ne parlava. In un tono ma- gari differente dal consueto, con sottintesi ermetici, ma si facevano sempre i soliti discorsi della sera, ci si diceva ciao e arrivederci senza postille, si fissavano appuntamenti per l'indomani, si preferiva insomma non accennare aperta- mente a cio che in un modo o nell'altro riempiva gli animi, quasi che parlarne potesse rompere l'incanto, menare gra- "mo, chiamare la sventura; cosí come sulle navi in guerra" e legge non enunciare neppure a titolo di scherzo ipotesi ,di siluramenti o di colpi a bordo. Tra coloro che piú di ogni altro ignoravano tali preoccu- pazioni era senza dubbio il maestro Claudio Cottes, uomo candido e per alcuni versi ottuso, per il quale nulla esisteva al mondo fuori della musica. Romeno di nascita (sebbene pochi lo sapessero) si era stabilito in Italia giovanissimo. negli anni d'oro, al principio del secolo, quando la sua pro- digiosa precocit`a di virtuoso lo aveva reso celebre in breve tempo. Spentisi nel pubblico i primi fanatismi, egli era pur sempre rimasto un magnifico pianista, forse piú deli- cato che potente, che periodicamente faceva il giro delle maggiori citt`a europee per cicli di concerti, invitato dai piú "noti enti filarmonici; questo fin verso il '40. Soprattutto gli" riusciva caro ricordare i successi ottenuti, piú di una volta, suonando nelle stagioni sinfoniche della Scala. Ottenuta la cittadinanza italiana, aveva sposato una milanese e occupato con molta probit`a, al Conservatorio, la cattedra di piano- forte nel corso superiore. Ormai si considerava milanese e bisogna ammettere che pochi, nell'ambiente, sapessero par- lare in dialetto meglio di lui. Benché in pensione - gli restava solo l'incarico onorifico di commissariO in alcune sessioni di esami al Conservatorio - Cottes continuava a vivere solo per la musica, non fre- quentava che musicisti e musicomani, non mancava a un concerto e seguiva, con una specie di trepidante timidezza, le affermazioni dcl figlio Arduino, ventiduenne, composi- tore di ingegno promettente. Diciamo timidezza, perché Arduino era un ragazzo molto chiuso in sé, avarissimo di confidenze ed espansioni, di una sensibilit`a perfino esagera- ta. Da che era rimasto vedovo, il vecchio Cottes si trovava, per cosí dire, disarmato e impacciato di fronte a lui. Non lo capiva. Non sapeva che vita conducesse. Si rendeva conto che i propri consigli, anche in materia musicale, cadevano nel vuoto. Cottes ncn era mai stato un gran bell'uomo. Adesso, a 67 anni, era un bel vecchio, di quelli che si usano chiamar decorativi. Con l'et`a una vaga assomiglianza a Beethoven si "era accentuata; compiacendosene forse senza seperlo, egli" curava con amore i capelli bianchi, lunghi e vaporosi che "gli facevano una corona molto ""artistica"". Un Bec-thoven" non tragico, anzi bonario, pronto al sorriso, socievole, di- "sposto a trovare il bene quasi dovunque; ""quasi"", perché" in fatto di pianisti era ben raro ch'egli non torcesse il naso. Era l'unica sua debolezza e gliela si perdonava volentieri. « Ebbe, maestro? » gli chiedevano gli amici, durante gli intervalli. « Tutt ben per mi. Ma se ghe fuss staa el Beet- "hoven? » rispondeva; oppure: « Perché? Lu l'ha minga sen-" tí? El s'e indormentaa? » o analoghe facili facezie di vec- chio stampo, suonassero pure Backhaus, Cortot, o Giese- king. Questa naturale bonomia - egli non era affatto invelenito di trovarsi escluso, a causa dell'et`a, dall'attiva vita artistica - lo rendeva simpatico a tutti quanti e gli assicurava, da parte della direzione della Scala, un trattamento di riguardo. Nella stagione lirica non e mai questione di pianisti e la pre- senza in platea del buon Cottes, nelle serate un po' difficili, costituiva un sicuro piccolo nucleo di ottimismo. Per lo meno sui suoi personali battimani si poteva contare come "regola; e l'esempio di un concertista gi`a famoso era presu-" mibile inducesse molti dissenzienti a moderarsi, gli indecisi ad approvare, i tepidi a un consenso piú manifesto. Cio "senza contare il suo aspetto molto ""scaligero"" e le passate" benemerenze di pianista. Il suo nome quindi figurava nella "segreta e avara lista degli ""abbonati perpetui non paganti""." Al mattino di ogni giorno di premiere, la busta col biglietto per una poltrona compariva immancabilmente nella cas- setta della sua posta, alla portineria di via della Passione, 7. "Solo per le llprime"" che si prevedevano povere d'incassi," le poltrone erano due, una per lui e l'altra per il figlio. Del "resto Arduino non ci teneva; preferiva arrangiarsi da solo," con gli amici, assistendo alle prove generali dove non c'c l'obbligo di andar vestiti bene. Per l'appunto, della Strage degli innocenti, Cottes junior aveva ascoltato il giorno prima l'ultima prova. Ne aveva anche parlato col padre a colazione, in termini molto neb- "biosi come era sua abitudine. Aveva accennato a certe ""inte-" "ressanti risoluzioni timbriche"", a una ""polifonia molto sca-" "vata, a delle ""vocalizzazioni piú deduttive che induttive""" (parole queste pronunicate con una sniorfia di disprezzo) e cosí via. L'ingenuo padre non era riuscito a capire se il la- voro fosse buono o no, o quanto meno se al figlio fosse piaciuto o dispiaciuto. Non insistette per sapere. I giovani "lo avevano abituato al loro gergo misterioso; alle porte del" quale anche stavolta ristette intimidito. Adesso si trovava solo in casa. La donna di servizio, che veniva a ore, se n'era andata. Arduino a pranz0 fuori e il "pianoforte, grazie al Cielo, muto. Il ""grazie al Cielo"" era" "senza dubbio nel cuore del vecchio concertista; mai pero" egli avrebbe avuto il coraggio di confessarlo. Quando il figlio componeva, Claudio Cottes entrava in uno stato di estrema agitazione interna. Da quegli accordi apparente- mente inesplicabili di momento in momento egli aspettava, con una speranza quasi viscerale, che uscisse infine qualche cosa di simile alla musica. Capiva che era una debolezza da sorpassato, che non si poteva battere di nuovo le antiche strade. Si ripeteva che proprio il gradevole doveva essere evitato quale segno di impotenza, decrepitezza, marcia no- stalgia. Sapeva che la nuova arte doveva soprattutto far soffrire gli ascoltatori e qui era il segno, dicevano, della sua vitalit`a. Ma era piú forte di lui. Nella stanza vicina, ascoltando, egli talora intrecciava le dita delle mani cosí forte da farle scricchiolare, come se con questo sforzo aiu- "tasse il figlio a ""liberarsi"". Il figlio invece non si liberava;" le note, faticando, si aggrovigliavano sempre di piú, gli accordl assumevano suoni ancor piú ostili, tutto restava lí sospeso o addirittura si rovesciava a piombo in piú caparbi attriti. Che Dio lo benedisse. Deluse, le mani del padre si separavano, tremando un poco si affaccendavano ad accen- dere una sigaretta. Cottes era solo, si sentiva bene, un'aria tepida entrava dalle finestre aperte. Le otto e mezzo, ma il sole splendeva ancora. Mentre egli si vestiva, suono il telefono. « C'e il maestro Cottes ? » fece una voce sconosciuta. « Sí, sono io » rispose. « Il maestro Arduino Cottes? » « No, io sono Clau- dio, il padre. » La comunicazione fu troncata. Torno alla camera da letto e il telefono suono di nuovo. « Ma c'e o non c'e Arduino? » domando la stessa voce di prima, in tono quasi villano. « No, el gh'e no » rispose il padre cer- cando di pareggiare la bruschezza. « Peggio per lui ! » fece l'altro e tolse il contatto. Che modi, penso Cottes, e chi poteva essere ? Che razza di amici frequentava adesso Ar- "duino? E che cosa poteva significare quel ""peggio per lui""?" La telefonata gli lascio una punta di fastidio. Duro per for- tuna pochi istanti. Nello specchio dell'armadio, il vecchio artista ora rimi- rava il proprio frac di antico stile, largo, a sacco, adatto alla sua et`a e nello stesso tempo molto bohémien. Ispirato, pare, dall'esempio del leggendario Joachim, Cottes aveva la ci- vetteria, proprio per distinguersi dal piatto conformismo, di mettere il panciotto nero. Come i camerieri, esattamente, ma chi al mondo, fosse pure cieco, avrebbe mai scambiato lui, Claudio Cottes, per un cameriere? Benché avesse caldo, indosso un leggero soprabito per evitare la curiosit`a indi- screta dei passanti, e preso un piccolo binocolo, uscí di casa, sentendosi pressoché felice. Era una sera incantevole di prima estate, quando perfino Milano riesce a recitare la parte di citt`a romantica: con le strade quiete e semideserte, il profumo dei tigli che usciva dai giardini, una falce di luna in mezzo al cielo. Pregustando la brillante serata, L'incontro con tanti amici, le discussioni, la vista delle belle donne, lo spumante prevedibile al rice- vimento annunciato dopo lo spettacolo nel ridotto del tea- "tro, Cottes si awio per via Conservatorio; allungava cosí" di poco il cammino ma risparmiava la vista, a lui ingratis- sima, dei Navigli coperti. Ivi il maestro si imbatté in uno spettacolo curioso. Un giovanotto dai lunghi capelli ricci cantava sul marciapiede una romanza napoletana tenendo un microfono a pochi centimetri dalla bocca. Un filo correva dal microfono a una cassetta, con accumulatore, impianto di amplificazione e altoparlante, da cui la voce usciva con tracotanza, cosí da rimbombare tra le case. C'era in quel canto una specie di sfogo selvaggio, un'ira, e benché le note parole fossero di amore, si sarebbe detto che il giovane stesse minacciando. Intorno, sette otto ragazzetti dall'aria imbambolata e basta. Le finestre, da una parte e dall'altra della via, erano chiuse, sprangate le persiane, come se si rifiutassero di ascoltare. Tutti vuoti questi appartamenti ? O gli inquilini si erano chiusi dentro, simulando l'assenza, per paura di qualche cosa ? Al passaggio di Claudio Cottes, il cantante, senza muoversi, accrebbe l'intensit`a delle emissioni tanto che l'al- toparlante comincio a vibrare: era un invito perentorio a mettere dei soldi sul piattello collocato sopra la cassetta. Ma il maestro, disturbato nell'animo, non sapeva neppure lui come, continuo dritto accelerando il passo. E per parec- chi metri sentí sulle spalle il peso dei due occhi vendicativi. " ""Tanghero e cane !"" inveí mentalmente il maestro con-" tro il posteggiatore. La sguaiataggine dell'esibizione gli a- veva guastato il buon umore, chiss`a perché. Ma ancor piú fastidio gli procuro, quando stava per raggiungere San Babila, un breve incontro con Bombassei, ottimo giova- ne che era stato suo allievo al Conservatorio e adesso faceva il giornalista. « E di Scala, maestro? » gli chiese scor- gendo nello scollo del soprabito la cravattina bianca. « Vorresti insinuare, o insolente ragazzo, che alla mia et`a sarebbe ora... ? » fece lui sollecitando, ingenuo, un com- plimento. « Lo sa bene anche lei » disse l'altro « che la Scala non si chiamerebbe Scala senza il maestro Cottes. Ma Arduino? Come mai non e venuto? » « Arduino ha gi`a visto la prova generale. Stasera era impegnato. » « Ah, capisco » disse Bombassei con un sorriso di furba comprensione. « Stasera... avr`a preferito stare a casa... » « E perché mai ? » domando Cottes avvertendo il sot- tinteso. « Ci sono troppi amici in giro, stasera » e il giovane fece un cenno con la testa ad indicare la gente che passava. « ... Del resto, nei suoi panni, io farei altrettanto... Ma mi scusi, maestro, c'e qui il mio tram... Buon divertimento! » Il vecchio rimase l`a sospeso, inquieto, senza capire. Guar- do la folla e non riuscí a scorgere niente di strano: tran- ne che forse ce ne era meno del solito, e quella poca aveva un'aria sciatta e in certo modo piena d'affanno. E allora, pur restando un enigma il discorso di Bombassei, ricordi rotti e confusi affioravano, di certe mezze frasi det- te dal figlio, di certi nuovi compagni sbucati fuori negli ultimi tempi, di certi impegni serali che Arduino non aveva mai spiegato, eludendo le sue domande con vaghi pretesti. Che il figlio si fosse messo in qualche pasticcio? Ma che cosa aveva poi di speciale quella sera? Chi erano i troppi amici in giro? Rimestando questi problemi giunse in piazza della Scala. Ed ecco i pensieri sgradevoli fuggire via alla vista conso- lante del fermento alla porta del teatro, delle signore che si affrettavano in un precipitoso ondeggiar di strascichi e di veli, della folla che stava a vedere, delle automobili stu- pende in lunga coda, attraverso i cui vetri si intravvedevano gioielli, sparati bianchi, spalle nude. Mentre stava per co- minciare una notte minacciosa, forse anche tragica, la Scala, impassibile, mostrava lo splendore degli antichi tempi. Mai, nelle ultime stagioni, si era vista una armonia tanto ric- ca e fortunata di uomini, di spiriti e di cose. La stessa inquietudine che aveva cominciato a spandersi per la citt`a accresceva probabilmente l'animazione. A chi sapeva, par- ve che tutto un mondo dorato ed esclusivo si rifugiasse nella sua amata cittadella, come i Nibelunghi nella reggia all'arrivo di Attila, per un'estrema folle notte di gloria. In realt`a pochi sapevano. Anzi, la maggioranza ebbe l'im- pressione, tanta era la dolcezza della sera, che un periodo torbido fosse finito con l'ultima traccia dell'inverno, e che venisse avanti una grande serena estate. Portato nel gorgo della folla, ben presto, senza quasi accorgersene, Claudio Cottes si ritrovo nella platea, nel pie- no fulgore delle luci. Erano le nove meno dieci, il teatro era gi`a gremito. Cottes guardo intorno, estasiato come un ragazzettO Avevano un bel passare gli anni, la prima sen- sazione ogni volta che lui entrava in quella sala, si mante- neva pura e vivida, come dinanzi ai grandi spettacoli della natura. Molti altri, con cui andava scambiando fuggevoli segni di saluto, provavano lo stesso, lo sapeva. Proprio di qui nasceva una speciale fratellanza, una sorta di innocua rnassoneria che agli estranei, a chi non vi partecipava, do- veva forse sembrare un po' ridicola. Chi mancava ? Gli sguardi esperti di Cottes ispeziona- rono, settore per settore, il grande pubblico, trovando tut- ti a posto. Accanto a lui sedeva il celebrato pediatra Fer- ro che avrebbe lasciato morire di crup migliaia di pic- "coli clienti pur di non perdere una ""prima"" (il pensiero" suggerí anzi a Cottes un grazioso gioco di parole con allu- sione a Erode e ai bimbi galilei, che si promise di utilizare in seguito). A destra, la coppia ch'egli aveva definito dei parenti poveri, marito e moglie gi`a attempati, con abiti da sera sí, ma lisi e sempre quelli, che non mancavano a "nessuna ""prima"", applaudivano con la stessa foga qualsiasi" cosa, non parlavano con nessuno, non salutavano nessuno, "non scambiavano neanche l'un l'altro una parola; tanto che" tutti li consideravano claqueurdi lusso, dislocati nella parte piú aristocratica della platea per dare il via ai batti- mani. Piú in l`a l'ottimo professore Schiassi, economista, famoso per avere seguito anni e anni Toscanini dovunque "si recasse a dar concerti; e siccome allora era a corto di" denari, viaggiava in bicicletta, dormiva nei giardini e man- "giava le provviste portate nel sacco da montagna; paren-" ti e amici lo consideravano un po' matto ma lo ama- vano ugualmente. Ecco l'ing. Beccian, idraulico, ricco forse a miliardi, melomane umile e infelice, che da un mese in qua, essendo stato nominato consigliere alla Societ`a del Quartetto (per cui aveva palpitato da decenni come un in- namorato e fatto indicibili sforzi diplomatici) era all'im- prowiso montato, in casa e in ditta, a un tale grado di "superbia da diventare insopportabile; e trinciava giudizi su" Purcell e D'Indy, lui che prima non osava rivolgere la parola all'ultimo dei contrabbassi. Ecco, col minuscolo ma- rito, la bellissima Maddi Canestrini, ex-commessa, che ad ogni nuova opera si faceva catechizzare nel pomeriggio da un docente di storia della musica per non fare brutte fi- "gure; il suo celebre petto mai si era potuto amrriirare in" tanta completezza e veramente risplendeva tra la folla, dis- se uno, come il faro al Capo di Buona Speranza. Ecco la principessa Wurz-Montague, dal gran naso d'uccello, ve- nuta apposta dall' Egitto con le quattro figlie. Ecco, nel piú basso palco di proscenio, luccicare i cupidi occhi del barbuto conte Noce, assiduo alle sole opere che promettes- "sero la comparsa di ballerine; e infaticabile, a memoria" d'uomo, in tale circostanza, nell'esprimere la soddisfazio- "ne con la invariata formula: ""Ah, che personale! Ah, che" "polpe !"". Ecco in un palco della prima fila l'intera tribú" dei Salcetti, vecchia famiglia milanese, che si vantava di "non aver mai perso una ""prima"" della Scala a partire dal" 1837. E in quarta fila, quasi sul proscenio, le povere mar- chese Marizzoni, madre, zia e figlia nubile, sbircianti con amarezza al sontuoso palco 14 di seconda fila, loro feudo, dovuto quest'anno abbandonare per ristrettezze: adattatesi a un ottavo di abbonamento da consumare lassú, tra i pic- cioni, si tenevano rigide e compassate come upupe, cer- cando di passare inosservate. Intanto, vigilato da un aiu- tante di campo in uniforme, un pingue principe indiano non bene identificato stava addormentandosi e al ritmo del respiro l aigrette del turbante oscillava su e giú, spor- gendo fuor del palco. Poco lontana, con un vestito color fiamma da sbalordire, aperto davanti fino alla cintura, le braccia nude con attorcigliato a biscia un cordone nero, stava in piedi, proprio a farsi ammirare, una impressio- "nante donna sui trent'anni; un'attrice di Hollywood dice-" vano, ma i pareri sul nome eran discordi. E accanto le sedeva, immoto, un bambino bellissimo e spaventosamen- te pallido che pareva dovesse morire da un momento al- l'altro In quanto ai due circoli rivali della nobilt`a e della ricca borghesia avevano entrambi rinunciato alla elegante "consuetudine di lasciare le barcacce semivuote. I ""signori-" nimeglio provveduti della Lombardia vi si congestiona- vano in serrati grappoli di volti abbronzati, di camicie a specchio, di marsine da grande firma. A confermare il suc- cesso eccezionale della serata si notava poi, contro il solito, un forte numero di donne belle con décolletéi estremamen- te impegnativi. Il Cottes si propose di ripetere, durante un intervallo, una distrazione che usava concedersi nei ver- di anni: di contemplare cioe la profondit`a di tali prospet- tive dall'alto in basso. E in cuor suo scelse, quale osser- vatorio, il palco in quarta fila dove scintillavano gli sme- raldi giganteschi di Flavia Sol, ottima contralto e buona amica. A tale frivolo splendore un solo palco contrastava, simile a un occhio tenebroso e fisso in mezzo a un tremolio di fiori. Era in terza fila e vi stavano, due seduti ai lati e il terzo in piedi, tre signori dai trenta ai quarant'anni, con vestiti neri a doppio petto, cravatte scure, volti magri e tetri. Immobili, atoni, stranieri a tutto cio che succedeva in- torno, volgevano con ostinazione gli sguardi al sipario, co- · me se fosse l'unica cosa degna d'interesse: parevano non spettatori venuti per godere, ma giudici di un sinistro tribu- " nale che, data la sentenza, ne aspettassero l'esecuzione; e" nell'attesa preferissero non guardare i condannati, non gi`a per piet`a, bensí a motivo della repulsione. Piú di uno si trattenne a osservarli, provandone disagio. Chi erano? Co- me si permettevano di contristare la Scala col loro aspet- to funerario? Era una sfida? E a che scopo? Anche il mae- stro Cottes, come li noto, rimase un po' perplesso. Una maligna stonatura. E n'ebbe un oscuro senso di timore, tanto che non oso alzare verso di loro il suo binocolo. In quel mentre si spensero le luci. Spicco nel buio il bianco riverbero che saliva dall'orchestra e vi sorse la scarna figura di Max Nieberl, direttore, lo specialista di musiche mo- derne. Se mai nella sala si trovavano quella sera, degli uomini, timorosi o inquieti, certo la musica di Grossgemuth, le smanie del Tetrarca, gli impetuosi e quasi ininterrotti in- terventi del coro appollaiato come un branco di corvi su una specie di rupe conica (le sue invettive piombavano come cateratte sul pubblico, facendolo spesso sobbalzare) le scene allucinate, non erano certo fatte per rasserenarli. Sí, c'era dell'energia, ma a quale prezzo. Strumenti, suo- natori, coro, cantanti, massa di ballo (che era di scena quasi sempre per minuziose esplicazioni mimiche, mentre i protagonisti 5i muovevano di rado) direttore e perfino spettatori erano sottoposti al massimo sforzo che si potesse pretendere da loro. Al termine della prima parte l'applause esplose non tanto a scopo di consenso quanto per il co- mune bisogno fisico di sfogare la tensione. La meravigliosa sala vibrava tutta. Alla terza chiamata comparve tra gli interpreti la torreggiante sagoma di Grossgemuth il quale rispondeva con brevissimi e quasi stentati sorrisi, piegando ritmicamente il capo. Claudio Cottes si ricordo dei tre lu- gubri signori e, continuando a battere le mani, alzo gli occhi a guardarli: erano ancora l`a, immobili e inerti come prima, non si erano spostati di un millimetro, non applau- divano, non parlavano, non sembravano neanche persone vive. Che fossero dei manichini? Restarono nella stessa po- sizione anche quando la maggior parte della gente si fu riversata nel ridotto. Appunto durante il primo intervallo le voci che fuori, nella citt`a, stesse covando una specie di rivoluzione, si fe- cero strada in mezzo al pubblico. Anche qui esse procedet- tero in sordina, a poco a poco, grazie ad un istintivo ritegno della gente. Né riuscirono certo a sopraffare le accese di- scussioni sull'opera di Grossgemuth a cui il vecchio Cottes prese parte, senza esprimere giudizi, con scherzosi com- menti in meneghino. Suono infine il campanello per an- nunciare la fine dell'ent1'acte. Avviatosi giú per la scala dalla parte del Museo teatrale, Cottes si trovo fianco a fianco con un conoscente di cui non ricordava il nome e il quale, accortosi di lui, gli sorrise con espressione astuta. aBene, caro maestro » disse « sono proprio contento di vederla, avevo appunto desiderio di dirle una cosa... » Par- lava adagio con pronuncia molto affettata. Intanto scen- devano. Ci fu un ingorgo, per un istante furono sepa- rati. « Ah eccola » riprese il conoscente quando si ritrova- rono vicini « dove mai era sparito? Sa che per un momento ho creduto che lei fosse sparito sottoterra ?... Come Don Giovanni! » E gli parve di aver trovato un accostamento "molto spiritoso perché si mise a ridere di gusto; e non fi-" niva mai. Era un signore scialbo, dall'aspetto incerto, un intellettuale di buona famiglia andato al meno, si sarebbe detto a giudicare dallo smoking di taglio sorpassato, dalla camicia floscia di dubbia freschezza, dalle unghie listate di grigio. Imbarazzato, il vecchio Cottes attendeva. Erano giun- ti quasi in fondo. « Bene » riprese, circospetto, il conoscente incontrato chis- s`a dove « lei deve promettermi di considerare cio che le diro come una comunicazione confidenziale... confidenzia- le, mi spiego ?... Non s'immagini insomma cose che non ci sono... Non le venga in mente di considerarmi, corne dire?, di considerarmi un rappresentante officioso... un por- tavoce, questo e il termine oggi usato, vero? » « Sí, sí » disse il Cottes, sentendo rinascere l'identico ma- lessere provato nell'incontro con Bombassei, pero ancora piú acuto « sí... Ma le assicuro che non capisco niente... » Suono il secondo campanello di avvertimento. Erano nel corridoio che corre, a sinistra, di fianco alla platea. Sta- vano per imbucare la scaletta che porta alle poltrone. Qui lo strano signore si fermo. « Ora devo lasciarla » disse. « Io non sono in platea... Ebbene... baster`a le dica questo: suo figlio, il musicista... sarebbe forse meglio... un po' piú di prudenza, ecco... non e piú un ragazzino, vero, maestro ?... Ma vada, vada, che hanno gi`a spento... E io ho parlato perfino troppo, sa? » Rise, chino il capo senza dare la mano, se ne ando svelto, quasi correndo, s--l tappeto rosso del corridoio deserto. Meccanicamente il vecchio Cottes s'inoltro nella sala gi`a buia, chiese scusa, raggiunse il suo posto. In lui era il tumulto. Che cosa stava combinando quel pazzo di Ar- duino ? Sembrava che tutta Milano lo sapesse mentre lui, padre, non riusciva neanche a immaginarlo. E chi era que- sto signore misterioso? Dove gli era stato presentato? Sen- za successo si sforzava di ricordare le circostanze della prima conoscenza. Gli parve di poter escludere gli ambienti ínusicali. Dove allora? Forse all'estero? In qualche albergo durante la villeggiatura ? No, assolutamente non riusciva a ricordare. Intanto, sulla scena, avanzava con mosse da biscia la provocante Martha Witt, in nudit`a barbariche, a incarnare la Paura, o cosa del genere, che entrava nel pa- lazzo del Tetrarca. Come Dio volle si giunse anche al secondo entr'acte. Non appena si accesero le luci il vecchio Cottes cerco intorno, ansiosamente, il signore di prima. Lo avrebbe interpellato, "si sarebbe fatto spiegare; una motivazione non gli poteva" essere rifiutata. Ma l'uomo non si vedeva. Alla fine, singo- larmente attratto, il suo sguardo poso sul palco dei tre tipi tenebrosi. Non erano piú tre, ce n'era un quarto che si teneva un poco indietro, inmoking questi, pero squalli- do anche lui. Uno .moking di taglio sorpassato (adesso Cot- tes non esito a guardare col binocolo) una camica floscia di dubbia freschezza. E a differenza degli altri tre, rideva, il nuovo venuto, con espressione astuta. Un brivido corse per la schiena del maestro Cottes. Si volse al professor Ferro, come chi, sprofondando nel- l'acqua, afferra senza badare il primo sostegno che si offre. « Scusi, professore » domando con precipitazione « mi sa dire chi sono quei brutti tipi in quel palco, l`a in terza fila, subito a sinistra di quella signora in viola? » « Quei negromanti? » fece ridendo il pediatra « ma e lo Stato Maggiore ! lo Stato Maggiore pressoché al comple- T' « Stato Maggiore? Che Stato Maggiore? » Il Ferro sembrava divertito: « Almeno lei, maestro, vive sempre nelle nuvole. Beato lei ». « Che Stato Maggiore? » insistette il Cottes impazientito. « Ma dei Morzi, benedetto Iddio! » « Dei Morzi? » fece eco il vecchio, assalito da pensieri ancor piú foschi. I Morzi, nome tremendo Lui Cottes non era pro né contro, non se ne intendeva, non aveva mai voluto interessarsene, sapeva solo che erano pericolosi, che era meglio non stuzzicarli. E quello sciagurato di Ar- duino gli si era messo contro, se ne era tirato addosso l'ini- micizia. Non c'erano altre spiegazioni. Di politica, di in- trighi si occupava dunque quel ragazzo senza cervello in- vece di mettere un po' di senso comune nelle sue musiche. "Padre indulgente sí, discreto, comprensivo quanto si voleva;" ma all'indomani si sarebbe fatto perdio sentire ! Rischiare di rovinarsi per una smania idiota! Nello stesso tempo ri- nuncio all'idea di interpellare il signore di poco prima. Capiva che sarebbe stato inutile, se non dannoso. Gente che non scherzava i Morzi. Bont`a loro se avevano avuto la finezza di metterlo sull'avviso. Si guardo alle spalle. Aveva la sensazione che tutta la sala lo fissasse, disappro- vando. Brutti tipi i Morzi. E potenti. Inafferrabili. Perché andarli a provocare? Si riscosse con fatica. « Maestro, non si sente bene? » gli chiedeva il prof. Ferro. « Come?... Perché... » rispose tornando progressivamente a galla. « L'ho visto diventare pallido... Alle volte succede con questo caldo... Mi scusi... » Lui disse: « Anzi... la ringrazio... ho avuto infatti un colpo di stanchezza... Eh, sont vecc! ». Si raddrizzo, avvian- losi all'uscita. E come al mattino il primo raggio del sole cancella gli incubi che per tutta notte hanno ossessionato l'uomo, cosí, tra i marmi del ridotto, lo spettacolo di tutta quell'umanit`a ricca, piena di salute, elegante, profumata e viva, trasse il vecchio artista dall'ombra in cui la rivela- zione lo aveva fatto sprofondare. Deciso a distrarsi, si av- vicino a un gruppetto di critici che stavano discutendo. « In ogni caso » diceva uno « i cori restano, non si puo negare. » « I cori stanno alla musica » fece un secondo « come le teste di vecchio stanno alla pittura. Si fa presto a raggiun- gere l'effetto, ma dell'effetto non si diffida mai abbastanza. » « Bene » disse un collega noto per il suo candore. « Ma di questo passo ?... La musica di adesso non cerca effetti, non e frivola, non e passionale, non e orecchiabile, non e istintiva, non e facile, non e plateale, tutto benissimo. Ma mi sa dire che cosa rimane? » Cottes penso alle musi- che del figlio. Fu un gran successo. E molto dubbio che in tutta la Scala ci fosse uno a cui la musica della St)age piacesse sin- ceramente. Ma c'era nella generalit`a il desiderio di mo- strarsi all'alteza della situazione, di figurare all'avanguar- dia. In questo senso una specie di gara si accese tacitamente a superarsi. E poi, quando con tutto l'impegno ci si mette all'agguato di una musica per scoprirne ogni possibile bel- lezza, genialit`a inventia, riposto significato, allora l'auto- suggestione lavora senza limiti. Inoltre: quando mai, con le opere moderne, ci si era divertiti? Si sapeva in partenza che i nuovi capiscuola rifuggono dal divertire. Goffaggine lmperdonabile pretenderlo da loro. Per chi chiedeva di di- "vertirsi non c'era il variet`a, non c'erano i ""luna park"" sui" bastioni ? Quella stessa esasperazione nervosa a cui porta- vano l'orchestra di Grossgemuth, le voci tese sempre al massimO registro e specialmente i cori martellanti, non era del resto da buttar via. Sia pure brutalmente, il pubblico in un certo senso era stato commosso, come negarlo ? La smania che si accumulava negli spettatori e li costringeva, appena fattosi silenzio, a battere le mani, a gridare bra- vo, ad agitarsi, non era un fior di risultato per un musi- cista ? Il vero entusiasmo fu pero dovuto all'ultima, lunga, in- "calzante scena dell ""oratorio"", quando i soldati di Erode" irruppero in Betlemme alla ricerca dei bambini e le madri glieli contesero sulla soglia delle case finché quelli ebbero il sopravvento e allora il cielo si oscuro, e un accordo altis- simo di trombe, dal fondo del palcoscenico, annuncio la salvezza del Signore. Bisogna dire che scenografo, figuri- nista e soprattutto Johan Monclar, autore della coreografia e ispiratore di tutto l'allestimento scenico, erano riusciti ad evitare possibili interpretazioni dubbie: il quasi scandalo successo a Parigi li aveva messi in guardia. Cosicché Ero- de non che assomigliasse a Hitler ma certo aveva un deciso aspetto nordico ricordando piú Siegfried che il padrone della Galilea. E i suoi armati, specialmente per la forma dell'elmo, non permettevano di certo equivoci. « Ma sta chí » disse Cottes « L'e minga la reggia d'Erode. Ghe do- veven scriv su Oberkommandantur! » I quadri scenici parvero molto belli. Di effetto irresi- stibile, come si e detto, fu l'ultima tragica danza dei mas- sacratori e delle madri, mentre dalla sua rupe smaniava il coro. Il trucco, per cosí dire, di Monclar (non nuovissimo del resto) fu di estrema semplicit`a. I soldati erano tutti "neri compreso il volto; le madri tutte bianche; e i bambini" erano rappresentati da certi pupi fatti al tornio (su disegno, c'era scritto sul programma, dello scultore Ballarin) di co- lore rosso vivo, tirati a lucido e per questo loro fulgore emozionanti. Le successive composizioni e scomposizioni di quei tre elementi, bianco, nero e rosso, sullo sfondo vio- laceo del paese, precipitanti in un ritmo sempre piú af- fannato, furono interrotte piú volte dagli applausi. « Guar- da Grossgemuth com'e raggiante » esclamo una signora dietro a Cottes quando l'autore venne alla ribalta. « Bella forza! » ribatté lui. « El gha on crapon ch'el par on spe«! » Il celebre compositore era infatti calvo (o rasato?) come un uovo. Il palco dei Morzi in terza fila era gi`a vuoto. In questa atmosfera di soddisfazione, mentre la maggior parte del pubblico se n'andava a casa, la creme affluí rapi- damente nel ridotto per il ricevimento. Sontuosi vasi di ortensie bianche e rosa erano stati collocati negli angoli della lucente sala, che prima, durante gli intervalli, non si eran visti. Alle due porte stavano a ricevere gli ospiti da una parte il direttore artistico, maestro Rossi-Dani, dal- l'altra il sovrintendente dottor Hirsch, con la brutta ma garbata moglie. Poco dietro a loro, perché amava far sen- tire la sua presenza ma nello stesso tempo non voleva ostentare un'autorit`a che non le apparteneva ufficialmente, "la signora Portalacqua, chiamata piú frequentemente ""don-" "na Clara"", chiacchierava col venerando maestro Corallo." Gi`a segretaria e braccio destro, molti anni prima, del mae- stro Tarra, allora direttore artistico, la Portalacqua, rima- sta vedova a meno di trent'anni, ricca di casa, imparentata con la miglior borghesia industriale di Milano, era riu- scita a farsi considerare indispensabile anche dopo che il Tarra era defunto. Aveva naturalmente dei nemici i quali la definivano un'intrigante anche essi pero pronti a os- sequiarla se l'incontravano. Benché probabilmente non ce ne fosse alcun motivo, era temuta. I successivi direttori ar- tistici e i sovrintendenti avevano subito intuito il van- taggio di tenersela buona. La interpellavano quando c'era da formare il cartellone, la consultavano sulla scelta degli interpreti e quando con le autorit`a e con gli artisti nasceva "qualche grana era sempre lei chiamata a districarla; dove," bisogna dire, era bravissima. Del resto, per salvar le forme, da anni immemorabili, donna Clara era consigliera dell'En- te autonomo: un seggio praticamente vitalizio che nessuno si era mai sognato di insidiare. Un solo sovrintendente, creato dal fascismo, il comm. Mancuso, ottima pasta d'uo- mo ma sproweduto nella navigazione della vita, aveva cer- "cato di metterla da parte; dopo tre mesi, non si sa come," fu sostituito. Donna Clara era una donna bruttina, piccola, magra, in- significante nell'aspetto, trasandata nel vestire. Una frattura del femore sofferta in gioventú per una caduta da cavallo l'aveva lasciata un poco zoppa (donde il nomignolo di diavola zoppa nel clan avversario). Dopo pochi minuti sorprendeva pero liintelligenza che illuminava la sua fac- cia. Piú d'uno, benché sembri strano, se ne era innamorato Adesso, a oltre sessant'anni, anche per quella specie di pre- stigio che le dava l'et`a, vedeva affermarsi come non mai il suo potere. In realt`a sovrintendente e direttore erano poco "piú che dei funzionari a lei subordinati; ma sapeva mano-" vrare con tanto tatlo che quelli non se n'accorgevano, anzi erano illusi di essere nel teatro poco meno che dei dit- tatori. La gente entrava a fiotti. Uomini celebri e rispettati, ru- scelli di sangue blu, toilettes giunte fresche da Parigi, gio- ielli celebri, bocche, spalle e seni a cui anche gli occhi piú morigerati norsi rifiutavano. Ma insieme entrava cio che fino allora era soltanto balenato fuggevolmente tra la folla, eco remota e non credibile, senza ferirla: entrava la paura. Le varie e difformi voci avevano finito per incontrarsi e, confermandosi a vicenda, per fare presa. Qua e l`a si bisbi- gliava, confidenze all'orecchio, risolini scettici, esclamazioni incredule di quelli che voltavano tutto in una burla. In quel mentre, seguito dagli interpreti, comparve nella sala Grossgemuth. Ci furono, in francese, le presentazioni al- quanto laboriose. Poi il musicista, con l'indifferenza di prarn- matica, fu guidato verso il bulfel. Al fianco gli era donna Clara. Come succede in questi casi, lc- conoscenze di lingue este- re furono messe a dura prova. «Un chef-d'oeuvre, véritablement, #n vrai chef-d'oeuvre!» continuava a ripetere il dott. Hirsch, sovrintendente, napole- tano nonostante il nome, e sembrava non sapesse dire al- tro. Anche Grossgemuth, sebbene stabilito da decenni in Delfinato, non si mostrava troppo disinvolto: e il suo ac- cento gutturale rendeva ancora piú diffficile la comprensio- ne. A sua volta il direttore d'orchestra, maestro Nieberl, pu- re tedesco, di francese ne sapeva poco. Ci volle un po' di tempo prima che la conversazione si avviasse sui suoi bi- nari. Unica consolazione per i piú galanti: la sorpresa che Martha Witt, la danzatrice di Brema, parlasse discretamen- te l'italiano, anzi con un curioso accento bolognese. Mentre i camerieri sgusciavano tra la folla con vassoi di spumante e pasticcini, i gruppi si formarono. Grossgemuth parlava sottovoce con la segretaria di cose, pareva, molto importanti. « Je parie d'avoir apercu Lenotre » le diceva « Etes-vous bien s#re qu'il n'y soit pas? » Lenotre era il critico musi- cale del Le Monde che lo aveva stroncato malamente alla "prima di Parigi; se questa sera fosse stato presente signi-" ficava per lui, Grossgemuth, una formidabile rivincita. Ma monsieur Lenotre non c'era. « A quelle heure pourra-t-on lire le Corriere della Sera ? » chiedeva ancora il caposcuola con la sfrontatezza propria dei grandi, a donna Clara. « C'est le journal qui a le plus 1'autorité en Italie n'est-ce-pas, Madame? » « Au moins on le dit » rispose sorridendo donna Clara. «Mais jusqu'`a demain matin... » « On le fait pandant la nuit, n'est-ce pas, Madame? » « Oui, il parait le matin. Mais je crois vous donner la certit#de que ce sera une espece de panégyrique. On m'a leversé. » « Oh, bien,ca serait trop, je pense. » Cerco di escogi- tare un complimento « Madame, cette soirée a la grandeur, et le bonheur aussi, de certains reves... Et, `a propos, je me rappelle un autre journal... Ie Messaro, si je ne me trompe pas... » « Le Messaro ? » Donna Clara non capiva. « Peut-etre le Messaggero? » suggerí il dott. Hirsch. « Oui, oui, le Messaggero je voulais dire... » « Mais c'est `a Rome, le Messaggero! » « 11 a envoyé tout de meme son critique » annuncio uno "che purtroppo nessuno conosceva con tono di trionfo; poi" pronuncio la frase restata celebre e di cui il solo Grossge- muth parve non afferrare la bellezza. « Maintenant il est derriere `a téléphoner son reportage! » « Ah, merci bien. J'aurais envie de le voir, demain, ce Messaggero », fece Grossgemuth chinandosi verso la se- "gretaria; e spiego: «Apres tout c'est un journal de Rome," vous comprenez? ». Qui il direttore artistico comparve offrendo a Grossge- muth, a nome dell'Ente autonomo della Scala, una meda- glia d'oro incisa con la data e il titolo dell'opera, in un astuccio di raso blu. Seguirono le consuete proteste del fe- steggiato, i ringraziamenti, per qualche istante il gigantesco musicista parve proprio commosso, poi l'astuccio fu passato alla segretaria. La quale aprí per ammirare, sorrise estasia- ta, sussurro al maestro: « Epatant! Maisca, je m'y connais, c'est du vermeil ! » . La massa degli invitati si interessava d'altro. Una diversa strage e non quella degli innocenti li preoccupava. Che si prevedesse un'azione dei Morzi non era piú il segreto di pochi bene informati. La voce, a forza di girare, aveva or- mai raggiunto anche coloro che erano soliti stare nella lu- na, come il maestro Claudio Cottes. Ma in fondo, per dire la verit`a, non molti ci credevano. « Anche in questo mese la polizia e stata rinforzata. Sono piú di ventimila agenti nella sola citt`a. E poi i carabinieri... E poi l'esercito... » Di- cevano. «L'esercito! Ma chi ci garantisce che cosa far`a la truppa al momento buono? Se ci fosse l'ordine di aprire il fuoco, sparerebbero? » « Io ho parlato proprio l'altro gior- no col generale De Matteis. Lui dice che puo rispondere del morale delle truppe... Certo che le armi non sono adat- te... » « Adatte a che cosa? » « Adatte alle operazioni di ordine pubblico... Ci vorrebbero piú bombe lacrimogene... e poi diceva che in questi casi non c'era niente di meglio che la cavalleria... Ma dove e adesso la cavalleria?... Pres- soché innocua, di effetto strepitoso... » « Ma senti, caro, non sarebbe meglio andare a casa? » « A casa? Perché a casa? Credi che a casa saremmo piú sicuri? » « Per carit`a, signo- ra, adesso non esageriamo. Prima di tutto bisogna vedere se succeder`a... e poi, se succeder`a sar`a questione di domani, domani l'altro... Mai si e vista una rivoluzione scoppiare nella notte... Ie case chiuse... Ie strade deserte... per la forza pubblica sarebbe come andare a nozae...! » « Rivoluzione? Misericordia, hai sentito, Beppe ? . . . Quel signore ha detto che c'e rivoluzione.. Beppe, dimmi, che cosa faremo?... Ma parla, Beppe, scuotiti... stai lí come una mummia! » « Ave- te notato? Al terzo atto, nel palco dei Morzi, non c'era piú nessuno. » « Ma neppure in quello della Questura e della Prefettura, caro mio... e neanche in quelli dell'esercito, neanche le signore... fuga generale... sembrava una parola d'ordine. » « Ah, non dormono mica in Prefettura... ci san- no... tra i Morzi ci sono informatori del Governo anche nelle logge periferiche. » E cosí via. Ciascuno in cuor suo avrebbe preferito trovarsi a quell'ora in casa sua. D'altra parte non osava andar via. Avevano paura di sentirsi soli, paura del silenzio, di non aver notizie, di aspettare, fumando in letto, l'esplosione delle prime urla. Mentre l`a, tra tanta gente conosciuta, in un ambiente estraneo alla politica, con tanti personaggi pieni di autorit`a, si sentivano quasi protetti, in terra intoccabile, come se la Scala fosse una sede diplo- matica. Era poi immaginabile che tutto questo vecchio mon- do, lieto, nobile e civile, ancora cosí solido, tutti questi uomi- ni d'ingegno, tutte queste donne cosí gentili e amanti delle cose buone, possibile che venisse spazzato via d'un colpo? Con mondano cinismo che a lui pareva molto di buon "gusto, Teodoro Clissi, I""'Anatole France italiano"" come" era stato definito trent'anni prima, ben portante, il volto roseo da cherubino vizzo, due baffi grigi fedeli a un mo- dello tramontatissimo di intellettuale, descriveva piacevol- mente, poco piú in l`a, quello che tutti temevano avvenisse. « Prima fase » diceva in finto tono cattedratico, pren- dendo con le dita della mano destra il pollice sinistro come quando si insegna ai bambini la numerazione «prima fa- se: occupazione dei cosiddetti centri nevralgici della citt`a... e il Cielo non voglia che si sia gi`a a buon punto », con- sulto ridendo l'orologio a polso. « Seconda fase, cari si- gnori miei: prelevamento degli elementi ostili... » « Dio mio » scappo detto a Mariú Gabrielli, la moglie del finanziere. « I miei piccoli, soli, a casa! » « Niente piccoli, cara signora, non abbia paura » fece Clissi. « Questa e caccia- grossa: niente bambini, soltanto adulti, e bene sviluppati! » Rise della facezia. « E poi a casa non hai la nurse? » esclamo la bella Ketti Introzzi, oca come al solito. Intervenne una voce fresca e petulante insieme. «Ma scusi, Clissi, le trova proprio spiritose queste sto- rie? » Era Liselore Bini, forse la giovane signora piú brillante di Milano, simpatica ugualmente per la faccia piena di vita e per la sincerit`a senza freni, quale danno soltanto o gran- de spirito o forte superiorit`a sociale. « Ecco » disse il romanziere, un po' interdetto, sempre scherzando. « Trovo opportuno instradare queste dame ver- so la novit`a che... » « Scusi, sa?, Clissi, ma mi risponda: farebbe qui, stasera, questi dlscorsl, se lei non si sentisse assicurato? » « Perché assicurato ? » « Oh, Clissi, non mi costringa a dire quello che tutti sanno. Del resto, perché rimproverarla se lei ha dei buoni amici anche tra, come dire, anche tra i rivoluzionari?... An- zi, ha fatto bene, benissimo. Forse tra poco lo constate- remo... Lo sa bene anche lei di poter contare sull'esonero... » « Che esonero? Che esonero? » disse lui impallidito. «Diamine! L'esonero dal muro! » E gli volto le spalle tra le soffocate risa dei presenti. Il gruppo si divise. Clissi resto pressoché solo. Gli altri fecero circolo poco piú in l`a, intorno a Liselore. Come se quello fosse una specie di bivacco, l'ultimo disperato bi- vacco del suo mondo, la Bini si accoccolo languidamente a terra, spiegazzando tra i mozziconi di sigaretta e le chiazze di champagne la toilette di Balmain costata a occhio e croce duecentomila lire. E vivamente polemizzo con un accusa- tore immaginario, prendendo le difese della sua classe. Ma siccome non c'era alcuno che la contraddicesse, aveva l'im- pressione di non essere capita bene, e infantilmente si ac- caniva, alzando il capo agli amici rimasti in piedi. « Sanno o non sanno i sacrifici che si sono fatti? Sanno o no che non abbiamo piú un soldo in banca ?... I gioielli ! Ecco, gioielli! » e faceva l'atto di sfilare un braccialetto d'oro con un topazio di due etti. « Bella roba! quand'anche des- simo la chincaglieria, che cosa si risolverebbe?... No, non e per questo » la voce si faceva prossima al pianto. « E proprio perché odiano le nostre facce... Non sopportano che ci sia gente civile... non sopportano che noi non puz- "ziamo come loro... ecco la ""nuova giustizia"" che vogliono" quei porci !... » « Prudenza, Liselore » disse un giovanotto. «Non si sa mai chi ci sta a sentire. » « Prudenza un corno! Credi che non sappia che mio ma- rito ed io siamo i primi nella lista? Prudenza anche ci vor- rebbe ? Ne abbiamo avuta troppa di prudenza, questo il guaio. E adesso forse... » si interruppe. « Be', e meglio che la smetta. » L'unico tra tutti, a perdere subito la testa, era stato pro- prio il maestro Claudio Cottes. Come un esploratore, per fare un paragone di vecchio stampo, che, costeggiata a gran distanza, per non aver noie, la plaga dei cannibali, dopo parecchi giorni di continuo viaggio per terre sicure, quan- do ormai non ci si pensa piú, vede spuntare dai cespugli dietro la sua tenda, a centinaia, i giavellotti dei niam niam e scorge, di tra i rami, brillare fameliche pupille, cosí il vecchio pianista tremo alla notizia che i Morzi entravano in azione. Tutto era piombato su di lui nello spazio di poche ore: il primo disagio premonitore per la telefona- ta, le ambigue parole del Bombassei, il monito del proble- matico signore e adesso la catastrofe imminente. Quell'im- becille di Arduino ! Se succedeva un patatrac i Morzi lo avrebbero sistemato tra i primissimi. E ormai era troppo "tardi per rimediare. Poi per consolarsi si diceva: ""Ma se" il signore di poco fa mi ha avvertito, non e buon segno? Non significa che contro Arduino ci sono soltanto dei so- "spetti ? Gi`a"" interveniva dentro di lui una voce opposta" perché nelle insurrezioni si guarda tanto per il sottile! E come escludere che l'avvertimento sia stato fatto proprio questa sera, a scopo di pura malvagit`a, non essendoci piú "per Arduino il tempo di salvarsi?"". Fuori di sé, il vecchio" passava da gruppo a gruppo, nervosamente, il volto an- sioso, nella speranza di raccogliere qualche notizia tran- quillizzante. Ma di buone notizie non ce n'erano. Abituato a vederlo sempre gioviale e di lingua lesta, gli amici si me- ravigliavano che fosse cosí stravolto. Ma avevano da pen- sare abbastanza ai propri casi per preoccuparsi di quell'in- noNo vecchio, proprio di lui che non aveva motivo di temere nulla. Cosí vagando, pur di appoggiarsi a qualche cosa che gli desse sollievo, trangugiava distrattamente, uno dopo l'altro, i bicchieri di spumante che i camerieri offrivano senza risparmio. E si aggravava la confusione in testa. Finché gli venne in mente la risoluzione piú semplice. E si meraviglio di non averci pensato prima: tornare a ca- sa, avvertire il figlio, farlo nascondere in qualche apparta- mento. Di amici disposti ad ospitarlo certo non mancava- no. Guardo l'orologio: le una e dieci. Si avvio verso la scala. Ma a pochi passi dalla porta fu fermato. « Dove va, mae- stro benedetto, a quest'ora? E perché ha quella faccia? Non si sente bene? » Era nientemeno che donna Clara, stacca- tasi dal gruppo piú autorevole e ferma l`a, presso l'uscita, insieme con un giovanotto. « Oh, donna Clara » fece Cottes riprendendosi. « E do- ve pensa che possa andare a un'ora simile? Alla mia et`a? Vado a casa, naturalmente. » « Senta, maestro » e qui la Passalacqua prese un tono di stretta confidenza. « Dia retta a me: aspetti ancora un poco. Meglio non uscire... Fuori c'e qualche movimento, mi capisce ? » « Come, hanno gi`a cominciato? » « Non si spaventi, caro maestro. Non c'e pericolo. Tu Nanni vuoi accompagnare il maestro a prendere un cor- diale? » Nanni era il figlio del maestro Gibelli, compositore, suo vecchio amico. Mentre donna Clara si allontanava per fer- mare altri all'uscita, il giovanotto, accompagnando il Cottes al bu'ffet, lo mise al corrente. Pochi minuti prima era arri- vato l'avvocato Frigerio, uno sempre informatissimo, intrin- seco del fratello del prefetto. Era corso alla Scala per av- vertire che nessuno si muovesse. I Morzi si erano concen- trati in vari punti della periferia e stavano per affluire in centro La Prefettura era gi`a praticamente circondata. Di- versi reparti della polizia si trovavano isolati e privi di au- tomezzi. Insomma si era alle strette. Uscire dalla Scala, per di piú in abito da sera, non era consigliabile. Meglio aspet- tare l`a. Certo i Morzi non sarebbero venuti a invadere il teatro. Il nuovo annuncio, passato di bocca in bocca, con sor- prendente rapidit`a, fece sugli invitati un tremendo effetto. Non era piú, dunque, il tempo di scherzare. Il brusio si spense, una certa animazione rimase solo intorno a Gross- gemuth, non sapendosi come sístemarlo. Sua moglie, stan- ca, gia da un'ora aveva raggiunto in automobile l'albergo. Come adesso accompagnare lui per le strade gi`a presumi- bilmente invase dal tumulto? Sí, era un artista, un vecchio uno straniero. Perché avrebbero dovuto minacciarlo ? Ma era pur sempre un rischio. L'albergo era lontano, di fronte alla stazione. Forse dargli una scorta d'agenti? Sarebbe sta- to probabilmente peggio. A Hirsch venne un'idea: « Senta, donna Clara. Se si po- tesse trovare qualche pezzo grosso dei Morzi... Non ne ha visti qui?... Sarebbe un salvacondotto proprio ideale. » « Eh gi`a » assentí donna Clara, e meditava. « ... Ma sí ma sa che e un'idea stupenda ?... E siamo fortunati... Ne ho intravisto UllO pOCO fa. Non proprio grosso calibro, ma sempre un deputato. Lajanni, voglio dire... Ma sí, ma sí, vado a vedere subito. » Questo on. Lajanni era un uomo scialbo e dimesso nel vestire Aveva quella sera uno rmoking di taglio sorpas- sato, una camicia di freschezza dubbia, le unghie delle ma- ni contornate da strisce grigie. Per lo piú incaricato di svol- gere vertenze agrarie, veniva a Milano raramente e pochi lo conoscevano di vista. Fino allora, del resto, invece di correre al buffet se n'era andato solo soletto a visitare il Museo teatrale. Tornando nel ridotto pochi minuti prima, sl era seduto su un sof`a in disparte, fumando una siga- retta Nazionale. Donna Clara gli ando diritta incontro. Lui si levo in piedi. « Dica la verit`a, onorevole » fece la Passalacqua senza preamboli. « Dica la verit`a: lei e qui a farci la guardia? » « La guardia? Proprio? E perché mai? » esclamo il de- putato alzando le sopracciglia a indicar stupore. « Me lo domanda? Sapr`a pur qualcosa, lei che e dei Morzi ! » « Oh, se e per questo... certo che qualcosa so... E lo sa- pevo anche da prima, per essere sincero... Sí, conoscevo il piano di battaglia, purtroppo. i> " Donna Clara, senza rilevare quel ""purtroppo"", continuo" decisa: « Senta, onorevole, capisco che puo sembrarle un poco comico, ma ci troviamo in una situazione imbaraz- zante. Grossgemuth e stanco, ha voglia di dormire, e noi non sappiamo come fargli raggiungere l'albergo. Capisce ? per le strade c'e agitazione... Non si sa mai... un malinte- so... un incidente... c un momento... D'altra parte come fare a spiegargli la difficolt`a? Mi parrebbe poco simpatico, con uno straniero ? E poi » Lajanni la interruppe: « Insomma, se non vado errato, si vorrebbe che lo accompagnassi io, che lo coprissi con la mia autorit`a, vero? Ah, ah... ». Scoppio a ridere in modo tale che donna Clara resto di stucco. Sghignazzava racendo dei cenni con la mano destra come a dire che lui capiva, sí, era villano ridere cosí, chiedeva scusa, era mortificato, ma il caso era rroppo divertente. Fin che riprese fiato e si splego. « L'ultimo, egregia signora! » fece col suo accento ma- nierato, ancora scosso dai singulti del riso. « Sa che cosa vuol dir l'ultimo ? L'ultimo di quanti sono qui alla Scala, comprese le maschere - i camerieri... L'ultimo che possa proteggere il bravo Grossgemuth, L'ultimo son proprio io... La mia autorit`a? Questa e magí1ifica! Ma sa lei chi i Morzi farebbero fuori per primo, di quanti sono qui presenti ? Lo sa lei?... » E aspettava la risposta. «Non saprei... » disse donna Clara. « Il sottoscritto, signora egregia ! Proprio con me rego- lerebbero il conto con assoluta precedenza. » « Sarebbe come dire caduto in disgrazia? » fece lei che non le mandava a dire. « Precisamente, ecco. » « E cosí di colpo? Proprio stasera? » « Sí. Cose che succedono. Esattamente tra il secondo e il terz'atto, nel corso di una breve discussione. Ma penso che la meditassero da mesi. » « Be', almeno lei non ha perso il buon umore... » « Oh, noialtri ! » spiego in tono amaro. « Noi siamo sem- pre pronti al peggio... la nostra abitudine mentale... Guai, se no... » « Bene. L'ambasceria e andata a vuoto, pare. Mi scusi... e tanti auguri, se crede il caso... » aggiunse donna Clara volgendo indietro il capo perché gi`a si allontanava. « Nien- te da fare » annuncio poi al sovrintendente. « L'onorevole non conta piú di quel che si dice un fico secco... Non si dia pensiero... arossgemuth ci penso io... » Da una certa distanza, quasi in silenzio, gli invitati ave- vano seguito l'incontro e colto a volo alcune frasi. Né al- cuno sgrano gli occhi quanto il vecchio Cottes: colui che ora gli indicavano come l'on. Lajanni altri non era se non il signore misterioso che gli aveva parlato di Arduino. Il colloquio di donna Clara e la sua disinvoltura col de- putato dei Morzi, il fatto inoltre che ad accompagnare Grossgemuth attraverso la citt`a andasse proprio lei, ebbero moltlssiml commenti. C'era dunque del vero, si penso, in quello che si andava mormorando da parecchio tempo: don- na Clara trescava coi Morzi. Con l'aria di tenersi fuori della pohtica, si destreggiava tra l'una e l'altra parte. Logico del resto, conoscendosi che donna fosse. Era verosimile che don- na Clara, per restare in sella, non avesse preveduto ogni ipo- tesi e non Si fosse procurata anche tra i Morzi le amicizie sufficienti ? Molte signore erano indignate. Gli uomini in- vece si mostravano propensi a compatirla. Ma la partenza di Grossgemuth con la Passalacqua, dando fine al ricevimento, accentuo l'orgasmo generale. Ogni pre- testo mondano per rimanere era esaurito. La finzione cade- va. Sete, décolletés, marsine, gioielli, tutto l'armamentario della festa ebbero di colpo l'amaro squallore delle maschere a carnevale terminato allorché la pesante vita di tutti i giorni si riaffaccia. Ma stavolta non c'era dinanzi la quaresima, qualcosa di ben piú temibile stava in attesa al traguardo della prossima mattina. Un gruppo uscí sulla terrazza a vedere. La piazza era de- serta, le automobili stavano assopite, nere come non mal, abbandonate. E gli autisti? Dormivano invisibili, sui divani postericri? O anch'essi erano fuggiti per partecipare alla ri- volta ? Ma i globi della luce risplendevano regolarmente, tutto dormiva, si tendeva le orecchie per avvertire un lon- tano rombo che si avvicinasse, eco di tumulti, spari, rombo di carriaggi. Non si udiva niente. « Ma siamo matti ? » grido uno. « Ci pensate se vedono tutta questa luminaria? Uno specchietto per chiamarli ! » Rientrarono, loro stessi chiusero le imposte esterne, mentre qualcuno andava a cercare l'elet- tricista. Poco dopo i grandi lampadari del ridotto si spen- "sero. Le ""maschere"" portarono una dozzina di candelieri e li" deposero per terra. Anche questo gravo sugli animi come un malaugurio. Stanchi, uomini e donne, perché i divani erano pochi, co- minciaronO a sedersi in terra, dopo avere disteso i sopra- biti per non sporcarsi. Dinanzi a uno studiolo, presso il Mu- seo, dove c'era un telefono, si formo una coda. Pure Cottes aspetto il turno, per tentare almeno questo: che Arduino fosse avvertito del pericolo. Nessuno piú intorno a lui scher- zava, nessunO ricordava piú la Strage e Grossgemuth. Aspetto almeno tre quarti d'ora. Come si trovo solo nello ' stanzino (qui non essendoci finestre, la luce elettrica era accesa) sbaglio due volte a formare il numero perché gli tre- mavano le mani. Finalmente udí il segnale di linea libera. Gli parve suono amico, voce rassicurante di casa sua. Ma perché nessuno rispondeva? Che ancora Arduino non fosse rientrato? Eppure le due erano passate. E se i Morzi lo aves- sero gi`a preso? Stentava a reprimere l'affanno. Dio, perché nessuno rispondeva? Ah, finalmente. « Pronto, pronto » era la voce assonnata di Arduino. « Chi e, Cristo, a quest'ora? » « Pronto, pronto » disse il padre. Ma immediatamente si pentí. Quanto meglio se avesse taciuto: percné in questo istante gli venne in mente che la linea potesse essere con- trollata. Che cosa dirgli adesso? Consigliarlo a fuggire? Spie- gargh che cosa stava succedendo ? E se quelli stavano in ascolto ? Cerco un pretesto indifferente. Per esempio, che venisse subito alla Scala per combinare un concerto di musiche sue. No, perché a Arduino sarebbe toccato uscire. Un pretesto banale, allora? Dirgli che aveva dimenticato il portafogli e che era in pensiero? Peggio. Il figlio non avrebbe saputo cio che occorreva e i Morzi, che certo ascoltavano, si sarebbero insospettiti . « Senti, senti... » disse per guadagnare tempo. Forse l'uni- ca era dirgli di aver dimenticato la chiave del portello: sola giustificazione plausibile e innocente di una telefonata cosí tarda. « Senti » ripeté « ho dimenticato le chiavi di casa. Tra venti minuti saro dabbasso. » Lo prese un'onda di terrore E se Arduino fosse sceso ad aspettarlo e uscito per la strada? Forse qualcuno era stato spedito a prelevarlo e stazion iva nella via. «No, no » rettifico « aspetta a scendere che io sia arri- vato. Mi sentirai fischiettare. » Che idiota, si disse ancora questo e insegnare ai Morzi il sistema piú facile per cattu- rarlo. « Sentimi bene » disse « sentimi bene... non scendere fin che mi sentirai fischiettare il motivo della Sinfonia romani- ca... Lo conosci, vero?.. Siamo intesi. Mi raccomando. » Tronco il contatto per evitare domande pericolose. Che razza di pasticcio aveva combinato? Arduino ancora all'oscu- ro del pericolo, i Morzi messi sul chi vive. Forse qualche musicologo, tra di loro, ci poteva essere che conoscesse la Sinf onia convenuta. Forse, arrivando, egli avrebbe trovato nella via i nemici in attesa. Piú stupidamente di cosí non avrebbe potuto agire. Telefonargli di nuovo, allora, e parlar chiaro? Ma in quel mentre l'uscio si socchiuse, si affaccio il volto apprensivo di una ragazzina. Cottes uscí asciugandosi il sudore. In ridotto, alle fioche luci, trovo aggravata l'aria di disfa- cimento. Signore rattrappite e freddolose, strette l'una di fianco all'altra sui divani, sospiravano. Molte si erano tolti i gioielli piú vistosi riponendoli nelle borsette, altre, la- vorando dinanzi alle specchiere, avevano ridotto la petti- natura a forme meno provocanti, altre si erano curiosamente acconciate con le mantelline e i veli sí da parere quasi delle penitenti. « Ma e spaventosa questa attesa, meglio fi- nirla in qualsiasi modo. » «No, questa non ci voleva... e io che pareva che me la sentissi... Proprio oggi si doveva partire per Tremezzo, poi Giorgio ha detto ma e un pec- cato perdere la prima di Grossgemuth, io gli dico ma lassú ci aspettano, be' non importa dice lui con una telefonata rimediamo, no non mi sentivo, adesso anche l'emicrania... mia povera testa... » « Oh te, scusa, non lamentarti, te li la- sceranno in pace, te non sei compromessa... » « Sa che Francesco, il mio giardiniere, dice di averle viste coi suoi occhi, le liste nere?... E dei Morzi, lui... dice che sono piú di quarantamila nomi nella sola Milano. » « Dio mio, pos- sibile una tale infamia?... » « Ci sono notizie nuove? » « No, non si sa niente. » « Arriva gente ? » « No, dicevo che non si sa niente. » Qualcuna tiene le mani giunte come per caso e sta pregando, qualcuna bisbiglia fitto fitto nel- l'orecchio dell'amica senza interruzione, come presa da una frenesia. E poi uomini distesi a terra, molti senza scarpe, i colletti slacciati, le cravatte bianche penzolanti, fumano, sbadigliano, ronfano, discutono a voce bassa, scrivono chissa cosa con matite d'oro sul risvolto del programma. Quattro cinque, gli occhi agli interstizi delle persiane, fanno da sentinella, pronti a segnalare novit`a all'esterno. E in un angolo, solo, L'on. Lajanni, pallido, un po' curvo, gli occhi sbarrati, che fuma Nazionali. Ma durante l'assenza del Cottes la situazione degli asse- diati si era cristallizzata in modo strano. Poco prima ch'egli andasse a telefonare, fu visto l'ing. Clementi, il proprietario delle rubinetterie, trattenersi col sovrintendente Hirsch e poi trarlo in disparte. Confabulando, si avviarono verso il Museo teatrale e qui, al buio, rimasero vari minuti. Poi l'Hirsch ricomparve nel ridotto, mormoro qualche cosa suc- cessivamente a quattro persone, le quali lo seguirono: era- no lo scrittore Clissi, la soprano Borri, un certo Prosdocimi, commerciante in tessuti e il giovane conte Martoni. Il grup- petto raggiunse l'ing. Clementi ch'era rimasto di l`a, al "buio, e si formo una specie di conciliabolo. Una ""masche-" "ra"", senza dare spiegazioni venne quindi a prendere uno" dei candelieri dal ridotto e lo porto nella saletta del Mu- seo dove quelli si erano ritirati. Il movimento, dapprima inosservato, desto la curiosit`a, "anzi l'allarme; bastava poco a insospettire, in quello stato" d'animo. Qualcuno, con l'aria di capitare l`a per caso, ando "a dare un'occhiata; di questi non tutti fecero ritorno nel" ridotto. Infatti l'Hirsch e il Clementi, a seconda dei volti che si affacciavano alla porta della saletta, sospendevano la discussione oppure invitavano ad entrare in forma assai obbligante. In poco tempo il gruppo dei secessionisti rag- giunse la trentina. Non fu difficile capire, conoscendo i tipi. Clementi, Hirsch e compagni tentavano di far parte a 5é, di schie- rarsi anticipatamente dalla parte dei Morzi, di far capire che non avevano niente da spartire con tutti quei marci ricconi rimasti nel ridotto. Di alcuni gi`a si sapeva che in occasioni precedenti, piú per paura probabilmente che per sincera convinzione, si erano mostrati teneri o indulgenti verso la potente setta. Dell'ing. Clementi, pur di mentalit`a dispotica e padronale, non ci si meraviglio, sapendosi che uno dei suoi figli, degenere, occupava addirittura un posto di comando nelle file dei Morzi. Poco prima lo si era vi- sto, il padre, entrare nello sgabuzzino del telefono e quelli che aspettavano di fuori avevano dovuto pazientare piú di "un quarto d'ora; si suppose che, vistosi in pericolo, Cle-" menti avesse chiesto per telefono aiuto al figlio e costui, non volendo esporsi personalmente, gli avesse consigliato di agire subito per conto suo: riunendo una specie di co- mitato favorevole ai Morzi, quasi una giunta rivoluzionaria della Scala, che i Morzi poi, arrivando, avrebbero tacita- mente riconosciuto e, quel che piú importa, risparmiato. Dopo tutto, noto qualcuno, il sangue non era acqua. Ma per parecchi altri secessionisti c'era da sbalordire. Erano tipici campioni della categoria sopra tutte aborrita dai Morzi, proprio ad essi o per lo meno a gente come loro potevano imputarsi molti dei guai che ai Morzi troppo spesso offrivano facili spunti di propaganda o agitazione. Eccoli adesso schierarsi all'improvviso dalla parte dei ne- mici, rinnegando tutto il passato oltre ai discorsi tenuti fino a pochi minuti prima. Evidentemente da tempo trescavano nel campo avversario, non badando a spese, per garantirsi "una scappatoia al momento buono; ma di nascosto, per" interposta persona, cosí da non perdere la faccia nel mondo elegante ch'essi frequentavano. Venuta infine l'ora del pe- ricolo, si erano affrettati a rivelarsi, incuranti di salvare le apparenze andassero pure all'inferno le relazioni, le no- bili amicizie, il posto in societ`a, adesso si trattava della vita. La manovra, se all'inizio procedette in sordina, ben pre- sto preferí manifestarsi chiaramente, proprio allo scopo di definire le rispettive posizioni. Nella saletta del Museo ven- ne riaccesa la luce elettrica e spalancata la finestra affinché di fuori si vedesse bene e i Morzi, arrivando in piazza, ca- · pissero subito di avere lassú dei sicuri amici. Rientrato dunque nel ridotto, il maestro Cottes si accorse della novit`a, notando il bianco riverbero che, rimandato di specchio in specchio, veniva dal Museo e udendo l'eco del- la discussione che vi si svolgeva. Pero non ne capiva le ragioni. Perche nel Museo avevano riacceso la luce e nel ridotto no ? Che stava succedendo ? « E che cosa fanno quelli di l`a ? » domando infine ad alta voce. « Che cosa fanno? » grido con la sua simpatica vocetta Liselore Bini accoccolata a terra, la schiena contro il fianco del marito. « Beati gli innocenti, caro maestro !... Hanno fondato la cellula scaligera, quei machiavelli. Non hanno perso tempo. Si affretti, maestro, pochi minuti ancora e poi le iscrizioni si chiudono. Brava gente, sa?... Ci hanno informato che faranno di tutto per salvarci... Adesso si spartiscono la torta, legiferano, ci hanno autorizzato a riac- cendere le luci... vada a vederli, maestro, che vale la pe- na... Sono carini sa?... Grossi, luridi maiali! » alzo la vo- ce « ... giuro che, se non succede niente... » « Su, Liselore, calmati » le disse il marito che a occhi chiusi sorrideva, divertendosi come se tutta quella fosse un'avventura sportiva di nuovo genere. « E donna Clara? » chiese Cottes, sentendo confondersi le idee. « Ah, sempre all'altezza, la zoppetta!... Ha scelto la so- luzione piú geniale, anche se piú faticosa... Donna Clara cammina. Cammina, capisce ? Passeggia in su e in giú.. . due parole di qua due parole di l`a e cosí via, comunque vadano le cose lei e a posto... non si sbilancia... non si pro- nuncia... non si siede... un po' di qua un po' di l`a... fa la spola... Ia nostra impareggiabile presidentessa! » Era la verit`a. Tornata dall'aver condotto Grossgemuth all'albergo, Clara Passalacqua ancora dominava, diiden- dosi imparzialmente tra i due partiti. E per questo fingeva di ignorare lo scopo di quel convegno a parte, quasi fosse un capriccio di invitati. Ma cio la costringeva a non fer- marsi mai perché fermarsi equivaleva a una scelta impe- gnativa. Passava e ripassava cercando di incoraggiare le donne piú abbattute, provvedeva nuovi sedili e con molta intelligenza promosse un secondo abbondante turno di rin- fresco. Lei stessa girava zoppicando coi vassoi e con le bottiglie, tanto da ottenere in entrambi i campi un successo personale. « Pss, pss... » chiamo in quel mentre una delle vedette appostate dietro le persiane, e fece segno verso la piaza. Sei sette corsero a vedere. Lungo la Banca Commercia- le, proveniente da via Case Rotte, avanzava un cane: un bastardo, pareva, e a testa bassa, rasente il muro, scompar- ve giú per via Manzoni. « E per chi ci hai chiamati, per un cane? » « Mah... io pensavo che dietro il cane... » Cosí la condizione degli assediati stava per diventar grot- tesca. Fuori, le strade vuote, il silenzio, L'assoluta pace, al- meno in apparenza. Qui dentro, una visione di disfatta: decine e decine di persone ricche, stimate e potenti che, rassegnate, sopportavano quella specie di vergogna per un rischio non ancora dimostrato. Passando le ore, se crescevano la stanchezza e l'intorpi- dimento delle membra, ad alcuni pero si snebbio la testa. Era ben strano, se i Morzi avevano scatenato l'offensiva, che in piazza della Scala non fosse arrivata ancora neanche una staffetta. E sarebbe stato amaro patire tanta paura gra- tis. Verso il gruppo dove si trovavano le signore piú di riguardo, al lume tremolante delle candele ecco avanzare, una coppa di spumante nella destra, L'avvocato Cosenz, un dí celebre per le sue conquiste e ancora considerato, da alcune vecchie dame, uomo pericoloso. « Sentite, cari amici » declamo con voce insinuante « puo darsi, dico puo darsi che domani sera molti di noi qui pre- senti si trovino, uso un eufemismo, in una condizione cri- tica... » (qui una pausa) « Ma puo anche darsi, né sappia- mo quale delle due ipotesi sia piú attendibile, puo darsi che domani sera tutta Milano si smascelli dalle risa pen- sando a noi. Un momento. Non mi interrompete... Valutia- mo serenamente i fatti. Che cosa ci fa credere che il peri- colo sia cosí vicino ? Enumeriamo i sintomi. Primo: la scomparsa al terzo atto dei Morzi, del prefetto, del que- store, dei rappresentanti militari. Ma chi puo escludere, mi sia perdonata la bestemmia, che fossero stufi della musica? Secondo le voci, giunte da diverse parti, che stesse per scoppiare una rivolta. Terzo, e sarebbe il fatto piú grave: le notizie che si dice, ripeto si dice, abbia portato il mio "benemerito collega Frigerio; il quale pero se ne e andato" subito dopo e deve anzi avere fatto un apparizione molto breve se quasi nessuno di noi l ha visto. Non importa. Am- mettiamo pure: Frigerio ha detto che i Morzi avevano iniziato l occupazione della citt`a, che la Prefettura era as- sediata eccetera... Io chiedo: ma da chi Frigerio ha avuto, all'una di notte, queste informazioni? Possibile che notizie cosí riservate gli siano state trasmesse a tarda notte? E da chi ? E per quale motivo ? Intanto, qui nei dintorni non si e notato, e sono ormai le tre passate, nessun sintomo so- spetto. Né si sono uditi rumori di alcun genere. Insomma, c'e da restare per lo meno in dubbio. » « E perché al telefono nessuno riesce ad aver notizie? » « Giusto » proseguí Cosenz, dopo aver inghiottito un sorso dihampagne. « Quarto elemento preoccupante e, per cosí dire, la sordit`a telefonica. Chi ha tentato di co- municare con la Prefettura e la Questura dice di non es- serci riuscito o per lo meno di non aver potuto avere in- formazioni. Ebbene, se voi foste un funzionario e all'una di notte una voce sconosciuta o incerta vi chiedesse come vanno le cose pubbliche, dico, rispondereste? Questo, no- tate bene, mentre e in corso una fase politica di estrema delicatezza. Anche i giornali, e vero, sono stati reticenti... Vari amici delle redazioni sono stati sulle generali. Uno, "il Bertini, del Corriere, mi ha risposto testualmente: ""Fi-" "nora qui non si sa niente di preciso. ""E di non preciso?""" "ho chiesto io. Ha risposto: ""Di non preciso c e che non si" "capisce niente. Ho insistito: ""Ma voi siete preoccupati ?""" "Lui ha risposto: ""Non direi, almeno fino adesso"". »" Respiro. Tutti lo ascoltavano con la voglia matta di poter approvare il suo ottimismo. Il fumo delle sigarette ristagnava, con un incerto odore misto di traspirazione uma- na e di profumi. Un'eco di voci concitate arrivo alla porta del Museo. « Per concludere » disse Cosenz « circa le notizie telefo- niche, o meglio le mancate notizie, non mi sembra che ci sia troppo da allarmarsi. Probabilmente anche ai giornali non si sa molto. E significa che la temuta rivoluzione, se c'e, non si e ancora ben delineata. Ve lo immaginate che i Morzi, padroni della citt`a, lascino uscire il Corriere della Sera? » Due tre risero, nel silenzio generale. « Non e finita Quinto elemento preoccupante potrebbe essere la secessione di quelli l`a » e fece un cenno verso il Museo. « Andiamo: volete che siano cosí imbecilli da com- prometterSi tanto apertamente senza la sicurezza matema- tica che i Morzi riusciranno ? Pero mi sono anche detto: nel caso che la rivolta abortisse, ammessa la rivolta, di pre- testi buoni per giustificare quel complotto in separata sede non ci sar`a penuria. Figuratevi, avranno solo l'imbarazzo della scelta: tentativo di mimetizzazione, per esempio, tat- tica del doppio gioco, premure per l'avvenire della Scala e cosí via... Statemi a sentire: quelli l`a, domani... » Ebbe un attimo di incertezza. Resto col braccio sinistro levato senza finire. In quel brevissimo silenzio, da una lon- tananza che era difficile valutare, giunse un boato: rombo di un'esplosione che rintrono nel cuore dei presenti. « Gesú, Gesú » gemette Mariú Gabrielli gettandosi in ginocchio. « I miei bambini! » « Han cominciato! » grido un'altra istericamente. « Calma, calma, non e successo nien- te! Non fate le donnette! » intervenne Liselore Bini. Allora si fece avanti il maestro Cottes. Stralunato in vol- to, il soprabito gettato sulle spalle, le mani aggrappate ai risvolti della marsina, fisso negli occhi l'avvocato Cosenz. E annuncio solennemente: « lo vado ». « Dove, dove va ? » fecero insieme parecchie voci, con indefinibili speranze. « A casa, vado. Dove volete mai che vada? Qua io non ci resisto. » E mosse in direzione dell'uscita. Ma barcolla- va, si sarebbe detto ubriaco fradicio. « Proprio adesso ? Ma no, ma no, aspetti ! Tra poco e mattino! » gli gridarono dietro. Fu inutile. Due gli fecero strada con le candele fin dabbasso dove un portiere inson- nolito gli aperse senza obiezioni. «Telefoni » fu l'ultima raccomandazione. Il Cottes si incammino senza rispondere. Su, nel ridotto, corsero ai finestroni, spiando dalle fes- sure delle imposte. Che sarebbe successo ? Videro il vec- "chio attraversare i binari del tram; a passi goffi, quasi in-" cespicando, puntare all'aiola centrale della piazza. Sorpasso la prima fila di automobili ferme, procedette nella zona sgombra. All'improvviso stramazzo di schianto in avanti, come se gli avessero dato uno spintone. Ma oltre a lui non si vedeva nella piazza anima viva. Si udí il tonfo. Resto disteso sull'asfalto, le braccia tese, a faccia in giú. Da lon- tano pareva un gigantesco scarafaggio spiaccicato. A chi vide, venne a mancare il fiato. Restarono l`a, im- bambolati dallo spavento, senza una parola. Poi sorse un grido orribile di donna: « Lo hanno accoppato! ». La piazza stava immobile. Dalle macchine in attesa nes- suno uscí in aiuto del vecchio pianista. Tutto sembrava morto. E, sopra, il peso di un incubo immenso. « Gli hanno sparato. Ho sentito il colpo » disse uno. « Macché, sar`a stato il rumore della caduta. » « Ho sentito il colpo, giuro. Pistola automatica, me ne intendo. » Nessuno contraddisse. Restarono cosí, chi seduto fuman- do per disperazione, chi abbandonato in terra, chi incol- lato alle imposte per spiare. Sentivano il destino che avan- zava: concentrico, dalle porte della citt`a verso di loro. Finché un barlume vago di luce grigia calo sui palazzi addormentati. Un solitario ciclista passo cigolando. Si udí un fragore simile a quello dei tram lontani. Quindi nella piazza spunto un ometto curvo spingendo un carrettino. Con calma estrema, partendo dall'imbocco di via Marino, L'ometto comincio a spazzare. Bravo! Bastarono pochi colpi di ramazza. Scopando le carte e la sporcizia, egli scopava insieme la paura. Ecco un altro ciclista, un operaio a piedi, un camioncino. Milano si svegliava a poco a poco. Niente era successo. Scosso finalmente dallo spazzino, il maestro Cottes soffiando si rimise in piedi, trasecolato guar- do intorno, raccolse il soprabito da terra, si affretto dor.do- lando verso casa. E nel ridotto, L'alba filtrando da!le persiane, si vide en- trare, a passi quieti e silenziosi, la vecchia fioraia. Un'appa- rizi0ne Pareva si fosse vestita e incipriata allora allora per una serata inaugurale, la notte era passata su di lei senza sfiorarla: L'abito lungo fino a terra di tulle nero, il velo nero, le nere ombre intorno agli occhi, colmo di fiori il cestellino Passo in mezzo alla livida assemblea- e col suo sorriso malinconico porse a Liselore Bini una gardenia, in- tatta IL BORGHESE STREGATO "Giuseppe Gaspari, commerciante in cereali; di 44 anni, ar-" rivo un giorno d'estate al paese di montagna dove sua moglie e le bambine erano in villeggiatura. Appena giun- to, dopo colazione, quasi tutti gli altri essendo andati a dormire, egli uscí da solo a fare una passeggiata. Incamminatosi per una ripida mulattiera che saliva alla montagna, si guardava intorno a osservare il paesaggio. Ma, nonostante il sole, provava un senso di delusione. Ave- va sperato che il posto fosse in una romantica valle con boschi di pini e di larici, recinta da grandi pareti. Era in- vece una valle di prealpi chiusa da cime tozze, a panettone, che parevano desolate e torve. Un posto da cacciatori, pen- so il Gaspari, rimpiangendo di non esser potuto mai vi- vere, neppure per pochi giorni, in una di quelle valli, im- magini di felicit`a umana, sovrastate da fantastiche rupi, dove candidi alberghi a forma di castello stanno alla soglia di foreste antiche, cariche di leggende. E con amarezza con- siderava come tutta la sua vita fosse stata cosí: niente in fondo gli era mancato ma ogni cosa sempre inferiore al de- siderio, una via di mezo che spegneva il bisogno, mai gli aveva dato piena gioia. Intanto era salito un buon tratto e, voltatosi indietro, stupí di vedere il paese, L'albergo, il campo da tennis, gi`a cosí piccoli e lontani. Stava per riprendere il cammino quan- do, di l`a di un basso costone, udí alcune voci. Per curiosit`a lascio allora la mulattiera e, facendosi strada tra i cespugli, raggiunse la schiena della ripa. L`a dietro, sottratto agli sguardi di chi seguiva la via normale, si apriva un selvatico valloncello, dai fianchi di terra rossa, ripidi e crollanti. Qua e l`a un macigno che affiorava, un cespu- glietto, i resti secchi di un albero. Una cinquantina di metri piú in alto il canalone piegava a sinistra, addentrandosi nel fianco della montagna. Un posto da vipere, rovente di sole, stranamente misterioso. " A quella vista egli ebbe una gioia; e non sapeva neanche" lui il perché. Il valloncello non presentava speciale bellezza. Tuttavia gli aveva ridestato una quantit`a di sentimenti for- "tissimi, quali da molti anni non provava; come se quelle" ripe crollanti, quella abbandonata fossa che si perdeva chis- s`a verso quali segreti, le piccole frane bisbiglianti giú dalle arse prode, egli le riconoscesse. Tanti anni fa le aveva in- "traviste, e quante volte, e che ore stupende erano state; pro-" priamente cosí erano le magiche terre dei sogni e delle avventure, vagheggiate nel tempo in cui tutto si poteva sperare. Ma, proprio sotto, dietro a un'ingenua siepe di paletti e di rovi, cinque ragazzetti stavano confabulando. Semi- nudi e con strani berretti, fasce, cinture, a simulare vesti esotiche o piratesche. Uno aveva un fucile a molla, di quelli che lanciano un bastoncino, ed era il piú grande, sui quattordici anni. Gli altri erano armati di archetti fatti con "rami di nocciuolo; da frecce servivano piccoli uncini di" legno ricavati dalla biforcazione di ramoscelli. « Senti » diceva il piú grande, che portava alla fronte tre penne. «Non me ne importa niente... a Sisto io non ci penso, a Sisto penserai tu e Gino, in due ce la farete, spero. Basta che facciamo piano, vedrai che li prendiamo di sor- presa. » Il Gaspari, ascoltando i loro discorsi, capí che giocavano ai selvaggi o alla guerra i nemici erano piú avanti, asser- ragliati in un ipotetico fortilizio, e Sisto era il loro capo, il piú in gamba e temibile. Per impossessarsi del forte i cinque si sarebbero serviti di un'asse, che avevano appunto "con loro, lunga circa tre metri; la quale servisse da passe-" rella da una sponda all'altra di un fosso o spaccatura (il Gaspari non aveva ben capito) alle spalle del covo nemico. Due sarebbero andati su per il fondo del vallone, simulando "un attacco di fronte; gli altri tre alle spalle, valendosi della" tavola. In quel mentre uno dei cinque vide, fermo sul ciglio del vallone, il Gaspari, quell'uomo anziano, dalla testa presso- ché calva, la fronte altissima, gli occhi chiari e benevoli. « Guarda l`a » disse ai compagni, che improvvisamente si tacquero, guardando l'estraneo con diffidenza « Buongiorno » disse Giuseppe, in lietissima disposizione di spirito. « Stavo a guardarvi... e cosí, quando andate al- L'assalto? » Ai bambini piacque che l'ignoto signore, anziché sgri- darli, quasi li incoraggiasse. Pero tacquero intimiditi. Una ridicola cosa venne allora in mente a Giuseppe. Balzo giú per il valloncello e, affondando i piedi nelle "ghiaie sotto di lui frananti, discese a salti verso i ragazzi;" i quali si alzarono in piedi. Ma lui disse loro: « Mi volete con voi ? Portero la tavola, per voi e troppo pesante. » I ragazzi sorrisero leggermente Che cosa voleva quello sconosciuto che mai si era visto nei dintorni? Poi, vedendo la sua faccia simpatica, presero a considerarlo con indul- genza. « Ma guarda che lassú c'e Sisto » gli disse il piú piccolo, per vedere se si spaventava. « Ma e cosí terribile Sisto? » « Lui vince sempre » rispose il bambino. « Mette le dita in faccia, sembra che voglia cavare gli occhi. icattivo lui... » « Cattivo? Vedrai che lo prenderemo lo stesso! » fece il Gaspari divertito. Cosí mossero. Il Gaspari, aiutato da un altro, sollevo l'asse che pesava molto di piú di quanto non avesse pensato. Poi risalirono il canalone, su per i macigni del fondo. I bambini lo guardavano meravigliati. Curioso: non c'era ombra di compatimento in lui, come negli altri uomini grandi quando si degnano di giocare. Pareva proprio facesse sul serio. Finché giunsero al punto dove il valloncello svoltava. Ivi si fermarono e appiattandosi dietro ai sassi sporsero lenta- mente il capo a osservare. Anche Gaspari fece lo stesso, lungo disteso sulle ghiaie, senza preoccuparsi del vestito. Vide allora la rimanente parte del canalone, ancora piú singolare e selvaggia. Coni di terra rossa che parevano fra- gilissimi si alzavano attorno, accavallandosi a circo, come guglie di una cattedrale morta. Essi avevano una vaga e inquietante espressione, quasi da secoli fossero rimasti l`a immobili, allo scopo di aspettare qualcuno. E in cima ai piú alto di essi, che si ergeva nel punto superiore del val- loncello, si vedeva una specie di muricciolo di sassi, e tre quattro teste che spuntavano. « Eccoli lassú, li vedi ? » gli bisbiglio uno dei cinque. " Lui fece cenno di sí; ed era perplesso. Breve era lo spa-" zio metricamente considerato. Tuttavia per qualche istante egli si chiese come avrebbero fatto ad arrivare lassú, a quella lontanissima rupe sospesa tra le voragini. Sarebbero giunti prima di sera? Ma fu impressione di pochi istanti. Che cosa gli era mai passato per la mente? Ma se era questione di un centinaio di metri! Due dei ragazzi rimasero fermi ad aspettare. Si sarebbero fatti avanti solo al momento opportuno. Gli altri, col Ga- spari, si inerpicarono da un lato, per raggiungere il ciglio del vallone, badando a non farsi vedere. « Adagio, non muovere sassi » raccomandava a bassa vo- ce il Gaspari, piú ansioso degli altri circa l'esito dell'impresa. a Coraggio, tra poco ci siamo. » Raggiunsero il ciglione, discesero per qualche metro in un valloncello laterale, del tutto insignificante. Quindi ri- "presero la salita; portandosi dietro la tavola." Il piano era ben calcolato. Quando si riaffacciarono al "vallone, il ""fortino"" dei selvaggi comparve a una decina di" metri da loro, un poco piú sotto. Ora bisognava scendere in mezzo ai cespugli e gettare la tavola sopra una stretta spacca- tura. I nemici erano placidamente seduti e tra essi spiccava "Sisto, con una specie di criniera in testa; una maschera gial-" liccia di cartone, intenzionalmente mostruosa, gli nascon- deva met`a faccia. (Ma intanto una nuvola era calata sopra di loro, il sole si era spento, il valloncello aveva preso colore di piombo.) « Ci siamo » bisbiglio il Gaspari. « Adesso io vado avan- ti con la tavola. » Infatti, tenendo l'asse con le mani, si lascio lentamente calare in mezzo ai rovi, seguito da presso dai ragazzi. Senza che i selvaggi si accorgessero, essi riuscirono a raggiungere il punto desiderato. Ma qui il Gaspari si fermo, come assorto (la nube rista- gnava ancora, da lungi si udí un grido lamentoso che asso- "migliava a un richiamo). ""Che strana storia"" pensava ""solo" due-ore fa ero in albergo, con la moglie e le bambine, "seduto a tavola; e adesso in questa terra inesplorata, distan-" "te migliaia di chilometri, a lottare con dei selvaggi.""" Il Gaspari guardava. Non c'era piú il valloncello adatto ai giochi dei ragazzi, né le mediocri cime a panettone, né la strada che risaliva la valle, né l'albergo, né il rosso cam- po da tennis. Egli vide sotto di sé sterminate rupi, diverse da ogni ricordo, che precipitavano senza fine verso maree di foreste, vide piú in l`a il tremulo riverbero dei deserti e piú in l`a ancora altre luci, altri confusi segni denotanti il mi- stero del mondo. E qui dinanzi, in cima alla rupe, stava una "sinistra bicocca; tetre mura a sghembo la reggevano e i" tetti in bilico erano coronati da teschi, candidi per il sole, che sembrava ridessero. Il paese delle maledizioni e dei miti, le intatte solitudini, L'ultima verit`a concessa ai nostri sogni ! Una porta di legno, socchiusa (che non esisteva), era co- perta di biechi segni e gemeva ai soffi del vento. Il Gaspari si trovava ormai vicinissimo, a due metri forse. Comincio ad alzare lentamente la tavola, per lasciarla cadere sull'altra sponda. « Tradimento! » grido nel medesimo istante Sisto, accor- "tosi dell'attacco; e balzo in piedi ridendo, armato di un" grande archetto. Quando scorse il Gaspari resto un istante perplesso. Poi trasse di tasca un uncino di legno, innocuo "dardo; lo applico alla corda dell'archetto, prese la mira." Ma, dalla socchiusa porta coperta di oscuri segni (che non esisteva), il Gaspari vide uscire uno stregone, incro- stato di lebbre e di inferno. Lo vide rizzarsi, altissimo, gli sguardi privi di anima, un arco in mano, sorretto da una forza scellerata. Egli lascio allora andare la tavola, si trasse con spavento indietro. Ma l'altro gi`a scoccava il colpo. Colpito al petto, il Gaspari cadde tra i rovi. Ritorno all'albergo che gi`a scendeva la sera. Era sfinito. E si lascio andare su una panchina, di fianco alla porta di ingresso Gente entrava ed usciva, qualcuno lo saluto, altri non lo riconobbero perché era gi`a scuro. Ma lui non badava alla gente, chiuso intensamente in se stesso. E nessuno di quanti passavano si accorgeva che nel mezzo del petto egli portava confitta una freccia. Una asticciola, tornita con perfezione, di un legno apparente- mente durissimo e di colore scuro, sporgeva per circa tren- tacinque centimetri dalla camicia, al centro di una macchia sanguigna Gli sguardi del Gaspari la fissavano con mode- rato orrore, per via di una felicit`a curiosa che vi si mesco- lava Egli aveva provato ad estrarla ma faceva troppo male: uncmi laterali dovevano trattenerla dentro alle carni. E dalla ferita ogni tanto gorgogliava ilangue. Lo sentiva colare giú per il petto e il ventre, ristagnare nelle pieghe della camicia. Dunque l'ora di Giuseppe Gaspari era giunta, con poetica "magnificenza; e crudele. Probabilmente - egli penso - gli" toccava morire. Eppure che vendetta contro la vita, la gente, i discorsi, le facce, mediocri, che l'avevano sempre con- tornato. Che stupenda vendetta Oh, lui adesso non tornava certo dal valloncello domestico a pochi minuti dall'albergo Corona. Bensí tornava da remotissima terra, sottratta alle "irriverenze umane, regno di sortilegi, pura; e per arrivarci" gli altri (non lui) avevano bisogno di attraversare gli oceani e poi avanzare lungo tratto per le inospitali solitudini, con- "tro la natura nemica e le debolezze dell'uomo; e poi non" era ancora detto che sarebbero giunti. Mentre lui invece... Sí, lui, quarantenne, si era messo a giocare coi bambini, "credendoci come loro; solo che nei bambini c'e una spe-" "cie di angelica leggerezza; mentre lui ci aveva creduto sul" serio, con una fede pesante e rabbiosa, covata, chiss`a, per tanti anni ignavi senza saperlo. Cosí forte fede che tutto si era fatto vero, il vallone, i selvaggi, il sangue. Egli era entrato nel mondo non piú suo delle favole, oltre il confine che a una certa stagione della vita non si puo impunemente tentare. Aveva detto a una segreta porta apriti, credendo quasi di scherzare, ma la porta si era aperta veramente. Aveva detto selvaggi e cosí era stato. Freccia, per gioco, e vera freccia lo faceva morire. " Pagava dunque l'arduo incantesimo, il riscatto; era an-" "dato troppo lontano per poter ritornare; ma in compenso" che vendetta per lui. Oh, lo aspettassero per pranzc moglie. figlie, compagni d'albergo, lo aspettassero per il btidge della sera! La pastina in brodo, il manz0 lesso, il giornale radio: c'era da ridere. Lui, uscito dai tenebrosi recessi del mondo! « Beppino » chiamo la moglie da una terrazza sovrastante dove erano preparate le tavole all'aperto. Beppino, che cosa fai l`a seduto ? E cosa hai fatto fino adesso ? Ancora in calzettoni ? Non vai a cambiarti ? Lo sai che sono passate le otto? Noi abbiamo una fame... » " « ""...amen..."" » La sentí quella voce il Gaspari? Oppure" se n'era gi`a troppo discostato? Con la destra fece un cenno vago come per dire che lo lasciassero, facessero a meno di lui, non gliene importava un corno. Perfino sorrise. Ed esprimeva un'acre letizia, benché il respiro stesse cadendo. « Ma su, Beppino » gridava la moglie. « Ci vuoi fare an- cora aspettare ? Ma cos'hai ? Perché non rispondi ? Si puo sapere perché non rispondi? » " Egli abbasso la testa come per dire di sí; senza rialzarla." Lui vero uomo, finalmente, non meschino. Eroe, non gi`a verme, non confuso con gli altri, piú in alto adesso. E solo. La testa pendeva sul petto, come si conveniva alla morte, e le raggelate labbra continuavano a sorridere un poco, significando disprezzo, ti ho vinto miserabile mondo, non mi hai saputo tenere. UNA GOCCIA Una goccia d'acqua sale i gradini della scala. La senti ? Disteso in letto nel buio, ascolto il suo arcano cammino. Come fa ? Saltella ? Tic, tic, si ode a intermittenza. Poi la goccia si ferma e magari per tutta la rimanente notte non si fa piú viva. Tuttavia sale. Di gradino in gradino viene su, a differenza delle altre gocce che cascano perpen- dicolarmente, in ottemperanza alla legge di gravit`a, e alla fine fanno un piccolo schiocco, ben noto in tutto il mondo. Questa no: piano piano si innalza lungo la tromba delle scale lettera E dello sterminato casamento. Non siamo stati noi, adulti, raffinati, sensibilissimi, a se- gnalarla. Bensí una servetta del primo piano, squallida pic- cola ignorante creatura. Se ne accorse una sera, a ora tarda, quando tutti erano gi`a andati a dormire. Dopo un po' non seppe frenarsi, scese dal letto e corse a svegliare la padrona. « Signora » sussurro « signora! » « Cosa c'e? » fece la pa- drona riscuotendosi. « Cosa succede? » « C'e una goccia, si- gnora, una goccia che vien su per le scale! » « Che cosa? » chiese l'altra sbalordita. « Una goccia che sale i gradini! » ripeté la servetta, e quasi si metteva a piangere. « Va, va » impreco la padrona « sei matta? Torna in letto, marsch! Hai bevuto, ecco il fatto, vergognosa. un pezzo che al mat- tino manca il vino nella bottiglia! Brutta sporca, se credi... » Ma la ragazetta era fuggita, gi`a rincantucciata sotto le co- perte. " ""Chiss`a che cosa le sar`a mai saltato in mente, a quella" "stupida"" pensava poi la padrona, in silenzio, avendo or-" mai perso il sonno. Ed ascoltando involontariamente la notte che dominava sul mondo, anche lei udí il curioso rumore. Una goccia saliva le scale, positivamente. Gelosa dell'ordine, per un istante la signora penso di uscire a vedere. Ma che cosa mai avrebbe potuto trovare alla miserabile luce delle lampadine oscurate, pendule dalla ringhiera? Come rintracciare una goccia in piena notte, con quel freddo, lungo le rampe tenebrose? Nei giorni successivi, di famiglia in famiglia, la voce si sparse lentamente e adesso tutti lo sanno nella casa, anche se preferiscono non parlarne, come di cosa sciocca di cui forse vergognarsi. Ora molte orecchie restano tese, nel buio, quando la notte e scesa a opprimere il genere umano. E chi pensa a una cosa, chi a un'altra. Certe notti la goccia tace Altre volte invece, per lunghe ore non fa che spostarsi, su, su, si direbbe che non si debba piú fermare. Battono i cuori allorché il tenero passo sembra toccare la soglia. Meno male, non si e fermata. Eccola che si allontana, tic, tic, avviandosi al piano di sopra. So di positivo che gli inquilini dell'ammezzato pensano di essere ormai al sicuro. La goccia - essi credono - e gi`a passata davanti alla loro porta, né avr`a piú occasione di di- "sturbarli; altri, ad esempio io che sto al sesto piano, hanno" adesso motivi di inquietudine, non piú loro. Ma chi gli dice che nelle prossime notti la goccia riprender`a il cammi- no dal punto dove era giunta l'ultima volta, o piuttosto non ricomincer`a da capo iniziando il viaggio dai primi scalini, umidi sempre, ed oscuri di abbandonate immondi- zie? No, neppure loro possono ritenersi sicuri. Al mattino, uscendo di casa, si guarda attentamente la scala se mai sia rimasta qualche traccia.iente, come era prevedibile, non la piú piccola impronta. Al mattino del resto chi prende piú questa storia sul serio ? Al sole del mattino l'uomo e forte, e un leone, anche se poche ore pri- ma sbigottiva. O che quelli dell'ammezzato abbiano ragione ? Noi del resto, che prima non sentivamo niente e ci si teneva esenti da alcune notti pure noi udiamo qualcosa. La goccia e an- cora lontana, e vero. A noi arriva solo un ticchettio legge- rissimo, flebile eco attraverso i muri. Tuttavia e segno che essa sta salendo e si fa sempre piú vicina. Anche il dormire in una camera interna, lontana dalla tromba delle scale, non serve. Meglio sentirlo, il rumore, piuttosto che passare le notti nel dubbio se ci sia o meno. Chi abita in quelle camere riposte talora non riesce a resi- stere, sguscia in silenzio nei corridoi e se ne sta in antica- mera al gelo, dietro la porta, col respiro sospeso, ascol- tando. Se la sente, non osa piú allontanarsi, schiavo di in- decifrabili paure. Peggio ancora pero se tutto e tranquillo: in questo caso come escludere che, appena tornati a coricarsi, proprio allora non cominci il rumore? Che strana vita, dunque. E non poter far reclami, né tentare rimedi, né trovare una spiegazione che sciolga gli anlml. E non poter neppure persuadere gli altri, delle altre case, i quali non sanno. Ma che cosa sarebbe poi questa goccia: - domandano con esasperante buona fede - un topo forse? Un rospetto uscito dalle cantine? No davvero. E allora - insistono - sarebbe per caso una allegoria? Si vorrebbe, cosí per dire, simboleggiare la morte? o qualche pericolo? o gli anni che passano? Niente affatto, signori: e semplicemente una goccia, solo che viene su per le scale. O piú sottilmente si intende raffigurare i sogni e le chi- mere ? Le terre vagheggiate e lontane dove si presume la felicit`a? Qualcosa di poetico insomma? No, assolutamente. Oppure i posti piú lontani ancora, al confine del mondo ai quali mai giungeremo? Ma no, vi dico, non e uno scher- zo, non ci sono doppi sensi, trattasi ahime proprio di una goccia d'acqua, a quanto e dato presumere, che di notte viene su per le scale. Tic, tic, misteriosamente, di gradino in gradino. E percio si ha paura. 13 LA CANZONE DI GUERRA Il re sollevo il capo dal grande tavolo di lavoro fatto d'ac ciaio e diamanti. « Che cosa diavolo cantano i miei soldati? » domando. Fuori, nella piazza dell'Incoronazione, passavano infatti bat- taglioni e battaglioni in marcia verso la frontiera, e marcian- do cantavano. Lieve era ad essi la vita perché il nemico era gi`a in fuga e laggiú nelle lontane praterie non c'era piú da mietere altro che gloria: di cui incoronarsi per il ritorno. E anche il re di riflesso si sentiva in meravigliosa salute e sicuro di sé. Il mondo stava per essere soggiogato. «B la loro canz0ne, Maest`a » rispose il primo consi- gliere, anche lui tutto coperto di corazze e di ferro perché questa era la disciplina di guerra. E il re disse: « Ma non hanno niente di piú allegro? Schroeder ha pur scritto per i miei eserciti dei bellissimi inni. Anch'io li ho sentiti. E sono vere canz0ni da soldati ». aChe cosa vuole, Maest`a?» fece il vecchio consigliere, ancora piú curvo sotto il peso delle armi di quanto non sarebbe stato in realt`a. « I soldati hanno le loro manie, un po' come i bambini. Diamogli i piú begli inni del mondo e loro preferiranno sempre le loro canz0ni. » « Ma questa non e una canzone da guerra » disse il re. Si direbbe perfino, quando la cantano, che siano tristi. E non mi pare che ce ne sia il motivo, direi. » « Non direi proprio » approvo il consigliere con un sor- riso pieno di lusinghiere allusioni. « Ma forse e soltanto una canz0ne d'amore, non vuol esser altro, probabilmente. « E come dicono le parole? » insistette il re. « Non ne sono edotto, veramente » rispose il vecchio conte Gustavo. « Me le faro riferire. » I battaglioni giunsero alla frontiera di guerra, travolsero spaventosamente il nemico, ingrassandone i territori, il fra- gore delle vittorie dilagava nel mondo, gli scalpitii si per- devano per le pianure sempre piú lontano dalle cupole argentee della reggia. E dai loro bivacchi recinti da ignote costellazioni si spandeva sempre il medesimo canto: non allegro, triste, non vittorioso e guerriero bensí pieno di amarezza. I soldati erano ben nutriti, portavano panni sof- fici, stivali di cuoio armeno, calde pellicce, e i cavalli ga- loppavano di battaglia in battaglia sempre piú lungi, greve il carico solo di colui che trasportava le bandiere nemi- che Ma i generali chiedevano: « Che cosa diamine stanno cantando i soldati? Non hanno proprio niente di piú alle- gro ? ». « Sono fatti cosí, eccellenza » rispondevano sull'attenti quelli dello Stato Maggiore. « Ragazzi in gamba, ma han- no le loro fissazioni. » « Una fissazione poco brillante » dicevano i generali di malumore. « Caspita, sembra che piangano. E che cosa po- trebbero desiderare di piú ? Si direbbe che siano malcon- tenti. » Contenti erano invece, uno per uno, i soldati dei reggi- menti nttoriosi. Che cosa potevano infatti desiderare di piú? Una conquista dopo l'altra, ricco bottino, donne fre- sche da godere, prossimo il ritorno trionfale. La cancella- zione finale del nemico dalla faccia del mondo gi`a si leg- geva sulle giovani fronti, belle di forza e di salute. « E come dicono le parole? » il generale chiedeva incu- riosito. « Ah, le parole! Sono ben delle stupide parole » rispon- devano quelli dello Stato Maggiore, sempre guardinghi e riservati per antica abitudine. « Stupide o no, che cosa dicono ? » « Esattamente non le conosco, eccellenza » diceva uno. « Tu, Diehlem, le sai ? » «Le parole di questa canzone? Proprio non saprei. Ma c'e qui il capitano Marren, certo lui... » «Non e il mio forte, signor colonnello » rispondeva Marren. « Potremmo pero chiederlo al maresciallo Peters, se permette... » « Su, via, quante inutili storie, scommetterei... » ma il generale preferí non terminare la frase. Un po' emozionato, rigido come uno stecco, i1 mare- sciallo Peters rispondeva al questionario: « La prima strofa, eccellenza serenissima, dice cosí: Per campi e paesi, il tamburo ha suon`a e gli anni pass`a la via del ritorno, la via del ritorno, nessun sa trov`a. " E poi viene la seconda strofa che dice: ""Per dinde e" "per donde..."". »" « Come? » fece il generale. " « ""Per dinde e per donde"" proprio cosí, eccellenza sere-" nissima. » " « E che significa ""per dinde e per donde"" ? »" « Non saprei, eccellenza serenissima, ma si canta proprio cosí. » « Be', e poi cosa dice? » Per dinde e per donde avanti si va e gli anni pass`a dove ti ho lasciata, dove ti ho lasciata, una croce ci sta « E poi c'e la terza strofa, che pero non si canta quasi mai. E dice... » « Basta, basta cosí » disse il generale, e il maresciallo saluto militarmente. « Non mi sembra molto allegra » commento il generale, come il sottuficiale se ne fu andato. « Poco adatta alla guerra, comunque. » « Poco adatta invero » confermavano col dovuto dispetto i colonnélli degli Stati Maggiori. Ogni sera, al termine dei combattimenti, mentre ancora il terreno fumava, messaggeri veloci venivano spiccati, che volassero a riferire la buona notizia. Le citt`a erano imban- dierate, gli uomini si abbracciavano nelle vie, le campane delle chiese suonavano, eppure chi passava di notte attra- verso i quartieri bassi della capitale sentiva qualcuno can- tare, uomini, ragazze, donne, sempre quella stessa canzone venuta su chiss`a quando. Era abbastanza triste, effettivamen- te, c'era come dentro molta rassegnazione. Giovani bionde appoggiate al davanzale, la cantavano con smarrimento. Mai nella storia del mondo, per quanto si risalisse nei secoli, si ricordavano vittorie simili, mai eserciti cosí for- tunati, generali cosí bravi, avanzate cosí celeri, mai tante terre conquistate. Anche l'ultimo dei fantaccini alla fine si sarebbe trovato ricco signore, tanta roba c'era da spar- tire. Alle speranze erano stati tolti i confini. Si tripudiava ormai nelie citt`a, alla sera, il vino correva fin sulle soglie, i mendicanti danzavano. E tra un boccale e l'altro ci stava bene una canz0ncina, un piccolo coro di amici. « Per campi e paesi... » cantavano, compresa la terza strofa. E se nuovi battaglioni attraversavano la piazza dell'Inco- ronazione per dirigersi alla guerra, allora il re sollevava un poco la testa dalle pergamene e dai rescritti, ascoltando, né sapeva spiegarsi perché quel canto gli mettesse addosso il malumore. Ma per i campi e i paesi i reggimenti d'anno in anno avanzavano sempre piú lungi, né si decidevano a incam- "minarsi finalmente in senso inverso; e perdevano coloro" che avevano scommesso sul prossimo arrivo dell'ultima e piú felice notizia. Battaglie, vittorie, vittorie, battaglie. Or- mai le armate marciavano in terre incredibilmente lontane, dai nomi difficili che non si riusciva a pronunciare. Finché (di vittoria in vittoria !) venne il giorno che la piazza dell'Incoronazione rimase deserta, le finestre della reggia sprangate, e alle porte della citt`a il rombo di strani "carriaggi stranieri che si approssimavano; e dagli invinci-" bili eserciti erano nate, sulle pianure remotissime, foreste che prima non c'erano, monotone foreste di croci che si perdevano all'orizzonte e nient'altro. Perché non nelle spade, nel fuoco, nell'ira delle cavallerie scatenate era rimasto chiu- so il destino, bensí nella sopracitata canz0ne che a re e generalissimi era logicamente parsa poco adatta alla guer- ra. Per anni, con insistenza, attraverso quelle povere note il fato stesso aveva parlato, preannunciando agli uomini cio ch'era stato deciso. Ma le reggie, i condottieri, i sapienti "ministri, sordi come pietre. Nessuno aveva capito; soltanto" gli inconsapevoli soldati coronati di cento vittorie, quando marciavano stanchi per le strade della sera, verso la morte, cantando. 14 IL RE A HORM EL-HAGAR Questi i fatti avvenuti in localit`a Horm el-Hagar di l`a della Valle dei Re, al cantiere per gli scavi del palazzo di Meneftah Il. Il direttore degli scavi, Jean Leclerc, uomo attempato e geniale, ebbe una lettera dal segretario del Servizio delle Antichit`a che gli annunciava una visita di riguardo: un illustre archeologo straniero, il conte Mandranico, verso il quale si raccomandavano i maggiori riguardi. Leclerc non ricordava nessun archeologo che si chiamasse Mandranico. L'interessamento del S.d.A. - penso - anziché da reali meriti, era procurato da qualche alta parentela. Ma non ne fu seccato, tutt'altro. Da dieci giorni era solo, il suo collaboratore essendo partito per le vacanze. L'idea di vedere in quell'eremo una faccia cristiana che si inte- ressasse un poco delle sue vecchie pietre non gli dispiac- que. Da quel signore che era, spedí una camionetta fino ad Akhmim per fare provviste e sotto un padiglione di legno da cui si dominava l'intero complesso degli scavi allestí una mensa perfino elegante. Sorse quel mattino d'estate, caldo e greve, con le modi- che speranze che accompagnano il nascere del dí sui de- serti, e poi si dissolvono nel sole. Proprio il giorno prima, all'estremit`a del secondo cortile interno, tra le informi ca- taste delle colonne crollate, era uscita dalla sabbia, dopo molti secoli di buio, una stele con iscrizione di grande in- teresse per cio che rifletteva il regno, finora rimasto oscuro "di Meneftah II. ""I re due volte dai nomi del nord e dalle" paludi sono venuti a prosternarsi dinanzi al faraone, sua "maest`a, vita, salute, forza"" diceva l'iscrizione alludendo pro-" babilmente alla sottomissione di vari signorotti del Basso "Nilo gi`a ribelli ""e sconfitti lo hanno aspettato alla porta" del tempio, portavano le parrucche nuove profumate d'olio, in mano tenevano corone di fiori ma gli occhi non sono stati pari alla sua luce, le membra ai suoi comandi, le orec- chie alla sua voce, le parole allo splendore di Meneftah, "figlio di Ammone, vita, salute, forza..."" La notte precedente," al lume di un petromax, la decifrazione non era andata oltre. Ora, benché Leclerc non desse piú l'importanza di una volta alle affermazioni accademiche e alla fama, il ritro- vamento gli aveva procurato una gioia sincera. Guardando a oriente, verso l'invisibile fiume, l`a dove la pista auto- mobilistica si perdeva in una prospettiva senza fine di ter- razze rocciose polverulente di sabbie, l'archeologo pregustava la soddisfazione di annunciare all'ospite ignoto la scoperta, proprio come si ama trasmettere al prossimo una buona no- tizia. Vide in quel mentre - non erano ancora le otto - un lontano esile turbine levarsi dall'orizzonte, cadere, rifarsi piú alto e consistente, ondeggiare nell'aria immobile e pura. Poi, con un alito di vento che gli mosse i capelli bianchi da artista, giunse anche un ronzio di motore. La macchina dello straniero stava per arrivare. Batté le mani Leclerc e a un paio di fellah accorsi fece segno I due corsero all'ingresso del recinto, aprirono la porta di solide travi Poco dopo l'automobile entrava. Le- clerc noto subito sulla targa, con leggero disappunto, l'in- segna del corpo diplomatico. Fermatasi la macchina quasi dinanzi a lui, ne scese prima un giovanotto stilé che Leclerc doveva aver gi`a visto da qualche parte al Cairo, poi un altro "signore bruno e compunto dall'aria molto seria; infine, con" gran fatica - e il Leclerc capí ch'era quello l'ospite - un vecchietto piccolo e segaligno, dalla faccia di tartaruga as- solutamente inespressiva. Sorretto dal signore bruno, il conte Mandranico scese dalla vettura e appoggiandosi a un ba- stoncello mosse verso il cantiere. Fino a quel momento nes- suno pareva essersi accorto del Leclerc il quale tuttavia con la sua decorativa corpulenza e il largo vestito bianco cam- peggiava nella scena. Finalmente il giovanotto per primo si avvicino annunciando in francese che lui, tenente Afghe Christani della Guardia di Palazzo e il barone Fantin (allu- deva evidentemente al signore bruno), avevano l'onore (chis- s`a perché tanta solennit`a) di accompagnare Monsieur Le "Comte Mandranico a questa visita che ""confidiamo sar`a del" "piú alto interesse""." A questo punto il Leclerc d'un subito riconobbe l'ospite: troppo spesso i giornali egiziani avevano pubblicato la fo- tografia del re straniero che viveva in esilio al Cairo. Ar- cheologo illustre ? Non era una bugia, dopo tutto. Nella sua giovane et`a - ricordo l'egittologo - il re aveva dimo- strato spiccato interesse per la etruscologia e ne aveva ap- poggiato gli studi anche ufficialmente. Percio il Leclerc si fece avanti con un certo impaccio, accenno a un piccolo inchino, la sua simpatica faccia arrossí lievemente. L'ospite, sorriso spento, borbotto qualche parola, dando la mano. Quindi le altre presentazioni. Ben presto il Leclerc ritrovo la disinvoltura abituale. « Di qua, di qua, signor conte » disse indicando la via « e meglio cominciare il giro subito, prima che faccia troppo caldo. » Con la coda dell'occhio si accorse che il compo- "stissimo barone Fantin aveva offerto il braccio al conte;" quasi irosamente il vecchio lo aveva pero respinto, awiando- si da solo a piccoli stentati passi Il giovane Christani segui- va da presso con una bianca borsa di pelle sotto il braccio e sorrideva genericamente. Giunsero su un ciglione roccioso, donde sprofondava tra due alte ripe tagliate con meravigliosa precisione un lungo piano inclinato. In fondo si apriva come una larghissima e piatta fossa, a met`a della quale un rotto colonnato, terri- bilmente immobile, formava la facciata esterna dell'antica reggia. Spigoli diritti, ombre geometriche, nere occhiaie ret- tangolari di atrii e portali si accavallavano piú in l`a in ap- parente disordine, rivelando, in cosí morto paesaggio, che quello era pure stato il regno dell'uomo. Spiegava il Leclerc, con signorile distacco, le difficolt`a dell'impresa. Prima che si iniziassero gli scavi, tutto era se- polto dalle sabbie e dai detriti fin sopra la cima delle colon- ne e del maggiore frontone.Jna montagna di materiale si era percio dovuta scavare, sollevare, portar via, per un di- slivello in alcuni punti perfino di zo metri, fino a raggiun- gere il piano originario del palazzo. E il lavoro non era che a met`a. « Ta scianti cencio tan ninciatii levoo...? » domando con voce chio«ia il conte Mandranico, aprendo e chiudendo la bocca in modo curioso. Leclerc non capí una parola. Fulmineo, guardo il serio barone chiedendo aiuto. E il barone doveva essere allena- tissimo a difficolt`a del genere perché, impassibile, si af- fretto a spiegare: « Monsieur le comte desidera sapere da quanto tempo si sono iniziati gli scavi ». E c'era nelle pa- role un vago disdegno, come se fosse logico che il vecchio re parlasse in quel modo, e idiota colui che avesse avuto la tentazione di meravigliarsene. a Da sette anni, signor conte » rispose Leclerc, suo mal- grado un poco intimidito « e ho avuto il privilegio di inau- gurarli io stesso... Ecco qui, ora ci conviene scendere di qui, e l'unico punto un po' disagevole » disse, quasi fa- cendo suo l'imbarazzo del decrepito conte dinanzi allo sdruc- ciolo del piano inclinato. Il barone ritento di offrire il braccio e questa volta non "venne respinto; commisurando i suoi passi a quelli del conte" si awio per la discesa. Anche Leclerc rispettosamente avan- zo molto adagio La china era ripida, L'aria sempre piú calda, le ombre si accorciavano, l'ospite insigne strascinava un po' la gamba sinistra, impolverandosi la scarpa di pelle bianca, dall'estremit`a della fossa giungevano ritmici colpi, come di mazzapicchi. Come furono in fondo, non si videro piú le baracche "del cantiere, nascoste dal ciglione; ma soltanto gli antichi" pietroni, e intorno le alte ripe precipitose, calcinate e cadenti. Verso occidente esse si innalzavano a gradoni formando una vera montagna, anch'essa piú che mai nuda, ormai soggio- gata dal sole. Leclerc, cortese, spiegava e il conte Mandranico alzava ogni volta la faccia meccanicamente senza partecipazione, "approvando con piccoli cenni; ma si sarebbe detto non" ascoltasse. Ecco il colonnato d'ingresso, il troncone di una sfinge androcefala, i minuziosi bassorilievi semicancellati dal tempo, dove si indovinavano figure di deit`a e di mo- narchi. Ermetici come montagne gli appiombi delle an- tiche muraglie non rispondevano agli sguardi umani. Lo straniero avvisto allora nel cielo delle nuvole strane che salivano lentamente dal cuore dell'Africa. Erano tron- che di sopra e di sotto, come se un coltello le avesse ta- gliate, e solo ai fianchi ridondavano di molli gorghi spu- mosi. Con infantile curiosit`a il conte le addito col ba- stoncino. « Le nuvole del deserto » spiego Leclerc « senza testa né gambe... come se fossero schiacciate tra due coperchi, ve- ro ?... » Il conte stette a fissarle alcuni istanti, dimentico dei fa- raoni, poi vivamente si volse al barone domandando qual- cosa. Il barone dimostro confusione e si scusava ampia- mente senza perdere la sua compunzione. Si poté capire che il Fantin aveva dimenticato di portare la macchina fo- tografica. Il vecchio non dissimulo la stizza e gli volto le spalle. Entrarono nella prima corte, in totale rovina. Solo la simmetrica disposizione delle pietre e degli sfasciumi indi- cava approssimativamente dove un tempo si innalzavano i colonnati e le mura. Ma in fondo due massicci piatti tor- rioni dagli spigoli sbiechi, resistevano ancora, collegati da un muro piú basso e rientrante, dove si apriva un portale. Era il frontone interno del palazzo e Leclerc fece notare due smisurate figure umane che in bassorilievo occupavano ciascuna delle due pareti: il faraone Meneftah II rappresen- tato nel magnanimo furore della battaglia. Un uomo anziano col tarbusc e una lunga tunica bianca avanzo dall'interno del tempio, avvicinandosi a Leclerc e gli parlo in lingua araba, concitato. Leclerc gli rispondeva scuotendo il capo con un sorriso. « Scusi, che cosa dice? » chiese il tenente Christani incu- riosito. « E uno degli assistenti » rispose Leclerc « un greco, che ne sa ormai piú di me, si occupa di scavi da almeno tren- t'anni. » « Ma e successo qualcosa » insistette Christani che aveva afferrato qualche frammento della conversazione. « Le loro solite storie » fece Leclerc « dice che oggi gli dei sono inquieti... dice sempre cosí quando le cose non vanno per il loro verso.. c'e un masso che non riescono a spostare, e slittato fuori dalle guide, adesso dovranno ri- fare l'argano. » « Sono inquieti. eh... eh... » esclamo, non si capiva in che senso, il conte Mandranico, rianimatosi all'improvviso. Passarono nel secondo cortile, anch'esso tutto desolazione e rovina. Solo a destra ciclopici piloni stavano ancora ritti, da cui sporgevano, smozzicate, le sagome di formidabili atlanti. In fondo, una ventina di fellah stavano lavorando e all'apparire dei signori, come presi di frenesia, comincia- fono ad agitarsi, vociando, in una simulazione di intenso zelo. Il re straniero guardo ancora le singolari nubi del de- serto. navigando esse tendevano a raggrupparsi in un nu- volone solo, statico e pesante, che invece non si muoveva. Sulla biancastra cornice della montagna a ovest passo l'om- bra. Leclerc, ora seguito anche dall'assistente, guido gli ospiti a destra, in un'ala laterale, L'unico punto dove le strutture fossero in buone condizioni. Era una cappella funeraria, an- cora riparata dal tetto, solo qua e l`a sbrecciato. Entrarono nell'ombra. Il conte si tolse lo spesso casco coloniale e il barone fu lesto ad offrirgli un fazzoletto affinché si ter- gesse il sudore. Il sole penetrava dagli interstizi con lamine di ardente luce che battevano qua e l`a sui bassorilievi ria- nimandoli. Intorno c'era penombra, silenzio e mistero. Nel- la semioscurit`a, ai lati, si intravedevano alte statue, irri- gidite sui troni, alcune decapitate, dalla cintura in giú, espri- mevano volont`a cupa e solenne di imperio. Leclerc ne indico una, priva di braccia ma dalla testa pressoché intatta. Aveva un muso grifagno e malvagio. Awicinatosi, il conte si accorse ch'era il volto di un uc- cello, solo che il becco si era spezzato. « Interessantissima questa statua » disse Leclerc. « E il dio Thot. Risale almeno alla dodicesima dinastia e doveva es- sere considerata preziosa se venne trasportata fin qui. I fa- raoni venivano a chiedergli... » si interruppe, resto immo- bile come tendendo le orecchie. Si udiva infatti, non si ca- piva bene da quale parte, una specie di sordo fruscio. «Niente, e la sabbia, la maledetta sabbia, la nostra ne- mica » riprese Leclerc tornando a rasserenarsi. « Ma scusa- temi... dicevano che i re, prima di partire per le guerre, chiedevano consigli a questa statua, una specie di oracolo... se la statua restava immobile la risposta era no... se muo- veva la testa era approvazione... Alle volte queste statue parlavano... chiss`a che voce... i re soltanto riuscivano a re- sistere... i re perché anche loro erano dei... » Cosí dicendo si volto, nel vago dubbio di aver commesso una gafe. Ma il conte Mandranico fissava con inaspettato interesse il si- mulacro, tocco con la punta del bastone il basamento di porfido quasi a saggiarne la consistenza. «Den ciare genigiano anteno galli?» chiese finalmente con intonazione incredula. « Monsieur le comte chiede se i re venivano di persona a interrogarli » tradusse il barone, indovinando che il Le- clerc non aveva afferrato una parola. «Precisamente » confermo soddisfatto l'archeologo, « e dicono, dicono almeno, che Thot rispondesse... Ed ecco, ecco qui in fondo la stele di cui vi avevo parlato... vol siete i primi a vederla... » Aprí le braccia in un largo gesto, un poco teatrale, resto cosí immobile, di nuovo ascol- tando. Tutti istintivamente tacquero. Il fruscio di prima rodeva intorno, misterioso, come se i secoli assediassero lentamente il santuario cercando di riseppellirlo. Le lame del sole si erano fatte sempre meno oblique, ora scendevano quasi a picco, parallele agli spigoli dei piloni, ma alquanto fioche, quasi il cielo si fosse appannato. Il Leclerc aveva appena cominciato la spiegazione che il barone getto uno sguardo all'orologio da polso. Le dieci e mezzo. Faceva un caldo d'inferno. «Vi ho fatto fare un poco tardi, signori, forse?» do- mando amabilmente Leclerc. « Avrei disposto la colazione per le undici e mezzo... » « La colazione? » esclamo il conte, in tono secco e final- mente comprensibile, rivolto al Fantin. « Ma noi dobbiamo partire... alle 11 al piú taddi, al piú taddi... » «Non avro dunque l'onore?... » fece Leclerc desolato. Il barone volse la cosa in termini piú diplomatici: « Sia- mo davvero estremamente grati... davvero commossi... ma impegni... » A malincuore l'egittologo abbrevio i commenti, rinun- ciarldo a molte importantissime cose che gli erano care. Il BrUppetto ritorno quindi sui suoi passi. Il sole si era spento, una coltre rossiccia si era stesa nel cielo, atmosfera da pesti- lenze. A un certo punto il conte bisbiglio qualche parola al Fantin, che lo lascio, precedendolo. Leclerc, pensando che il vecchio avesse voglia di orinare, si avvio all'uscita con gli altri due. Il conte rimase solo, tra le antiche statue. Uscito intanto dal chiuso, Leclerc esamino la volta ce- leste: aveva un colore strano. In quel mentre una goccia gli batté su una mano Pioveva. « Piove » esclamo « da tre anni non si era vista una goc- cia!... Era un brutto segno a quei tempi... se pioveva i fa- raoni rinviavano qualsiasi impresa... » Si volse per comunicare al conte, rimasto indietro nel "tempio, L'eccezionale notizia; e lo vide. Stava in piedi di-" nanzi alla statua di Thot e parlava. La voce non giungeva fino a lui ma l'archeologo scorgeva distintamente la bocca che si apriva e chiudeva in quel curioso modo da tartaruga. Monologava il signor conte? o veramente interpellava il dio come i remoti faraoni ? Ma che cosa poteva doman- dargli ? Non guerre da poter combattere c'erano piú per 1Uj, non leggi da promulgare, né progetti, né sogni. Il suo regno era rimasto di l`a dei mari, per sempre perduto. Buono e cattivo della vita era stato speso fino in fondo. Non gli restavano che dei poveri giorni superflui, proprio l'ultimo pezzettino di strada. Quale ostinazione lo teneva dunque perché osasse tentare gli dei ? Oppure, svanito, non rlcordava piú che cosa era successo e si immaginava di vi- vere i bei tempi lontani ? O intendeva fare uno scherzo Ma non era il tipo. « Signor conte! » grido Leclerc con improvvisa inquietu- dine. « Signor conte, siamo qui... ha cominciato a pio- vere... » Troppo tardi. Dall'interno del tempio uscí un suono or- ribile. Leclerc si sbianco in volto, il barone Fantin arretro istintivamente di un passo, la borsa bianca scivolo di sotto al braccio del giovane. E le gocce di pioggia cessarono. Un suono di legni cavi rotolanti, o di lugubri tamburi, cosí pressappoco dalla cappella di Thot. E poi si amplio in un mugolo cavernoso, confusamente articolato, simile, ma ancora peggio, al lamento delle cammelle nel parto. C'era dentro una specie di inferno. Il conte Mandranico, fermo, guardava. Non fu visto re- trocedere né accennare la fuga. Il becco mozzo di Thot si era dischiuso formando alla base un ghigno, i due mon- "cherini si aprivano e chiudevano bestialmente; tanto piú" spaventosi perché il resto della statua giaceva immobile, del tutto privo di vita. E dal becco usciva la voce Il dio parlava. Nella quiete, le sue roche maledizioni - perché cosí parvero - avevano tetre risonanze. Leclerc non era piú capace di muoversi. Un orrore mai conosciuto lo teneva, facendogli saltare il cuore. E il con- te? come il conte poteva resistere? forse perché anche lui era re, invulnerabile dal Verbo come i sepolti faraoni? Ma la voce adesso ondeggiava in borbottii, cedeva, si spense, lasciando un terribile silenzio. Solo allora il vecchio conte si mosse, coi suoi fragili passettini si avvio all'uscita, non vacillava, non era spaventato. Avvicinatosi a Leclerc che lo fissava inorridito, disse, approvando con cenni del capo: « Ingegnoso: proprio ingegnoso... peccato che force la molla si e rotta... biciognava ciassi tabli cicata... » Stavolta pero il barone non era pronto a tradurre gli ul- timi suoi balbettii. Perhno il barone tacque, sopraffatto da quell'arido vecchio, sordo ai misteri della vita, cosí mi- sero da non capire neanche che gli aveva parlato un dio. « Ma in nome del cielo » supplico finalmente Leclerc, col vago presentimento di cose ostili. « Ma non ha sentito? » Alzo il capo il grinz0so sovrano con atto autoritario: «Cioccheccia! na ciocchezza!» (voleva dire sciocchezza?). Poi ancora con improvviso cipiglio: « E ponta la macchina? E taddi: taddi... Fantin, cagaia fa? ». Sembrava imperma- lito. Leclerc, dominandosi, lo fissava con un sentimento stra- no, tra la costernazione e l'odio. Ma un coro di impreca- zioni esplose all'estremit`a degli scavi. I fellah urlavano, im- pazziti e dal fondo del tempio accorreva a precipizio l'as- sistente, vociando. « Che dice? che e successo? » chiese allarmato il Fantin. « Una frana » tradusse il giovane Christani « uno dei fellah e rimasto sepolto. » Leclerc strinse i pugni. Perché non se ne andava lo stra- niero? Non ne aveva avuto abbastanza? perché aveva voluto risvegliare gli incantesimi rimasti per millenni addormen- tati ? In realt`a se n'andava il conte Mandranico, strascicando la sua gambetta su per il piano inclinato. Nello stesso tem- po Leclerc si accorse che tutt'attorno, dalle bruciate ripe, il deserto si muoveva. Piccole frane smottavano qua e la, silenziosamente, simili a bestie guardinghe. In moto con- centrico colavano giú per i valloncelli, canali, fessure, di terrazzo in terrazzo, ora fermandosi, poi riprendendo, stri- sciavano verso il monumento dissepolto. E non c'era un filo di vento. Il rumore dell'auto che si metteva in moto parve per qualche attimo una realt`a rassicurante. Commiati e rin- graziamenti furono formali. L'imperterrito conte aveva fret- ta. Non chiese perché i fellah urlassero, non guardo le sab- bie, non si interesso del Leclerc che era molto pallido. La vettura uscí dal recinto, scivolo via per la pista tra muli- nelli di polvere, scompane. Rimasto solo sul ciglione, Leclerc ora fissava il suo re- gno. Le sabbie continuavano a franare, tratte giú da forza misteriosa. Egli vide anche i fellah lasciare in corsa disor- dinata il palazzo, fuggire spaventati, sparire quasi inespli- cabilmente. L'assistente in gabbana bianca correva di qua e di l`a, con irosi richiami, cercando invano di trattenerli. Poi anche lui tacque. Si poté quindi udire la voce del deserto che avanzava: coro sommesso di mille fruscii formicolanti. Gi`a una pic- cola colata di sabbia, scivolando giú per una scarpata, tocco il piedistallo della prima colonna, un secondo rigurgito ese- guí poco dopo il seppellimento dell'intero zoccolo. « Dio mio » mormoro Leclerc. « Dio mio. » LA FINE DEL MONDO Un mattino verso le dieci un pugno immenso comparve "nel cielo sopra la citt`a; si aprí poi lentamente ad artiglio" e cosí rimase immobile come un immenso baldacchino della malora. Sembrava di pietra e non era pietra, sembrava di carne e non era, pareva anche fatto di nuvola, ma nuvola "non era. Era Dio; e la fine del mondo. Un mormorio che" poi si fece mugolio e poi urlo, si propago per i quartieri, finché divenne una voce sola, compatta e terribile, che saliva a picco come una tromba. Luisa e Pietro si trovavano in una piazzetta, tepida a quell'ora di sole, recinta da fantasiosi palazzi e parzial- mente da giardini. Ma in cielo, a un'altezza smisurata era sospesa la mano. Finestre si spalancavano tra grida ii ri- chlamo e spavento, mentre l'urlo iniziale della citt`a si pla- "cava a poco a poco; giovani signore discinte si affaccia-" vano a guardare l'apocalisse. Gente usciva dalle case, per lo piú correndo, sentivano il bisogno di muoversi, di fare qualcosa purchessia, non sapevano pero dove sbattere il capo. La Luisa scoppio in un pianto dirotto: « Lo sapevo » balbettava tra i singhiozzi « che doveva finire cosí... mai in chiesa, mai dire le preghiere... me ne fregavo io, me ne fregavo, e adesso... me la sentivo che doveva andare a finire cosí !... ». Che cosa poteva mai dirle Pietro per consolarla? Si era messo a piangere pure lui come un bambino. Anche la maggior parte della gente era in lacrime, specialmente le donne. Soltanto due frati, vispi vecchietti, se n'andavano lie- ti come pasque: « La e finita, per i furbi, adesso ! » escla- mavano gioiosamente, procedendo di buon passo, rivolti ai passanti piú ragguardevoli. « L'avete smessa di fare i furbi, eh? Siamo noi i furbi adesso! » (e ridacchiavano). « Noi sempre minchionati, noi creduti cretini, lo vediamo adesso chi erano i furbi! » Allegri come scolaretti trascorrevano in mezzo alla crescente turba che li guardava malamente senza osare reagire. Erano gi`a scomparsi da un paio di minuti per un vicolo, quando un signore fece come l'atto istintivo di gettarsi all'inseguimento, quasi si fosse lasciata sfuggire un'occasione preziosa: « Per Dio! » gridava battendosi la fronte « e pensare che ci potevano confessare. » « Acciden- ti ! » rincalzava un altro « che bei cretini siamo stati ! Capi- tarci cosí sotto il naso e noi lasciarli andare! » Ma chi po- teva piú raggiungere i vispi fraticelli? Donne e anche omaccioni gi`a tracotanti, tornavano in- tanto dalle chiese, imprecando, delusi e scoraggiati. I con- fessori piú in gamba erano spariti - si riferiva - probabil- mente accaparrati dalle maggiori autorit`a e dagli industriali potenti. Stranissimo, ma i quattrini conservavano meravi- gliosamente un certo loro prestigio benché si fosse alla fine "del mondo; chiss`a, forse, si considerava che mancassero" "ancora dei minuti, delle ore; qualche giornata magari. In" quanto ai confessori rimasti disponibili, si era formata nelle chiese una tale spaventosa calca, che non c'era neppure da pensarci. Si parlava di gravi incidenti accaduti appunto per "l'eccessivo affollamento; o di lestofanti travestiti da sacer-" doti che si offrivano di raccogliere confessioni anche a do- micilio, chiedendo prezzi favolosi. Per contro giovani cop- pie si appartavano precipitosamente senza piú ombra di ri- tegno, distendendosi sui prati dei giardini, per fare anco- ra una volta l'amore. La mano intanto si era fatta di colore terreo, benché il sole splendesse, e faceva quindi piú pau- ra. Comincio a circolare la voce che la catastrofe fosse im- "minente; alcuni garantivano che non si sarebbe giunti a mez-" zogiorno. In quel mentre nella ele~ante lo~etta di un palazzo, poco piú alta del piano stradale (vi si accedeva per due rampe di scale a ventaglio), fu visto un giovane prete. La testa tra le spalle, camminava frettolosamente quasi avesse paura di andarsene. Era strano un prete a quell'ora, in quel- la casa sontuosa popolata di cortigiane. « Un prete! un pre- te! » si sentí gridare da qualche parte. Fulmineamente la gente riuscí a bloccarlo prima che potesse fuggire. « Con- fessaci, confessaci! » gli gridavano. Impallidí, fu tratto a una specie di piccola e graziosa edicola che sporgeva dalla "loggetta a guisa di pulpito coperto; pareva fatta apposta." A decine uomini e donne formarono subito grappolo, tu- multuando, irrompendo dal basso, arrampicandosi su per le sporgenze ornamentali, aggrappandosi alle colonnine e al "bordo della balaustra; non era del resto una grande altezza." Il prete comincio a raccogliere confessioni. Rapidissimo, ascoltava le affannose confidenze degli ignoti (che ormai non si preoccupavano se gli altri potevano udire). Prima che avessero finito, tracciava con la destra un breve segno di croce, assolveva, passava immediatamente al peccatore successivo. Ma quanti ce n'erano. Il prete si guardava in- torno smarrito, misurando la crescente marea di peccati da cancellare. Con grandi sforzi anche la Luisa e Pietro si fe- cero sotto, guadagnarono il loro turno, riuscirono a farsi ascoltare. « Non vado mai a messa, dico bugie... » gridava a precipizio la giovanetta per paura di non fare in tempo, in una frenesia di umiliazione « e poi tutti i peccati che lei vuole... li metta pure tutti... E non e per paura che son qui, mi creda, e proprio soltanto per desiderio di essere vicina a Dio, le giuro che... >ed era convinta di essere sin- cera. a Ego te absolvo... » mormoro il prete e passo ad ascol- tare Pietro. Ma un'ansia indicibile cresceva negli uomini. Uno chie- se: a Quanto tempo c'e al giudizio universale? ». Un al- tro, bene informato, guardo l'orologio. aDieci minuti » rispose autorevolmente. Lo udí il prete che di colpo tento LA FINE DEL MONDO 177 di ritirarsi. Ma, insaziabile, la gente lo tenne. Egli pareva febbricitante, era chiaro che il fiotto delle confessioni non gli arrivava piú che come un confuso mormorio privo di "senso; faceva segni di croce uno dopo l'altro, ripeteva a Ego" te absolvo... » cosí, macchinalmente. « Otto minuti! » avvertí una voce d'uomo dalla folla. Il prete letteralmente tremava, i suoi piedi battevano sul mar- mo come quando i bambini fanno i capricci. « E io? e io? » comincio a supplicare, disperato. Lo defraudavano della "salvezza dell'anima, quei maledetti; il demonio se li pren-" desse quanti erano. Ma come liberarsi ? come provvedere a se stesso ? Stava proprio per piangere. « E io ? e io ? » chiedeva ai mille postulanti, voraci di Paradiso. Nessuno pero gli badava. 16 QUALCHE UTILE INDICAZIONE A DUE AUTENTICI GENTILUOMINI (di cui uno deceduto per morte violenta) Un uomo sui 35 anni, di nome Stefano Consonni, vestito con una certa ricercatezza e con un pacchettino bianco nella mano sinistra, passando alle dieci di sera, addí ló gennaio, per la via Fiorenzuola, a quell'ora deserta, udí intorno a sé improvvisamente come un sonoro ronzio di mosconi che sussurrassero. Mosconi di pieno inverno e con quel fred- do? Ne rimase stupito e fece cosí con la mano, per scac- ciarli. Ma il ronzio si faceva sempre piú sussurro, e a un certo punto gli parve di sentire delle parole, sottili, sot- tili, come succede alle volte dalla cornetta del telefono ab- bandonata sul tavolo durante la conversazione, quando l'al- tro continua a parlare. Si guardo intorno, a onor del vero "con un certo batticuore; la via era proprio deserta: da una" parte le case, dall'altra il lungo muro di cinta delle ferro- "vie; e i lampioni erano accesi regolarmente. Ma non si ve-" deva nessuno. « Cosa c'e? » ebbe alla fine il coraggio di chiedere un po' titubando, dopo aver cercato di cacciar via quei curiosi bi- sbigli, quasi fossero farfalle, ma inutilmente. Il Consonni ristette, sbalordito. Penso se alle volte quella "sera avesse bevuto un po' troppo; ma no. Sentí paura." D'altra parte erano voci cosí sottili. Se venivano da una creatura umana, doveva essere alta al massimo venti cen- timetri. Allora si fece forza: « Ma insomma, mosconi della malora, si puo sapere chi siete? » r L « Ih, ih! » ridacchio alla sua destra, vicinissima, un'altra voce diversa dalla prima. « Ih, ziamo piccolini, noi! » Stefano Consonni, con comprensibile allarme, guardo su alla facciata delle case vicine se mai qualcuno fosse affac- ciato ad ascoltare. Le finestre erano tutte chiuse. « Quel che e giusto e giusto » fece a questo punto la prima vocina, comicamente compassata e grave. « Perché non dirlo, Max ? (evidentemente si rivolgeva al compa- gno). Io sono il professore Petercondi Giuseppe... fu Giu- seppe, anzi... e questo qui che scommetto le sta dando un po' di fastidio e mio nipote Max, Max Adinolfi, nelle mie medesime condizioni. E noi, se non siarno importuni, con chi abbiamo I 'onore ? » « Consonni, mi chiamo Consonni » fece l'uomo, burbe- ro, che ancora non sapeva capacitarsi. E poi, dopo averci pensato su un momento: « Be', non sarete mica degli spi- riti, alle volte, no? ». « Be'... in un certo senso » ammise il Petercondi. « C'e chi crede di poterci definire cosí... » « Ih, ih! » riprese con estrema ilarit`a la voce di Max, specialmente sibilante e affettata. « Ziamo piccolini, ziamo! Avrebbe dovuto zentirci la notte scorsa... avrebbe dovuto zentirci, che vocioni... » e non ne poteva piú dalle risa... « Come sarebbe a dire? » fece il Consonni, che stava via via rinfrancandosi. « In realt`a » sussurro Petercondi, con umilt`a « a poco a poco noi ci andiamo assottigliando. Possiamo stare qui non piú di 24 ore. E ci si consuma rapidamente. Da mezza- notte scorsa stiamo girando... fra due ore adie~, mio egre- glo signore. » « Ah, ah! » ridacchio il Consonni, del tutto rassicurato. (Spiriti fin che si vuole, ma al massimo ancora fino a mez- zanotte. E poi ci sarebbe stato il gusto di raccontarla.) Per- clo, con magnifica disinvoltura: « Dunque, professor Pe- tercondi... ». « Ma bravo, perbacco » lo interruppe il vocino del pro- fessore « che prontezza, che memoria, ha subito imparato il mio nome. » « Ecco » continuo il Consonni, con un lieve ritorno di imbarazzo « volevo appunto dire che il suo nome non mi tornava nuovo. » « Ih, ih! » ghigno senza riguardi il nipote Max all'orec- chia sinistra. «Hai sentito zio? Non gli torna nuovo! Ah questta sí che e splendida! » « Smettila Max » fece con tutta la gravit`a compatibile con la estrema sottigliezza il Petercondi. « Signor Conson- ni, la ringrazio. Posso infatti dire, senza false modestie, che ero un discreto chirurgo. » " ""Benissimo"" penso l'uomo ""adesso voglio proprio diver-" "tirmi un poco"" e a voce bassa ma chiaramente: « E in" che cosa, professore » domando con accento complimento- so « in che cosa potrei esserle utile? ». « Vede? » spiego cio che restava, invisibile, del chirurgo Petercondi. « Siamo venuti qui a cercare un uomo, avrei un certo conticino da regolare. Vede ? Io, personalmente ho avuto la sfortuna di essere stato ammazzato! » Manifesto stupore il Consonni: « Ammazzato? Una per- sona come lei ? E come mai ? ». « A scopo di furto » rispose secca e grave la vocina. « E quando ? E dove ? » tento con impudenza il Con- sonm. « A quell'angolo, proprio a quell'angolo... due mesi fa, esattamente... » « Ah, perbacco! » il Consonni non si era mai divertito tanto. « E adesso... insomma e venuto a cercare... insomma e venuto a cercarlo... » « Per l'appunto, signore, e se lei... » « Ma » fece ancora il Consonni, mettendosi a gambe aperte, quasi in atto di sfida «ma anche ammesso che lei lo trovasse, che cosa...? » « Ih, ih ! » ridacchio odiosamente il giovane Max. « Que- sto e vero! Ziamo cosí piccolini! Dio mio come ziamo di- ventati piccolini ! » « Lei vuol dire, signor Consonni » continuo con straor- dinaria compassatezza il professore « che cosa ne potrei ri- cavare, ammesso, intendiamoci bene... ammesso che lo rin- tracciassi... » « Gi`a, per l'appunto » il Consonni sorrise « mi chiede- vo... » Ma qui ci fu un improvviso silenzio, grandissimo, che invase tutta la strada. E il Consonni aspetto trepidando, senza capire. « Hem, hem! » il Petercondi si schiarí infine la vocina. « Lei mi domanda... Mah, prima di tutto potremmo far- gli paura. Un uomo come lei, con la coscienza pulita e un'altra cosa Ma lui! Se lui mi sentisse parlare, non crede, signor Consonni che potrebbe trovarsi male? » « Mah » e il Consonni non seppe trattenere un leggero riso « certo che si troverebbe un po' imbarazzato, direi... » « Ecco, vede... E poi... » « E poi » sibilo petulante e strascicante il nipote Max. « E poi noi pozziamo profetizzare... » « Profetizzare ? » chiese il Consonni, da quell'ignorante che era. « E come sarebbe a dire? » « Max vuol dire che noi possiamo dirgli il futuro, a quel delinquente E questo sarebbe un brutto scherzo... » « E se il futuro fosse bello, putacaso ? » obietto il Conson- ni accendendo una sigaretta e aggiunse, chinando un poco il capo: « Spero che il fumo non disturbi lor signori... ». «Per nessuno » osservo il Petercondi, senza raccogliere l'accenno al fumo « per nessuno il futuro propriamente e bello. Basta, per esempio, che un uomo sappia quando do- "vr`a morire; basta questa notizia, mi creda signor Conson-" ni, ad avvelenargli la restante vita. » « Ah, se lo dice lei, professore ! Ma non trova che faccia freddo? Se si passeggiasse un poco... » e si mise in cam- mino dando dei colpetti all'aria con la destra all'altezza del- l'orecchio, come per cacciar via l'insopportabile Max. « Ih, ih ! » ridacchio subito costui. « zio, ma digli di non farmi il zo11etico! » Fece una ventina di passi. Da lontano, ma molto lontano giunse il vago fragore di un tram. « E allora? » domando il Petercondi, proprio nell'orec- chia sinistra del Consonni, il quale trasalí. « Allora, certo... non saprei... Ma forse... qualche utile indicazione... Forse potrei dargliela, caro il mio professore, qualche utile indicazione... » « Ih, ih! » Max nel suo piccolo si doveva smascellare dalle risa. «Hai zentito zio? qualche utile indicazione, hai zentito? Questa sí che e proprio straordinaria! » « E la vuol smettere? » sbotto il Consonni, fermandosi, sinceramente irritato « Ih, ih ! » fece ancora, ma quasi in sordina Max. « Mi scuSi proprio, zignore. E che cosa a, mi dica, in questo pacchetto. Mi dica, che coza c'e? » Il Consonni taceva. « Dei dolci? » suggeri, sibilando, Max. « Zembra pro- prio un pacchetto di dolci. Vero? » Il Consonni non rispose. Penso un attimo. Poi, in tono sfottente: « Ma la mi scusi, professore, ma queste vent quattr'ore non le potevate impiegare meglio, per esempio? Nelle vo- stre condizioni, io, per esempio, mi sarei piuttosto divertito a prendermi certe soddisfazioni... » « Che soddisfazioni ? » « Ci son certe donnette in giro !... Tra le sottane dico, piccoli come siete, ah ah... sarebbe proprio magnifica. » « Ma, vede ? » spiego, sempre grave il Petercondi « a parte che io certe propensioni... insomma noi a quelle cose non ci pensiamo piú, capisce? » lr QUALCHE UTILE INDICAZIONE 183 « Ah, ah ! » rideva ancora il Consonni « e poi... e poi se la ragazza faceva un peto ? Se l'immagina, professore, che volo le toccava fare? se lo immagina? » e si sbellicava senza ritegno.. Soltanto Max, pur con un certo ritardo, si uní alla sua ilarit`a, ma nel solito odioso tono: « Ih, ih! » faceva « ah, e proprio vero. Noi ziamo cosí piccolini! » Il Petercondi ricondusse la conversazione sul binario: « Mi diceva, signor Consonni, che lei poteva darmi qual- che utile indicazione... Le sarei proprio grato... il tempo purtroppo stringe... ». « Sí, sí » rispose l'uomo « si potrebbe anche vedere... ma cosí sui due piedi... sa? io sono in ottimi rapporti con la polizia... » « Ih, ih! » sussurrava insistente Max « ziamo piccolini, piccolini ziamo... e zappiamo profetizare... » Il Consonni guardo l'orologio da polso. Le dieci e tren- tacinque. Per male che la andasse, di quelle piaghe tra un'ora e mezzo se ne sarebbe liberato. « Dl', zio » fece a questo punto Max, sempre con il suo tono ilare e mondano « guarda il zignor Conz0nni: che cos'ha vicino al nao? » « Gi`a » fece il Petercondi « non l'avevo notato... Lasci vedere.. sí, quella macchietta rossa, gi`a gi`a, niente di pro- mettente quella macchietta... » « Come... come sarebbe a dire? » « Ecco, signor Consonni » spiego il professore « non mi piace proprio niente questa macchietta, per essere sincero, non vorrei che... Le duole a toccarla? » « Questa qui ? » disse il Consonni e la tocco con l'indice destro piano piano. « Le duole, vero? » fece il Petercondi « e da quanto tempo ? » « E che cosa importa? » il Consonni sembrava meno si- curo di prima. « Sar`a due mesi che ce l'ho. » « Bellissima questa » il Petercondi aveva un tono tipica- mente professionale « ce l'aveva dunque anche due mesi fa... curioso davvero... » « E allora? che cosa significa? » « La cosa cambia allora totalmente aspetto, egregio signor Consonni » (la voce si era fatta cosí esile che l'uomo do- veva piegare la testa da una parte per afferrarla). « Se l'aves- si saputo prima mi sarei risparmiato la fatica. » Il Consonni si era fermato. Tocco ancora la macchia ros- sa a lato del naso... « E che cosa c'entra? » chiese, titu- bando. « Non capisce? » insisté il professore. « Ma non c'e piú nessuna differenza! » « Che differenza ? » « Differenza tra noi due... glielo dice il professor Peter- condi, egregio signore... » Si udí la vocina di Max, compiaciuta: «Mi zembra di capire, zio.. . Ma e magnifica ? Zembra vivo e zano e in- vece.. l'ha avuto anche lui il zervizio! » e una sottilissima risata sibilo sgradevolmente nella strada deserta. « Cosa c'e insomma? Si puo sapere? » il Consonni stava imbestialendosi. « Sarcoma, egregio signore » rispose Petercondi, freddo. « Si chiama cosí. Non c'e piú niente da fare. » « Ih, ih, ci creda, ci creda pure » ridacchio il petulante Max «mio zio ze ne intende, stia pur zicuro. Ze lo dice lui, puo crederci... ih, ih... Noi profetizziamo, zignor Con- zonni... » « All'inferno! » esclamo l'uomo disgustato. « Andro da un dottore! Fosse anche come dice lei, mi faro curare, non mi mancano i meni, stia tranquillo... » « Un dottore, ih, ih! » ghigno Max. « Ma non l'ha ca- pito che non zervir`a un fico... Zei dei nostri, ormai. » Il Consonni fece per aprir bocca, ma: « Va, va a portare i dolcetti alla tua bella! » sbeffeggio Max. « Corri pure, giovanotto! Va a portarle qualche utile indicazione ! » « Singolare caso » commento grave e quasi placato il Petercondi. « Ti ho riconosciuto subito, Consonni... appena sei comparso in fondo alla strada ti ho riconosciuto... ed ecco, due mesi ancora, tre mesi a farla lunga... Ce ne pos- siamo andare, mi sembra, nipote mio... » Il Consonni si porto la mano al colletto. Gli mancava il respiro. « Arrivederci presto, giovanotto! » infierí Max. « Mi rac- comando le pazte con la crema! » Anche il Petercondi stavolta rise di gusto. sembra-a un calabrone. I due si allontanavano, sghignazzando sconcia- mente. Si persero dietro il muro della ferrovia, sui tetri terrapieni . « Maledetti! Maledetti porci! » impreco il Consonni. « I signori! quei maledetti! Finiscono sempre per spuntarla! » Con smarrimento si guardava intorno. Ma non c'era nes- suno, assoluto silenzio. Un topo sguscio da un tombino. Sfilatosi lo spago dal dito, il pacchetto bianco scivolo a terra con rumore di carta. « Maledetti » mormoro ancora l'uomo. E con precauzione si toccava, sfiorandola, quella cosa, di fianco al naso, che gli doleva. INVITI SUPERFLUI Vorrei che tu venissi da me in una sera d'inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo. Per gli stessi sentieri fatati passammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme an- dammo attraverso le foreste piene di lupi, e i medesimi genii ci spiavano dai ciuffi di muschio sospesi alle torri, tra svolazzare di corvi. Insieme, senza saperlo, di l`a forse guardammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspet- tava. Ivi palpitarono in noi per la prima volta pazzi e te- "neri desideri. ""Ti ricordi ?"" ci diremo l'un l'altro, strin-" gendoci dolcemente, nella calda stanza, e tu mi sorriderai fiduciosa mentre fuori daran tetro suono le lamiere scosse dal vento. Ma tu - ora mi ricordo - non conosci le favole antiche dei re senza nome, degli orchi e dei giardini stre- gati. Mai passasti, rapita, sotto gli alberi magici che parla- no con voce umana, né battesti mai alla porta del castello deserto, né camminasti nella notte verso il lume lontano lontano, né ti addormentasti sotto le stelle d'Oriente, cullata da piroga sacra. Dietro i vetri, nella sera d'inverno, pro- babilmente noi rimarremo muti, io perdendomi nelle favole "morte, tu in altre cure a me ignote. Io chiederei ""Ti ri-" "cordi?"", ma tu non ricorderesti." Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo di color grigio e ancora qualche vecchia foglia del- l'anno prima trascinata per le strade dal vento, nei quar- "tieri della periferia; e che fosse domenica. In tali contrade" "sorgono spesso pensieri malinconici e grandi; e in date ore" vaga la poesia, congiungendo i cuori di quelli che si vo- gliono bene. Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, favorite dagli orizzonti sterminati dietro le case, dai treni fuggenti, dalle nuvole del settentrione. Ci terremo semplicemente per mano e andremo con passo leggero, di- cendo cose insensate, stupide e care. Fino a che si accen- deranno i lampioni e dai casamenti squallidi usciranno le storie sinistre delle citt`a, le avventure, i vagheggiati ro- manzi. E allora noi taceremo, sempre tenendoci per mano, poiché le anime si parleranno senza parola. Ma tu - adesso mi ricordo - mai mi dicesti cose insensate, stupide e care. Né puoi quindi amare quelle domeniche che dico, né liani- ma tua sa parlare alla mia in silenzio, né riconosci all'ora giusta l'incantesimo delle citt`a, né le speranze che scendono daí settentrione. Tu preferisci le luci, la folla, gli uomini che ti guardano, le vie dove dicono si possa incontrar la fortuna. Tu sei diversa da me e se venissi quel giorno a "passeggiare, ti lamenteresti di essere stanca; solo questo e" nient'altro. Vorrei anche andare con te d'estate in una valle solita- ria, continuamente ridendo per le cose piú semplici, ad esplorare i segreti dei boschi, delle strade bianche, di certe case abbandonate. Fermarci sul ponte di legno a guardare l'acqua che passa, ascoltare nei pali del telegrafo quella lunga storia senza fine che viene da un capo del mondo e chiss`a dove andr`a mai. E strappare i fiori dei prati e qui, distesi sull'erba, nel silenzio del sole, contemplare gli abissi del cielo e le bianche nuvolette che passano e le cime delle "montagne Tu diresti ""Che bello !"". Niente altro diresti" "perché noi saremmo felici; avendo il nostro corpo perduto" il peso degli anni, le anime divenute fresche, come se fos- sero nate allora. Ma tu - ora che ci penso - tu ti guarderesti attorno senza capire, ho paura, e ti fermeresti preoccupata a esaminare una calza, mi chiederesti un'altra sigaretta, impaziente di "fare ritorno. E non diresti ""Che bello!"", ma altre povere" cose che a me non importano. Perché purtroppo sei fatta cosí. E non saremmo neppure per un istante felici. Vorrei pure - lasciami dire - vorrei con te sottobraccio attraversare le grandi vie della citt`a in un tramonto di no- vembre, quando il cielo e di puro cristallo. Quando i fan- tasmi della vita corrono sopra le cupole e sfiorano la gente nera, in fondo alla fossa delle strade, gi`a colme di inquie- tudini. Quando memorie di et`a beate e nuovi presagi pas- sano sopra la terra, lasciando dietro di sé una specie di mu- sica. Con la candida superbia dei bambini guarderemo le facce degli altri, migliaia e migliaia, che a fiumi ci trascor- rono accanto. Noi manderemo sen~a saperlo luce di gioia e tutti saran costretti a guardarci, non per invidia e ma- "lanimo; bensí sorridendo un poco, con sentimento di bont`a," per via della sera che guarisce le debolezze dell'uomo. Ma tu - lo capisco bene - invece di guardare il cielo di cristal- lo e gli aerei colonnati battuti dall'estremo sole, vorrai fer- marti a guardare le vetrine, gli ori, le ricchezze, le sete quelle cose meschine. E non ti accorgerai quindi dei fan- tasmi, né dei presentimenti che passano, né ti sentirai, co- me me, chiamata a sorte orgogliosa. Né udresti quella spe- cie di musica, né capiresti perché la gente ci guardi con occhi buoni. Tu penseresti al tuo povero domani e inutil- mente sopra di te le statue d'oro sulle guglie alzeranno le spade agli ultimi raggi. Ed io sarei solo. inutile. Forse tutte queste sono sciocchezze, e tu mi- gliore di me, non presumendo tanto dalla vita. Forse hai ragione tu e sarebbe stupido tentare. Ma almeno, questo sí almeno, vorrei rivederti. Sia quel che sia, noi staremo insieme in qualche modo, e troveremo la gioia. Non im- porta se di giorno o di notte, d'estate o d'autunno, in un paese sconosciuto, in una casa disadorna, in una squallida locanda. Mi baster`a averti vicina. Io non staro qui ad ascol- tare - ti prometto - gli scricchiolii misteriosi del tetto, né guardero le nubi, né daro retta alle musiche o al vento. Rinuncero a queste cose inutili, che pure io amo. Avro pazienza se non capirai cio che ti dico, se parlerai di fatti a me strani, se ti lamenterai dei vestiti vecchi e dei soldi. Non ci saranno la cosiddetta poesia, le comuni speranze, le mestizie cosí amiche all'amore. Ma io ti avro vicina. E riusciremo, vedrai, a essere abbastanza felici, con molta semplicit`a, uomo con donna solamente, come suole acca- dere in ogni parte del mondo. Ma tu - adesso ci penso - sei troppo lontana, centinaia e centinaia di chilometri difficili a valicare. Tu sei dentro a una vita che ignoro, e gli altri uomini ti sono accanto, a cui probabilmente sorridi, come a me nei tempi passati. Ed e bastato poco tempo perché ti dimenticassi di me. Pro- babilmente non riesci piú a ricordare il mio nome. Io sono ormai uscito da te, confuso fra le innumerevoli ombre. Ep- pure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose. RACCONTO DI NATALE Tetro e ogivale e l'antico palazzo dei vescovi, stillante sal nitro dai muri, rimanerci e un supplizio nelle notti d'in- verno E l'adiacente cattedrale e immensa, a girarla tutta non basta una vita, e c'e un tale intrico di cappelle e sa- crestie che, dopo secoli di abbandono, ne sono rimaste al- cune pressoché i splorate. Che far`a la sera di Natale - ci si domanda - lo scarno arcivescovo tutto solo, mentre la citt`a e in festa? Come potr`a vincere la malinconia? Tutti hanno una consolazione: il bimbo ha il treno e pinocchio, la sorellina ha la bambola, la mamma ha i figli intorno a sé, il malato una nuova speranza, il vecchlo scapolo il com- pagno di dissipazioni, il carcerato la voce di un altro dalla cella vicina. Come far`a l'arcivescovo? Sorrideva lo zelante don Valentino, segretario di sua eccellenza, udendo la gen- te parlare cosí. L'arcivescovo ha Dio, la sera di Natale. Inginocchiato solo soletto nel mezzo della cattedrale gelida e deserta a prima vista potrebbe quasi far pena, e invece se si sapesse! Solo soletto non e, e non ha neanche freddo, né si sente abbandonato. Nella sera di Natale Dio dilaga nel tempio, per l'arcivescovo, le navate ne rigurgitano letteral- "mente, al punto che le porte stentano a chiudersi; e, pur" mancando le stufe, fa cosí caldo che le vecchie bisce bianche si risvegliano nei sepolcri degli storici abati e salgono dagli sfiatatoi dei sotterranei sporgendo gentilmente la testa dalle balaustre dei confessionali. " Cosí, quella sera il Duomo; trabo«ante di Dio. E ben-" ché sapesse che non gli competeva, don Valentino si trat- teneva perfino troppo volentieri a disporre l'inginocchia- toio del presule. Altro che alberi, tacchini e vino spuman- te. Questa, una serata di Natale. Senonché in mezzo a que- "sti pensieri, udí battere a una porta. ""Chi bussa alle porte" "del Duomo"" si chiese don Valentino ""la sera di Natale ?" Non hanno ancora pregato abbastanza ? Che smania li ha "presi?"" Pur dicendosi cosí ando ad aprire e con una folata" di vento entro un poverello in cenci. « Che quantit`a di Dio! » esclamo sorridendo costui guar- dandosi intorno. « Che bellezza! Lo si sente perfino di fuo- ri. Monsignore, non me ne potrebbe lasciare un pochino? Pensi, e la sera di Natale. » « E di sua eccellenza l'arcivescovo » rispose il prete. « Ser- ve a lui, fra un paio d'ore. Sua eccellenza fa gi`a la vita di un santo, non pretenderai mica che adesso rinunci anche a Dio! E poi io non sono mai stato monsignore. » « Neanche un pochino, reverendo ? C'e n'e tanto ! Sua eccellenza non se ne accorgerebbe nemmeno! » « Ti ho detto di no... Puoi andare... Il Duomo e chiuso al pubblico » e congedo il poverello con un biglietto da cinque lire. Ma come il disgraziato uscí dalla chiesa, nello stesso istante Dio disparve. Sgomento, don Valentino si guardava intorno, scrutando le volte tenebrose: Dio non c'era nep- pure lassú. Lo spettacoloso apparato di colonne, statue, bal- dacchini, altari, catafalchi, candelabri, panneggi, di solito cosí misterioso e potente, era diventato all'improvviso ino- spitale e sinistro. E tra un paio d'ore l'arcivescovo sarebbe disceso. Con orgasmo don Valentino socchiuse una delle porte esterne, guardo nella piazza. Niente. Anche fuori, benché fosse Natale, non c'era traccia di Dio. Dalle mille finestre accese giungevano echi di risate, bicchieri infranti, musi- che e perfino bestemmie. Non campane, non canti. Don Valentino uscí nella notte, se n'ando per le strade profane, tra fragore di scatenati banchetti. Lui pero sapeva L'indirizzo giusto. Quando entro nella casa, la famiglia ami- ca stava sedendosi a tavola. Tutti si guardavano benevol- mente l'un l'altro e intorno ad essi c'era un poco di Dio. « Buon Natale, reverendo » disse il capofamiglia. « Vuol favorire? » « Ho fretta, amici » rispose lui. « Per una mia sbada- taggine Iddio ha abbandonato il Duomo e sua eccellenza tra poco va a pregare. Non mi potete dare il vostro? Tan- to, voi siete in compagnia, non ne avete un assoluto biso- gno. » « Caro il mio don Valentino » fece il capofamiglia. « Lei dimentica, direi, che oggi e Natale. Proprio oggi i miei figli dovrebbero far a meno di Dio ? Mi meraviglio, don Valenhno. » E nell'attimo stesso che l'uomo diceva cosí Iddio sguscio fuori dalla stanza, i sorrisi giocondi si spensero e il cappone arrosto sembro sabbia tra i denti. Via di nuovo allora, nella notte, lungo le strade deserte. Cammina cammina, don Valentino infine lo rivide. Era giunto alle porte della citt`a e dinanzi a lui si stendeva nel buio, biancheggiando un poco per la neve, la grande cam- pagna. Sopra i prati e i filari di gelsi, ondeggiava Dio, come aspettando. Don Valentino cadde in ginocchio. «Ma che cosa fa, reverendo?» gli domando un conta- dino. « Vuol prendersi un malanno con questo freddo ? » « Guarda laggiú figliuolo. Non vedi ? » Il contadino guardo senza stupore. « E nostro » disse. « Ogni Natale viene a benedire i nostri campi. » « Senti » disse il prete. « Non me ne potresti dare un poco? In citt`a siamo rimasti senza, perfino le chiese sono vuote. Lasciamene un pochino che l'arcivescovo possa al- meno fare un Natale decente. » «Ma neanche per idea, caro il mio reverendo! Chi sa che schifosi peccati avete fatto nella vostra citt`a. Colpa vo- stra. Arrangiatevi. » RACCONTO DI NATALE 193 « Si e peccato, sicuro. E chi non pecca? Ma puoi salvare molte anime figliolo, solo che tu mi dica di sí. » « Ne ho abbastanza di salvare la mia! » ridacchio il con- tadino, e nell'attimo stesso che lo diceva, Iddio si sollevo dai suoi campi e scomparve nel buio. Ando ancora piú lontano, cercando. Dio pareva farsi sempre piú raro e chi ne possedeva un poco non voleva ce- derlo (ma nell atto stesso che lui rispondeva di no, Dio scompariva, allontanandosi progressivamente). Ecco quindi don Valentino ai limiti di una vastissima landa, e in fondo, proprio all'orizzonte, risplendeva dol- cemente Dio come una nube oblunga. Il pretino si getto in ginocchio nella neve. « Aspettami, o Signore » suppli- cava « per colpa mia l'arcivescovo e rimasto solo, e stasera e Natale! » Aveva i piedi gelati, si incammino nella nebbia, affon- dava fino al ginocchio, ogni tanto stramazava lungo diste- so. Quanto avrebbe resistito? Finché udí un coro disteso e patetico, voci d'angelo, un raggio di luce filtrava nella nebbia. Aprí una porticina di legno: era una grandissima chiesa e nel mezzo, tra pochi lumini, un prete stava pregando. E la chiesa era piena di paradiso. « Fratello » gemette don Valentino, al limite delle forze, irto di ghiaccioli « abbi piet`a di me. Il mio arcivescovo per colpa mia e rimasto solo e ha bisogno di Dio. Dam- mene un poco, ti prego. » Lentamente si volto colui che stava pregando. E don Valentino, riconoscendolo, si fece, se era possibile, ancora piú pallido. « Buon Natale a te, don Valentino » esclamo l'arcivesco- vo facendosi incontro, tutto recinto di Dio. « Benedetto ragazzo, ma dove ti eri cacciato ? Si puo sapere che cosa sei andato a cercar fuori in questa notte da lupi? » IL CROLLO DELLA BALIVERNA Fra una settimana comincia il processo per il crollo della Baliverna. Che sar`a di me ? Verranno a prendermi ? Ho paura. Inutile ripetermi che nessuno si presenter`a "a testimoniare in odio a me; che della mia responsabilit`a" il giudice istruttore non ha avuto neanche il minimo so- "spetto; che, anche se venissi incriminato, sarei assolto cer-" "tamente; che il mio silenzio non puo fare male ad alcuno;" che, pur presentandomi io spontaneamente a confessare, L'imputato non ne sarebbe alleggerito. Niente di questo serve a consolarmi. Del resto, morto di malattia tre mesi fa il commissario ragionier Dogliotti, su cui pesava la prin- cipale accusa, sul banco degli imputati sar`a soltanto l'allora assessore comunale all'Assistenza. Ma si tratta di una in- "criminazione pro forma; infatti come lo si potrebbe con-" dannare se aveva preso possesso della carica da appena cin- que giorni? Se mai, responsabile poteva considerarsi l'as- sessore precedente, ma costui era defunto il mese prima. E la vendetta della legge non entra nel buio delle tombe. A distanza di due anni dall'avvenimento spaventoso, tutti certo ne hanno un vivo ricordo. La Baliverna era un gran- dissimo e piuttosto lugubre edificio di mattoni costruito fuo- ri porta nel secolo XVII dai frati di San Celso. Estinto l'ordine, nell'Ottocento il fabbricato era servito da caserma e prima della guerra apparteneva ancora alla amministra- zione militare. Lasciato poi in abbandono, vi si era instal- lata, con la tacita acquiescenza delle autorit`a, una turba di sfollati e senzatetto, povera gente che aveva avuta di- "strutta la casa dalle bombe, vagabondi, S'barboni"", dispe-" rati, perfino una piccola comunit`a di zingari. Solo col tem- po il Comune, entrato in possesso dello stabile, vi aveva messo una certa disciplina, registrando gli inquilini, siste- mando gli indispensabili servizi, allontanando i tipi turbo- lenti. Ciononostante la Baliverna, anche a motivo di varie rapine avvenute nella zona, aveva brutta fama. Dire che fosse un covo della malavita sarebbe esagerato. Pero nes- suno passava volentieri di notte nei dintorni. Benché in origine la Baliverna sorgesse in piena campa- gna, coi secoli i sobborghi della citt`a l'avevano quasi rag- giunta Ma nelle immediate vicinanze non c'erano altre ca- se. Squallido e torvo, il casermone torreggiava sul terra- pieno della ferrovia, sui prati incolti, sulle miserabili ba- racche di lamiera, dimore di pezenti, sparse in mezzo ai cumuli di macerie e di detriti. Esso ricordava insieme la prigionia, l'ospedale e la fortezza. Di pianta rettangolare, era lungo circa ottanta metri, e largo la met`a.ell'inter- no, un vasto cortile senza portici. Laggiú accompagnavo spesso, nei pomeriggi di sabato o domenica, mio cognato Giuseppe, entomologo, che in quei prati trovava molti insetti. Era un pretesto per pren- dere un po' d'aria e stare in compagnia. Devo dire che lo stato del tetro edificio mi aveva fatto senso fin dalla prima volta. La tinta stessa dei mattoni, le nurnerose spie infisse nei muri, le rappezature, certi travi rnessi da puntello, denotavano la decrepitezza. E special- mente impressionante era la parete posteriore, uniforme e nuda, che aveva poche, irregolari e piccole aperture simili "piú a feritoie che a finestre; e percio sembrava molto piú" alta della facciata, ariosa di loggiati e finestroni. « Non ti sembra che il muro pencoli un po' in fuori ? » mi ri- cordo che domandai un giorno a mio cognato. Lui rise: « Speriamo bene. Ma e una tua impressione. Sempre i mu- ri alti fanno questo effetto ». Un sabato di luglio si era laggiú per una di queste pas- seggiate. Mio cognato aveva portato le due figlie, ancora ragazzette, e un suo collega di universit`a, l' professor Sca- vezi, zo010go anche lui, un tipo sui quarant'anni, pallido e molliccio, che non mi era mai stato simpatico per il fare gesuitico e le arie che si dava. Mio cognato diceva che era un pOzzo di scienza, oltre che una bravissima persona. Io pero lo stimo un imbecille: altrimenti non avrebbe con me tanto sussiego, tutto perché io sono sarto e lui scienziato. Giunti alla Baliverna, si prese a costeggiare la parete pa- steriore che ho descritta. Ivi si stende un largo lembo di terreno polveroso dove i ragazzi giocavano al calcio. Da una parte e dall'altra infatti erano stati infissi dei pali a segnare le due porte. Quel giorno pero di ragazzi non ce n'era. Invece varie donne coi bambini sedevano, a pren- dere il sole, sul bordo del campo, lungo il gradino erboso che segue la massicciata della strada. Era l'ora della siesta e dall'interno del falansterio non giungevano che sperdute voci. Senza splendore, il sole tor- "pido batteva sul fosco muraglione; e dalle finestre sporge-" "vano pali carichi di panni stesi ad asciugare; i quali pen-" devano a guisa di morte bandiere assolutamente immobili non c'era infatti un fiato di vento. Gi`a appassionato di alpinismo, mentre gli altri erano in- tenti alla ricerca degli insetti, mi venne voglia di provare a arrampicarmi su per lo sconnesso muro: i buchi i bordi sporgenti di certi mattoni, vecchi ferri incastrati qua e l`a nelle fessure offrivano appigli convenienti. Non pensavo certo di salire fino in cima. Era soltanto il gusto di sgran- chirmi, di saggiare i muscoli. Un desiderio, se si vuole, un po' puerile. Senza difficolt`a mi innalzai un paio di metri lungo il pi- lastro di un portone ora murato. Giunto all'altezza dell'ar- chitrave, tesi la destra verso una raggera di arrugginite aste di ferro, foggiate a lancia, che chiudeva la lunetta IL CROLLO DELLA BALIVERNA (forse in questa cavit`a c'era stata anticarnente qualche im- magine di santo). Afferrata la punta della lancia, mi tirai su di peso. Ma quella cedette, spezzandosi. Per fortuna non ero che a un paio di metri dal terreno. Tentai, ma inutilmente, di te- nermi con l'altra mano. Perso l'equilibrio, saltai indietro e caddi in piedi, senza alcuna cGnseguenza benché pren- dessi un duro colpo. L'asta di ferro, spezzata, mi seguí. Quasi contemporaneamente, dietro all'asta di ferro se ne stacco un'altra, piú lunga, che dal centro della raggera saliva verticalmente a una specie di sovrastante mensola. Doveva essere una specie di puntello messo a scopo di rab- berciatura. Venuto cosí a mancare il suo sostegno, anche la mensola - immaginate una lastra di pietra larga come "tre mattoni - cedette, senza pero precipitare; resto l`a sbi-" lenca, mezza dentro e mezza fuori. Né qui ebbe fine il guasto da me involontariamente pro- vocato. La mensola sorreggeva un vecchio palo, alto circa un metro e mezzo, che a sua volta aiutava a sostenere una specie di balcone (solo adesso mi si rivelavano tutte queste magagne, che a prima vista si confondevano nella vastit`a della parete). Il palo era stato semplicemente incastrato tra "le due sporgenze; non fissato al muro. Spostatasi la men-" sola, due tre secondi dopo il palo si piego in fuori e io feci appena in tempo a saltare indietro per non prender- melo in testa. Tocco terra con un tonfo. Era finita ? A ogni buon conto mi allontanai dal muro verso il gruppo dei compagni distante circa trenta metri. "Costoro erano in piedi, rivolti tutti e quattro verso me;" non me pero guardavano. Con un'espressione che non di- mentichero, fissavano il muro, molto sopra la mia testa. E mio cognato a un tratto urlo: «Mio Dio, guarda! guar- da! ». Mi volsi Al di sopra del balconcino, ma piú a destra, il muraglione, in quel punto compatto e regolare, si gon- fiava. Immaginate una stoffa tesa dietro la quale prema uno spigolo diritto. Fu dapprima un lieve fremito serpeggiante "su per la parete; poi apparve una gibbosit`a lunga e sot-" "tile; poi i mattoni si scardinarono, aprendo le loro marce" "dentature; e, tra scoli di pulverulente frane, si spalanco una" crepa tenebrosa. Duro pochi minuti o pochi istanti? Non saprei dire. In quel mentre - dite pure che io sono matto - dalle pro- fonde cavit`a dell'edificio venne un boato triste che asso- migliava a una tromba militare. E tutto intorno, per vasta zona, si udí un lungo ulular di cani. A questo punto i ricordi si accavallano: io che correvo a perdifiato cercando di raggiungere i compagni gi`a lon- tani, le donne sul bordo del campo che, balzate in piedi, urlavano, una che si rotolava nella terra, una figura di ra- gazza seminuda che si sporgeva incuriosita da una delle piú alte finestrelle mentre sotto di lei gi`a si spalancava la voragine: e, per un baleno di secondo, la visione alluci- nante della muraglia rovesciantesi nel vuoto. Allora, die- tro gli squarci sommitali, pure la intera retrostante massa di l`a del cortile, si mosse lentamente, tratta da irresistibile forza di rovina. Seguí un terrificante tuono come quando le centinaia di Liberator si scaricavano insieme delle bombe. E la terra tremo, mentre si espandeva velocissima una nuvola di pol- vere giallastra che nascose quella immensa tomba. Poi mi rivedo in cammino verso casa, con l'ansia di al- lontanarmi dal luogo funesto e la gente, a cui la notizia era giunta con celerit`a prodigiosa, mi guardava spaven- tata, forse per i vestiti carichi di polvere. Ma soprattutto non dimentico le occhiate, cariche di orrore e di piet`a, di mio cognato e delle sue due figlie. Muti, mi fissavano come si fissa un condannato a morte (o questa era una mia pura suggestione ?). A casa, quando seppero cio che avevo visto, non si stu- "pirono che io fossi sconvolto; né che per qualche giorno" me ne stessi chiuso in camera senza parlare con nessuno e rifiutandomi anche di leggere i giornali (ne intravidi solo uno, nelle mani di mio fratc-llo entrato a sentire come sta- "vo; in prima pagina c'era una fotografia grandissima con" una fila di furgoni neri, interminabile). Ero stato io a provocare l'ecatombe? La rottura dell'asta di ferro aveva, per una mostruosa progressione di cause ed effetti, propagato lo sfacelo all'intero mastodontico castel- lo ? O forse gli stessi primi costruttori con diabolica ma- lizia avevano disposto un segreto gioco di masse in equili- brio per cui bastava togliere quella minuscola asticciola per scardinare tutto quanto? Ma mio cognato, o le sue figlie, o lo Scavezzi, si accorsero di cio che avevo fatto? E se non si accorsero di nulla, perché da allora Giuseppe sembra evitare di incontrarmi ? O invece sono io stesso che, per timore di tradirmi, ho inconsciamente manovrato per ve- derlo il meno possibile? Ir senso opposto non e inquietante l'insistenza deí pro- fessor Scavezzi nel volermi frequentare ? Benché di mo- deste condizioni finanziarie, da allora egli si e ordinata nella mia sartoria una decina di vestiti. Alle prove ha sem- pre quel suo sorrisetto ipocrita e non si stanca di osservar- mi. Inoltre e di una pedanteria esasperante, qui una pie- ghetta che non ci vorrebbe, l`a una spalla che non casca bene: o sono i bottoni delle maniche, o la larghezza dei rever~, c'e sempre qualche cosa da aggiustare. Per ogni abi- to sei sette prove. E ogni tanto mi domanda: « Si ricorda di quel giorno? ». « Che giorno? » faccio io. « Eh, quel giorno alla Baliverna! » Sembra che ammicchi con furbe- schi sottintesi. Io dico: « Come potrei dimenticarmi ? ». Lui scuote il capo: « Gi`a... come potrebbe? ». Naturalmente io gli faccio degli sconti eccezionali, fi- nisco anzi per rimetterci. Ma lui fa finta di niente. « Sí sí » dice « da lei si spende, pero vale la pena, lo confesso. » E allora io mi chiedo: e un idiota o si diverte con questi piccoli ignobili ricatti? Sí. Potrebbe darsi che egli solo mi abbia visto nell'atto di rompere la fatale asta di ferro. Forse ha capito tutto, potrebbe denunciarmi, scatenare su di me l'odio della po- polazione. Ma e perfido e non parla. viene a ordinarsi un vestito nuovo, mi tiene d'occhio, pregusta la soddisfazione di inchiodarmi quando meno me lo aspetto. Io sono il topo e lui il gatto. Giocherella, finché di colpo mi dar`a l'un- ghiata. Ed aspetta il processo, preparandosi al colpo di scena. Sul piú bello si alzer`a in piedi. « Io soltanto so chi ha provocato il crollo » grider`a « l'ho visto coi miei oc- chi. » Anche oggi e venuto per provarsi un completo di fla- nella. Piú mellifluo del solito. « Eh, siamo agli sgoccioli ! » « Che sgoccioli? » « Come che sgoccioli? Il processo! Ne parla tutta la citt`a! Si direbbe che lei viva tra le nuvole, eh, eh. » « Vuol dire il crollo della Baliverna? » « Proprio, la Baliverna... Eh, eh, chiss`a se salter`a fuori il vero colpe- vole ! » Poi se ne va salutandomi con esagerate cerimonie. Lo accompagno alla porta. Aspetto a chiudere che abbia di- sceso una rampa di scale. Se ne e andato. Silenzio. Io ho paura. IL CANE CHE HA VISTO DIO Per pura malignit`a, il vecchio Spirito, ricco fornaio del paese di Tis, lascio in eredit`a il suo patrimonio al nipo- te Defendente Sapori con una condizione: per cinque an- ni, ogni mattina, egli doveva distribuire ai poveri, in lo- calit`a pubblica, cinquanta chilogrammi di pane fresco. Al- l'idea che il massiccio nipote, miscredente e bestemmia- tore tra i primi in un paese di scomunicati, si dedicasse sotto gli sguardi della gente a un'opera cosidetta di bene, a questa idea lo zio doveva essersi fatto, anche prima di morire, molte risate clandestine. Defendente, unico erede, aveva lavorato nel forno fin da ragazzo e non aveva mai dubitato che la sostanza di Spirito toccasse a lui quasi di diritto. Quella condizione lo esasperava. Ma che fare? Buttar via tutta quella grazia di Dio, forno compreso? Si adatto, maledicendo. Per loca- lit`a pubblica scelse la meno esposta: l'atrio del cortiletto che si apriva dietro il forno. E qui lo si vide ogni mattina di buon'ora pesare il pane stabilito (come prescriveva il testamento), ammucchiario in una grande cesta e quindi distribuirlo a una turba vorace di poveri, accompagnando l'offerta con parolacce e scherzi irriverenti all'indirizzo del- lo zio defunto. Cinquanta chili al giorno! Gli pareva stol- to e immorale. L'esecutore testamentario, ch'era il notaio Stiffolo, ve- niva ben di rado, in un'ora cosí mattutina, a godersi lo spettacolo La sua presenza del resto era superflua. Nes- · suno avrebbe potuto controllare la fedelt`a ai patti meglio degli stessi accattoni. Tuttavia Defendente finí per esco- gitare un parziale rimedio. La grande cesta in cui il mezzo quintale di pagnotte si ammucchiava veniva messa a ri- dosso di un muro. Il Sapori di nascosto vi taglio una specie di sportellino che, rinchiuso, non si poteva distinguere. Iniziata personalmente la distribuzione, prese l'abitudine di andarsene, lasciando la moglie e un garzoncello a esaurire il lavoro: il forno e il negozio, diceva, avevano bisogno di lui. In realt`a si affrettava in cantina, saliva su una sedia, apriva in silenzio la grata di una finestrella al filo del pa- "vimento del cortile contro la quale era collocata la cesta;" aperto poi lo sportellino di paglia, sottraeva dal fondo quanti piú pani era possibile. Il livello cosí calava rapida- mente. Ma i poveri come potevano capire ? Con la velo- cit`a con cui venivano consegnate le pagnotte, logico che la cesta si vuotasse in fretta. Nei primi giorni gli amici di Defendente anticiparono apposta la sveglia per andarlo ad ammirare nelle sue nuove funzioni. Fermi in gruppetto sulla porta del cortile lo os- servavano beffardi. « Che Dio te ne rimeriti ! » erano i loro commenti. « Te lo prepari, eh, un posto in Paradiso ? E bravo il nostro filantropo! » « All'anima di quella carogna! » rispondeva lui lanciando le pagnotte in mezzo alla calca dei pezzenti che le affer- ravano a volo. E sogghignava al pensiero del bellissimo trucco per frodare quei disgraziati e insieme l'anima dello zio defunto. Nella stessa estate il vecchio eremita Silvestro, saputo che di Dio in quel paese ce n'era poco, venne a stabilirsi nelle vicinanze. A una decina di chilometri da Tis c'era, su una collinetta solitaria, il rudere di una cappella antica: pietre, piú che altro. Qui si pose Silvestro, trovando acqua in una fonte vicina, dormendo in un angolo riparato da un resto "di volta, mangiando erbe e carrube; e di giorno spesso sa-" liva ad inginocchiarsi in cima a un grosso macigno per la contemplazione di Dio. Di quassú egli scorgeva le case di Tis e i tetti di alcuni casolari piú vicini: tra cui le frazioni della Fossa, di An- dron e di Limena. Ma invano aspetto che qualcuno com- parisse. Le sue calde preghiere per le anime di quei pec- catori salivano al cielo senza frutto. Silvestro continuava pero ad adorare il Creatore, praticando digiuni e chiac- chierando, quando era triste, con gli uccelli. Nessun uomo veniva. Una sera scorse, e vero, due ragazetti che di lon- tano lo spiavano. Li chiamo amabilmente. Quelli scap- parono. Ma nottetempo, in direzione della cappella abbandonata, i contadini della zona cominciarono a scorgere strane luci. Pareva l'incendio di un bosco ma il bagliore era bianco e palpitava dolcemente. Il Frigimelica, quello della fornace, ando una sera, per curiosit`a, a vedere. A met`a strada pero la sua motocicletta ebbe una panne. Chiss`a perché, egli non si arrischio di continuare a piedi. Ritornato, disse che "un alone di luce si diffondeva dalla collinetta dell'eremita;" e non era luce di fuoco o di lampada. Senza difficolt`a i contadini dedussero che quella era la luce di Dio. Anche da Tis alcune notti si scorgeva il riverbero. Ma la venuta dell'eremita, le sue stravaganze e poi le sue luci notturne affondarono nella solita indifferenza dei paesani per tutto cio che riguardasse anche da lontano la religione. Se veniva il discorso, ne parlavano come di fatti gi`a da lungo tempo noti, non si insisteva per trovare spiegazioni "e la frase: ""L'eremita fa i fuochi"" divenne di uso corrente" "come dire: ""stanotte piove o tira vento""," Che tanta indifferenza fosse del tutto sincera lo confer- mo la solitudine in cui venne lasciato Silvestro. L'idea di andare da lui in pellegrinaggio sarebbe parsa il colmo del ridlcolo. Un mattino Defendente Sapori stava distribuendo le pa- gnotte ai poveri quando un cane entra nel cortiletto. Era una bestia apparentemente randagia, abbastanza grossa, pe- lo ispido e volto mansueto. Sguscia fra gli accattoni in attesa, raggiunge la cesta, afferra un pane e se ne va lem- me lemme. Non come un ladro, piuttosto come uno che sia venuto a prendersi del suo. « Ehi, Fido, qua, brutta bestiaccia ! » urla Defendente "tentando un nome; e balza alla rincorsa. «Son gi`a troppi" questi lazzaroni. Non mancano che i cani, adesso ! Ma l'animale e gi`a fuori tiro. La stessa scena il giorno dopo: il medesimo cane, la medesima manovra. Questa volta il fornaio insegue la be- stia fin sulla strada, gli lancia pietre senza prenderlo. Il bello e che il furto va ripetendosi puntualmente ogni mattina. Meravigliosa la furberia del cane nello scegliere "il momento giusto; cosí giusto che per lui non c'e neppure" bisogno di affrettarsi. Né i proiettili lanciatigli dietro arri- vano mai al segno. Uno sguaiato coro di risa si leva ogni volta dalla turba dei pezzenti, e il fornaio va in furore. Imbestialito, il giorno successivo Defendente si apposta sulla soglia del cortile, nascosto dietro lo stipite, in mano un randello. Inutile. Mescolandosi forse alla calca dei po- veretti, che godono della beffa e non hanno percio motivo di tradirlo, il cane entra ed esce impunemente. « Eh, anche oggi ce l'ha fatta! » avverte qualche accat- tone stazionante sulla strada. « Dove? dove? » chiede De- fendente balzando fuori dal nascondiglio. « Guardi, guardi come se la batte! » indica ridendo il miserabile, deliziato dall'ira del fornaio. In verit`a il cane non se la batte in alcun modo: tenendo fra i denti la pagnotta si allontana col passo dinoccolato e tranquillo di chi ha a posto la coscienza. Chiudere un occhio? No, Defendente non sopporta que- sti scherzi. Poiché nel cortile non riesce a imbottigliarlo, alla prossima occasione favorevole dar`a la caccia al cane per la via Puo anche darsi che il cane non sia del tutto randagio, forse ha un rifugio a carattere stabile, forse ha un padrone a cui si puo chiedere un compenso. Cosí non si puo certo andare avanti. Per badare a quella bestiaccia, negli ultimi giorni il Sapori ha tardato a scendere in can- tina e ha recuperato molto meno pane del solito: soldi che se ne vanno. Anche il tentativo di sistemare la bestia con una pagnotta avvelenata, messa per terra all'ingresso del cortile, non ha avuto fortuna. Il cane l'ha annusata un istante, e subito proseguito verso la cesta: cosí almeno hanno poi riferito testimoni. Per far le cose bene Defendente Sapori si mise alla posta dall'altra parte della strada, sotto un portone, con la bi- cicletta e il fucile da caccia: la bicicletta per inseguire la bestia, la doppietta per ammazzarla se avesse constatato che non esisteva un padrone a cui poter chiedere inden- nizzo. Gli doleva solo il pensiero che quel mattinc- la ce- sta sarebbe stata vuotata a esclusivo beneficio dei poveri. Da che parte e in che modo venne il cane? Proprio un mistero. Il fornaio, che pur stava con gli occhi spalancati, non riuscí ad avvistarlo. Lo scorse piú tardi che usciva placido, la pagnotta tra i denti. Dal cortile giungevano echi di alte risate Defendente aspetto che l'animale si allonta- nasse un poco, per non metterlo in allarme. Poi balzo sul sellino e dietro. Il fornaio si aspettava, come prima ipotesi, che il cane si fermasse poco dopo a divorare la pagnotta. Il cane non si fermo. Aveva anche immaginato che, dopo breve cam- mino, si infilasse nella porta di una casa. E invece niente. Il suo pane tra i denti, la bestia trotterellava lungo i muri con passo regolare né mai sostava per annusare, o fare la plscia, o cunosare come e abitudine dei cani. Dove dun- que si sarebbe fermato? Il Sapori guardava il cielo grigio. Niente da meravigliarsi se si fosse messo a piovere. Passarono la piazzetta di Sant'Agnese, passarono le scuole elementari, la stazione, il lavatoio pubblico. ormai erano ai margini del paese. si lasciarono finalmente alle spalle anche il campo sportivo e si inoltrarono nella campagna. Da quando era uscito dal cortile, il cane non si era mai voltato indietro. Forse ignorava di essere inseguito. Ormai c'era da abbandonare la speranza che l'animale avesse un padrone che potesse rispondere per lui. Era pro- prio un cane randagio, una di quelle bestiacce che infe- stano le aie dei contadini, rubano i polli, addentano i vi- telli, spaventano le vecchie e poi finiscono in citt`a a dif- fondere sporche malattie. Forse l'unica era di sparargli. Ma per sparargli occorreva fermarsi, scendere di bicicletta, togliersi la doppietta di spalla. Tanto bastava perché la bestia, pur senza accelerare il passo, si mettesse fuori tiro. Il Sapori continuo l'inse- guimento. Cammina cammina, ecco che cominciano i boschi. Il ca- ne zampetta via per una strada laterale e poi in un'altra ancora piú stretta ma liscia ed agevole. Quanta strada hanno gi`a percorsa? Forse otto, nove chi- lometri. E perché il cane non si ferma a mangiare ? Che cosa aspetta ? Oppure porta il pane a qualcuno ? Quan- d'ecco, il terreno facendosi sempre piú ripido, il cane svolta in un sentierino e la bicicletta non puo piú proseguire. Per fortuna anche la bestia, per la forte pendenza, rallenta un pOCO il passo. Defendente balza dal velocipede e con- tinua l'inseguimento a piedi. Ma il cane a mano a mano lo distanzia. Gi`a esasperato, sta per tentare una schioppettata quan- do, in cima a un arido declivo, vede un grande macigno: sopra il macigno e inginocchiato un uomo. E allora gli torna alla mente l'eremita, le luci notturne, tutte quelle ridicole fandonie. Il cane trotterella placido su per il magro prato. Defendente, il fucile gi`a in mano, si ferma a una cin- quantina di metri. Vede l'eremita interrompere la pre- ghiera e calarsi giú dal macigno con singolare agilit`a verso il cane che scodinz01a e gli depone il pane ai pledi. Rac- colta da terra la pagnotta, l'eremita ne spicca un pezzet- tino e lo ripone in una bisaccia che porta a tracolla. Il resto lo restituisce al cane con un sorriso. L'anacoreta e piccolo e segaligno, vestito con una specie "di saio; la faccia si mostra simpatica, non priva di una" astuzia fanciullesca. Allora il fornaio si fa avanti, deciso a far valere le sue ragioni. « Benvenuto, fratello » lo previene Silvestro, vedendolo awicinare, « Come mai da queste parti?Sei forse in giro per caccia? » « A dir la verit`a » risponde duro il Sapori « andavo a caccia di... di una certa bestiaccia che ogni giorno... » « Ah, sei tu? » lo interrompe il vecchio. « Sei tu che mi procuri ogni giorno questo buon pane ?.. . un pane da si- gnori questo... un lusso che non sapevo di meritare!... » « Buono ? Sfido che e buono ! Fresco tolto dal forno... il mio mestiere lo conosco, caro il mio signore... ma non e fatto per rubare il mio pane! » Silvestro abbassa il capo fissando l'erba: « Capisco » dice con una certa tristezza. « Tu hai ragione di lamentarti, ma io non sapevo... Vuol dire che Galeone non andr`a piú in paese... lo terro sempre qui con me... anche un cane non deve avere rimorsi... Non verr`a piú, te lo prometto. » « Oh be' » dice il fornaio un poco calmato « quand'e cosí puo anche venire il cane. C'e una maledetta faccenda di testamento, e io sono obbligato a buttar via ogni giorno cinquanta chili di pane... ai poveri devo darli, a quei ba- stardi senza arte né parte... Anche se una pagnotta verr`a a finire quassú.., povero piú povero meno... » « Dio te ne render`a merito, fratello... Testamento o no, tu fai opera di misericordia. » « Ma ne farei molto volentieri a meno. » « Lo so perché parli cosí... C'e in voi uomini, una spe- cie di vergogna... ci tenete a mostrarvi cattivi, peggio di quello che siete, cosí va il mondo! » Ma le parolacce che Defendente si e preparato in corpo non vengono fuori. Sia imbarazzo, sia delusione, non gli riesce di arrabbiarsi. L'idea di essere il primo e il solo in tutta la contrada ad aver avvicinato l'eremita lo lusinga. Sí, egli pensa, un eremita e quello che e: non c'e da cavarci niente di buono. Chi puo tuttavia prevedere il futuro ? Se lui facesse una segreta amicizia con Silvestro, chiss`a che un giorno non gliene verr`a vantaggio. Per esempio immagina che il vecchio compia un miracolo, allora il popolino si infatua di lui, dalla grande ci~t`a arrivano mon- signori e prelati, si organizzano cerimonie, processioni e IL CANE CHE HA VISTO DIO zo9 sagre. E lui, Defendente Sapori, prediletto dal nuovo san- to, invidiato da tutto il paese, fatto per esempio sindaco. Perché no, in fin dei conti ? Silvestro allora: « Che bel fucile che hai! » dice e non senza garbo glielo toglie di mano. In quest'attimo, e De- fendente non capisce perché, parte un colpo che fa rin- tronare la valle. Lo schioppo pero non sfugge di mano all'eremita. «Non hai paura » dice questi « a girare col fucile ca- rico ? » Il fornaio lo sguarda insospettito: « Non sono mica piú un ragazzetto! ». « Ed e vero » prosegue subito Silvestro, restituendogli il fucile « e vero che non e impossibile trovar posto, la domenica, nella parrocchiale di Tis ? Ho sentito dire che non e proprio stipata. » «Ma se e vuota come il palmo della mano » fa con aperta soddisfazione il fornaio. Poi si corregge: « Eh, sia- mo in pochi a tener duro! ». « E a messa, quanti sarete di solito a messa? Tu e quanti altri ? » «Una trentina direi, nelle domeniche buone, si arriver`a a cinquanta per Natale. » « E dimmi, a Tis si bestemmia volentieri? » « Per Cristo se si bestemmia. Non si fanno pregar dav- vero a tirar moccoli. » L'eremita lo guarda e scuote il capo: « Ci credono pochetto dunque a Dio, si direbbe. » « Pochetto? » insiste Defendente sogghignando dentro di sé. « Una manica di eretici sono... » « E i tuoi figli ? Li manderai bene in chiesa i tuoi figli... » «Cristo se ce li mando! Battesimo, cresima, prima e se- conda comunione ! » « Davvero ? Anche la seconda ? » « Anche la seconda, si capisce. Il mio piú piccolo l'ha... » 1.. ma qui si interrompe al vago dubbio di averla detta grossa. « Sei dunque un ottimo padre » commenta grave l'ere- mita (ma perché sorride cosí ?). « Torna a trovarmi, fra- tello. Ed ora va con Dio » e fa un piccolo gesto come per benedlre. Defendente e colto alla sprovvista, non sa cosa rispondere. Prima che se ne sia reso conto, ha abbassato lievemente il capo facendosi il segno della Croce. Per fortuna non c'e nessun testimone, eccezion fatta del cane. IL CANE CHE HA VISTO DIO il pane sotto la panca convenuta. E Defendente neppure lo vide, né lo videro i pezzenti. Il fornaio andava ogni giorno a deporre la pagnotta nella baracchetta di legno che il sole non si era ancora levato. Ugualmente il cane dell'eremita, ora che avanzava l'autunno e le giornate si accorciavano, si confondeva facil- mente con le ombre del crepuscolo mattutino. Defendente Sapori viveva cosí abbastanza tranquillo e poteva dedicarsi al recupero del pane destinato ai poveri, attraverso lo spor- tellino segreto della cesta. VII VIII L'alleanza segreta con l'eremita era una bella cosa, ma solo fin tanto che il fornaio si perdeva nei sogni che lo portavano alla carica di sindaco. In realt`a c'era da tenere gli occhi bene aperti. Gi`a la distribuzione del pane ai poveri lo aveva screditato, sia pure senza sua colpa, agli occhi dei compaesani. Se ora fossero venuti a sapere che si era fatto il segno della Croce! Nessuno, grazie al cielo, pareva si fosse accorto della sua passeggiata, neppure i garzoni del forno. Ma ne era poi sicuro? E la faccenda del cane come sistemarla ? La pagnotta quotidiana non si po- teva piú decentemente rifiutargliela. Non pero sotto gli sguardi dei mendicanti che ne avrebbero fatto una favola. Proprio per questo il giorno dopo, prima che spuntasse il sole, Defendente si apposto vicino a casa sulla strada che menava alle colline. E come Galeone comparve, lo richiamo con un fischio. Il cane, riconosciutolo, si avvi- cino. Allora il fornaio, tenendo in mano la pagnotta, lo trasse a una baracchetta di legno, adiacente al forno, che serviva di deposito per la legna. Qui, sotto una panca, egli depose il pane, ad indicare che in avvenire la bestia doveva ritirare qui il suo cibo. Venne infatti il cane Galeone, il giorno dopo, a prendere Passarono le settimane e i mesi finché arrivo l'inverno coi fiori di gelo alle finestre, i camini che fumavano tutto il giorno, la gente imbacuccata, qualche passeretto stec- chito in sul far del mattino ai piedi della siepe e una cappa leggera di neve sulle colline. Una notte di ghiaccio e di stelle, l`a verso nord, in di- rezione della antica cappella abbandonata, furono scorte grandi luci bianche come non erano state viste mai. ci fu a Tis un certo allarme, gente che balzava dal letto, impo- ste che si aprivano, richiami da una casa all'altra e brusio nelle strade. Poi, quando si capí ch'era una delle solite luminarie di Silvestro, nient'altro che il lume di Dio venu- to a salutare l'eremita, uomini e donne sprangarono le finestre e si rificcarono sotto le calde coperte, un po' de- lusi, imprecando al falso allarme. Il giorno dopo, portata non si seppe da chi, si sparse pigramente la voce che durante la notte il vecchio Sil- vestro era morto assiderato. Siccome il seppellimento era obbligatorio per legge, il becchino, un muratore e due manovali andarono a sot- terrare l'eremita, accompagnati da don Tabi`a, il prevosto, che aveva sempre preferito ignorare la presenza dell'ana- coreta entro i confini della sua parrocchia. Su una car- retta tirata da un asinello fu caricata la cassa da morto. I cinque trovarono Silvestro disteso sulla neve, con le braccia in croce, le palpebre chiuse, proprio in atteggia- "mento da santo; e accanto a lui, seduto, il cane Galeone" che piangeva. Il corpo fu messo nella cassa, quindi, recitate le preghie- re, lo seppellirono sul posto, sotto alla superstite volta della cappella. Sopra il tumulo, una croce di legno. Poi don Tabi`a e gli altri tornarono, lasciando il cane raggomito- lato sopra la tomba. Al paese nessuno chiese loro spiega- zioni. Il cane non ricomparve. Al mattino dopo, quando ando a mettere la solita pagnotta sotto la panca, Defendente trovo ancora quella del giorno prima. Il dí successivo il pane era ancora l`a, un poco piú secco, e le formiche ave- vano gi`a cominciato a scavarvi cunicoli e gallerie. Pas- sando invano i giorni, anche il Sapori finí per non pen- sarcl plÚ, Ma due settimane piú tardi, mentre al caffe del Cigno il Sapori gioca a terziglio, col capomastro Lucioni e col cavalier Bernardis, un giovanotto, intento a guardare nella via, esclama: « To', quel cane! ». Defendente trasale e volge subito gli sguardi. Un cane, brutto e sparuto, avanza per la via, oscillando da una IL CANE CHE HA VISTO DIO parte e dall'altra quasl avesse il capo storno. Sta morendo di fame. Il cane dell'eremita- quale il Sapori ricorda - e certo piú grosso e vigoroso. Ma chiss`a come si puo ridur- re una bestia dopo due settimane di digiuno. Il fornaio ha l'impressione di riconoscerlo. Dopo essere rimasto lun- gamente a piangere sopra la tomba, la bestia forse ha ce- duto alla fame e ha abbandonato il padrone per scendere a cercar cibo in paese. « Tra poco quello tira le cuoia » fa Defendente, ridac- chiando, per mostrare la sua indifferenza. « Non vorrei fosse proprio lui » dice allora il Lucioni, con un sorriso ambiguo, chiudendo il ventaglio delle carte. « Lui chi ? » « Non vorrei » dice il Lucioni « che fosse il cane del- l'eremita. » Il cavalier Bernardis, tardo di comprendonio, si anima stranamente: « Ma io l'ho gi`a vista questa bestia » dice. « L'ho pro- prio vista da queste parti. Mica sar`a tua alle volte, De- fendente? » « Mia? E come potrebbe essere mia? » « Non vorrei sbagliarmi » conferma il Bernardis « ma mi pare di averla vista dalle parti del tuo forno. » Il Sapori si sente a disagio. « Mah » dice « ne girano tanti di cani, potrebbe anche darsi, io certo non ricordo. » Il Lucioni assente col capo, gravemente, come parlan- do con se stesso. Poi: « Sí, sí, deve essere il cane dell'eremita. » « E perché poi » chiede il fornaio cercando di ridere « perché poi dovrebbe proprio essere quello dell'eremita? » «Corrisponde, capisci? Corrisponde la magrezza. Fa un po' il conto. stato diversi giorni sopra la tomba, i cani fanno sempre cosí... Poi gli e venuto appetito... ed eccolo qui in paese... » Il fornaio tace. Intanto la bestia si guarda intorno e per un istante fissa, attraverso la vetrata del caffe, i tre uomi- ni seduti. Il fornaio si sofffia il naso. « Sí » dice il cavalier Bernardis «giurerei che l'ho gi`a visto. Piú di una volta l'ho visto, proprio dalle tue parti » e guarda il Sapori. « Sar`a, sar`a » fa il fornaio « io proprio non ricordo... » Il Lucioni ha un sorrisetto astuto: « Io gi`a un cane si- mile non me lo terrei per tutto l'oro del mondo ». « Rabbioso? » chiede il Bernardis allarmato. « Tu pensi che sia rabbioso? » « Macché rabbioso! Ma a me non darebbe nessun affi- damento un cane simile... un cane che ha visto Dio! » «Come che ha visto Dio?» «Non era il cane dell'eremita? Non era con lui quando venivano quelle luci ? Lo sanno tutti, direi, che cos'erano quelle luci! E il cane non era con lui? Vuoi che non ab- bia visto? Vuoi che dormisse con uno spettacolo simile? » e ride di gusto. « Balle! » replica il cavaliere. « Chiss`a che cos'erano quelle luci. Altro che Dio! Anche stanotte c'erano... » « Stanotte dici ? » fa Defendente con una vaga speranza. « Coi miei occhi le ho viste. Mica forti come una volta, pero un bel chiaro lo facevano. » « Ma sei sicuro ? Stanotte ? » « Stanotte, perdio. Le stesse identiche di prima... Che dio vuoi che ci fosse questa notte? » Il Lucioni pero ha una faccia oltremodo furba: « E chi ti dice, chi ti dice che i lumi di questa notte non fossero per lui ? ». « Per lui chi ? » « Per il cane, sicuro. Magari stavolta invece di Dio in persona era l'eremita, venuto giú dal paradiso. Lo vedeva l`a fermo sulla sua tomba, si sar`a detto: ma guarda un po' il mio povero cane... E allora e sceso a dirgli di non pen- sarci piú, che ormai aveva pianto abbastanza e che andas- se a cercarsi una bistecca! » « Ma se e un cane di qui » insiste il cavalier Bernardis. « Parola che l'ho visto gironzare intorno al forno. » Defendente rincasa con una grande confusione in testa. Che antipatica faccenda. Piú cerca di persuadersi che non e possibile, piú si va convincendo che e proprio la bestia dell'eremita Niente di preoccupante, certo. Ma lui adesso dovr`a continuare a dargli ogni giorno la pagnotta? Pensa: se io gli taglio i viveri, il cane torner`a a rubare il pane nel "cortile; e allora io come mi regolo ? cacciarlo via a pe-" date? un cane che, volere o no, ha visto Dio? E che ne so io di questi misteri ? Non sono cose semplici. Prima di tutto: lo spirito del- L'eremita e apparso davvero a Galeone la notte prima? E che cosa puo avergli detto? Che lo abbia in qualche modo stregato? Magari adesso il cane capisce il linguaggio degli uomini, chi lo sa, un giorno o l'altro potrebbe mettersi a parlare anche lui. C'e da aspettarsi di tutto quando c'e di mezzo Dio, se ne sentono raccontare tante. E lui, De- fendente, si e gi`a coperto abbastanza di ridicolo. Se in giro adesso sapessero che lui ha di queste paure! Prima di rientrare in casa, il Sapori va a dare un'oc- chiata alla baracchetta della legna. Sotto la panca la pa- gnotta di quindici giorni prima non c'e piú. Il cane dun- que e venuto e se l'e portata via con formiche e tutto? Ma il giorno dopo il cane non venne a prendere il pane e neppure il terzo mattino. Era cio che Defendente spe- rava. Morto Silvestro ogni illusione di poter sfruttare la sua amicizia era finita. In quanto al cane, meglio se ne stes- se alla larga. Eppure quando il fornaio, nella baracchetta deserta, rivedeva la forma di pane che aspettava sola so- letta, provava delusione. Resto ancora peggio quando - erano passati altri tre giorni - egli rivide Galeone. Il cane se n'andava, apparen- temente annoiato, nell'aria fredda della piazza e non pa- reva piú quello che si era visto attraverso i vetri del caffe. Ora stava bello dritto sulle gambe, non ciondolava piú ed era sí ancora magro ma col pelo gi`a meno ispido, le orecchie erte, la coda ben sollevata. Chi lo aveva nutrito? Il Sapori si guardo intorno. La gente passava indifferente, come se la bestia non esistesse neanche. Prima di mezzodí il fornaio depose un nuovo pane fresco, con una fetta di formaggio, sotto la solita panca. Il cane non si fece vivo. " Di giorno in giorno Galeone era piú florido; il suo pelo" ricadeva liscio e compatto come ai cani dei signori. Qual- "cuno dunque si prendeva cura di lui; e forse parecchi" contemporaneamente, ciascuno all'insaputa dell'altro, per scopi reconditi. Forse temevano la bestia che aveva visto troppe cose, forse speravano di comperare a buon mercato la grazia di Dio senza rischiare la baia dei compaesani. O addirittura l'intera Tis aveva il medesimo pensiero ? E ciascuna casa, quando veniva la sera, tentava nel buio di attirare a sé l'animale per ingraziarselo con bocconi pre- libati ? Forse per questo Galeone non era venuto piú a prendere "la pagnotta; oggi probabilmente aveva di meglio. Ma nes-" suno ne parlava mai, anche l'argomento dell'eremita, se per caso afffiorava, veniva subito lasciato cadere. E quan- do il cane compariva per la strada, gli sguardi trascorre- vano via, quasi fosse uno dei tanti cani randagi che infe- stano tutti i paesi del mondo. E in silenzio il Sapori si ro- deva come chi, avuta per prima un'idea geniale, si accorge che altri, piú audaci di lui, se ne sono clandestinamente impadroniti e si preparano a trarne indebiti vantaggi. Avesse visto o no Dio, certo Galeone era un cane strano. Con compostezza pressoché umana girava di casa in casa, entrava nei cortili, nelle botteghe, nelle cucine, stava per interi minuti immobile ossenando la gente. Poi se n'an- dava silenzioso. Che cosa c'era nascosto dietro quei due occhi buoni e malinconici ? L'immagine del Creatore con ogni proba- bilit`a vi era entrata. Lasciandovi che cosa ? Mani treme- bonde offrivano alla bestia fette di torta e cosce di pollo. Galeone, gi`a sazio, fissava negli occhi l'uomo, quasi a in- dovinare il suo pensiero. Allora l'uomo usciva dalla stan- za, incapace di resistere. Ai cani petulanti e randagi in Tis non venivano somministrati che bastonate e calci. Con questo non si osava. A poco a pGcO si sentirono presi dentro a una specie di complotto ma non avevano il coraggio di parlarne. Vec- chi amici si fissavano negli occhi, cercandovi invano una tacita confessione, ciascuno nella speranza di poter rico- noscere un complice. Ma chi avrebbe parlato per primo ? Soltanto il Lucioni, imperterrito, toccava senza ritegno l'ar- gomento: « To' to' ! ecco il nostro bravo cagnaccio che ha vi- sto Dio! » annunciava sfrontatamente alla comparsa di Ga- leone E ridacchiava fissando alternativamente le persone intorno con occhiate allusive. Gli altri per lo piú si com- portavanO come se non avessero capito. Chiedevano di- stratte spiegazioni, scuotevano il capo con aria di compati- mento, dicevano: « Che storie! ma e ridicolo! superstizioni da donnette ». Tacere, o peggio unirsi alle risate del ca- pomastro sarebbe stato compromettente. E liquidavano la cosa come uno stupido scherzo. Pero, se c'era il cavalier Bernardis, la sua risposta era sempre quella: « Macché ca- ne dell'eremita. Vi dico che e una bestia di qui. Sono an- ni che gira per Tis, lo vedevo tutti i santi giorni giron- zare dalle parti del forno! ». XIV Un giorno, sceso in cantina per la consueta operazione di reNpero, Defendente, tolta la grata della finestrella stava per aprire lo sportellino della cesta del pane. Fuori nel cortile, si udivano le grida dei pezzenti in attesa, le voci della moglie e del garzone che cercavano di tenerli in riga. L'esperta mano del Sapori libero la chiusura, lo sportellino si aprí, i pani cominciarono a scivolare rapida- mente in un sacco. In quel mentre egli vide con la coda dell'occhio una cosa nera muoversi, nella penombra del sotterraneo. Si volto di soprassalto. Era il cane. Fermo sulla porta della cantina, Galeone osservava la scena con placida imperturbabilit`a. Ma nella poca luce gli occhi del cane erano fosforescenti. Il Sapori resto di pietra. « Galeone, Galeone » comincio a balbettare in tono ca- rezzevole e manierato. « Su, buono, Galeone... qua, pren- di! » E gli lancio una pagnottella. Ma la bestia non la guardo neppure. Come se avesse visto abbastanza, si volse lentamente, avviandosi verso la scala. Rimasto solo, il fornaio uscí in orrende imprecazioni. Un cane ha visto Dio, ne ha sentito l'odore. Chiss`a quali misteri ha imparato. E gli uomini si guardano l'un IL CANE CHE HA VISTO DIO L'altro come cercando un appoggio ma nessuno parla. Uno "sta finalmente per aprir bocca: ""E se fosse una mia fissa-" "zione?"" si domanda. <'Se gli altri non ci pensassero nep-" "pure?"" E allora fa finta di niente." Galeone con straordinaria familiarit`a passa da un luogo a un altro, entra nelle osterie e nelle stalle. Quando meno ci se lo aspetta eccolo l`a in un angolo, immobile, che guarda fissamente e annusa. Anche di notte, quando tutti gli altri cani dormono, la sua sagoma appare all'improv- viso contro il muro bianco, con quel suo caratteristico passo dinoccolato e in certo modo contadinesco. Non ha una casa? Non possiede una cuccia? Gli uomini non si sentono piú soli, neppure quando sono in casa con porte sprangate. Tendono di continuo le orecchie: un fruscio sull'erba, di fuori: un cauto e sof- fice zampettare sui sassi della via, un latrato lontano. Bu~ bb~c, fa Galeone, un suono caratteristico. Non e rab- bioso, né aspro, eppure attraversa l'intero paese. « Be', non fa niente, forse ho sbagliato io i conti » dice il sensale dopo avere litigato rabbiosamente con la moglie per due soldi. « Insomma, per questa volta te la voglio passar liscia. Alla prossima fili, pero... » annuncia il Fri- gimelica, quello della fornace, rinunciando di colpo a li- cenziare il manovale. « Tutto sommato e una gran cara donna... » conclude inaspettatamente, in contrasto con quan- to detto prima, la signora Biranze, in conversazione con la maestra, a proposito della moglie del sindaco. B~c buc bufa il cane randagio, e puo darsi che abbai a un altro cane, a un'ombra, a una farfalla, o alla luna, non e pero escluso che abbai a ragion veduta, quasi che attraverso i muri, le strade, la campagna, gli sia giunta la cattiveria umana Nell'udire il rauco richiamo, gli ubriachi espulsi dall'osteria rettificano la posizione. Galeone compare inatteso nello sgabuzzino dove il ra- gionier Federici sta scrivendo una lettera anonima per av- vertire il suo padrone, proprietario del pastificio, che il "contabile Rossi ha rapporti con elementi sovversivi, ""Ra-" "gioniere, che cosa stai scrivendo?"" sembran dire i due oc-" chi mansueti. Il Federici gli indica bonariamente la porta. « Su, bello, fuori, fuori ! » e non osa profferire gli insulti che gli nascono nel cuore. Poi sta con l'orecchio all'uscio per assicurarsi che la bestia se ne sia andata. E poi, per maggior prudenza, butta la lettera nel fuoco. Compare, assolutamente per caso, ai piedi della scala di legno che porta all'appartamentino della bella sfrontata Flora. gi`a notte alta ma i gradini scricchiolano sotto i piedi di Guido, il giardiniere, padre di cinque figli. Due occhi dunque brillano nel buio.< Ma non e qui, accidenti ! » esclama l'uomo a voce alta perché la bestia oda, quasi sinceramente irritato dal malinteso. « Col buio ci si sba- glia sempre... Non e questa ia casa del notaio! » E ridi- scende a precipizio. Oppure si ode il suo sommesso abbaiare, un dolce bron- tolio, a guisa di rimprovero, mentre Pinin e il Gionfa penetrati nottetempo nel ripostiglio del cantiere, hanno gi`a messo mano su due biciclette. « Toni, c'e qualcuno che vie- ne » sussurra Pinin in assoluta malafede. « Mi e parso an- che a me » dice il Gionfa « meglio filare. » E scivolano via senza nulla di fatto. Oppure manda un lungo mugolio, una specie di lamen- to, proprio sotto i muri del forno all'ora giusta, dopo che Defendente, chiuse questa volta a doppia mandata porte e cancelletti dietro di sé, e disceso in cantina per fregare il pane dei poveri dalla cesta durante la distribuzione mat- tutina. Il fornaio allora stringe i denti: come fa a saperlo, quel cagnaccio della malora ? E tenta di alzare le spalle. Ma poi gli vengono i sospetti: se in qualche modo Ga- leone lo denunciasse, tutta l'eredit`a andrebbe in fumo. Col sacco vuoto piegato sotto il braccio, Defendente risale in bottega. Quanto durer`a la persecuzione? Il cane non se ne andr`a mai piú? E se resta in paese, quanti anni potr`a ancora vi- vere? Oppure c'e il modo di toglierlo di mezzo? Fatto e che, dopo secoli di negligenza, la chiesa par- rocchiale ricomincio a popolarsi. La domenica, a messa, vecchie amiche si incontravano. Ciascuna aveva la sua scu- sa pronta: «Sa che cosa le dico? Che con questo freddo l'unico posto dove si sta ben riparati e la chiesa. Ha i muri grossi, ecco la questione... il caldo che hanno immagazzi- nato d'estate, lo buttano fuori adesso! ». E un'altra: « Un benedetto uomo qui il prevosto, don Tabi`a... Mi ha pro- messo le sementi di tredescanzia giapponese, sa, quella bella gialla?... Ma non c'e verso.. Se non mi faccio vedere un po' in chiesa, lui duro, fa finta di essersi dimenticato... ». Un'altra ancora: « Capisce, signora Erminia? Voglio fare un entredeux di pizzo come quello l`a, dell'altare del Sacro Cuore. Portarmelo a casa da copiare non posso. Bisogna che venga qui a studiarmelo... Eh non e mica semplice! ». Ascoltavano, sorridendo, le spiegazioni delle amiche, pre- occupate soltanto che la propria sembrasse abbastanza plau- sibile. Poi « Don Tabi`a ci guarda! » sussurravano come sco- larette, concentrandosi sul libro da messa. Non una veniva senza scusa. La signora Ermelinda, per esempio, non aveva trovato altri, per fare insegnare il canto alla sua bambina, cosí appassionata di musica, che "l'organista del duomo; e adesso veniva in chiesa per ascol-" tarla nel Magni~at. La stiratrice dava appuntamento in chiesa a sua mamma, che il marito non voleva vedere per casa. Perfino la moglie del dottore: proprio sulla piazza, pochi minuti prima, aveva messo un piede a terra mala- "mente e si era fatta una storta; era dunque entrata per" restare un poco seduta. In fondo alle navate laterali, presso i confessionali grigi di polvere, dove le ombre sono piú fitte, stava qualche uomo impalato. Dal pulpito don Tabi`a Sl guardava intorno sbalordito, stentando a trovare le pa- role. Sul sagrato intanto Galeone stava disteso al sole: sem- brava si concedesse un meritato riposo. All'uscita dalla messa, senza muovere un pelo, sbirciava tutta quella gente: le donne sgusciavano dalla porta, allontanandosi chi da una parte chi dall'altra. Nessuna che lo degnasse di un'oc- chiata, ma finché non avevano svoltato l'angolo si senti- vano i suoi sguardi nella schiena come due punte di ferro. XVII Anche l'ombra di un cane qualsiasi, basta che assomigli va- gamente a Galeone, fa dare dei soprassalti. La vita e un'an- sia. L`a dove c'e un poco di gente, al mercato, al passeggio "serale, mai il quadrupede manca; e pare si goda all'indiffe-" renza assoluta di coloro che, quando son soli e in segreto lo chiamano invece coi nomi piú affettuosi, gli offrono tor- telli e zabaglione. « Eh, i bei tempi di una volta! » usano adesso esclamare gli uomini, cosí, genericamente, senza spe- "cificare 11 perché; e nessuno che non capisca al volo. I bei" tempi - intendono dire senza specificarlo - quando si po- teva fare I propri porci comodi, e darsene quattro se oc- correva e andar per contadine in campagna, e magari ru- bacchiare, e la domenica starsene in letto fino a mezzodí. I bottegai adesso adoperano carte sottili e misurano il peso giusto, la padrona non picchia piú la serva, Carmine Espo- sito dell'agenzia di pegni ha imballato tutte le sue cose per traslocare in citt`a, il brigadiere Venariello se ne sta allunga- to al sole sulla panca, dinanzi alla stazione dei carabinieri morto di noia, domandandosi se i ladri sono tutti morti, e IL CANE CHE HA VISTO D10 nessuno tira piú le potenti bestemmie di prima, che dava- no cosí gusto, se non in aperta campagna e con le debite cautele, dopo attente ispezioni, che dietro alle siepi non si nasconda qualche cane. Ma chi osa ribellarsi? Chi ha il coraggio di prendere a pedate Galeone o di somministrargli una cotoletta all'arse- nico come e nei segreti desideri di tutti ? Neanche nella provvidenza possono sperare: la santa provvidenza, a rigor di logica, si deve essere schierata dalla parte di Galeone. Bisogna fare assegnamento sul caso. Sul caso di una notte tempestosa, con lampi e fulmini che pare finisca il mondo. Ma il fornaio Defendente Sapori ha un udito da lepre e lo strepito dei tuoni non gli impedisce di awertire un tramestio insolito dabbasso in cortile. De- vono essere i ladri. Balza dal letto, afferra nel buio lo schioppo e guarda giú attraverso le stecche delle persiane. Ci sono due tipi, gli par di vedere, che stan dandosi d'attorno per aprire la por- ta del magazzino E al bagliore di una saetta vede anche, in mezzo al cortile, imperturbabile sotto i tremendi scrosci, un grosso cane nerastro. Deve essere lui, il maledetto, ve- nuto forse a dissuadere i due bricconi. Bisbiglia dentro di sé una bestemmia spettacolosa, arma lo schioppo, dischiude lentamente le persiane, quel tanto da poter sporgere la canna. Aspetta un nuovo lampo e mira al cane. Il primo sparo va completamente confuso con un tuono. « Al ladro! al ladro! » comincia a urlare il fornaio, rica- rica lo schioppo, spara ancora all'impazzata nel buio, ode allontanarsi dei passi affannosi, poi per tutta la casa voci e sbattere di porte: moglie, bambini e garzoni accorrono spaventati. « Sor Defendente » una voce chiama dal cortile « guardi che ha ammazzato un cane! » Galeone - sbagliarsi a questo mondo e possibile, specie in una notte come questa ma pare proprio lui tale e quale - giace stecchito in una pozza d'acqua: un pallottone gli ha attraversato la fronte. Morto secco. Non stira neppure le gambe. Ma Defendente non va neanche a vederlo. Lui scen- de a controllare che non abbiano scassinato la porta del magazzino, e, come ha constatato che no, d`a a tutti la buo- "na notte e si caccia sotto le coltri. ""Finalmente"" si dice" preparandosi a un sonno beato. Ma non gli riesce piú di chiuder occhio. Al mattino ch'era ancora buio due garzoni portarono via il cane morto e lo andarono a seppellire in un campo. Defen- dente non oso ordinar loro di tacere: si sarebbero messi in sospetto. Ma cerco in modo che la cosa passasse via liscia senza tante chiacchiere. Chi rivelo il fatto? La sera, il fornaio si accorse subito, al caffe, che tutti lo fissavano: ma subito ritiravano gli sguar- di come per non metterlo in allarme. « Abbiamo sparato, eh stanotte? » fece il cavalier Bernar- dis all'improvviso, dopo i soliti saluti. « Battaglia grossa eh, stanotte, al forno? » « Chiss`a chi erano » rispose Defendente senza dare impor- tanza « volevano scassinare il magazzino, quei malnati. La- druncoli da poco. Ho sparato due colpi alla cieca e quelli se la sono battuta. » « Alla cieca? » chiese allora il Lucioni col suo tono insi- nuante. « E perché non gli hai sparato addosso gi`a che c'eri? » « Con quel buio! Che cosa vuoi che vedessi! Ho sentito grattare giú alla porta e ho sparato fuori a casaccio. » « E cosí... e cosí hai spedito all'altro mondo una povera bestia che non aveva fatto niente di male. » « Ah, gi`a » disse il fornaio quasi soprappensiero. « Ho I 1~ beccato un cane. Chiss`a come era entrato. l~a me non ci stanno cani. » Si fece un certo silenzio. Tutti lo guardavano. Il Trevaglia, cartolaio, mosse verso la porta per uscire. « Be', buonasera, signori » e poi, compitando intenzionalmente le sillabe. « Buonasera anche a lei, signor Sapori ! » « Onoratissimo » rispose il fornaio e gli volto le spalle. Che cosa intendeva dire quell'imbecille? Gli facevano col- pa alle volte, di aver ammazzato il cane dell'eremita? In- vece di essergli riconoscenti. Li aveva liberati da un incubo e adesso storcevano il naso. Che cosa li prendeva? Fossero stati sinceri una buona volta. Il Bernardis, singolarmente inopportuno, cerco di spiegare: « Vedi, Defendente ?... qualcuno dice che avresti fatto me- glio e non ammazzare quella bestia... » « E perché? L'ho fatto forse apposta? » « Appposta o no, vedi? era il cane dell'eremita, dicono, e adesso dicono che era meglio lasciarlo stare, dicono che ci mener`a gramo... sai come sono le chiacchiere! » « E che ne so io dei cani degli eremiti ? Cristo d'un Cristo, vorrebbero farmi il processo, idioti che non sono altro ? » e tento una risata. Parlo il Lucioni: « Calma, calma, ragazzi... Chi ha detto ch'era il cane dell'eremita? Chi ha diffuso questa balla? » Defendente: « Mah, se non lo sanno loro! » e alzo le spalle. Il cavaliere intervenne: « Lo dicono quelli che l'hanno visto questa mattina, mentre lo seppellivano... Dicono che sia proprio lui, con una macchiolina di pelo bianco in cima all'orecchio sinistro ». «Nero per il restante?» «Sí, nero» rispose uno dei presenti. « Piuttosto grosso ? Con una coda a spazzo1a ? » « Precisamente. » « Il cane dell'eremita, volete dire? » « Gi`a, dell'eremita. » « E guardatelo l`a, allora il vostro cane! » esclamo il Lu- cioni, facendo segno alla via. « Se e piú vivo e sano di prima! » Defendente si fece pallido come una statua di gesso. Col suo passo dinoccolato Galeone avanzava per la via, si fer- mo un istante a guardare gli uomini attraverso la vetrata del caffe, poi proseguí tranquillo, Perché i pezzenti, al mattino, hanno ora l'impressione di ricevere piú pane del solito ? Perché le cassette delle ele- mosine, rimaste per anni e anni senza un soldo, adesso tin- tinnano? Perché i bambini, finora recalcitranti, frequentano volentieri la scuola? Perché l'uva resta sulle piante fino al- la vendemmia anziché essere depredata? Perché non tirano piú sassi e zucche marce sulla gobba di Martino? Perché queste e tante altre cose? Nessuno lo confesser`a, gli abitanti di Tis sono rustici ed emancipati, mai dalla loro bocca sen- tirete uscire la verit`a: che hanno paura di un cane, non di essere addentati, semplicemente hanno paura che il cane li giudichi male. Defendente divorava veleno. Era una schiavitú. Neanche di notte si riusciva a respirare. Che peso, la presenza di Dio per chi non la desidera. E Dio non era qui una favola in- certa, non se ne stava appartato in chiesa fra ceri e in- censo, ma girava su e giú per le case, trasportato, per dir cosí, da un cane. Un pezzettino piccolissimo di Creatore, un minimo fiato, era penetrato in Galeone e attraverso gli oc- chi di Galeone vedeva, giudicava, segnava in conto. Quando il cane sarebbe invecchiato ? Se almeno avesse perso le forze e fosse rimasto quieto in un angolo. Immo- bilizzato dagli anni, non avrebbe piú potuto dare noia. IL CANE CHE HA VISTO D10 zz7 E gli anni infatti passarono, la chiesa era piena anche nei giorni feriali, le ragazze non andavano piú lungo i portici, dopo mezzanotte, sghignazzando coi soldati. Defendente, sfasciatasi per l'uso la vecchia cesta, se ne procuro una nuo- va rinunciando ad aprirvi lo sportellino segreto (di sottrar- re il pane dei poveri non avrebbe piú avuto il coraggio, fin che Galeone era in giro) E il brigadiere Venariello ora si addormentava sulla soglia della stazione dei carabinieri, sprofondato in una poltrona di vimini. Passarono gli anni e il cane Galeone invecchio, marciava sempre piú lento e con andatura esageratamente dinoccola- ta finché un giorno gli capito una specie di paralisi agli arti posteriori e non poté piú camminare. Per sfortuna l'accidente lo colse in piazza, mentre dormic- chiava sul muretto di fianco al Duomo, sotto al quale il terreno divallava ripido, tagliato da strade e stradette, fino al fiume. La posizione era privilegiata dal punto di vista igienico perché la bestia poteva sfogare i suoi bisogni cor- porali giú dal muro, verso lo scoscendimento erboso, senza imbrattare né il muro né la piazza. Era pero una posizione scoperta, esposta ai venti e senza riparo dalla pioggia. Anche stavolta naturalmente nessuno fece mostra di notare il cane che, tremando tutto, mandava dei lamenti. Il malo- re di un cane randagio non era uno spettacolo edificante. I presenti, indovinando dai suoi penosi sforzi che cosa gli fosse accaduto, si sentirono pero un tuffo al cuore, riani- mati da nuove speranze. Il cane prima di tutto non avreb- be piú potuto ciondolare intorno, non si sarebbe mosso piú neanche di un metro. Meglio: chi gli avrebbe dato da man- giare sotto gli occhi di tutti? Chi per primo avrebbe osato confessare un rapporto segreto con la bestia? Chi per pri- mo si sarebbe esposto al ridicolo? Di qui la speranza che Galeone potesse morire affamato. Prima di pranzo gli uomini passeggiarono al solito lungo il marciapiedi della piazza parlando di cose indifferenti co- me la nuova assistente del dentista, la caccia, il prezzo dei bossoli, l'ultimo film arrivato in paese. E sfioravano con le loro giacchette il muso del cane che, ansimando, pendeva un poco giú dal bordo del muro. Gli sguardi trascorrevano sopra la bestia inferma, rimirando meccanicamente il mae- stoso panorama del fiume, cosí bello al tramonto. Verso le otto, venuti alcuni nuvoloni da nord, comincio a piovere e la piazza rimase deserta. Ma nel pieno della notte, sotto la pioggia insistente, ecco ombre sgusciare lungo le case come per una congiura de- littuosa. Curve e furtive esse si avviano a rapidi balzi ver- so la piazza e qui, confuse alle tenebre dei portici e degli androni, aspettano l'occasione propizia. I lampioni a que- st'ora mandano poca luce, lasciando vaste zone di buio. Quante sono le ombre? Forse decine. Portano da mangiare al cane ma ciascuno farebbe qualsiasi cosa pur di non es- sere riconosciuta. Il cane non dorme: a filo del muretto contro lo sfondo nero della valle, due punti verdi e fosfo- "rescenti; e di tanto in tanto un breve lamentoso ululato che" riecheggia nella piazza. una lunga manovra. Il volto nascosto da una sciarpa, il berretto da ciclista ben calato sulla fronte, uno finalmente si arrischia a raggiungere il cane. Nessuno esce dalle tene- "bre per riconoscerlo; tutti temono gi`a troppo per sé." Uno dopo l'altro, a lunghi intervalli per evitare incontri personaggi irriconoscibili depositano qualche cosa sul mu- retto del Duomo. E gli ululati cessano. Al mattino si trovo Galeone addormentato sotto una co- perta impermeabile. Sul muro, accanto, si ammucchiava ogni ben di Dio: pane, formaggio, trance di carne, perfino uno scodellone pieno di latte. Paralizzato il cane, il paese credette di poter respirare ma fu breve illusione. Dal ciglio del muretto gli occhi della bestia dominavano gran parte dell'abitato. Almeno una buo- na met`a di Tis si trovava sotto il suo controllo. E chi po- teva sapere quanto fossero acuti i suoi sguardi? Anche nel- le case periferiche sottratte alla vigilanza di Galeone, arri- vava del resto la sua voce. E poi come adesso riprendere le abitudini di un tempo? Equivaleva ad ammettere che si era cambiata vita a motivo del cane, a confessare sconciamente il segreto superstizioso custodito con tanta cura per anni. Lo stesso Defendente, il cui forno era escluso dalla visuale della bestia, non riprese le sue famose bestemmie né riten- tava le operazioni di recupero dalla finestrella della can- tina. Galeone ora mangiava anche piú di prima e, non facendo piú moto, ingrassava come un porco. Chiss`a quanto sareb- be campato ancora. Coi primi freddi pero rinacque la spe- ran~a che crepasse. Benché riparato dalla tela cerata, il cane era esposto ai venti e un cimurro poteva sempre prender- selo Ma anche stavolta il maligno Lucioni rovino ogni illusione, Una sera, in trattoria, raccontando una storia di caccia, dis- se che molti anni prima, per aver passato una notte sotto "la neve, il suo bracco era diventato idrofobo; e aveva do-" "vuto ucciderlo con una schioppettata; gli piangeva ancora" il cuore al ricordo. « E quel cagnaccio » era sempre il cavalier Bernardis a toc- care gli argomenti sgraditi « quel brutto cagnaccio con la paralisi, sul muretto del Duomo, che certi imbecilli conti- nuano a rifornire, dico, non ci sar`a mica il pericolo con questo cagnaccio ? » « Ma che diventi pur rabbioso ! » fece Defendente. « Tan- to, non e piú capace di muoversi! » « E chi te lo dice? » ribatté il Lucioni. « L'idrofobia mol- tiplica le forze. Non mi meraviglierei se cominciasse a sal- tare come un capriolo! » Il Bernardis resto interdetto: « Be', e allora ». « Ah, io per me, io me ne frego, Io me lo porto sempre dietro un amico sicuro » e il Lucioni trasse di tasca una pe- sante rivoltella. I « Tu ! tu ! » fece il Bernardis, a Tu che non hai figli ! Se tu avessi tre bambini come me, non te ne fregheresti, sta' sicuro. » « Io ve l'ho detto. Pensateci voi adesso! » Il capomastro lucidava sulla manica la canna della pistola. l XI Quanti anni sono dunque passati dalla morte dell'eremita? Tre, quattro, cinque, chi se ne ricorda piú ? Ai primi di novembre il gabbiotto di legno per riparare il cane e quasi pronto. In termini molto spicci, trattandosi evidentemente di una faccenda di pochissimo conto, se ne e parlato anche in sede di consiglio comunale. E nessuno che abbia avan- zato la proposta, molto piú semplice, di ammazzare la be- stia o trasportarla altrove. Il falegname Stefano e stato in- caricato di costruire la cuccia in modo che possa essere fis- sata sopra il muretto, verniciata in rosso affinché non stoni col colore della facciata del Duomo, tutta in mattoni vivi. « Che indecenza, che stupidit`a! » dicono tutti a dimostrare che l'idea e degli altri. La paura per il cane che ha visto Dio non e piú dunque un segreto? Ma il gabbiotto non sar`a mai collocato in opera. Ai primi di novembre un garzone del fornaio che alle 4 del mattino per recarsi al lavoro passa sempre per la piazza awista ai piedi del muretto una cosa immobile e nera. Si awicina tocca, vola di corsa fino al forno. · F « E che succede adesso? » chiede Defendente, vedendolo entrare tutto affannato. « E morto ! e morto! » balbetta ansando il ragazzo. « Chi e morto ? » « Quel cane della malora... l'ho trovato per terra, era duro come un sasso ! » XXII Respirarono? Si diedero alla pazza gioia? Quell'incomodo pezzetto di Dio se n'era finalmente andato, e vero, ma trop- po tempo c'era ormai di mezzo. Come tornare indietro? Come ricominciare da capo? In quegli anni i giovani ave- vano gi`a preso abitudini diverse. La messa della domenica dopo tutto era uno svago. E anche le bestemmie, chiss`a co- me, davano adesso un suono esagerato e falso. Si era previ- sto insomma un gran sollievo e invece niente. E poi: se si fossero riprese le libere costumanze di prima non era come confessare tutto quanto? Tanta fatica per te- nerla nascosta, e adesso metter fuori la vergogna al sole? Un paese che aveva cambiato vita per rispetto di un cane! Ne avrebbero riso fin di l`a dei confini. E intanto: dove seppellire la bestia? Nel giardino pub- blico No, no, mai nel cuore del paese, la gente ne aveva avuto abbastanza. Nella fogna. Gli uomini si guardarono l'un l'altro, nessuno osava pronunciarsi. « Il regolamento non lo contempla » noto alla fine il segretario comunale, to- gliendoli dall'imbarazzo. Cremarlo nella fornace? E se poi avesse provocato infezioni? Sotterrarlo allora in campagna, ecco la soluzione giusta. Ma in quale campagna? Chi avreb- be acconsentitO ? Gi`a cominciavano a questionare, nessuno voleva il cane morto nei propri fondi. E se lo si fosse sepolto vicino all'eremita? Chiuso in una piccola cassettina, il cane che aveva visto Dio viene dunque caricato sopra una carretta e parte verso le colline. E3 una domenica e parecchi ne prendono pretesto per fare una gita. Sei, sette carrozze cariche di uomini e donne seguono la cassettina, e la gente si sforza di essere allegra. Certo, benché il sole splenda, i campi gi`a infred- dolitl e gll alberi senza foglie non fanno un gran bel ve- dere. Arrivano alla collinetta, discendono di carrozza, si avvia- no a piedi verso i ruderi dell'antica cappella. I bambini cor- rono avanti. « Mamma! mamma! » si ode gridare di lassú. « Presto! Venite a vedere ! » Affrettano il passo, raggiungono la tomba di Silvestro. Da quel giorno lontano dei funerali nessuno e mai tornato quassú Ai piedi della croce di legno, proprio sopra il tu- mulo dell'eremita, giace un piccolo scheletro. Nevi, venti e piogge lo hanno tutto logorato, lo han fatto gracile e bianco come una filigrana. Lo scheletro di un cane. r l .. . QUALCOSA ERA SUCCESSO Il treno aveva percorso solo pochi chilometri (e la strada era lunga, ci saremmo fermati soltanto alla lontanissima sta- zione d'arrivo, cosí correndo per dieci ore filate) quando a un passaggio a livello vidi dal finestrino una giovane don- na Fu un caso, potevo guardare tante altre cose invece lo sguardo cadde su di lei che non era bella né di sagoma pia- cente, non aveva proprio niente di straordinario, chiss`a per- ché mi capitava di guardarla. Si era evidentemente appog- giata alla sbarra per godersi la vista del nostro treno, su- perdirettissimo, espresso del nord, simbolo per quelle po- polazioni incolte, di miliardi, vita facile, avventurieri, splen- dide valige di cuoio, celebrit`a, dive cinematografiche, una volta al giorno questo meraviglioso spettacolo, e assoluta- mente gratuito per giunta. Ma come il treno le passo davanti lei non guardo dalla nostra parte (eppure era l`a ad aspettare forse da un'ora) bensí teneva la testa voltata indietro badando a un uomo che arrivava di corsa dal fondo della via e urlava qualcosa che noi naturalmente non potemmo udire: come se accor- resse a precipizio per awertire la donna di un pericolo. Ma fu un attimo: la scena volo via, ed ecco io mi chiedevo quale affanno potesse essere giunto, per mezzo di quell'uo- mo, alla ragazza venuta a contemplarci. E stavo per addor- mentarmi al ritmico dondolio della vettura quando per caso - certamente si trattava di una pura e semplice combina- zione- notai un contadino in piedi su un muretto che chia- mava chiamava verso la campagna facendosi delle mani portavoce Fu anche questa volta un attimo perché il diret- tissimo filava eppure feci in tempo a vedere sei sette persone che accorrevano attraverso i prati, le coltivazioni, l'erba me- dica, non importa se la calpestavano, doveva essere una cosa assai importante. Venivano da diverse direzioni chi da una casa, chi dal buco di una siepe chi da un filare di viti o che so io, diretti tutti al muriccioio con sopra il giovane chia- mánte. Correvano, accidenti se correvano, si sarebbero detti spaventati da qualche avvertimento repentino che li incurio- siva terribilmente, togliendo loro la pace della vita. Ma fu un attimo, ripeto, un baleno, non ci fu tempo per altre osservazioni. Che strano, pensai, in pochi chilometri gi`a due casi di gente che riceve una improvvisa notizia, cosí almeno presu- mevo. Ora, vagamente suggestionato, scrutavo la campagna, le strade, i paeselli, le fattorie, con presentimenti ed inquie- tudini. Forse dipendeva da questo speciale stato d'animo, ma piú osservavo la gente, contadini, carradori, eccetera, piú mi sembrava che ci fosse dappertutto una inconsueta animazio- ne. Ma sí, perché quell'andirivieni nei cortili, quelle donne affannate, quei carri, quel bestiame? Dovunque era lo stes- so. A motivo della velocit`a era impossibile distinguere bene eppure avrei giuratO che fosse la medesima causa dovunque. Forse che nella zona si celebravan sagre? Che gli uomini si disponessero a raggiungere il mercato? Ma il treno andava e le campagne erano tutte in fermento, a giudicare dalla con- fusione. E allora misi in rapporto la donna del passaggio a livello, il giovane sul muretto, il viavai dei contadini: qual- che cosa era successo e noi sul treno non ne sapevamo niente. Guardai i compagni di viaggio, quelli dello scomparti- mento, quelli in piedi nel corridoio. Essi non si erano ac- corti. Sembravano tranquilli e una signora di fronte a me sui sessant'anni stava per prender sonno. O invece sospet- tavano? Sí, sí, anche loro erano inquieti, uno per uno, e non osavano parlare Piú di una volta li sorpresi, volgendo gli occhi repentini, guatare fuori. Specialmente la signora sonnolenta, proprio lei, sbirciava tra le palpebre e poi su- bito mi controllava se mai l'avessi smascherata. Ma di che avevano paura? Napoli. Qui di solito il treno si ferma. Non oggi il diret- tissimo. Sfilarono rasente a noi le vecchie case e nei cortili oscuri vedemmo finestre illuminate e in quelle stanze - fu un attimo - uomini e donne chini a fare involti e chiudere valige, cosí pareva. Oppure mi ingannavo ed erano tutte fantasie ? Si preparavano a partire. Per dove? Non una notizia fau- sta dunque elettrizzava citt`a e campagne. Una minaccia, un pericolo, un avvertimento di malora. Poi mi dicevo: ma se ci fosse un grosso guaio, avrebbero pure fatto fermare il "treno; e il treno invece trovava tutto in ordine, sempre se-" gnali di via libera, scambi perfetti, come per un viaggio inaugurale. Un giovane al mio fianco, con l'aria di sgranchirsi, si era alzato in piedi. In realt`a voleva vedere meglio e si curvava sopra di me per essere piú vicino al vetro. Fuori, le cam- pagne, il sole, le strade bianche e sulle strade carriaggi, ca- mion, gruppi di gente a piedi, lunghe carovane come quelle che traggono ai santuari nel giorno del patrono. Ma erano tanti, sempre piú folti man mano che il treno si avvicinava al nord. E tutti avevano la stessa direzione, scendevano verso mezzogiorno, fuggivano il pericolo mentre noi gli si an- dava direttamente incontro, a velocit`a pazza ci precipitavamo verso la guerra, la rivoluzione, la pestilenza, il fuoco, che cosa poteva esserci mai? Non lo avremmo saputo che fra cinque ore, al momento dell'arrivo, e forse sarebbe stato troppo tardi. Nessuno diceva niente. Nessuno voleva essere il primo a cedere Ciascuno forse dubitava di sé, come facevo io, nel- L'incertezza se tutto quell'allarme fosse reale o semplicemen- te un'idea pazza, allucinazione, uno di quei pensieri assurdi che infatti nascono in treno quando si e un poco stanchi. La signora di fronte trasse un sospiro, simulando di essersi svegliata, e come chi uscendo dal sonno leva gli sguardi meccanicamente, cosí lei alzo le pupille fissandole, quasi per caso, alla maniglia del segnale d'allarme. E anche noi tutti guardammo l'ordigno, con l'identico pensiero. Ma nessuno parlo o ebbe l'audacia di rompere il silenzio o semplicemen- mente oso chiedere agli altri se avessero notato, fuori, qual- che cosa di allarmante. Ora le strade formicolavano di veicoli e gente, tutti in cammino verso il sud. Rigurgitanti i treni che ci venivano incontro. Pieni di stupore gli sguardi di coloro che da terra ci vedevano passare, volando con tanta fretta al settentrione. E zeppe le stazioni. Qualcuno ci faceva cenno, altri ci urla- vano delle frasi di cui si percepivano soltanto le vocali come echi di montagna. La signora di fronte prese a fissarmi. Con le mani piene di gioielli cincischiava nervosamente un fazzo1etto e intanto i suoi sguardi supplicavano: parlassi, finalmente, li sollevas- si da quel silenzio, pronunciassi la domanda che tutti si aspettavano come una grazia e nessuno per primo osava fare. Ecco un'a!tra citt`a. Come il treno, entrando nella stazione, rallento un poco, due tre si alzarono non resistendo alla spe- ranza che il macchinista fermasse. Invece si passo, fragoroso turbine, lungo le banchine dove una folla inquieta si accal- cava anelando a un convoglio che partisse, tra caotici mucchi di bagagli. Un ragazzino tento di rincorrerci con un pacco di giornali e ne sventolava uno che aveva un grande titolo nero in prima pagina. Allora con un gesto repentino, la signora di fronte a me si sporse in fuori, riuscí ad abbrancare il fo- glio ma il vento della corsa glielo strappo via. Tra le dita resto un brandello. Mi accorsi che le sue mani tremavano nell'atto di spiegarlo. Era un pezzetto triangolare. Si leggeva la testata e del gran titolo solo quattro lettere. IONE, si leg- geva. Nient'altro. Sul verso, indifferenti notizie di cronaca. QUALCOSA ERA SUCCESSO Senza parole, la signora alzo un poco il frammento affin- ché tutti lo potessero vedere. Ma tutti avevamo gi`a guardato. E si finse di non farci caso. Crescendo la paura, piú forte in ciascuno si faceva quel ritegno. Verso una cosa che finisce in IONE noi correvamo come pazzi, e doveva essere spaven- tosa se, alla notizia, popolazioni intere si erano date a imme- diata fuga. Un fatto nuovo e potentissimo aveva rotto la vita del Paese, uomini e donne pensavano solo a salvarsi, abbandonando case, lavoro, affari, tutto, ma il nostro treno no, il maledetto treno marciava con la regolarit`a di un oro- logio, al modo del soldato onesto che risale le turbe del- l'esercito in disfatta per raggiungere la sua trincea dove il nemico gi`a sta bivaccando. E per decenza, per un rispetto umano miserabile, nessuno di noi aveva il coraggio di rea- gire Oh i treni come assomigliano alla vita! Mancavano due ore. Tra due ore, all'arrivo, avremmo sa- puto la comune sorte. Due ore, un'ora e mezzo, un'ora, gi`a scendeva il buio. Vedemmo di lontano i lumi della sospirata nostra citt`a e il ioro immobile splendore riverberante un giallo alone in cielo ci ridiede un fiato di coraggio. La loco- motiva emise un fischio, le ruote strepitarono sul labirinto degli scambi. La stazione, la curva nera delle tettoie, le lam- pade, i cartelli, tutto era a posto come il solito. Ma, orrore!, il direttissimo ancora andava e vidi che la stazione era deserta, vuote e nude le banchine, non una fi- gura umana per quanto si cercasse. Il treno si fermava final- mente. Corremmo giú per i marciapiedi, verso l'uscita, alla caccia di qualche nostro simile. Mi parve di intravedere, nel- l'angolo a destra in fondo, un po' in penombra, un ferro- viere col suo berrettuccio che si eclissava da una porta, come terrorizzatoChe cosa era successo? In citt`a non avremmo piú trovato un'anima? Finché la voce di una donna, altissi- ma e violenta come uno sparo, ci diede un brivido. « Aiuto ! Aiuto! » urlava e il grido si ripercosse sotto le vitree volte con la vacua sonorit`a dei luoghi per sempre abbandonati. zz I TOPI Che ne e degli amici Corio? Che sta accadendo nella loro vecchia villa di campagna, detta la Doganella? Da tempo immemorabile ogni estate mi invitavano per qualche setti- mana. Quest'anno per la prima volta no. Giovanni mi ha scritto poche righe per scusarsi. Una lettera curiosa, che al- "lude in forma vaga a difficolt`a o a dispiaceri familiari; e che" non spiega niente. Quanti giorni lieti ho vissuto in casa loro, nella solitu- dine dei boschi Dai vecchi ricordi oggi per la prima volta affiorano dei piccoli fatti che allora mi parvero banali o in- differenti. E all'improvviso si rivelano. Per esempio, da un'estate lontanissima, parecchio prima della guerra- era la seconda volta che andavo ospite dei Corio - torna a mente la seguente scena: Mi ero gi`a ritirato nella camera d'angolo al secondo pia- no, che dava sul giardino - anche gli anni successivi ho dor- mito sempre l`a- e stavo andando a letto. Quando udii un piccolo rumore, un grattamento alla base della porta. Andai ad aprire. Un minuscolo topo sguscio tra le mie gambe, at- traverso la camera e ando a nascondersi sotto il cassettone. Correva in modo goffo, avrei fatto in tempo benissimo a schiacciarlo. Ma era cosí grazioso e fragile. Per caso, il mattino dopo, ne parlai a Giovanni. « Ah, sí » fece lui distratto « ogni tanto qualche topo gira per la casa. » « Era un sorcio piccolissimo... non ho avuto neanche il co- raggio di... » « Sí, me lo immagino. Ma non ci fare caso... » Cambio argomento, pareva che il mio discorso gli spiacesse. L'anno dopo. Una sera si giocava a carte, sar`a stata mez- zanotte e mezzo, dalla stanza vicina - il salotto dove a quel- l'ora le luci erano spente - giunse un clac, suono metallico come di una molla. « Cos'e? » domando io. « Non ho sen- tito niente » fa Giovanni evasivo. « Tu Elena hai sentito qualche cosa ? » « Io no » gli risponde la moglie, facendosi un po' rossa. « Perché? » Io dico: « Mi sembrava che di l`a in salotto... un rumore metallico... ». Notai un velo di im- barazzo. « Bene, tocca a me fare le carte? » Neanche dieci minuti dopo, un altro clac, dal corridoio questa volta, e accompagnato da un sottile strido, come di bestia. « Dimmi, Giovanni » io chiedo « avete messo delle t trappole per topi ? » « Che io sappia, no. Vero, Elena ? Sono state messe delle trappole ? » Lei: « E che vi salta in mente ? Per i pochi topi che ci sono! ». _ Passa un anno Appena entro nella villa, noto due gatti magnifici, dotati di straordinaria animazione: razza soriana, muscolatura atletica, pelo di seta come hanno i gatti che si nutrono di topi. Dico a Giovanni: « Ah, dunque vi siete decisi finalmente. Chiss`a che spaventose scorpacciate fanno. Di topi qui non ci sar`a penuria ». « Anzi » fa lui « solo di quando in quando... Se dovessero vivere solo di topi... » « Pero li vedo belli grassi, questi mici. » « Gi`a, stanno bene, la faccia della salute non gli manca. Sai, in cucina trovano ogni ben di Dio. » Passa un altro anno e come io arrivo in villa per le mie solite vacanze, ecco che ricompaiono i due gatti. Ma non sembrano piú quelli non vigorosi e alacri, bensí cascanti, smorti, magri. Non guizzano piú da una stanza all'altra ce- lermente Al contrario, sempre tra i piedi dei padroni, son- nolenti, privi di qualsiasi iniziativa. Io chiedo: « Sono ma- lati? Come mai cosí sparuti? Forse non hanno piú topi da mangiare? ». « L'hai detto » risponde Giovanni Corio viva- mente. « Sono i piú stupidi gatti che abbia visto. Hanno messo il muso da quando in casa non esistono piú topi... Neanche il seme ci e rimasto! » E soddisfatto fa una gran risata. Piú tardi Giorgio, il figlio piú grandicello, mi chiama in disparte con aria di complotto: « Sai il motivo qual e? Han- no paura! ». « Chi ha paura? » E lui: « I gatti, hanno paura. Pap`a non vuole mai che se ne parli, e una cosa che gli d`a fastidio. Ma e positivo che i gatti hanno paura ». « Paura di chi ? » « Bravo! Dei topi ! In un anno, da dieci che erano, quelle bestiacce sono diventate cento... E altro che i sorcet- tini d'una volta! Sembrano delle tigri. Piú grandi di una talpa, il pelo ispido e di colore nero. Insomma i gatti non osano attaccarli. » « E voi non fate niente? » « Mah, qual- cosa si dovr`a pur fare, ma il pap`a non si decide mai. Non capisco il perché, ma e un argomento che e meglio non toc- care, lui diventa subito nervoso... » E l'anno dopo, fin dalla prima notte, un grande strepito sopra la mia camera come di gente che corresse. Patatrúm, patatrúm. Eppure so benissimo che sopra non ci puo essere nessuno, soltanto la inabitabile soffitta, piena di mobili vec- "chi, casse e simili. ""Accidenti che cavalleria"" mi dico ""de-" "vono essere ben grossi questi topi."" Un tal rumore che stento" a addormentarmi. Il giorno dopo, a tavola, domando: « Ma non prendete nessun provvedimento contro i topi? In soffitta c'era la sara- banda, questa notte ». Vedo Giovanni che si scurisce in vol- to: « I topi? Di che topi parli? In casa grazie a Dio non ce n'e piú ». Anche i suoi vecchi genitori insorgono: « Mac- ché topi d'Egitto. Ti sarai sognato, caro mio ». « Eppure » dico « vi garantisco che c'era il quarantotto, e non esagero. In certi momenti ho visto il soffitto che tremava. » Giovanni s'e fatto pensieroso: « Sai che cosa puo essere? Non te n'ho mai parlato perché c'e chi si impressiona, ma in questa casa ci sono degli spiriti. Anch'io li sento spesso... E certe notti hanno il demonio in corpo! ». Io rido: « Non mi prende- rai mica per un ragazzetto, spero! Altro che spiriti. Quelli erano topi, garantito, topacci, ratti, pantegane!... E a pro- posito, dove sono andati a finire i due famosi gatti ? ». « Li abbiamo dati via, se vuoi sapere... Ma coi topi hai la fissa- zione! Possibile che tu non parli d'altro!... Dopo tutto, que- sta e una casa di campagna, non puoi mica pretendere che... » Io lo guardo sbalordito: ma perché si arrabbia tanto? Lui, di solito cosí gentile e mite. Piú tardi e ancora Giorgio, il primogenito, a farmi il quadro della situazione. « Non credere a pap`a » mi dice. « Quelli che hai sentito erano proprio topi, alle volte anche noi non riusciamo a prender sonno. Tu li vedessi, sono d~ "mostri, sono; neri come il carbone, con delle setole che sem-" bran degli stecchi... E i due gatti, se vuoi sapere, sono stati loro a farli fuori... :E successo di notte. Si dormiva gi`a da un paio d'ore e dei terribili miagolii ci hanno svegliato. In salotto c'era il putiferio. Allora siamo saltati giú dal letto, ma dei gatti non si e trovata traccia... Solo dei ciuffi di pe- lo... delle macchie di sangue qua e l`a. » « Ma non provvedete ? Trappole ? Veleni ? Non capisco come tuo pap`a non si preoccupi... » « Come no? Il suo assillo, e diventato. Ma anche lui ades- so ha paura, dice che e meglio non provocarli, che sarebbe peggio. Dice che, tanto, non servirebbe a niente, che ormai sono diventati troppi... Dice che l'unica sarebbe dar fuoco alla casa... E poi, poi sai cosa dice? E ridicolo a pensarci. Dice che non conviene mettersi decisamente contro. >« Con- tro chi ? » « Contro di loro, i topi. Dice che un giorno, quando saranno ancora di piú, potrebbero anche vendicar- si... Alle volte mi domando se pap`a non stia diventando un poco matto Lo sai che una sera l'ho sorpreso mentre but- tava una salsiccia giú in cantina? Il bocconcino per i cari animaletti ! Li odia ma li teme. E li vuol tenere buoni. » Cosí per anni. Finché l'estate scorsa aspettai invano che sopra la mia camera si scatenasse il solito tumulto. Silenzio, finalmente. Una gran pace. Solo la voce dei grilli dal giar- dino, Al mattino, sulle scale incontro Giorgio: « Complimenti » gli dico « ma mi sai dire come siete riusciti a far piazza pu- lita? Questa notte non c'era un topolino in tutta la soffitta ». Giorgio mi guarda con un sorriso incerto. Poi: « vieni vie- ni » risponde « vieni un po' a vedere». Mi conduce in cantina, l`a dove c'e una botola chiusa da un portello: « Sono laggiú adesso » mi sussurra. « Da qual- che mese si sono tutti riuniti qui sotto, nella fogna Per la casa non ne girano che pochi Sono qui sotto... ascolta... » Tacque. E attraverso il pavimento giunse un suono diffi- cilmente descrivibile: un brusío, un cupo fremito, un rom- "bo sordo come di materia inquieta e viva che fermenti; e" frammezzo pure delle voci, piccole grida acute, fischi, sus- surri. « Ma quanti sono? » chiesi con un brivido. « Chiss`a. Milioni forse... Adesso guarda, ma fa presto. » Accese un fiammifero e, sollevato il coperchio della botola. lo lascio cadere giú nel buco. Per un attimo io vidi: in una specie di caverna, un frenetico brulichio di forme nere, ac- cavallantisi in smaniosi vortici E c'era in quel laido tumulto una potenza, una vitalit`a infernale, che nessuno avrebbe piú fermato. I topi! Vidi anche un luccicare di pupille, migliaia e migliaia, rivolte in su, che mi fissavano cattive. Ma Gior- gio chiuse il coperchio con un tonfo. E adesso? Perché Giovanni ha scritto di non potere piú invitarmi ? Cosa e successo ? Avrei la tentazione di fargli una visita, pochi minuti basterebbero, tanto per sapere. Ma con- fesso che non ne ho il coraggio. Da varie fonti mi sono giunte strane voci. Talmente strane che la gente le ripete come favole, e ne ride Ma io non rido. Dicono per esempio che i due vecchi genitori Corio siano morti. Dicono che nessuno esca piú dalla villa e che i viveri glieli porti un uomo del paese, lasciando il pacco al limite "del bosco. Dicono che nella villa nessuno possa entrare; che" enormi topi l'abbiano occupata: e che i Corio ne siano gli schiavi. Un contadino che si e avvicinato - ma non molto perché sulla soglia della villa stava una dozzina di bestiacce in at- teggiamento minaccioso - dice di aver intravisto la signora Elena Corio, la moglie del mio amico, quella dolce e ama- bile creatura. Era in cucina, accanto al fuoco, vestita come "una pezzente; e rimestava in un immenso calderone, mentre" intorno grappoli fetidi di topi la incitavano, avidi di cibo. Sembrava stanchissima ed afflitta. Come scorse l'uomo che guardava, gli fece con le mani un gesto sconsolato, quasi volesse dire: « Non datevi pensiero. E troppo tardi. Per noi non ci sono piú speranze ». APPUNTAMENTO CON EINSTEIN In un tardo porneriggio dell'ottobre scorso, Alberto Einstein dopo una giornata di lavoro, passeggiava per i viali di Prin- ceton, e quel giono era solo, quando gli capito una cosa straordinaria. A un tratto, e senza nessuna speciale ragione, il pensiero correndo qua e l`a come un cane liberato dal guin- zaglio, egli concepí quello che per l'intera vita aveva sperato inutilmente. D'un subito Einstein vide intorno a sé lo spazio cosiddetto curvo, e lo poteva rimirare per diritto e per ro- vescio, come voi questo volume. Dicono di solito che la nostra mente non riuscir`a mai a concepire la curvatura dello spazio, lunghezza larghezza spessore e in piú una quarta dimensione misteriosa di cui "l'esistenza e dimostrata ma e proibita al genere umano; come" una muraglia che ci chiude e l'uomo, dirittamente volando a cavallo della sua mente mai sazia, sale, sale e ci sbatte contro. Né Pitagora né Platone né Dante, se oggi fossero ancora al mondo, neppure loro riuscirebbero a passare, la verit`a essendo piú grande di noi. Altri invece dicono che sia possibile, dopo anni e anni di applicazione, con uno s~orzo gigantesco del cervello. Qual- che scienziato solitario - mentre intorno il mondo smaniava, mentre fumavano i treni e gli alti forni, o milioni crepa- vano in guerra o nel crepuscolo dei parchi cittadini gli inna- morati si baciavano la bocca - qualche scienziato, con eroica prestazione mentale, tale almeno e la leggenda, arrivo a scor- gere (magan per pochi istanti solo, come se si fosse sporto sopra un abisso e poi subito lo avessero tirato indietro) a vedere e contemplare lo spazio curvo, sublimit`a ineffabile della creazione. Ma il fenomeno aweniva nel silenzio e non ci furono feste al temerario. Non fanfare, interviste, medaglie di be- nemerenza perché era un trionfo assolutamente personale e lui poteva dire: ho concepito lo spazio curvo, pero non ave- va documenti, fotografie o altro per dimostrare che era vero. Quando pero questi momenti arrivano e quasi da una sot- tile feritoia il pensiero con una suprema rincorsa passa di l`a, nell'universo a noi proibito, e cio che prima era formula inerte, nata e cresciuta al di fuori di noi, diventa la nostra "stessa vita; oh, allora di colpo si sciolgono i nostri tridimen-" sionali affanni e ci si sente - potenza dell'uomo! - immersi e sospesi in qualche cosa di molto simile all'eterno. Tutto questo ebbe il professor Alberto Einstein, in una sera di ottobre bellissima, mentre il cielo pareva di cristallo, qua e l`a cominciavano a risplendere, gareggiando col pianeta Venere, i globi dell'illuminazione elettrica, e il cuore, questo strano muscolo, godeva della benevolenza di Dio! E benché egli fosse un uomo saggio, che non si preoccupava della gloria, tuttavia in quei momenti si considero fuori del greg- ge come un miserabile tra i miserabili che si accorge di avere le tasche piene d'oro. Il sentimento dell'orgoglio si impadro- ní quindi di lui. Ma proprio allora, quasi a punizione, con la stessa rapi- dit`a con cui era venuta, quella misteriosa verit`a disparve. Contemporaneamente Einstein si accorse di trovarsi in un posto mai prima veduto. Egli camminava cioe in un lungo viale costeggiato tutto da siepi, senza case né ville né barac- che. C'era soltanto una colonnetta di benzina a strisce gialle e nere, sormontata dalla testa di vetro accesa. E vicino, su un panchetto di legno, un negro in attesa dei clienti. Costui portava un paio di calzoni-grembiule e in testa un berretto rosso da baseball. Einstein lo aveva appena sorpassato, che il negro si alzo, I fece alcuni passi verso di lui e: « Signore! » disse. Cosí in piedi, risultava altissimo, piú bello che brutto, di fattezze "africane, formidabile; e nella vastit`a azzurra del vespero il" suo sorriso bianco risplendeva. « Signore » disse il negro « avete fuoco ? » e mostrava un mozzicone di sigaretta. « Non fumo » rispose Einstein fermatosi piú che altro per la meraviglia. Il negro allora: « E non mi pagate da bere? ». Era alto, giovane, selvaggio. Einstein cerco invano nelle tasche: « Non so... con me non ho niente... non ho l'abitudine... spiacente proprio ». E fece per andare. « Grazie lo stesso » disse il negro « ma... scusate... » « Che cosa vuoi ancora? » fece Einstein. « Ho bisogno di voi. Sono qui apposta. » « Bisogno di me? Ma che cosa... ? » Il negro disse: « Ho bisogno di voi per una cosa segreta. E non la diro che nell'orecchio ». I suoi denti biancheggia- vano piú che mai perché intanto si era fatto buio. Poi si chi- no all'orecchio dell'altro: « Sono il diavolo Iblís » mormoro « sono l'Angelo della Morte e devo prendere la tua anima ». Einstein arretro di un passo. « Ho l'impressione » la voce si era fatta dura « ho l'impressione che tu abbia bevuto troppo. » « Sono l'Angelo della Morte » ripeté il negro. « Guarda. » Si avvicino alla siepe, ne strappo un ramo e in pochi istanti le foglie cambiarono colore, si accartocciarono, poi divennero grigie. Il negro ci soffio sopra. E tutto, foglie, rametti e gambo volo via in una polvere minuta. Einstein chino il capo: « Accidenti. Ci siamo allora... Ma proprio qui, stasera... sulla strada? » « Questo e l'incarico che ho avuto. » Einstein si guardo intorno, ma non c'era anima viva. Il viale, i lampioni accesi e laggiú in fondo, all'incrocio, luci "di automobili. Guardo anche il cielo; il quale era limpido," con tutte le sue stelle a posto. Venere proprio allora tramon- tava. Einstein disse: « Senti, dammi tempo un mese. Proprio adesso sei venuto che sto per terminare un mio lavoro. Non ti chiedo che un mese ». « Cio che tu vuoi scoprire » fece il negro « lo saprai su- bito di l`a, basta che tu mi segua. » « Non e lo stesso. Che conta cio che sapremo di l`a senza fatica? un lavoro di notevole interesse, il mio. Ci fatico da trent'anni. E ormai mi manca poco... » Il negro sogghigno: «Un mese, hai detto?... Ma fra un mese non cercare di nasconderti. Anche se ti ttasferissi nella miniera piú profonda, l`a io ti sapro subito trovare ». Einstein voleva ancora fargli una domanda, ma l'altro si era dileguato. Un mese e lungo se si aspetta la persona amata, e molto breve se chi deve giungere e il messaggero della morte, piú corto di un respiro. Passo l'intero mese e di sera, riuscito a restar solo, Einstein si porto sul luogo convenuto. C'era la colonnetta di benzina e c'era la panca con il negro, solo cI)~ adesso sopra la tuta aveva un vecchio cappotto militare: í'a- ceva freddo, infatti. « Sono qui » disse Einstein, toccandogli una spalla con la mano. « E quel lavoro? Terminato? » « Non e finito » disse lo scienziato mestamente. « Lascia- mi ancora un mese! Mi basta, giuro. Stavolta sono sicuro di riuscire. Credimi: ci ho dato dentro giorno e notte ma non ho fatto in tempo. Pero mi manca poco. » Il negro, senza voltarsi, alzo le spalle: « Tutti uguali voi uomini Non siete mai contenti. Vi inginocchiate per avere una proroga. E poi c'e sempre qualche pretesto buono... ». « Ma e una cosa difficile, quella a cui lavoro. Mai nes- suno. » « Oh, conosco, conosco » fece l'Angelo della Morte. « Stai cercando la chiave dell'universo, vero? » Tacquero. C'era nebbia, notte gi`a da inverno, disagio, voglia di restare in casa. « E allora? » chiese Einstein. « Allora va... Ma un mese passa presto. » Passo sveltissimo. Mai quattro settimane furono divorate con tanta avidit`a dal tempo. E soffio un vento gelido quella sera di dicembre, facendo scricchiolare sull'asfalto le ultime raminghe foglie: all'aria tremolava, di sotto al basco, la bianca criniera del sapiente. C'era sempre la colonnetta di benzina, e accanto c'era il negro con un passamontagne in testa, accoccolato come se dormisse. Einstein gli si fece vicino, timidarnente gli tocco una spal- la. « Eccomi qui. » Il negro si stringeva nel cappotto, batteva i denti per il freddo. « Sei tu? » « Sí, sono io. » « Finito, allora? » « Sí grazie a Dio, ho finito. » « Terminato il grande match ? Hai trovato quello che cercavi? Hai schiodato l'universo? » Einstein tossicchio: « Sí » disse scherzosamente « in certo modo l'universo adesso e in ordine ». « Allora vieni? Sei ben disposto al viaggio? » « Eh, certo. Questo era nei patti. » D'un botto il negro balzo in piedi e fece una risata das- sica da negro. Poi diede, con l'indice teso della destra, un colpo sullo stomaco di Einstein, che quasi perse l'equilibrio. « Va, va, vecchia canaglia... Torna a casa e corri, se non vuoi prenderti una congestione polmonare... Di te, per ora, non me ne importa niente. » «Mi lasci?... E allora, perché tutte quelle storie?» « Importava che tu finissi il tuo lavoro. Nient'altro. E ci sono riuscito... Dio sa, se non ti mettevo quella paura ad- dosso, quanto l'avresti tirata ancora in lungo. » «Il mio lavoro? E che te ne importava?» Il negro rise: « A me niente... Ma sono i capi, laggiú, i demoni grossi. Dicono che gi`a le tue prime scoperte gli erano state di estrema utilit`a... Tu non ne hai colpa, ma e cosí. Ti piaccia o no, caro professore, l'Inferno se ne e gio- vato molto... Ora fa assegnamento sulle nuove... » « Sciocchezze! » disse irritato Einstein. « Che vuoi trovare al mondo di piú innocente? Piccole formulette sono, pure astrazioni, inoffensive, disinteressate... » « E bravo! » grido Iblís, dandogli un altro botto con il dito, nel mezzo dello stomaco. « E bravo! Cosí, mi avreb- bero spedito per niente? Si sarebbero sbagliati, secondo te?... No, no, tu hai lavorato bene. I miei, laggiú, saranno soddi- sfatti... Oh se tu sapessi ! » « Se io sapessi cosa? » Ma l'altro era svanito. Né si vedeva piú la colonnetta di benzina. Neppure lo sgabello. Solo la notte, e il vento e lontano, laggiú, un andirivieni di automobili. A Princeton, New Jersey. GLI AMICI Il liutaio Amedeo Torti e la moglie stavano prendendo il caffe. I bambini erano gi`a andati a letto. I due tacevano, come succedeva spesso. A un tratto lei: « Vuoi che ti dica una cosa...? tutto il giorno che ho una sensazione strana... Come se questa sera dovesse venire a trovarci Appacher. » « Ma non dirle neanche per scherzo queste cose! » fece il marito con un gesto di fastidio. Infatti Toni Appacher, violinista, suo vecchio intimo amico, era morto venti giorni prima. « Lo so, lo so che e orribile » disse lei « ma e un'idea da cui non riesco a liberarmi. » « Eh, magari... » mormoro il Torti con una vaga contri- zione ma senza voler approfondire l'argomento. E scosse il capo. Tacquero ancora. Erano le dieci meno un quarto. Poi suo- no il campanello della porta. Piuttosto lungo, perentorio. Entrambi ebbero un sussulto. « Chi sar`a a quest'ora? » disse lei. Si udí in anticamera il passo strascicato della Ines, la porta che veniva aperta, poi un sommesso parlottare. La ragaza si affaccio in tinello pal- lidissima. « Ines, chi c'e? » domando la signora. La cameriera si rivolse al padrone, balbettando: « Signor Torti, venga lei, un momento, di l`a... Se sapesse! ». « Ma chi c'e? chi c'e? » chiese rabbiosa la padrona, pur sapendo gi`a benissimo chi fosse. La Ines si curvo come chi ha da dire cose segretissime. Le parole le uscirono in un soffio: « C'e... c'e... Signor Torti, venga lei... itornato il maestro Appacher! ». « Che storie! » disse il Torti, irritato da tutti quei mi- steri, e alla moglie: « Vado io... Tu resta qui ». Uscí nel corridoio buio, urto nello spigolo di un mobile, d'impeto aprí la porta che dava in anticamera. Qui, in piedi, con la sua aria un poco timida, c'era Appa- cher. Non proprio uguale al solito Appacher, bensí alquanto meno sostanzioso, per una specie di indecisione nei contorni. Era un fantasma? Forse non ancora. Forse non si era com- pletamente liberato di cio che gli uomini dehniscono mate- ria. Un fantasma, ma con una certa residua consistenza. Ve- stito come era sua abitudine di grigio, la camicia a righe az- zurre, una cravatta rossa e blu e il cappello di feltro molto floscio ch'egli cincischiava nervosamente tra le mani. (Si in- tende: un fantasma di vestito, un fantasma di cravattá e cosí via.) Il Torti non era un uomo impressionabile. Tutt'altro. Ep- pure resto lí senza fiato. Non e uno scherzo vedersi ricom- parire in casa il piú caro e vecchio amico da venti giorni accompagnato al cimitero. « Amedeo ! » fece il povero Appacher, come per tastare il terreno, sorridendo. « Tu qui ? tu qui ? » inveí quasi il Torti perché dagli op- posti e tumultuosi sentimenti nasceva in lui, chiss`a come, soltanto una carica di collera. Non doveva essere una con- solazione immensa rivedere il perduto amico? Per realizzare un tale incontro Torti non avrebbe dato volentieri i suoi milioni? Sí, certo, lo avrebbe fatto senza pensarci su. Qual- siasi sacrificio. E allora perché adesso questa felicit`a non la provava? Perché anzi una sorda irritazione? Dopo tante an- gosce, tanti pianti, tante seccature imposte dalle cosiddette convenienze, bisognava ricominciar da capo? Nei giorni del distacco, la carica di affetto per l'amico era stata smaltita fino in fondo, e ora non ne restava piú di disponibile. « E sí, sono qui » rispose Appacher, cincischiando piú che mai le falde del cappello. « Ma io... Io sai bene, tra di noi, non e il caso di fare complimenti... Forse disturbo... » « Disturbo? E lo chiami disturbo? » incalzo il Torti, tra- sportato ormai dalla rabbia. « Torni non voglio sapere nean- che da dove, e in queste condizioni... E poi parli di distur- bo! Un bel coraggio, hai ! » Quindi a se stesso, del tutto esa- sperato: «Che faccio io adesso?». « Senti, Amedeo » disse Appacher « non arrabbiarti... Dopo tutto non e colpa mia... Anche di l`a (fece un gesto vago) c'e una certa confusione... Insomma dovrei starmene qui ancora circa un mese... Un mese, se non sar`a di piú... E tu sai che la mia casa e gi`a stata smontata, ci sono dentro i nuovi inquilini... » « E allora, tu vuoi dire, ti fermeresti qui da me a dor- mire? » « Dormire? Ormai non dormo piú... Non si tratta di dor- mire.. Mi basterebbe un angolino... Non daro noia, io non manglo, non bevo e non... insomma il gabinetto non mi oc- corre... Sai? Solo per non dover girare tutta la notte, magari con la pioggia... » «Ma la pioggia... ti bagna?» « Bagnarmi no, naturalmente » e fece una sottile risatina « ma d`a sempre un fastidio maledetto. » « E cosí passeresti qui le notti ? » « Se tu me lo permetti... » « Se lo permet- to!.. Io non capisco... Una persona intelligente, un vecchio amlco... uno che ha oramai tutta~la vita dietro a sé... come fa a non rendersi conto? Gi`a, tu non hai mai avuto una famiglia! » L'altro, confuso, retrocedeva in direzione della porta. « Scusami sai, io credevo... Si tratta poi di un mese solo... » « Ma non mi vuoi capire allora ! » fece il Torti, quasi offeso. « Non e per me che mi preoccupo... I bambini !... I bambini !... Ti parrebbe niente a te farti vedere da due inno- centi che non hanno ancora dieci anni. Dopo tutto, dovresti renderti conto dello stato in cui ti trovi. Perdonami la bru- talit`a ma tu, tu sei uno spettro... e dove ci sono i miei bam- bini, io uno spettro non ce lo lascio, caro mio... » « E allora niente? » « E allora, caro mio, non so che cosa dir... » Resto l`a con la parola monca. Di colpo Appacher era svanito. Solo si udi- vano dei passi giú per la scala a precipi~io. Suonava mezzanotte e mezzo quando il maestro Mario Tamburlani, direttore del Conservatorio, dove aveva anche l'alloggio, torno a casa da un concerto. Giunto alla porta del suo appartamento, aveva gi`a fatto girare la chiave nella toppa quando sentí un bisbiglio dietro a sé: « Maestro ! Maestro! ». Voltatosi di scatto, scorse Appacher. Tamburlani era famoso per la diplomazia, il savoir faire, l'avvedutezza, la capacit`a di destreggiarsi nella vita: doti, o difetti, che lo avevano portato molto piú in su di quanto i suoi modesti meriti potessero. In un baleno egli valuto la situazione. « O caro, caro » mormoro in tono affettuosissimo e pate- tico, e tendeva le mani al violinista fermandosi pero a un metro buono di distanza. « O caro, caro... Se tu sapessi il vuoto che... » « Come? Come? » fece l'altro ch'era alquanto sordo poi- ché nei fantasmi l'acutezza dei sensi e attenuata. « Abbi pa- ~ienza, adesso non ci sento piú come una volta... » " « Oh, lo capisc("" caro... Ma non posso mica urlare. C'e di" l`a Ada che dorme e poi... » « Scusa, non potresti per un momento farmi entrare? So- no parecchie ore che cammino... » « No, no, per carit`a, guai se Blizt si accorgesse. » « Co- me? Come hai detto? » « Blitz, il mio cane lupo, lo cono- sci no?... farebbe un tale chiasso... Si sveglierebbe subito il custode... e poi chiss`a... » « E allora, non potrei per qualche giorno. . » « Venire a stare qui da me? O caro Appacher, certo certo!... Figurati se per un amico come te... Pero, scu- sami sai, ma come facciamo con il cane? » L'obiezione lascio Appacher interdetto. Tento allora la mozione degli affetti: « Piangevi, maestro, piangevi un mese fa, al cimitero, quando hai tenuto il discorso, prima che mi coprissero di terra... ti ricordi? Io sentivo i tuoi singhiozzi cosa credi ? » < O caro, caro, non dirmelo... mi viene un tale affanno qui (e si porto una mano al petto)... Dio mio, mi pare che Infatti dall'interno dell'appartamento veniva un sordo brontolio premonitore. « Aspetta caro, entro un momento a far star quieta quella bestia insopportabile... Caro, un momento solo. » Lesto come un'anguilla sguscio dentro e chiuse il battente dietro a sé, sprangandolo ben bene. Poi silenzio. Appacher aspetto qualche minuto. Poi bisbiglio: « Tam- burlani, Tamburlani ». Dall'altra parte non ci fu risposta. Allora egli batté debolmente con le nocche. Ma il silenzio era assoluto. La notte camminava. Appacher penso di provare dalla Gianna, ragazza di facili costumi e di buon cuore, con cui era stato molte volte. Gianna abitava due stanzette in un vecchio casamento popolare fuori mano. Quando egli arrivo erano le tre passate. Per fortuna, come accadeva spesso in un simile alveare, il portello d'ingresso era socchiuso. Appa- cher giunse al quinto piano con fatica. Era ormai stanco di girare. Sul ballatoio non stento a trovare l'uscio benché fosse buio fitto. Busso discretamente. Dovette insistere prima di udire sintomi di vita. Poi la voce di lei piena di sonno « Chi e? Chi e a quest'ora? ». « Sei sola? Apri... sono io, Toni. » « A quest'ora? » ripeté lei senza entusiasmo ma con la solita docile umilt`a « aspetta... adesso vengo. » Uno svoglia- to ciabattare, lo scatto dell'interruttore della luce, la serra- tura che girava. « Come mai vieni a quest'ora? » E, aperto l'uscio, Gianna stava per correre al suo letto, lasciando al- l'uomo il disturbo di richiudere, quando lo strano aspetto di Appacher la colpí. Resto interdetta ad osservarlo e solo allo- ra dalla nebbia della sonnolenza emerse un ricordo spaven- toso. « Ma tu... ma tu... ma tu... » Voleva dire: ma tu sei morto, adesso mi ricordo. Tuttavia il coraggio le mancava. Retrocedette, le braccia tese a respingerlo se mai le si fosse avvicinato. « Ma tu... ma tu. » Poi emise una specie d'urlo. « Fuori.. fuori per carit`a! » supplicava, gli occhi sbarrati dal terrore. E lui: « Ti prego Gianna... Volevo riposarmi solo per un poco ». « No no, fuori! Come puoi pensare... mi vuoi fare impazzire tu. Fuori! Fuori! Vuoi far svegliare tutto il casamento? » Siccome Appacher non accennava a muoversi, la ragazza, senza togliergli gli occhi di dosso, cerco dietro a sé alla cieca con le mani, annaspando sopra una credenza. Sotto le dlta le capito una forbice. « Vado, vado » fece lui disorientato, ma la donna, col co- raggio della disperazione, gi`a gli premeva la ridicola arma "contro il petto; e la doppia lama, non incontrando resisten-" za, sprofondo tutta dolcemente nel fantasma. « Oh Toni, perdona, non volevo » fece la ragazza spaventata, mentre lui: « No, no... ah, che solletico, ti prego... che solletico! » e scoppio a ridere istericamente come un pazzo. Di fuori, nel cortile, una imposta venne sbattuta con fracasso. Quindi una voce furibonda: « Ma si puo sapere che succede? Sono quasi le quattro! uno scandalo, perdio! ». Appacher gi`a fuggiva come il vento. Da chi tentare ancora? Dal vice parroco di San Calisto, fuori porta? Dal bravo don Raimondo, suo antico compagno di ginnasio che sul letto di morte gli aveva somministrato gli ultimi conforti religiosi? «Indietro, indietro, parvenza de- moniaca » fu l'accoglienza del degno sacerdote come il vio- lmista gli comparve. « Ma sono Appacher, non mi riconosci?... Don Raimon- do, lascia che mi nasconda qui da te, Tra poco e l'alba. Non c'e un cane che mi voglia... Gli amici mi hanno rinnegato. Almeno tu... » « Non so chi tu sia » rispose il prete con voce malinconi- ca e solenne.< Potresti essere il demonio, o anche un'illu- sione dei miei sensi, io non so. Ma se tu sei Appacher vera- mente, ecco, entra pure, quello e il mio letto, distenditi e rlposa... » « Grazie, grazie, don Raimondo, lo sapevo... » « Non preoccuparti » proseguí il prete soavemente « non preoccuparti se io sono gi`a in sospetto presso il vescovo... Non preoccuparti, te ne supplico, se la tua presenza qui po- tr`a far nascere delle complicazioni gravi... Insomma, di me non dartl cura. Se tu sei stato mandato qui per la mia ro- vina, ebbene sia fatta la volont`a di Dio!.., Ma che fai ades- so? Te ne vai? » Ed e per questo che gli spiriti - se mai qualche anima infelice si tratliene con ostinazione sulla terra - non voglio- no vivere con noi ma si ritirano nelle case abbandonate, tra i ruderi delle torri leggendarie, nelle cappelle sperdute tra le selve, sulle scogliere solitarie che il mare batte, batte, e lentamente si diroccano. I REZIARII Monsignore era solo nella campagna. si avvicino a una siepe e con uno stecchetto tolse dalla tela un grosso ra- "gno: era giovane, sodo, magnifico; squisiti disegni di co-" lore delicatissimo istoriavano la cupola dell'addome. La be- stiola fu tratta via per il suo stesso filo e cosí dondolava, appesa, senza sapere che cosa le accadesse. Ma un altro ragno ancora piU formidabile stava, in un vicino varco della siepe, al centro della sua tela, Assomiglia- va a Moloc, oppure anche al dragone, il serpente antico, che porta il nome di Satana. Nel grande splendore della vita esso regnava, sazio ed immobile, in quel pezzetto di mondo. Dentro alla sua rete, a scopo di esperimento, mon- "signore lancio con mossa precisa il primo ragno; il quale" vi resto attaccato, invischiandosi. L'uomo non fece in tempo a vedere. Il grande ragno sembrava dormisse: invece cadde fulmineo sul forestiero. E gi`a le sue zampe lo avvoltolavano nelle argentee garze di bava. Non ci fu lotta. In pochi istanti il ragno fu ac- cartocciato in un pacchetto, non poteva piÚ muoversi. Era sera, quieta la campagna, il sole scendeva regolar- mente verso le montagne, facendo rilucere la ragnatela nei minuti disegni. Tutto era tornato nella pace. Nel mezzo, come prima, il gigantesco ragno immobile, come in letar- go. Piú sotto quel cartoCcetto sospeso, con dentro il nemi- co. Era morto? Ogni tanto le due zampe anteriori avevano tremiti quasi impercettibili. Senonché all'improvviso il prigioniero si sciolse. Non fece visibili sforzi, non diede scosse. Meditando nel chiuso della trappola, ne aveva decifrato il segreto? Si sfilo fuori, apparve intattosi incammino senza fretta lungo uno dei fili radiali che sorreggevano la rete. Fa presto, muoviti "penso rnonsignore -; vuoi farti riprendere ? Ma il ragno" non aveva premura. Moloc, irrigidito nel trono, non batté ciglio. C'era stato un patto tra i due? Il piú grande per esempio poteva aver detto all'altro: se riesci a liberarti da solo ti faro grazia, o qualcosa di simile. Resto infatti fermo come una statua, finse di non sapere, rinunciando. E gi`a il minore si inol- trava tra le foglie. Monsignore pero fu piú lesto e riuscí nuovamente a stac- care dalla pianta il ragno fuggiasco, senza danneggiarlo. Lo fece oscillare due tre volte a pendolo, poi con delicatezza lo getto per la seconda volta nella rete. E per la seconda volta il gigante scatto. In un baleno fu sopra l'altro e aprendo le zampe cercava di avvilupparlo. Ci fu una breve lotta. Il minore era rimasto appiccicato ma- lamente alla rete né poteva voltarsi per lottare faccia a fac- cia. In qualche modo tuttavia si difendeva, torcendosi al- l'indietro. In questa posizione sbilenca poco dopo resto in- chiodato. I legamenti erano tuttavia molto meno perfetti di prima. Nello scontro iniziale il ragno maggiore aveva speso senza risparmio la sua bava e non gliene restava quasi piú. Do- vette limitarsi a una fasciatura sommaria, larghi varchi re- stando aperti tra benda e benda. Allora, alle spalle di mon- signore, una piccola cosa nera si mosse, forse un uccello una foglia, cadente, una biscia. Lui si volto di soprassalto, ma la campagna era perfettamente deserta. Il ragno che aveva vinto non torno subito al suo seggio. Stavolta lavo- rava con molto impegno intorno al corpo del prigioniero e gli mordeva lentamente la schiena, allo scopo di avvele- narlo. L'altro subiva, rassegnato, e pareva non soffrisse. Lo addento a lungo, poi torno al centro della rete, poi sembro pentirsi e ricomincio a morsicare. Cosí tre volte. Alla ter~a, da un breve pertugio del sacchetto, il prigio- niero spinse fuori le tenaglie e abbranco al volo una zam- pa del boia. Moloc fu preso dall'orgasmo, abbandono la vittima, cerco di ritirarsi. Ma l'altro teneva con furore. La zampa era tesa allo spasimo, ancora un pO' e si sarebbe spezata. Fin- ché al prigioniero vennero meno le forze e le sue tenaglie mollarono. Col dubbio che uno lo stesse fissando alle spalle, monsi- gnore si volto di nuovo. Ma dietro a lui non c'era nulla: tranne la campagna, il tramonto e una nuvola gialla la quale protendeva una specie di braccio lunghissimo, simile a un avvertimento. Verso di lui forse? Zoppicando, il ragno grande risalí al suo stallo, in una abbietta costernazione. Era la paura di essere stato awele- nato, Con amore tenerissimo comincio ad accarezzarsi la zampa che l'avversario aveva stretto. La lisciava con le al- tre sette, se la portava alla bocca e pareva leccarla, poi la tendeva per collaudo, come facciamo noi dopo una storta alle articolazioni. Sembrava una mamma col bambino. Do- po alcuni minuti pero il suo affanno andava placandosi: ora esperimentava la zampa, se facesse ancora buona pre- sa, sui fili stessi della rete, quasi arpeggiando. Quindi, con disgustoso trasporto, ancora la accarezzava. Del tutto infine consolato, torno al feroce lavoro con accresciuto aCcanimento. La sua tenaglia affondava nell'ad- dome del suppliziato schiantando lo spessore della cortec- cia alla guisa di un apriscatole. E dalle crepe cominciava a colare un liquido denso e bianchiccio. A questo punto, morendo il sole, lo smisurato braccio della nube, sospeso sopra la valle, divenne vivo ed ardente, cosicché il suo riflesso si posava sul mondo. Anche la sie- pe, nel suo piccolo ne risplendeva. Eppure tutto era adesso tornatO alla quiete anche piú di prima, perché prima se non altro c'erano due ragni in agguato ed ora soltanto uno, immobile e assorto come se nulla fosse accaduto. L'altro aveva cessato di essere ragno, era un bozzo10 inerte e flo- scio, anche lo scolo delle mucillagini viscerali si andava coagulando. La morte pero non ancora: rattrappite come erano nel sacchetto, le due zampe anteriori si muovevano per decimi di millimetro. Un calesse passo nella strada vicina, il cavallino trottava allegramente e dileguo verso nord. Poi monsignore udí, di l`a del fiume, una contadina cantare con abbandono contur- bante. Egli era solo. Con la precisione di un chirurgo ruppe, per mezzo di uno stecco, i legamenti e libero la be- bestiolina torturata. Poi la adagio su una foglia. Ivi la creatura resto, tutta storpia, cosí come era stata imprigionata, quasi uscisse da una ingessatura, a motivo della invadente paralisi. Tento poi di camminare e si rn- vescio su un fianco. Le otto zampine palpitavano a ritmo tutte insieme con dolceza, come invocando: il derelitto, L'innocente, L'agnello del signore. In ginocchio sul prato, monsignore era chino sopra quel dolore irrimediabile. Dio, che cosa aveva fatto ! Poco era bastato, un piccolo scherzo sperimentale, a rovinare una vita, Cosí egli stava pensando, quando noto che il ragno lo guardava: dai suoi occhietti inespressivi qualcosa di du- ro e cocente saliva fino a lui. Si accorse pure che il sole era disceso: alberi e siepi si facevano misteriosi fra lanu- gini di nebbia, aspettando. E adesso chi si muoveva alle sue spalle? Chi sussurrava piano piano il suo nome? No, pareva proprio che non ci fosse nessuno. ALL'IDROGENO Fui svegliato dal te!efono. Fosse per l'interruzione bru- sca del sonno, o per il silenzio plumbeo che regnava in- torno, mi sembro che il campanello avesse un suono piú lungo del solito, malaugurante, astioso. Accesi la luce, in pigiama andai a rispondere, faceva freddo, vidi che i mobili erano immersi profondamente nella notte (quel senso misterioso pieno di presagi!), sve- gliandomi li avevo colti di sorpresa. Insomma capii subito che era une delle grandi notti, le quali vengono di raro, profondissime, e in queste notti all'insaputa del mondo il destino fa un passo. «Pronto, pronto » c'era una voce nota, dall'altra parte, ma cosí insonnolito io non la riconoscevo. « Sei tu?... E allora... dimmi... Vorrei sapere... » Era un amico, certo, pero ancora non l'avevo identifi- cato (quella odiosa mania di non dire subito il proprio nome). Lo interruppi, senza aver neppure pesato le sue parole: « Ma non potevi telefonarmi domani ? Lo sai che ora e ? » « Sono le 57 e un quarto » rispose. E tacque lungamente come se avesse gi`a detto troppo. In realt`a mai io mi ero addentrato, da sveglio, in profondit`a cosí remote della not- "te; e provavo un certo orgasmo." «Ma cosa c'e? Cos'e successo?» « Niente, niente » rispose lui, sembrava imbarazzato « ... si era sentito dire che... Ma non importa, non importa... Scu- sa... » E mise giU la cornetta. Perché aveva telefonato a quell'ora? E poi, chi era? Un amico, un conoscente, certo, ma chi precisamente ? Non riuscivo a localizzarlo. stavo per rientrare in letto, il telefono suono per la se- conda volta. Era un trillo ancora piú aspro e perentorio. Un altro, non quello prima, lo intuii subito. « PrGnto. » « Sei tu ?... Ah, meno male. » Era una don- na. E stavolta la riconobbi: Luisa, una brava ragazza, se- gretaria di un awocato, che non vedevo piú da anni. L'aver udito la mia voce era stato per lei, si capiva, un sollievo immenso. Ma perché ? E, soprattutto, come mai si faceva viva dopo tanto tempo al colmo della notte, con una chia- mata cosí nevrastenica? « Ma cosa c'e » feci, impazientito « si puo sapere ? » « Oh » rispose Luisa fievole. « sia ringraziato Dio!... A- vevo fatto un sogno, sai?, un sogno orrendo... Mi ero sve- gliata col batticuore... Non ho potuto fare a meno di... » « Ma cosa? Sei la seconda, questa notte. Cosa c'e per- dio? » « Perdonami, perdonami... Lo sai come io sono appren- siva... Va a dormire, va., non voglio farti prendere altro freddo... ciao. » La comunicazione fu interrotta. Restai l`a, col microfono in mano, nel silenzio, e i mo- bili, benché la luce elettrica li illuminasse nel modo piú normale, avevano un aspetto strano, come chi sta per dire una cosa ma si interrompe, e dentro a lui la cosa rimane chiusa, senza che noi si possa sapere. Probabilmente era questa una semplice conseguenza della notte: noi ne co- nosciamo in realt`a una parte minima, il rimanente e im- menso, inesplorato, e le rarissime volte che vi entriamo, tutto ci impaurisce. Pace e silenzio, tuttavia, questo sí: era il sonno quasi sepolcrale delle case il quale e molto piú profondo, e mu- to, che il silenzio della campagna. Ma quei due perché mi avevano telefonato? Qualche notizia che riguardava me era ALL'IDROGENO 263 giunta fino a loro? Una notizia di disgrazia? Presentimenti, forse, sogni premonitori? Sciocchezze. Mi infilai nel letto, ritrovando con gioia il posto caldo. Spensi la luce. Mi distesi a pancia in giú, nel- la mia solita maniera. A questo punto suono il campanello della porta. Lun- go. Due volte. Il rumore mi entro proprio nella schiena, su per la colonna vertebrale. Qualcosa era dunque successo, o stava per succedermi, e doveva essere un fatto infausto per compiersi a un'ora cosí estrema, un fatto doloroso o turpe, senza dubbio. Il cuore mi rimbombava dentro. Riaccesi la luce della stanza, ma per prudenza non accesi in corridoio: chiss`a, da qualche minima fessura della porta d'ingresso potevano vedermi: « Chi e? » domandai cercando una intonazione "energica; la voce invece tremo, afona, ridicola." « Chi e ? » chiamai una seconda volta. Nessuno rispon- deva. Con precauzione infinita, sempre al buio, mi avvicinai alla porta e, chinandomi, misi un occhio a un buchino quasi impercettibile da cui pero si poteva guardar fuori. Il pianerottolo era vuoto, né si intravedevano ombre in mo- vimento, C'era, sulle scale, la fioca, avara, disperata luce di sempre, per cui gli uomini, rincasando alla sera, sento- no il peso della vita. « Chi e? » domandai per la terza volta. Niente. Allora si udí un rumore. Non veniva di l`a dalla porta, dal pianerottolo delle scale o dalle prossime rampe, bensí dal basso, probabilmente dalla cantina, e l'intero edificio ne vibrava. Era come se una cosa pesantissima fosse strasci- nata, per un passaggio angusto, con stento e travaglio gran- di, Il rumore significava appunto un attrito, e c'era den- tro pure - misericordia di Dio ! un lungo atrocissirno scric- chiolio come quando una trave sta per crepare o la tena- glia procede a scardinare un dente. Non potevo capire che fosse, seppi pero immediatamen- te che quella era la cosa per cui poco prima mi avevano telefonato ed era suonato il campanello della porta: in una tale oscura e misteriosa cavit`a della notte! Il rumore si ripeteva, a lunghi strappi dilaceranti, sem- pre piú forte, come se salisse. Nello stesso tempo avvertii un fitto ma estremamente basso brusío umano, che veniva dalle scale. Non potevo resistere. Piano piano feci scor- rere il chiavistello e socchiusi il battente. Guardai fuori. La scala (ne vedevo due rampe) era gremita. In vesta- glie e pigiama, qualcuno anche a piedi nudi,li inquilini erano usciti e appoggiati alla ringhiera guardavano giú con ansia. Notai il pallore mortale clelle facce, l'immobilit`a delle membra, che sembravano paralizzate dal terrore. « Pss, pss » feci, dallo spiraglio, non osando uscire in pigiama, com'ero. La signora Arunda, quella del quinto piano (aveva in testa ancora i diavoletti) volse il capo con espressione di rimprovero. « Cosa c'e? >sussurrai (ma per- ché non parlavo a voce alta se tutti erano svegli?). « Sss » fece lei, sottovoce, e aveva un tono di totale de- solazi0ne, Immaginate un malato a cui il medico abbia fatto diagnosi di cancro. « L'atomica! » e fece un segno con l'indice verso il pianterreno. « Come, l'atomica ? » « arrivata... stanno portandola dentro... Per noi, per noi... Venga qui a vedere. » Benché mi vergognassi, uscii sul pianerottolo e facen- domi largo fra due tipi che non avevo mai visto, guar- dai in giú. Mi parve di scorgere una cosa nera, come un cassone immenso intorno al quale con leve e corde armeg- giavano alcuni uomini in tuta blu. «:quella? » domandai. « Gi`a, dove vuole che sia? » rispose un tanghero vicino a me e poi, quasi per rimediare alla scortesia: « la dro- gena, sa ? » . Si udí un risolino secco, privo di allegria. « Che droge- na d'Egitto! All'idrogeno, all'idrogeno. Porci maledetti, l'ul- timo tipo! Tra miliardi di uomini che esistono, proprio a noi ce l'hanno mandata, proprio a noi, via San Guliano 8 ! » Passato il primo gelido sbalordimento, il brusío della gente si faceva intanto piÚ mosso e nutrito, Distinguevo voci, repressi singhiozzi di donne, bestemmie, sospiri. Un uomo sui trent'anni piangeva senza ritegno battendo con forza il piede destro su un gradino. « ingiusto » gemeva. « Io mi trovo qui per caso!... Io sono di passaggio!... Io non c'entro!... Domani io dovevo partire!... » Quella sua lagna era insopportabile. « E io domani » gli disse, rude, un signore sui cinquanta, credo fosse l'awocato dell'ottavo piano « e io domani dovevo mangiare gli agnolotti, ha capito ? Gli agnolotti ! E ne faro senza, ne faro ! » Una donna aveva perso la testa. Mi afferro per un polso e lo scuoteva. « Li guardi, li guardi » disse a voce bassa accennando ai due bambini che la seguivano « li guardi questi due angioletti! Le sembra possibile? Non grida ven- detta a Dio, tutta questa storia? » Io non sapevo cosa dire. Avevo freddo. Dal basso venne un fragore lugubre. Dovevano essere riusciti a smuovere il cassone di un buon tratto. Guardai ancora in giú. L'odioso oggetto era entrato nell'alone di una lampadina. Era verniciato di azzurro scuro e c'era una quantit`a di scritte e di etichette. Per vedere meglio, gli uomini si spenz01avano dalla ringhiera, col rischio di precipitare, Voci confuse: « E scoppier`a quando ? Questa notte?,., Mariooo! Mariooo!! L'hai svegliato Mario?... Gi- sa, hai tu la boule con l'acqua calda?... Figli, figli miei!... Ma tu gli hai telefonato? Sí, ti dico, telefona! Vedrai che lui puo far qualcosa... iassurdo, caro signore, solo noi... E chi le dice solo noi? Come fa a sapere?... Beppe, Beppe, stringimi, ti supplico, stringimi!... ». Poi preghiere, ave, litanie. Una donnetta teneva in mano un cero spento. Ma a un tratto dal basso una notizia serpeggio lungo la scala. Lo si capí dal concitato scambio di voci che via via salivano. Una notizia buona, si doveva dedurre dal piú vivace tono che assunse subito l'aspetto della gente. « Che cosa c'e? Che cosa c'e? » chiedevano, impazienti dall'alto. Finalmente, a frammenti, qualche eco giunse fino a noi del sesto piano. « C'e un indirizzo con il nome » dicevano. « Come, il nome? Sí, il nome di chi deve ricevere l'atomi- ca... personale, capisci? Non e per tutta la casa, non e per tutta la casa, solo per uno... non e per tutta la casa! » Sembravano impazziti, ridevano, si abbracciavano e bacia- vano. Poi un dubbio, a gelare l'entusiasmo. ciascuno penso a sé, dialoghi affannosi, le scale erano tutte un frenetico vocío. « Che nome e ? Non sono riusciti a leggerlo... Sí, che si legge... e un nome straniero (tutti pensammo al dot- tor stratz, il dentista del piano rialzato). No, no... e ita- liano... Come ? come ? Comincia per T... No no... per B come Bergamo... E poi? e poi? La seconda lettera? U, hai detto? U come Udine? » La gente mi fissava. Mai vidi volti umani stravolti da una felicit`a cosí selvaggia. Uno non seppe resistere e scop- pio in una risata che finí in una tosse cavernosa: era il vecchio Mercalli, quello dei tappeti all'asta. Capii. Il cas- "sone con l'inferno dentro era per me, un esclusivo dono;" per me solo. E gli altri erano salvi. Che c'era piú da fare? Mi ritrassi verso l'uscio. I coin- quilini mi guardavano. Con che gioia mi guardavano. Giú in basso, i rantoli tetri del cassone, che adagio adagio stavano issando su per la scala, si mescolarono a una im- provvisa fisarmonica. Era il motivo de L,a vie en ro~e. L'UOMO CHE VOLLE GUARIRE Intorno al grande lebbrosario sulla collina, a un paio di chilometri dalla citt`a, correva un alto muraglione e in cima al muraglione le sentinelle camminavano su e giú. Tra que- ste guardie ce n'erano di altezzose e intrattabili, altre in- vece avevano piet`a. Percio al crepuscolo i lebbrosi si racco- glievano ai piedi del bastione e interrogavano i soldati piú alla mano. « Gaspare » per esempio dicevano « che cosa vedi questa sera? C'e qualcuno sulla strada? Una carrozza, dici ? E com'e questa carrozza ? E la reggia e illuminata ? Hanno acceso le torce sulla torre? Che sia tornato il prin- cipe? » Continuavano per ore, non erano mai stanchi e, benché il regolamento lo vietasse, le sentinelle di buon cuo- re rispondevano, spesso inventando cose che non c'era- no, passaggio di viandanti, luminarie, incendi, eruzioni per- fino del vulcano Ermac, poiché sapevano che qualsiasi no- vit`a era una deliziosa distrazione per quegli uomini condan- nati a non uscire mai di l`a. Anche i malati gravi, i mo- ribondi partecipavano al convegno portati in barella dai lebbrosi ancora validi. Soltanto uno non veniva, un giovane entrato nel lazza- retto da due mesi. Era un nobile, un cavaliere, uomo gi`a stato bellissimo, a quanto si poteva indovinare perché la lebbra lo aveva attaCcato con una violenza rara, in poco tempo deturpandogli la faccia. si chiamava Mseridon. « Perché non vieni ? » gli chiedevano passando dinanzi alla sua capanna « perché non vieni anche tu a sentire le notizie? Ci devono essere questa sera i fuochi artificiali e Gaspare ha promesso che ce li descriver`a. Sar`a bellissimo vedrai. » « Amici>lui rispondeva dolcemente, affacciandosi alla soglia e si copriva la faccia leonina con un pannolino bian- co « capisco che per voi le notizie che vi d`a la sentinella siano una consolazione. Questo e l'unico legame che vi resta col mondo esterno, con la citt`a dei vivi. vero o no ? » « Sí certo, e vero. » « Questo vuol dire che vi siete gi`a rassegnati a non uscire mai di qui. Mentre io... » « Tu che cosa ? » «Mentre io invece guariro, io non mi sono rassegnato, i0 voglio, capite, voglio tornare come prima. » Tra gli altri, dinanzi alla capanna di Mseridon, passava il saggio e vecchio Giacomo, patriarca della comunit`a. Ave- va almeno centodieci anni ed era quasi un secolo che la lebbra lo smangiava. Non aveva piú membra di sorta, non si distinguevano piú la testa né le braccia né le gambe, Il corpo Si era trasformato in una specie di asta del dia- metro di tre quattro centimetri che si teneva chiss`a come in equilibrio, con in cima un ciuffo di capelli bianchi e assomigliava, in grande, a quegli scacciamosche che ado- perano i nobili abissini. Come ci vedesse, parlasse, si nu- trisse era un enigma perché la faccia era distrutta né si vedevano aperture nella crosta bianca che lo rivestiva, simile alla corteccia di betulla. Ma questi sono i misteri dei leb- brosi. In quanto al camminare, scomparse tutte le artico- lazioni, se la cavava saltellando sull'unico piede, tondo an- ch'esso come il puntale di un bastone. Anziché macabro l'aspetto complessivo' era grazioso. Praticamente, un uomo trasformato in vegetale. E siccome era molto buono e in- telligente, tutti gli usavano riguardo. All'udire le parole di Mseridon, il vecchio Giacomo si fermo e gli disse: « Mseridon, povero ragazzo, io sono qui da quasi cento anni e di quanti io trovai o entrarono dipoi nessuno e mai uscito. Tale e la nostra malattia. Ma anche qui, vedrai, possiamo vivere. C'e chi lavora, c'e chi ama, c'e chi scrive poesie, C'e il sarto, c'e il barbiere. Si puo anche essere felici, per lo meno non si e molto piú infelici degli uomini di fuori. Tutto sta nel rassegnarci. Ma guai, Mseridon, se l'animo si ribella e non si adatta e pre- tende una guarigione assurda, allora ci si riempie il cuore di veleno ». E cosí dicendo il vecchio scuoteva il suo bel pennacchio bianco. « Ma io » ribatté Mseridon « io ho bisogno di guarire, io sono ricco, se tu salissi sulle mura potresti vedere il mio palazzo, ha due cupole d'argento che scintillano. Laggiú ci sono i miei cavalli che mi aspettano, e i miei cani, e i miei cacciatori, e anche le tenere schiave adolescenti mi aspettano che torni, Capisci, saggio bastoncello, io ho biso- gno di guarire. » « Se per guarire bastasse averne bisogno, la cosa riusci- rebbe molto semplice » fece Giacomo con una bonaria ri- satina. « Chi piU chi meno, tutti sarebbero guariti. » « Ma io » si ostino il giovane « io per guarire ho il mezzo, che gli altri non conoscono. » « Oh lo immagino » fece Giacomo « ci sono sempre dei bricconi che ai nuovi venuti offrono a caro prezzo unL~uenti segreti e prodigiosi per guarire. Anch'io ci cascai suando ero piccolo. » « No, non uso unguenti io, io adopero semplicemente la preghiera. » «Tu preghi Dio che ti guarisca? E sei percio convinto di guarire? Ma tutti noi preghiamo, cosa credi? non passa sera che non si rivolga il pensiero a Dio. Eppure chi... » « Tutti pregate, e vero, ma non come me. Voi alla sera andate ad ascoltare il notiziario della sentinella, io inve- ce prego. Voi lavorate, studiate, giocate a carte, voi vivete come vivono pressapoco gli altri uomini, io invece prego, tranne il tempo strettamente indispensabile per mangiare, bere e dormire, io prego senza solu~ione di continuit`a e del resto anche mentre mangio io prego e perfino mentre dor- "mo; tanta e infatti la mia volont`a che da qualche tempo" sogno di essere inginocchiato e di pregare. La preghiera che fate voi e uno scherzo. L'autentica preghiera e una fa- tica immensa, io alla sera arrivo estenuato dallo sforzo. E come e duro all'alba, appena sveglio, riprendere subito a pregare, la morte talora ml' sembra preferibile. Ma poi mi faccio forza e mi inginocchio. Tu, Giacomo, che sei vec- chio e saggio, dovresti saperle queste cose. » A questo punto Giacomo comincio a dondolare come se stentasse a mantenere l'equilibrio e calde lacrime rigarono la sua scorza cinerina. « vero, e vero » singhiozzava il vecchio « anch'io quan- do avevo la tua et`a... anch'io mi gettai nella preghiera e tenni duro sette mesi e gi`a le piaghe si chiudevano e la pelle tornava bella liscia... stavo guarendo... Ma a un tratto non ce la feci piú e tutta la fatica ando perduta... Io vedi in che stato son ridotto... » « E allora » disse Mseridon « tu non credi che io... » « Dio ti assista, non posso dirti altro, che l'Onnipotente ti dia forza » mormoro il vecchio, e a piccoli saltelli si avvicino alle mura, dove la folla era riunita. Chiuso nella sua capanna, Mseridon continuo a pregare, insensibile ai richiami dei lebbrosi. A denti stretti, col pen- siero fisso a Dio, tutto in sudore per lo sforzo, lottava contro il male e a poco a poco le immonde croste si ac- cartocciavano al bordo e poi cadevano, lasciando che la carne sana rinascesse. Intanto la voce si era sparsa e attorno alla capanna stazionavano sempre gruppi di curiosi. Mseridon aveva ormai fama di santo. Avrebbe vinto o tanto impegno non sarebbe servito a niente ? Si erano formati due partiti, pro e contro il gio- vane ostinato. Finché, dopo quasi due anni di clausura, Mseridon un giorno uscí dalla capanna. Il sole finalmente gli illumino la faccia, la quale non aveva piú segni di leb- bra, non assomigliava al muso di un leone, bensí risplen- deva di bellezza. « E guarito, e guarito! » grido la gente incerta se met- tersi a piangere di gioia o lasciarsi divorare dall'invidia. Era guarito infatti Mseridon ma per poter lasciare il leb- brosario doveva avere un documento. Ando dal medico fiscale che faceva ogni settimana l'ispe- zione, si spoglio e si fece visitare. « Giovanotto, puoi dirti fortunato » fu il responso « de- vo ammettere che sei quasi guarito. » « Quasi ? Perché ? » chiese il giovane con amara delusionc. « Guarda, guarda qui la brutta crosticina » fece il me- dico additando con una bacchetta, per non toccarlo, un puntino colore della cenere non piÚ grande di un pidoc- chio, sul mignolo di un piede « bisogna che tu elimini an- che questa se vuoi che io ti lasci libero. » Mseridon torno alla sua capanna e mai seppe neppur lui come fece a superare lo sconforto. Credeva di essere or- mai salvo, aveva allentato tutte le energie, gi`a si appresta- va al premio: e doveva invece riprendere il calvario. « Coraggio » lo incitava il vecchio Giacomo « ancora un piccolo sforzo, il piU l'hai fatto, sarebbe pazzesco rinunciare proprio adesso. » Era una rugosit`a microscopica sul mignolo ma sembrava che non volesse arrendersi. Un mese e poi due mesi di ininterrotta potentissima preghiera. Niente. Un terzo, un quarto, un quinto mese. Niente. Mseridon stava per mollare quando una notte, passandosi, come faceva ormai meCcanicamente, una mano sul piede malato, non incontro piú la crosticina. I lebbrosi lo por~arono in trionfo. Era ormai libero. Di- nanzi al corpo di guardia ci furono i commiati. Poi soltanto il vecchio Giacomo, saltellando, 1o accompagno alla porta esterna. Furono controllati i documenti, la chiave cigolo girando nella serratura, la sentinella spalanco la porta. Apparve il mondo nel sole del primo mattino, cosí fre- sco e pieno di speranze. I boschi, le praterie verdi, gli uc- cellini che cantavano, e in fondo biancheggiava la citt`a con le sue torri candide, le terrazze orlate di giardini, gli sten- dardi fluttuanti, gli altissimi aquiloni a forma di draghi e "di serpenti; e sotto, che non si vedevano, miriadi di vite e" di occasioni, le donne, le volutt`a, i lussi, le avventure, la corte, gli intrighi, la potenza, le armi, il regno dell'uomo! Il vecchio Giacomo osservava la faccia del giovane, cu- rioso di vederla illuminata dalla gioia. Sorrise infatti Mse- ridon al panorama della libert`a. Ma fu un istante. Subito il giovane cavaliere impallidí, « Che hai ? » gli chiese il vecchio supponendo che l'emo- zione gli avesse tolto il fiato. E la sentinella: « Su, su svel- to, giovanotto, passa fuori che io devo subito richiudere, non ti farai pregare, spero! ». Invece Mseridon fece un passo indietro e si coprí gli occhi con le mani: « Oh e terribile! ». « Che hai ? » ripeté Giacomo. « Stai male ? » « Non posso! » disse Mseridon. Dinanzi a lui, di colpo, la visione era cambiata. E al posto delle torri e delle cu- pole, giaceva adesso un sordido groviglio di catapecchie pol- verose, grondanti di sterco e di miseria, e invece degli sten- dardi, sopra i tetti, nugoli caliginosi di tafani come un infetto polverone. Il vecchio domando: «Che cosa vedi, Mseridon? Dim- mi: vedi marcio e luridume dove prima tutto era glorio- so ? Al posto dei palazzi vedi ignobili capanne ? E cosí, Mseridon ? ». « Sí, sí, tutto e diventato orribile. Perché ? Cosa e suc- cesso? » « Io lo sapevo » fece il patriarca « lo sapevo ma non osavo dirtelo. Questo e il destino di noi uomini, tutto si paga a caro prezzo. Non ti sei mai chiesto chi ti dava la forza di pregare? Le tue preghiere erano di quelle a cui non resiste neanche la collera del cielo, Tu hai vinto, sei guarito. E adesso paghi. » « Pago ? E perché ? » « Perché era la grazia che ti sosteneva. E la grazia del- l'Onnipotente non risparmia. Sei guarito ma non sei piú lo stesso di una volta. Di giorno in giorno, mentre la gra- zia lavorava in te, senza saperlo tu perdevi il gusto della vita. Tu guarivi, ma le cose per cui smaniavi di guarire a poco a poco si stacc~vano, diventavano fantasmi, cimbe na- tanti sopra il mar degli anni! Io lo sapevo. Credevi di es- sere tu a vincere, e invece era Dio che ti vinceva. Cosí hai perso per sempre i desideri. Sei ricco ma adesso i soldi non ti importano, sei giovane ma non timportano le don- ne. La citt`a ti sembra un letamaio. Eri un gentiluomo, sei un santo, capisci come il conto torna ? Sei nostro, final- mente, Mseridon ! L'unica felicit`a che ti rimane e qui tra noi, lebbrosi, a consolarci... Su, sentinella, chiudi pure la porta, noi rientriarno. » La sentinella tiro a sé il battente. 24 MARZO 1958 In determinate condizioni di atmosfera, di ora e di luce pcssiamo vedere anche a occhio nudo i tre piccoli satelliti artificiali che l'uomo lancio dalla Terra verso gli spazi in- "terplanetari dal 1955 al 1958; e ivi sono rimasti appesi," presumibilmente per sempre, girando girando intorno a noi. In certi crepuscoli d'inverno quando l'aria e come cri- stallo, tre minuscoli punti brillano, di un fisso e corruc- "ciato splendore; due vicini che quasi si toccano, uno piú" in l`a, solitario. Ma se prendiamo un buon binocolo, o un cannocchiale a forte ingrandimento, li possiamo osservare molto meglio, quasi come degli aeroplani che volino a discreta altezza. (Disteso sulla sedia a sdraio nell'atrio del- la sua casa di campagna, il vecchio Forrest, l'uomo che li ideo e li volle, ormai ottuagenario, consuma nella loro at- tesa le sue insonni notti di asma. E quando il primo dei tre sbuca dal ciglio nero del cornicione, egli si porta di- nanzi all'occhio il piccolo telescopio sospeso a uno speciale supporto elastico, e guarda, guarda, per ore.) " Ecco il primo, denominato ""Hope"" per la speranza che" in quel settembre memorabile riempí l'intero genere uma- no, facendogli dimenticare le malvagit`a di cui si consu- mavano i suoi giorni (eppure era uno scopo odioso, una inconfessata avidit`a di dominio che lo proietto, con un lungo sibilo, a picco verso lo zenit, facendo voltare in su contempcraneamente le facce dei trecentomila uomini riu- niti nelle White Sands, alle ore 4,53 del mattino). A ve- "derlo cosí da lontano ""Hope"" ha la forma di una tozza" matita, il suo colore e d'argento, che scintilla nella parte illuminata lasciando la restante nel buio. Se ne sta tutto sghembo, cosicché sembra proprio che sia rimasto l`a appe- "so; appeso, dimenticato e morto. Ma occorre sempre uno" sforzo d'immaginazione per convincersi che nel suo interno stanno i corpi di William B. Burkington, Ernst Shapiro e Bernard Morgan, gli eroi vogliamo dire, i pionieri, i quali ininterrottamente girano, e sono gi`a passati venti anni! vicinissimo e il satellite maggiore, secondo in ordine di "tempo: grosso almeno quattro volte il primo; liscio, bel-" lissimo, a forma di uovo, di un favoloso colore arancione. Verso la coda si intravedono come tante uniformi canne "d'organo; i tubi per i razzi ho sentito dire. Esso e deno-" "minato ""L. E."" sigla che significa Lois Egg, in italiano" l'uovo di Lois: cio in onore di Mrs. Lois Berger, la mo- glie amata del costruttore, partita con lui, con lui rimasta "lassú, a girare, girare eternamente; e non dovremmo qui" dimenticare i loro sette compagni. Poi spostiamo il cannocchiale di 24 gradi e incontriamo "il terzo, ""Faith"", terzo anche in ordine di tempo. Fu bat-" tezzato cosí per significare la fede che sorreggeva gli uomi- ni a ritentare cio che agli altri non era riuscito. Esso ha "una sagoma simile a quella di ""Hope"", solo che e al-" quanto piÚ grande. Colorato a strisce gialle e nere che si "distinguono benissimo anche oggi; e proprio quelle strisce" piú di ogni altra cosa ci persuadono che a costruirlo siamo stati noi, e non e l'errabondo frammento di qualche ignoto "catílclisma siderale. ""Faith"" partí con cinque uomini: Pal-" mer, Sough, Lasalle, Cosentino, Thompson i loro nomi. In cinque diversi cimiteri, sparsi sul nostro piccolo mondo, "cinque tombe vuote aspettano; ma essi continuano a girare," "probabilmente incorrotti; L'ultima umanit`a sar`a estinta e" loro gireranno ancora. 24 marzo 1958 e la terribile data di questa terza ascen- sione. Essa non e celebrata come festa nazionale e anche gli anniversari passano in sordina come se avessimo paura I di sottolinearli. Pure nei libri di scuola se ne fa solo un fugace accenno. Eppure né Zama né Valmy, né Kulikovo né Waterloo, né la scoperta dell'America né la rivolu~ione francese possono starle alla pari (se mai, si puo forse con- frontarla con la nascita di Nostro Signore Gesú Cristo). Da allora- oh, anch`io mi ricordo come si viveva una volta - gli uomini sono cambiati: diversi i pensieri, il lavoro, i desideri, i costumi, i divertimenti, L'amore. Sen~a confes- sarlo a se stessa per una specie di vergogna, la gente ha preso un'altra strada. Meglio o peg~io? Ma non c'e biso- gno di chiederlo, basta guardarsi intorno, ascoltare i di- scorsi, osservare le a~ioni che si compiono in questo anno di gra~ia 1975. (Pero il vecchio Forrest, inchiodato nel let- to, non si stanca, se la notte e limpida, di contemplare i tre biz~arri veicoli, si direbbe lo roda una sorta di ribel- lione contro cio che e avvenuto, una protesta contro la sco- perta fatale che ha cambiato la nostra vita.) " Ricordate ? ""Hope"" era provvisto di potenti apparecchi" radio. Perfetta la partenza, perfetta la traiettoria, il viag- gio fu controllato dal basso con assoluta precisione me- trica. A un tratto fu visto inclinarsi, assumere quella buffa posa sghemba, rimase l`a come una candelina appesa male all'albero di Natale. Non un messaggio, non un segno di vita. Tutto fu suggellato dal silen~io. " ""Faith"" e ""L. E."" nacquero in gara, dissipato che fu" "il primo scoraggiamento. Tra i due fece piú presto ""L. E.""." Il pensiero dei tre morti, sepolti nel vuoto interplanetario, accrebbe la solennit`a della cerimonia. Partí nel novembre 1957 e si calcolo la traiettoria in modo che passasse nelle "vicinan~e di ""Hope"", quell'inerte rudere dei cieli. La si-" gnora Lois Berger fu l'ultima a entrare nel proiettile ra~zo. E prima che il portello metallico si chiudesse definitiva- mente, ella sporse la testa gra~iosa salutando la folla in delirio. Seguí la vampa, il rigurgito atomico, quel lugubre "rombo che non dimenticheremo. Gi`a l""'Uovo"" era una" minuscola fiammella che si faceva piú piccola a ogni istan- te. « Tutto bene » comunico subito la radio di bordo « scos- sa minima, temperatura regolare... temperatura regolare » ripeté dopo un certo tempo. Quindi venne il misterioso messaggio: « What a lound che rumore » segnalo la radio « an odd... uno strano... » e qui la trasmissione fu inter- rotta. Poi il silen~io. E il coraggioso uovo resto sospeso sull'abisso (e gira gira silen~iosamente sopra la Terra an- cora viva). Non basto questa mortale esperien~a a impedire la ter~a "spedizione. Occorre raccontare come ""Faith"" prese il volo" quattro mesi dopo? E come anch'esso divoro gli spa~i esat- tamente come era stato previsto? E come il Thompson, ra- diooperatore, comunicasse per telefonia le prime noti~ie, e come a un certo punto egli dicesse: « Damm it b~t here we have got in....' » e poi basta? (Ci sono se li volete, in ven- dita, i dischi che riproducono tale e quale la famosa tele- fonata. La voce e limpida e tranquilla anche l`a dove escla- ma: « Accidenti, ma qui noi siamo capitati in...! ». E poi si ode il fruscio della puntina, nlent'altro che uno spaven- toso silen~io.) Adesso, dopo diciassette anni, solo pochi caparbi si osti- nano a discutere sul significato di quei due messaggi di morte. Se il primo parve indecirrabile, a capire il secondo "bastarono meno di 24 ore; e insieme fu svelato anche l'enig-" "ma che l'""Uovo"" aveva lasciat-, dietro di sé. Cosicché nes-" suno piú oggi dubita- tranne pochi irriducibili caparbi che vorrebbero tener alto l'orgoglio umano - nessuno piú du- bita che i tre proiettili siano stati investiti dal suono a cui la nostra povera anima non resiste. « An odd muna "strana musica » voleva dire il marconista del ""L. E.""; ma" proprio allora il suo cuore si spacco. « B~t here we have got in Paradile ma qui noi siamo capitati nel Paradiso! » voleva dire il compianto Thompson pero anche a lui qual- cosa di vitale resto frantumato. Allora nel mondo ci fu per alcuni giorni smarrimento, quindi polemiche, una specie di ira insensata, un lungo e circostan~iato messaggio del Presidente degli Stati Uniti, infine, come ci ebbero pensato su, un vero e proprio panico, quasi fosse stato annunciato l'arrivo del Messia. Che vol- garit`a - dissero gli scien~iati ribellandosi all'assurda ipo- tesi - non siamo piú nel Medioevo ! Vergogna ! dissero i teologi offesi dalla temeraria idea che il regno dei cieli fosse cosí vicino, sospeso proprio sopra di noi, cosicché al~ando la testa possiamo quasi urtarci dentro. Scien~iati e teologi hanno pero finito per tacere e da un pezo non csano fare piú fracasso. " Ma il male e questo; che gli uomini, an~iché giubilare" per la meravigliosa vicinan~a di Dio, dell'Onnipotente e del suo Regno, an~iché fare feste e tripudi, hanno smarrito la gioia di vivere. Non si combattono nemmeno piú, non "si odiano neppure; e allora ci si domanda: dov'e il sale" della vita? E stato detto dall'Eterno: di qua non passerete, questa e casa mia. E di conseguen~a la Terra e diventata grande come una nocciola, una contristante prigione da cui non potremo piú fuggire. L'uomo e triste. Mai come ora egli ha fissato gli sguardi nelle profondit`a delle valli del- L'eternit`a, smarrendosi nel formicolio degli astri. Perfino la Luna, che un tempo pareva una cosa nostra, ha riacqui- stato la severa maest`a delle montagne inaccessibili. Schiere trasparenti di Beati finalmente lo sappiamo - fluttuano sopra di noi cantando (e credevamo che Dante Alighieri avesse inventato tutto di sana pianta !). Dovremmo essere orgogliosi: la casa degli Angeli e sta- bilita alla nostra periferia, proprio alle porte del vecchio maligno pianeta Terra, pulce delle pulci disseminate nel- L'Universo. Non e forse una testimonian~a che siamo i prediletti fra le creature? Ho invece l'impressione che in certo modo oscuro tutti noi siamo rimasti offesi: come il cagnolino randagio che si sente padrone della vita fin che "non si vede vicino il formidabile danese di gran ra~a;" oppure anche come il pitocco a cui la gioia del pasto vien "meno se accanto a lui si vede il satrapo ingioiellato; op-" pure anche come il bifolco che un giorno si e accorto che subito dietro il boschetto, a cento passi dal suo tugurio, il re ha costruito il suo pala~o. Inoltre c'e il mortale pe- ricolo di questa musica divina. Suonano e cantano, lassú. E non esiste involucro grosso abbastan~a - fosse anche spes- so come la muraglia cinese - che possa chiudere il varco a quelle note, piú belle di quanto noi possiamo sopportare. Di qui i rimpianti del vecchio Forrest nelle sue faticose notti di asma, sdraiato nella veranda all'aperto. Di qui pure la nostra affli~ione. Perché quella e la Rocca del Cie- lo, il Regno del Trionfo Eterno, L'Empireo, il Divino Eli- seo. Ma e anche l'ultima nostra frontiera, che ci sbarra la "strada; e non siamo uomim vivi ! Diciamo, con sincerit`a:" una cupola di ferro e macigno non potrebbe essere piú pe- sante (piú pesante del Paradiso). E bestemmiare questo? LE TENTAZIONI DI SANT'ANTONIO Se l'estate e prossima a morire e, partiti i signori villeg- gianti, i piú bei posti restano deserti (ma nelle forre i cacciatori sparano e dai v entosi valichi della montagna, il cuculo mandando il suo richiamo,oi loro enigmatici sac- chi sulle spalle i primi maghi d'autunno scendono gi`a) allora le grandi nubi dei tramonti puo darsi si riuniscano, verso le cinque e me~a le sei, per tentare i poveri preti di campagna. Per l'appunto a quell'ora don Antonio, giovanissimo as- sistente alla parrocchia, insegna ai bambini il catechismo nell'oratorio che fu gi`a palestra del dopolavoro. Qui e lui in piedi, l`a i banchi con sopra seduti i bambini e in fondo, che arriva fino al soffitto, la grande vetrata che d`a verso "levante; e attraverso si vede il placido e maestoso Col Gia-" na illuminato dal sole che discende. « In no~nine Pat~il et Filii et... » fa don Antonio. « Ra- gazzi, oggi vi diro qualcosa del peccato. C'e qualcuno che sa cosa sia il peccato? Tu, Vittorio, per esempio, che non capisco perché ti vai a mettcre sempre cosí in fondo... Sai dirmi che cosa si intende per peccato? » « Peccato... peccato... e quando uno fa delle brutte cose. » « Sí, certo, pressapoco e cosí, infatti. Ma e piú giusto dire che peccato e una offesa a Dio, fatta disobbedendo a una sua legge. » Intanto le grandi nuvole si elevano al di sopra del Col Giana con molta intelligenza scenografica. Mentre parla, don Antonio le puo vedere benissimo attraverso la vetrata. E le vede anche un ragno appollaiato COII la sua ragnatela in un angolo della vetrata stessa (dove il traffico dei mo- "scerini e minimo); nonché una mosca, ferma sul vetro," appesantita dai reumi di stagione. Da principio queste nubi si presentano nella seguente formazione: c'e un lungo piatto basamento dal quale sgorgano varie protuberanze, simili a Ibambagie smisurate, e i molli contorni si sviluppano in una serie di viscosi vortici. Ma che intenzioni hanno? « Se la mamma, mettiamo, vi dice di non fare una cosa e voi la fate, per la mamma e un dispiacere... Se Dio vi dice di non fare una cosa e voi la fate, per Dio e pure un dispiacere. Ma non vi dir`a niente. Dio soltanto vede, perché lui vede tutto, compreso te Battista che invece di stare attento tagli il banco con un temperino. E allora Dio prende nota, possono passare cento anni e lui ancora ricorda tutto come se fosse successo appena un minuto prima... » Alza per caso gli occhi e vede, inondata di sole, una nube a forma di letto, con sopra un baldacchino tutto a frange, volute e ghirigori. Un letto da odalisca. Fatto e che don Antonio ha sonno. Si e alzato alle quattro e mez- za per dire messa in una chiesetta di montagna, e poi in giro tutto il giorno, i poveri, la campana nuova, due bat- tesimi, un malato, L'orfanotroho, i lavori al cimitero, il confessionale, eccetera, su e giú dalle cinque del mattino, e adesso quel letto tenerissimo che sembra aspettarlo, lui povero prete da strapazzo. Non viene un po' da ridere? Non e una singolare coin- cidenza lui morto di stanchezza e quel letto allestito in mezzo al cielo? Come sarebbe bello distendersi l`a sopra e chiudere gli occhi, senza piú pensare a niente. Ma dinanzi a lui stanno le piccole teste irrequiete dei ragazzi, a due a due, schierate sopra i banchi. « Quando si e detto peccato » spiega « non si e detto ancora niente. C'e peccato e peccato. C'e per esempio un peccato specia- lissimo diverso da tutti gli altri, che si chiama peccato originale... » Allora avanza una seconda nube, gigantesca, che ha pre- so la forma di un palazzo: coi colonnati, le cupole, le log- "ge, le fontane e in cima le bandiere; dentro ci sono le" delizie della vita, probabilmente, i banchetti, i servi, le mu- siche, i mucchi di marenghi, i profumi, le belle camerie- re, i vasi.di fiori, i pavoni, le trombe d'argento che lo chia- mano, lui timido prete di campagna che non possiede nean- che un soldo. (Eh, certo in quel castello non si deve poi stare da cani pensa - a me non capiter`a mai niente di simile.) « Cosí e nato il peccato originale. Ma voi certo mi po- tete chiedere: che colpa ne abbiamo noi se Adamo si e comportato male ? Cosa c'entriamo noi ? Perché dobbiamo rimetterci per lui? Ma qui, vedete... » C'era uno, nel secondo o terzo banco, che stava man- giando di nascosto: pane, si sarebbe detto, o qualche altra cosa di croccante. Se ne udiva il piccolo rumore, come di topo. Pero stava molto attento: se il prete cessava di par- lare, quello subito fermava le mandibole. Basto questo esile richiamo perché don Antonio fosse preso da una fame formidabile. E d'un subito egli vide una terza nube distendersi orizzontalmente, modellata a forma di tacchino. Era una bestia smisurata, un monumento, da "sfamare una citt`a come Milano; e girava su un immagi-" nario spiedo, rosolata dal sole del tramonto. Poco piú in l`a un'altra nube, a pinnacolo, paonazza, a classica forma di bottiglia. « Come si fa peccato? » disse. « Oh, gli uomini quanti sistemi hanno inventato pur di dispiacere a Dio. Si pecca "con le azioni, come se per esemp;o uno ruba, si pecca con" le semplici parole se per esempio uno bestemrria, si pecca anche coi pensieri... Sí, basta un pensiero alle volte... » Che razza di impertine&za, quelle nubi. Una delle piú grosse, sviluppatasi in altezza, aveva assunto la foggia del- la mitria. Intendeva alludere all'orgoglio, all'ambizione di carriera ? Rifinita nei suoi particolari, biancheggiava sullo sfondo azzurro e dai suoi fianchi autoritari colavano giú frange di seta e d'oro. Poi la mitria, gonfiandosi ancora di piú, mise fuori tanti fiorellini. E si ebbe addirittura il tri- regno del Pontefice, con tutta la potenza misteriosa. Per un istante il povero prete di campagna lo fisso, invidiando suo malgrado. Lo scherzo si era ora fatto piú sottile, pieno di subdole lusinghe. Don Antonio si sentiva inquieto. A questo punto Attilio, il figlio del fornaio, introdusse un chicco di granturco in una cannuccia di sambuco e la porto alle labbra progettando di bersagliare la nuca di un compagno. In quel mentre vide don Antonio, il cui volto si era fatto bianco. E ne resto tanto impressionato che su- bito mise via la cerbottana. « ... distinguere » diceva « il peccato veniale dal morta- le. . . Mortale. . . Perché mortale ? Forse si muore ? Proprio cosí... Se non muore il corpo, l'anima... » No, no - pensava non puo essere un caso, un capriccio ingannevole dei venti. Per lui, don Antonio, certamente, non si scomodavano le potenze degli abissi. Eppure quella faccenda del triregno puzzava straordinariamente di com- plotto. Non poteva esserci di mezzo il Gran Nemico, lo stesso che nel tempo dei tempi sbucava dalla sabbia e stuz- zicava i piedi degli anacoreti? In quell'arcipelago di nuvole, quasi nel centro, un gran- de blocco di vapori era rimasto finora inoperoso. Strano~ si era anzi detto don Antonio, tutto il resto e in continuo movimento e quello invece no. In mezzo a tanto carnevale se ne era rimasto quieto, apatico, quasi aspettando. Con apprensione il prete adesso lo teneva d'occhio. " Il nuvolone infatti cominciava a muoversi; ricordando il" risveglio di un pitone con quella sua sorniona e falsa svo- gliatezza carica di oscuri mali. Aveva il colore madreperla rosa di certi molluschi, rotonde e turgide le membra. Che cosa preparava ? Che forme avrebbe scelto ? Benché man- casse ogni elemento di giudizio, don Antonio, con quel fiuto degli uomini di Chiesa, sapeva ormai che cosa ne sarebbe uscito. Si accorse di arrossire, abbasso gli sguardi al pavimento, dove c'erano pezzi di paglia, un mozzicone di sigaretta (chis- s`a come), un chiodo arrugginito, un po' di terra. « Ma in- finita, ragazzi miei » diceva « e la misericordia del Signore e la sua grazia... » Mentre parlava, calcolo pressapoco il tempo necessario perché la nube potesse essere completa. L'avrebbe poi guardata? «No, no, sta attento, don Anto- nio, non fidarti, non sai quel che potr`a essere di te » gli mormoro la noiosa voce che nelle ore vili sorge nel pro- fondo di noi, rimproverando. Pero egli udí anche l'altra voce, quella indulgente, accomodante, amica, che d`a ragio- ne quando il coraggio ci abbandona. E diceva cosí: « Di che hai paura reverendo? Di una innocente nuvoletta? Se tu non la guardassi, allora sí sarebbe per te un brutto se- gno, vorrebbe dire che sei sporco dentro. Una nuvola, pen- sa, come potrebbe essere colpevole ? Guardala, reverendo, come e bella ! ». Ebbe allora un attimo di dubbio. Tanto basto perché le palpebre avessero un breve tremito, lasciassero un piccolo spiraglio. Vide o non vide? Qualcosa come una immagine perversa, laida e stupenda, gli era gi`a entrata nel cervello. Ansimo, per la tenebrosa tentazione. Per lui dunque eran venuti quei fantasmi e dal cielo lo stavano sfidando con al- lusioni invereconde? Era forse la grande prova destinata agli uomini di Dio? Ma perché tra i mille e mille preti disponibili era stato scelto proprio lui ? Penso alla Tebaide favolosa, intravide perfino dinanzi a sé un destino di santit`a e di gloria. Sentí il bisogno di restare solo. Fece un piccolo segno di croce ad indicare che la lezione era finita. Bisbigliando i ragazzi se n'andarono fin che tutto ritorno al silenzio. Poteva sí fuggire, adesso, rinchiudersi per esempio in una stanza interna donde non si vedessero le nubi. Ma fuggire non serviva. Sarebbe stata una capitolazione. Cerco invece l'aiuto di Dio. Si mise a pregare a denti stretti, furioso, come in gara all'ultimo chilometro. Chi avrebbe vinto? L'empia e dolce nube oppure lui con la purezza? Intanto pregava. Come gli parve di essere ab- bastanza irrobustito, concentro le sue forze e levo gli occhi. Ma in cielo, al di sopra del Col Giana, con una strana delusione, egli non vide che nubi indifferenti, dall'espres- sione idiota, vesciche di vapore, mucillagini di nebbia che si disperdevano in brandelli. Né queste nubi evidentemente potevano pensare, o essere cattive, o fare scherzi ai giovani preti di campagna. Né di sicuro si erano mai interessate di lui per tormentarlo. Nuvole e basta. La stazione meteorolo- gica aveva infatti annunciato per quel giorno: « Cielo in preval. sereno, qualche formaz. cumuliforme al pomeriggio. Calma di vento. Temper. stazion. ». Circa il Diavolo, nean- che una parola. 30 Il bambino Giorgio, benché giudicato in famiglia un pro- digio di bellezza fisica, bont`a e intelligenza, era temuto. C'erano il padre, la madre, il nonno e la nonna paterni le cameriere Anna e Ida, e tutti vivevano sotto l'incubo dei suoi capricci, ma nessuno avrebbe osato confessarlo, anzi era una continua gara a proclamare che un bambino caro affettuoso, docile come lui non esisteva al mondo. Ciascuno voleva primeggiare in questa sfrenata adorazione. E trema- va al pensiero di poter involontariamente provocare il pian- to del bambino: non tanto per le lacrime, in fondo trascu- rabili, quanto per le riprovazioni degli adulti. Infatti, col pretesto dell'amore per il piccolo, essi sfogavano a vicenda i loro spiriti maligni controllandosi e facendosi la spia Ma paurose di per sé erano le ire di Giorgio. Con l'astu- zia propria di questo tipo di bambini, egli misurava bene l'effetto delle varie rappresaglie. Percio aveva guardato l'uso delle proprie armi nei seguenti termini: per le piccole con- trariet`a si metteva semplicemente a piangere, con dei sin- gulti per la vent`a, che sembrava gli dovessero schiantare il petto. Nei casi piú importanti, quando l'azione doveva pro- lungarsi fino all'esaudimento del desiderio contrastato, met- teva 11 muso e allora non parlava, non giocava, si rifiutava di mangiare: cio che in meno di una giornata portava la famiglia alla costernazione. Nelle circostanze ancor piú gra- vi le tattiche erano due: o simulava di essere assalito da misteriosi dolori alle ossa, i dolori alla testa e al ventre non sembrandogli consigliabili per il pericolo di purghe (e gi`a nella scelta del male si rivelava la sua forse inconsapevole perfidia perché, a torto o a ragione, si pensava subito a una paralisi infantile). Oppure, e forse era il peggio, si mette- "va a urlare; dalla sua gola usciva, ininterrotto e immobile" di tono, un grido estremamente acuto, quale noi adulti non sapremmo riprodurre, e che perforava il cranío. In pratica non era possibile resistere. Giorgio aveva ben presto partita vinta, con la doppia volutt`a di venire soddisfatto e di ve- dere i grandi litigare, L'uno rinfacciando all'altro di aver fatto esasperare l'innocente. Per i giocattoli Giorgio non aveva mai avuto una sincera inclinazione. Solo per vanit`a ne voleva molti e di bellissi- mi. Il suo gusto era di portare a casa due tre amici e di sbalordirli. Da un piccolo armadio, che teneva chiuso a chia- ve, estraeva ad uno ad uno, e in progressione di magnifi- cenza, i suoi tesori. I compagni spasimavano di invidia. E lui si divertiva ad umiliarli. «No, non toccare tu che hai le mani sporche... Ti piace eh? D`a qua, d`a qua, se no fi- nisci per guastarlo... E tu, dimmi, te ne hanno regalato uno anche a te? » (ben sapendo che cosí non era). Dallo spira- glio della porta, genitori e nonni lo covavano teneramente con gli sguardi: « Che caro » sussurravano. « 1proprlo un omettino1 ormai... Sentitelo come si stima !... Eh, ci tiene lui ai suoi giocattoli, eh ci tiene all'orsacchiotto che gli ha regalato la sua nonna! » Quasi che l'essere geloso dei ba- locchi fosse per un bimbo una virtú straordinaria. Basta. Un conoscente porto un giorno dall'America un giocattolo meraviglioso in dono a Giorgio. Era un « camion del latte », perfettissima riproduzione degli autofurgoni co- "struiti per quel servizio; verniciato di bianco e azzurro, coi" due conducenti in uniforme che si potevano mettere e le- vare, le portiere anteriori che si aprivano, i pneumatici alle "ruote; nell'interno, infilati uno sull'altro per mezzo di spe" ciali guide, tanti canestrini di metallo, ciascuno contenente otto microscopiche bottiglie sigillate col tappo di stagnola. - E sui fianchi due autentiche saracinesche a ghigliottina che, . aprendosi, si arrotolavano proprio come quelle vere. Era senza dubbio il giocattolo piú bello e singolare di quanti ne possedesse Giorgio, e probabilmente il piú costoso. Ebbene, un pomeriggio il nonno, colonnello in pensio- ne, che in genere non sapeva che cosa fare dell'anima sua passando dinanzi all'armadio dei giocattoli, tiro quasi per caso, come succede, la manopola dello sportello. Sentí che cedeva. Giorgio l'aveva chiuso a chiave come al solito, ma l'anta gemella, in cui il chiavistello si incastrava, per di- menticanza non era stata fissata coi catenacci in alto e in basso. E cosí entrambe si aprirono. Disposti su quattro piani stavano qui in perfetto ordine i giocattoli, tutti ancora lucidi e belli perché Giorgio non li adoperava quasi mai. Giorgio era fuori con Ida, anche i genitori erano usciti, la nonna Elena lavorava a maglia nel salotto. Anna in cucina dormicchiava. La casa era quieta e silenziosa. Il colonnello si guardo alle spalle come un la- dro. Poi, con un desiderio da lungo tempo vagheggiato, le sue mani si protesero al camion del latte che nella penom- bra risplendeva. Il nonno lo colloco sul tavolo, si sedette e si accinse a esa- minarlo. Ma c'e una legge arcana per cui se un bambino tocca di nascosto una cosa dei grandi, questa cosa subito si rompe e slmmetricamente, toccato dai grandi, si romt~e il glocattolo che pure il bambino aveva sen~a danni maneg- giato per mesi con energia selvaggia. Non appena il non- no, con la delicatezza di un orolo~iaio, ebbe alzato una del- le piccole saracinesche laterali, si udí un clic, un listello di latta verniciata schizzo fuori e il perno su cui la saracinesca si sarebbe dovuta avvolgere ciondolo senza piú sostegno. Col batticuore, il vecchio colonnello si affanno per rimet- tere le cose a posto. Ma le mani gli tremavano. E gli fu ben chiaro che con la sua nessuna abilit`a riparare il guasto era impossibile. Né si trattava di una avaria recondita, fa- cile a venir dissimulata. Scardinato il perno, la saracinesca non chiudeva piú, pendendo tutta sghemba. Un disperato smarrimento prese colui che un giorno ai piedi del Montello aveva condotto i suoi cavalleggeri a una disperata carica contro le mitragliatrici degli austriaci. E un brivido gli percorse le vertebre al suono di una voce che pareva quella del giudizio universale: « Gesummaria, Anto- nio, cos'hai fatto? ». Il colonnello si volto. Sulla soglia, immobile, sua moglie, Elena, lo fissava con le pupille dilatate. « L'hai rotto, dl', L'hai rotto ? » « Macché, non e... ti dic... non e niente » mugolo il vec- chio militare, annaspando con le mani nell'assurdo tentati- vo di sistemare la rottura. « E adesso? E adesso cosa fai? » incalzo la donna con affanno. « E quando Giorgio se ne ac- corge? Adesso cosa fai? » « L'ho appena toccato, ti giuro... doveva essere gi`a rotto... Non ho fatto niente, io » cerco "miserabilmente di scusarsi il colonnello; e se mai si era il-" luso di trovare nella moglie una certa solidariet`a morale, questa speranza venne meno tanta fu l'indignazione della vecchia: «Non ho fatto non ho fatto, mi sembri un pap- pagallo!... Si sar`a rotto da solo, si capisce!... E fa qualcosa almeno, e muoviti, invece di stare l`a come uno stupido!... Giorgio puo essere qui da un momento all'altro... E chi... (la voce le si ingorgava per la rabbia)... e chi ti ha detto di aprire l'armadio dei giocattoli? » Non occorreva altro perché il colonnello perdesse la te- sta del tutto. Purtroppo era domenica, impossibile trovare un operaio capace di riparare il camioncino. Intanto la si- gnora Elena, quasi per non restare implicata nel delitto, se n'era andata. Il colonnello si sentí solo, abbandonato, nella ingrata selva della vita. La luce declinava. Tra poco notte, e Giorgio di ritorno. Con l'acqua alla gola, il nonno allora corse in cucina in cerca di uno spago. Con lo spago, sfilato il tetto del ca- mion, riuscí a fissare le estremit`a della saracinesca, cosí che restasse chiusa, pressapoco. Evidentemente essa non si po- teva aprire piú ma almeno dall'esterno non si notava nulla di anormale. Rimise il giocattolo al suo posto, chiuse l'ar- madio. Si ritiro nel suo studiolo. Appena in tempo. Tre lunghe scampanellate prepotenti annunciavano il ritorno del tlranno. Se almeno la nonna avesse tenuto la bocca chiusa. Figu- rarsi. A ora di pranzo, tranne il piccolo, tutti erano al cor- rente del disastro comprese le donne di servizio. E anche un bambino meno astuto di Giorgio si sarebbe accorto che nell'aria c'era qualcosa di insolito e sospetto. Due o tre volte il colonnello tento di avviare una conversazione. Ma nessuno lo aiutava. « Cosa c'e? » domando Giorgio con la sua naturale improntitudine. « Avete tutti la luna piena? » « Ah quest'e bella, abbiam la luna piena, abbiamo, ah ah ! » fece il nonno, cercando eroicamente di voltare tutto in scherzo. Ma la sua risata si spense nel silenzio. Il bambino non fece altre domande. Con sagacia addi- rittura demoniaca sembro capire che il disagio generale si "riferiva a lui; che l'intera famiglia, per qualche motivo" ignoto, si sentiva in colpa: e che lui la teneva nelle mani. Come fece a indovinare? Fu guidato dai trepidanti sguar- di dei familiari che non lo lasciavano un istante? O ci fu qualche delazione ? Fatto e che, terminato il pranzo, con un ambiguo sorrisetto Giorgio ando all'armadio dei gio- cattoli. Spalanco gli sportelli, resto ur`i buon minuto in con- templazione quasi sapesse di prolungare cosí l'ansia del col- pevole. Quindi, fatta la scelta, trasse dal mobile il camion- cino e, tenendolo stretto sotto un braccioando a sedersi su un divano, donde fissava ad uno ad uno i grandi, sorri- dendo. « Che cosa tai, Giorgino? » disse infine con voce spenta il nonno. «Non e ora di fare la nanna?» «La nanna?» fu la evasiva risposta del nipote che accentuo il ghigno bef- fardo. « E perché non giochi allora? » oso chiedere il vec- chio, a quell'agonia sembrandogli preferibile una rapida catastrofe. « No » fece il bimbo dispettoso « di giocare non ho voglia. » Immobile, aspetto circa mezz'ora, quindi an- nuncio: « Io vado a letto ». E uscí col camioncino sotto il braccio. Divenne una mania. Per tutto il giorno dopo, e per l'al- tro successivo, Giorgio non si distacco un istante dal vei- colo. Perfino a tavola volle tenerselo accanto, come non aveva mai fatto prima per nessun balocco. Ma non gioca- va, non lo faceva andare, né mostrava alcuna voglia di guardare dentro. Il nonno viveva sulle spine. « Giorgio » disse piú di una volta « ma perché ti porti sempre dietro il camioncino se poi non giochi? Che fissazione e questa? Su, vieni qua, fam- mi vedere le belle bottigliette ! » Insomma, non vedeva l'ora che il nipotino scoprisse il guasto, succedesse poi quello che doveva succedere (non osando tuttavia confessare sponta- neamente l'accaduto). Tanto gli pesava il tormento dell'at- tesa. Ma Giorgio era irremovibile. «No, non ho voglia. E mio o non e mio il camion? E allora lasciami stare. » La sera, dopo che Giorgio era andato a letto, i grandi di- scutevano. « E tu diglielo ! » diceva il padre al nonno « piut- tosto che continuare in questo modo! E tu diglielo! Non si vive piú per questo maledetto camion ! » « Maledetto ? » protestava la nonna. « Non dirlo neanche per scherzo... il giocattolo che gli e piú caro di tutti. Povero tesoro! » Il pap`a non le badava: « E tu diglielo ! » ripeteva esasperato. « Avrai il coraggio, tu che hai fatto due guerre, avrai il coraggio, no? » Non ce ne fu bisogno. Il terzo giorno, comparso Giorgio col suo camioncino, il nonno non seppe trattenersi: « Su, I I I~TN(T.11177~TT Giorgio, perché non lo fai andare un poco ? Perché non giochi? Mi fai senso, sempre con quel coso sotto il brac- cio! ». Allora il bambino si ingrugno come al delinearsi di un capriccio (era sincero o faceva tutta una comrnedia ?). Poi si mise a gridare, singhiozzando: « Io ne faccio quel che voglio del mio camion, io ne faccio! E finitela di tor- mentarmi. L'avete capito o no che basta?... Io lo fracasso se mi piace. Io ci pesto sopra i piedi... L`a... I`a, guarda! ». Con le due mani alzo il giocattolo e di tutta forza lo sca- ravento per terra, poi coi calcagni gli salto sopra, sfondan- dolo. Divelto il tetto, il camioncino si schianto e le botti- gliette si sparsero per terra. Qui Giorgio all'improvviso si arresto, cesso di urlaré, si chino a esaminare una delle due pareti interne del veicolo, afferro un'estremit`a del clandestino spago messo dal nonno alla saracinesca. Inviperito, si guardo intorno, livido: « Chi ? » balbetto. « Chi e stato ? Chi ci ha messo le mani ? Chi l'ha rotto? » Si fece avanti il nonno, il vecchio combattente, un poco chino. « O Giorgino, anima mia » supplico la mamma. « Sii buono. Il nonno non l'ha fatto apposta, credi. Perdonagli. Giorgino mio ! » Intervenne anche la nonna: « Ah no, creatura, hai ra- gione tu. Fagli toto al brutto nonno che ti rompe tutti i giocattoli... Povero innocente. Gli rompono i giocattoli e poi ancora vogliono che sia buono, poverino. Fagli toto al brutto nonno ! » Di colpo Giorgio ritorno tranquillo. Guardo lentamente le facce ansiose che lo circondavano. Il sorriso gli ricom- parve sulle labbra. " « L'ho detto io » fece la mamma; « L'ho sempre detto che" e un angelo ! Ecco che Giorgio ha perdonato al nonno ! Guardatelo, che stella! » " Ma il bimbo li esamino ancora ad uno ad uno; il padre," la mamma, il nonno, la nonna, le due cameriere. « E guar- d`atelo che stella... e guard`atelo che stella !... » cantarello, fa- cendo il verso. Diede un calcio alla carcassa del camioncino che ando a sbattere nel muro. Poi si mise freneticamente a ridere. Ridevá da spaccarsi. « E guard`atelo che stella! » ri- peté beffardo, uscendo dalla stanza. Terrificati, i grandi tac- quero. RIGOLETTO Alla rivista militare per l'anniversario dell'indipendenza sfilo per la prima volta in pubblico un reparto dell'arma atomica. Era un giorno chiaro ma grigio di febbraio ed una luce uniforme batteva sui polverosi palazzi del corso da cui sventolavano le bandiere. Dove io mi trovavo, il passaggio dei formidabili carri armati che aprivano il corteo romban- do strepitosamente sul selciato di pietra non ebbe il solito effetto elettrizzante sulla folla. Pochi e svogliati gli applausi all'apparire delle magnifiche macchine irte di cannoni, dei bellissimi soldati che spuntavano dalla sommit`a delle tor- rette coi loro caschi di cuoio e di acciaio. Gli sguardi an- davano tutti laggiú, verso la piazza del Parlamento, donde la colonna muoveva, in attesa della novit`a. Circa tre quarti d'ora duro il passaggio dei carri, gli spet- tatori ne avevano la testa rintronata. Finalmente l'ultimo mastodonte si allontano col suo orrendo frastuono e il cor- so rimase deserto. Ci fu silenzio, mentre dai balconi le bandiere dondolavano al vento. Perché nessuno avanzava ? Anche il rombo dei carri si era gi`a perso nella lontananza tra vaghi echi di remote fan- fare e la strada vuota attendeva ancora. Che fosse interve- nuto un contrordine? Ma ecco dal fondo, senza alcun rumore, venne avantí una "cosa; e poi una seconda, una terza, e moltissime altre, in" lunga fila. Avevano ciascuna quattro ruote gommate ma propriamente non erano né automobili, né camionette, né carri armati, né altre macchine conosciute. Piuttosto delle strane carrette erano, di aspetto inusitato e in certo modo meschine. Mi trovavo in una delle prime file e potei osservarle be- ne. Ce n'erano a forma di tubo, di marmitta, di cucina da campo, di bara, tanto per darne un'idea approssimativa. Non grandi, non espressive e neppure forti di quella com- pattezza esteriore che spesso nobilita le piú squallide mac- chine. Gli involucri metallici che le rivestivano sembrava- no anzi quasi « arrangiati » e ricordo una specie di sportel- lino laterale un po' ammaccato che evidentemente non si riusciva a chiudere e sbatteva con rumore di latta. Il colore era giallino con bizzarri disegni verdi che ricordavano le felci, a scopo di mimetizzazione. Gli uomini, a due a due, stavano per lo piú infossati nella parte posteriore dei vei- coli e ne emergeva solo il busto. Del tutto consuete le uni- formi, i caschi e le armi: moschetti automatici di modello regolamentare che i soldati portavano evidentemente a sco- po deccrativo cosí come non molti anni prima si vedevano ancora cavalieri armati di sciabola e di lancia. Due cose fecero subito una grande impressione: L'assolu- to silenzio con cui avanzavano gli strumenti, mossi eviden- "temente dama energia sconosciuta; e soprattutto l'aspetto" fisico dei militari a bordo. Essi non erano vigorosi giova- notti sportivi come quelli dei carri, non erano abbronzati dal sole, non sorridevano di ingenua spavalderia e neppure sembravano chiusi in una ermetica rigidit`a militaresca. Ma- gri erano nella maggioranza, strani tipi di studenti di filo- scfia, fronti spaziose e grandi nasi, tutti con cuffia da te- legrafista, molti con occhiali a stanghetta. E pareva igno- rassero di essere soldati, a giudicare dal contegno. Una spe- cie di rassegnata preoccupazione si leggeva sulle loro fac- ce. Chi non badava alla manovra delle macchine si guar- dava intorno con espressicne incerta ed apatica. Solo i con- ducenti di certi piatti furgoni a scatola rispondevano un po' all'aspettativa: una sorta di schermo trasparente a forma di calice, svasato e aperto in alto, circondava la loro testa con un effetto sconcertante di mascherone. Mi ricordo, sulla seconda o terza carretta, un gobbino, seduto un po' piú in alto degli altri, probabilmente un uffi- ciale. Senza badare alla folla continuava a voltarsi indietro per controllare i veicoli seguenti quasi temesse che restas- sero per via. « D`ai, Rigoletto! » grido uno dall'alto di un balcone. Lui alzo gli sguardi e con un sorriso stentato agito una mano salutando. Fu proprio l'estrema povert`a dell'apparato mentre tut- ti sapevano quale infernale potenza di distruzione fosse contenuta in quei recipienti di lamiera- a mettere sgomen- to. Voglio dire che se i meccanismi fossero stati molto piú grandiosi, probabilmente non se ne avrebbe avuto una im- pressione cosí torbida e potente. Questo spiega l'attenzione quasi ansiosa della folla. Non c'era un applauso né un ev- viva. " In tanto silenzio mi parve, come dire?; che un ritmico" lieve cigolio uscisse dai misteriosi veicoli. Assomigliava a certi richiami di uccelli migratori, ma di uccello non era. Dapprima estremamente sottile, quindi via via piú distinto, scandito pero sempre col medesimo ritmo. Guardavo l'ufficiale gobbino. Lo vidi togliersi la cuffia da telegrafista e confabulare animatamente col compagno seduto piú sotto. Anche a bordo di altre carrette notai se- gni di nervosismo. Come se stesse accadendo alcunché di irregolare. Fu allora che sei sette cani, dalle case intorno, comincia- rono insieme ad abbaiare. Siccome i davanzali erano gre- miti di spettatori e quasi tutte le finestre spalancate, gli ani- maleschl rlchlami echeggiarono largamente nella via. Che cosa avevano quelle bestiacce? Chi chiamavano in aiu5,o con tanto furore? Il gobbetto ebbe un gesto di impazienza. In quel mentre- me ne accorsi con la coda dell'occhio - un oggetto scuro guizzo alle mie spalle. Voltandomi, feci in tempo a scorgere tre quattro topi che, sgusciati dal lu- cernario di una cantina a fior del terreno, fuggivano pre- cipitosamente. Un signore anziano al mio fianco alzo un braccio con l'indice teso verso il cielo. E allora vedemmo che al di so- pra delle macchine atomiche, nel mezzo della via, si erge- vano a picco strane colonne di polvere rossiccia, simili al- le trombe d'aria dei tor~ladoma ferme, verticali, non vor- ticose. Nello spazio di pochi secondi assunsero una forma geometrica, prendendo maggiore consistenza. Descriverle e difficile: immaginate il fumo contenuto in un alto camino di fabbrica, ma senza il camino che lo racchiuda. Adesso le inquietanti torri di fitto pulviscolo, come fantasmi, si ele- vavano per una trentina di metri sopravanzando i tetti dei palazzi, e da una cima all'altra vedemmo altrettanti ponti della stessa nebulosa materia colore della fuliggine. Si for- mo ccsí una intelaiatura di immense rigide ombre che si prolungava a perdita d'occhio in corrispondenza del cor- teo. E i cani chiusi nelle case continuavano a latrare. Che accadeva? La sfilata si fermo, e il gobbino, sceso dal suo veicolo, risalí di corsa la colonna gridando complicati ordini che parevano in lingua straniera. Con malcelata ansiet`a i militari armeggiarono intorno ai loro apparecchi. Ormai i minareti di nebbia o pulviscolo - evidenti ema- nazioni dei carri atomici - incombevano altissimi sopra la folla, con rigore di linee quanto mai sinistro. Un'altra frot- ta di topi balzo fuori dal lucernario dandosi a pazza fuga. Come mai non oscillavano al vento, come le bandiere, que- sti pinnacoli di malaugurio? Benché inquieta, la folla ancora taceva. Dinanzi a me, al terzo piano, si aprí di schianto una finestra e vi ccm- parve una giovane donna scarmigliata. Rimase un istante, estatica, a fissare i picchi di inspiegabile nebbia e gli aerei ponti che li congiungevano. Porto le mani ai capelli in atto di spavento e un grido desolato uscí dalla gola: « Madon- na! Oh, Madonna! ». Che voce! Cercando di dominarmi mi trassi indietro. In un ultimo sguardo vidi i militari febbrilmente agitarsi in- torno agli apparecchi come se non riuscissero piú a domi- narli (piú tardi compresi che, pur pallidi e brutti, erano anch'essi dei veri soldati). Avrei fatto in tempo ? A velo- ci passi dapprima, attento a non farmi notare, svelto, sem- pre piú svelto, finché mi gettai fuori della calca, infilando una strada laterale. Udivo alle mie spalle il rombo della folla, finalmente incrridita, sotto l'urto del panico. A trecento metri circa ebbi la forza d'animo di voltarmi indietro a guardare: sopra il nero selvaggio tumulto della moltitudine in fuga, le torri di ombra rossiccia adesso dondolavano, i ponti fra l'una e l'altra contorcendosi lentamente: in uno sforzo supremo, si sarebbe detto. Il loro allucinante moto accelerava sempre piú, diventando frenetico. Allora un urlo tenebroso ed atro- ce tuono tra le case. Poi accadde cio che tutti sanno. IL MUSICISTA INVIDIOSO Il compositore Augusto Gorgia, uomo invidiosissimo, gi`a al colmo della fama e dell'et`a, una sera, passeggiando da solo nel quartiere, udí un suono di pianoforte uscire da un grande casamento. Augusto Gorgia si fermo. Era una musica moderna pero diversa dal tipo che faceva lui o da quella che facevano "i colleghi; di simile non ne aveva mai sentita. Non si po-" "teva neppur dire, lí per lí, se fosse seria o musica leggera;" pur ricordando certe canzoni popolari per una sua triviali- t`a, conteneva un amaro sprezzo, e sembrava quasi che scher- zasse benché nel fondo si avvertisse una convinzione ap- passionata. Ma soprattutto Gorgia fu colpito dal linguaggio, il quale era libero dalle vecchie leggi armoniche, spesso stri- dulo e arrogante, e nello stesso tempo riusciva a una mas- sima evidenza. La caratterizzava inoltre un bello slancio, giovanile levit`a, senza alcuna traccia di fatica. Ma ben pre- sto il piano tacque e inutilmente Gorgia continuo a passeg- giare nella via aspettando che ricominciasse. " ""Chiss`a, sar`a roba americana"" pensava ""laggiú, in fatto" di musica, combinano i piú infernali intrugli.E si avvio per rincasare. Tuttavia gli rimase quella sera, e tutto il gior- "no dopo, un fastidio dell'animo; come quando, cacciando" per il bosco, uno batte contro una roccia o un tronco e nel- la furia non ci bada ma poi, di notte, il punto duole e non si riesce a ricordare dove e come. Ci volle piú di una setti- mana perché la cicatrice scomparisse. Qualche tempo dopo, rincasato verso le sei del pomerig- gio, aperta che ebbe la porta di casa, Gorgia udí la voce della radio accesa nel salotto: e d'un subito, con la prontez- "za dell'esperto, riconobbe il suono; questa volta era musica" d'orchestra e non piú di pianoforte solo, eppure identica al pezzo udito quella sera, lo stesso accento atletico e super- bo, e sempre il bizzarro periodare, con l'autorit`a quasi ol- traggiosa dell'idea che pareva il galoppo di un cavallo estre- mamente ansioso di arrivare. Gorgia non fece in tempo a chiudere la porta che la mu- sica cesso. E dal salotto, con precipitazione insolita, si av- vicinarono i passi della moglie. « Ciao caro » disse « non sapevo che tu tornassi cosí presto. » Ma perché aveva quel- la faccia imbarazzata? Aveva qualcosa da nascondere? « Che succede? » lui domando, perplesso. « Come che succede ? E che cosa dovrebbe succedere ? » Maria si era subito ripresa. « Non so. Mi hai salutato in certo modo... Ma dimmi un po', che cosa stava trasmettendo la radio? » « Ah, se credi che ci stessi attenta! » « E allora perché l'hai spenta appena sono entrato? » « Mi fai un'inchiesta? » fece lei ridendo. « Se vuoi pro- prio sapere, L'ho spenta mentre ti venivo incontro. Ero di l`a nella mia camera, e l'avevo dimenticata accesa. » « Trasmettevano una musica » disse Gorgia pensieroso « una musica curiosa... » e si avvio verso il salotto. «Benedetto uomo, non ne hai proprio mai abbastanza di musica... da mattina a sera musica... non sei mai sazio. E lasciala un po' stare quella radio! » disse vedendo che egli stava per riaccenderla. Allora lui si volse ad osservarla: sembrava inquieta, qua- si temesse qualche cosa. Con dispetto giro l'interruttore, il quadrante si illumino, dall'apparecchio uscí il solito ronzio, poi una voce: «...mo trasmesso un programma di musica da camera. Col prossimo concerto offerto dalla ditta Tre- mel... x. « Contento adesso? » fece Maria che pareva sol- levata. La sera stessa, uscendo dopo pranzo con l'amico Giaco- melli, Gorgia, comprato il giornale della radio, vi cerco il programma di quel giorno. «Ore 10,45, c'era scritto, con- certo di musica da camera diretto dal maestro Sergio An- "fossi; composizioni di Hindemith, Kunz, Meissen, Ribbenz," Rossi e Stravinski. » No, la musica ch'egli aveva udito di Stravinski non era di sicuro. I nomi, nel giornale erano in ordine alfabetico, evidentemente la successione dei pezzi era stata cambiata nel concerto. E neppure era musica di Hindemith, né di Meissen, Gorgia li conosceva troppo be- ne. Ribbenz, allora? No: Max Ribbenz, suo antico compa- gno di Conservatorio, si era cimentato, dieci anni prima, in "una grande cantata polifonica, lavoro onesto ma scolastico;" "e poi aveva smesso di comporre; dopo tanto silenzio, solo" recentemente si era rifatto vivo, piazzando un'opera al "Teatro di Stato; propriG in quei giorni doveva andare in" "scena; ma da quel lontano precedente si poteva prevedere" cosa fosse. Dunque neppure Ribbenz. Restavano Kunz e Rossi. Ma chi erano? Gorgia non li aveva mai sentiti no- minare. « Che cosa cerchi? » domando Giacomelli vedendolo co- sí assorbito. « Niente. Oggi ho sentito per radio una mu- sica. Mi piacerebbe sapere di chi e. Una musica curiosa. Ma qui non si capisce. » « Che specie di musica? » «Non sa- prei dire ecco, una musica maleducatissima, direi. » « Va l`a, va l`a non pensarci » scherzo Giacomelli che lo sapeva su- scettibile « lo sai meglio di me, il musicista che ti spiante- ra non e ancor nato. » « Anzi, anzi » disse Gorgia indovinando l'ironia « ne sa- rei felice. Io speravo che qualcuno, finalmente... (Ul`i pen- siero fastidioso gli passo)... A proposito, e domani la pro- va dell'opera di Ribbenz? » Giacomelli non rispose subito. « No, no » disse, indifferente « devono averla rimandata... » « E tu ci vai ? » « Eh, no, sai » fece Giacomelli « e una cosa Superiore alle mie forze. » A questa frase, Gorgia torno di buon umore: « Povero Ribbenz » esclamo « povero vecchio Ribbenz, sono proprio contento per lui. Almeno questa sod- disfazione... E d`ai e d`ai... ! ». La sera dopo, in casa, Gorgia tentava svogliatamente il piano, quando a un tratto gli parve di udire, di l`a dell'uscio chiuso, un parlottio. Insospettito si avvicino a origliare. Nel salotto adiacente, sua moglie e Giacomelli stavano confabulando a bassa voce. Lui diceva: « Ma lo verr`a pure a conoscere, presto o tardi ». « Quanto piú tardi, sar`a me- glio » diceva Maria. « Lui ancora non deve sospettare nien- te. » « Meglio cosí... Ma i giornali ? Non si puo mica impe- dirgli di leggere i giornali. » Qui Gorgia aprí d'impeto la porta. Come ladri presi in fallo, i due si levarono di scatto. Erano pallidi. « Be' » chiese Gorgia. « Chi e che non deve leggere i giornali? » « Ma, ma... » disse Giacomelli « rac- contavo di un mio cugino arrestato per appropriazione in- debita. Suo padre, che e mio zio, non ne sa niente. » Gorgia diede un sospiro. Meno male. Ebbe anzi un sen- so di vergogna per quell'irruzione un po' indiscreta. A for- za di sospetti finiva per avvelenarsi l'esistenza. Ma in se- guito, mentre Giacomelli raccontava, il torbido malessere riprese: era poi vera la storia del cugino? Non poteva Gia- comelli averla inventata lí per lí ? Perché altrimenti quel parlottare sottovoce? Stava all'erta, non diversamente dal malato a cui i me- "dici e i parenti nascondono la sentenza irrevocabile; egli" fiuta mtorno la menzogna, ma gli altri sono assai piú astuti sviano le sue curiosit`a, e se non riescono a tranquillizzarlo gli risparmiano almeno l'orrenda verit`a. Anche fuori di casa egli credeva di sorprendere sintomi sospetti: per esempio certi sguardi ambigui di colleghi, o l'ammutolire che facevano al suo avvicinarsi, o l'imbarazzo, nel discorrere con lui, di persone abitualmente loquacissime. Gorgia si controllava tuttavia, domandandosi se questa dif- "fidenza non fosse un segno di nevrastenia; invecchiando," certi uomini vedono nemici dappertutto. E che aveva da temere poi ? Era famoso, rispettato, finanziariamente ben provvisto. Teatri e societ`a di concerti si disputavano le sue composizioni. Di salute non poteva stare meglio. Non ave- va mai fatto del male. E allora ? Che pericolo poteva mi- nacciarlo ? Ma ragionare cosí non gli bastava. L'orgasmo lo riassalí il giorno successivo, dopo pranzo. Erano gi`a quasi le dieci. Nello scorrere il giornale, vide che la nuova opera di Ribbenz andava in scena quella sera. Ma come? Giacomelli non gli aveva detto che la prova era stata rimandata? E come mai nessuno lo aveva avvertito sol- lecitando il suo intervento? E perché la direzione del teatro non gli aveva mandato le poltrone come al solito? « Maria Maria » chiamo col batticuore. « Tu sapevi che la prima di Ribbenz e stasera? » Maria accorse con affanno. « Io, io ? Sí, ma io credevo... » « Cosa credevi ? .. . E le poltrone ? Possibile che non mi abbiano mandato le poltrone? » «Sí, sí. Non l'hai vista la busta? Te l'avevo messa sul como. » « E non mi hai detto niente? » « Credevo che non ti interessasse... Dicevi che non ci sa- resti mai andato... Non mi beccano, dicevi... E poi mi e passata di mente, ti confesso... » Gorgia era fuori di sé. « Io non capisco... io non capisco » ripeteva « e sono gi`a le dieci e cinque... ormai non si fa piú in tempo... quell'idiota d'un Giacomelli... (il sospetto che da qualche tempo lo tormentava ora si era localizzato: nell'opera di Ribbenz, per un motivo che egli non riusciva a immaginare, doveva esserci qualcosa di nefasto. Guardo ancora il giornale, quasi non si capacitasse). Ah, ma la tra- smettono per radio... voglio proprio cavarmi questo gusto. » Maria fece una voce dolente: « Augusto, mi dispiace, ma la radio non funziona... ». 1` "304 DlNo R1177ATI ; IL MUSICISTA INVIDIOSO 305" « Non funziona? E da quando non funziona? » « Da questo pomeriggio. Alle cinque ho fatto per accen- derla, c'e stato dentro un clic e non si e sentito piú niente, deve esserci una valvola bruciata. » « Proprio stasera? Ma vi siete messi tutti d'accordo per... » « Per che cosa messi d'accor.lo? » Maria quasi piangeva. « Che colpa ce ne ho io? » « Bene, io esco. Una radio da qualche parte ci sar`a... » « No. Augusto... piove... e tu sei raffreddato... e gi`a tar- di... avrai tutto il tempo di sentirla quella maledetta opera. » Ma Gorgia, preso l'ombrello, era gi`a fuori. Ando vagando finché lo attrassero le luci bianche di un cafFe. Qui c'era poca gente. Un gruppetto si vedeva pero raccolto in fondo, nella saletta per il te. E di laggiú veniva musica. Strano, penso Gorgia. Tanto interesse per la radio si notava solo la domenica, quando trasmettevano partite. Poi il dubbio: possibile che ascoltassero l'opera di Ribbenz? Ma era assurdo. Tra la gente che immobile ascoltava c'era- no tipi al di l`a di ogni sospetto: due giovani in maglione, per esempio, una ragazza di facili costumi, un cameriere in giacchetta bianca. Gorgia fu tratto da un richiamo oscuro, come se gi`a da molti giorni, anzi da mesi ed anni egli gi`a avesse saputo di dover trovarsi- l`a, in quel locale e non un altro, a quel- L'ora destinata. E via via che la musica, lui avvicinandosi, si rivelava nel ritmo e nelle note, L'uomo provo una stretta al cuore. Era musica nuovissima per lui, e nello stesso tempo sca- vata nel suo cervello come un'ulcera. Era la strana musica gi`a udita per la via, e poi a casa quella sera. Ma adesso era ancora piú libera e orgogliosa, e piú potente di volgarit`a selvaggia. Non resistevano neanche gli uomini ignoranti, i meccanici, le donnette, i camerieri. Schiavi e sconfitti, resta- vano l`a a bocca spalancata. Il genio! E questo genio si chia- "mava Ribbenz; e gli amici e la moglie avevano tentato di" tutto afffinché Gorgia non ne sapesse niente, per la piet`a che avevano di lui. Era il genio che l'umanit`a aspettava da al- meno mezzo secolo, e che non era lui, Gorgia, bensí un altro della sua stessa et`a, finora ignoto e disprezzato. Come gli ripugnava quella musica, che bello sarebbe stato sma- scherarla, dimostrarla falsa, coprirla di risate e di vergogna. Essa invece fendeva i flutti del silenzio come una corazzata "vittoriosa; e presto avrebbe conquistato il mondo." Un cameriere lo prese per un braccio: « Signore, scusi, non si sente bene? ». Gorgia infatti barcollava. « No, no, grazie. » E senza bere nulla se ne uscí, sotto la pioggia, disperato. « Madonna Santa! » mormorava tra sé, ben sapendo che per lui ogni gioia era finita. Né poteva, "come liberazione, offrire a Dio questo suo dolore; perché a" questi dolori Dio si indigna. NOTTE D'INVERNO A FILADELFIA Ai primi del luglio 1945 la guida alpina Gabriele France- schini, salito da solo nell'alta Val Canali (Pale di San Mar- tino di Castrozza) per studiare una via nuova sulla parete della Cima del Coro, scorse, a oltre cento metri dalla base delle rocce, una cosa bianca appesa a una gobba strapiom- bante. Guardato bene, capí che era UQ paracadute e si ri- cordo come in gennaio un quadrimotore americano di ritor- no dall'Austria fosse precipitato da quelle parti: sette otto degli aviatori erano calati incolumi presso Gosaldo. Altri due, portati via dal vento, erano stati visti scendere dietro le creste del gruppo della Croda Grande e non se n'era piú saputo nulla. Sotto lo strapiombo si vedevano dei fili bianchi che don- dolavano sostenendo una piccola cosa nera: una borsa per le provviste d'emergenza? O il cadavere stesso dell'aviatore cosí ridotto dal sole, dai corvi, dalle burrasche? La parete in quel punto era ripidissima, pero non molto dl'mcile, cir- "ca di ""terzo grado"". In breve Franceschini raggiunse il po-" sto, constato che la cosa nera era l'intrico delle cinghie che avevano sostenuto l'aviatore e che erano state tagliate nette con un coltello. Trasse giú il paracadute. In un terrazzino piú sotto vide un oggetto rosso vivo: era un giubbetto di gomma doppia con due curiose leve metalliche, Iui ne mos- se una e con un sibilo il giubbetto si gonfio d'aria in un istante. Sopra c'era scritto: Lt. F. P. Muller, Philadelphia (Pa). Piú sotto ancora Franceschini trovo un caricatore di pistola con le cartucce tutte sparate, e in fondo, nel buco di fusione tra la roccia e la neve che riempiva il canalone, una sciarpa di flanella color verde militare. Inoltre: una piccola baionetta con l'estrema punta spezzata. Dell'uomo non una traccia. (Per primo si era lanciato Franklin G. Gogger, lui im- mediatamente dopo. E gli altri? Gi`a il suo ombrello bianco si era aperto e gli altri non si erano ancora gettati. Gogger sar`a stato una cinquantina di metn piú in basso. Il rombo dei motori si spegneva nelle orecchie, pareva di sprofonda- re nell'ovatta. Si accorse che il vento li spingeva, man mano che scen- devano, fuo~i dalla valle, verso Ie montagne cariche di ne- ve. A vista d'occhio esse si raddrizzavano: irte di punte stra- ne, spaccate di valloni in ombra, e in fondo l'azzur10 della neve. " « Gogger, Gogger! » chiamo""na all'improvviso tra lui e" il compagno si levo una muraglia che gli veniva incontro. Era una pare~e a picco. gialla e grigia. A un tratto gli si avvento addosso. Lui tese le mani per smorza1e l'urto.) Sceso a valle, Franceschini avvertí il piú vicino comando "americano. Torno lassú dodici giorni dopo; nel frattempo" molta neve si era sciolta. Ma cerco a lungo inutilmente. Sta- va per ridiscendere quando sul lato destro del valloneide il morto mezzo fuori della neve. Era pressoché intatto, solo "i globi degli occhi erano spariti; e una tremenda ferita alla" sommit`a della testa, una fossa rotonda e larga come una cio- tola. Un giovane sui ventiquattro anni, bruno, alto di sta- tura. Gi`a qualche mosca girava intorno. (Batté contro la roccia, fu un colpo meno tremendo del "previ.rto. Non riuscí ad a~errarsi; si trovo, come di rimbal-" zo, sospeso ancora. Ma fermo. Il pa1acadute ri era impiglia- to su una specie di minuscolo torrione sporgente in fuoii. Lui pendeva cosí nel vuoto. " Intorno rupi assurde, frastagliate, vecchissime""lon si ca-" piva come potessero stare in equilibrio. Il .role le illumina- va. Ma lui guardo il fondo del vallone (dall'alto .rembrava quasi piatto) quella bianca pista liscia ed a~ettuosa. Gli venne in mente di essere ridicolo, cosí sospeso come un bu- rattino. Una guglia sghemba assomigliante a un monaco, "proprio di fronte, lo fissava; pero senza partecipazione." Troppo silenzio. Si tolse il casco, sperava di udire qual- che suono umano, sia pur remoto. Niente. Non un grido, uno sparo, campana, rombo di autocarro. Urlo a tutta voce: « Gogger! Gogger! » - « Gogger, Goggergogger! Gog!. . . Gog! » ripeterono gli echi. freddi, matematici, e pareva vo- lessero dire non ci siamo che noi, rocce, ed e inutile che tu chiami.) Informato il comando americano, salirono col Franceschi- ni una decina di uomini al comando di un tenente. Con grande fatica, nuovi alla montagna, giunsero sul posto. Gui- da e ufficiale si intendevano in un francese alquanto pro- blematico. Il cadavere fu messo in un sacco e cominciarono a discendere il ripido canalone pieno di neve. A un certo punto pero il vallone e interrotto da un salto di rocce. Qui il tenente ordino l'alt e si fermarono. Franceschini ne ap- "profitto per guardare la ""sua"" parete, esaminando un certo" camino. Con la coda dell'occhio allora vide una cosa muo- versi. Il sacco con la salma precipitava a balzi giú per le rocce. Franceschini guardo il tenente ma questi era impas- sibile. (Un metro e mezzo sotto i suoi piedi correva una bre- vissima cornice, con sopra, a tratti, qualche cuscino di neve. L'unicaj tentare. Taglio le cinghie che lo trattenevano. Te- nendosi sospeso con le mani alle funicelle si lascio spenzo- "larei;n che tocco coi piedi. Fu sulla cengia." Ma, di sotto, la parete precipitava. Sporgendosi, egli non riusciva a vedere dovenisse. Le montagne! Mai le aveva "viste da vicino; erano straniere, esageratamente belle, tutte" sbagliate.ome le odiava. Pure, bisognava uscirne. Avesse potuto utilizzare le cordicelle del paracadute. Ma quelle or- "mai penzolavano sopra di lui; come arrampicare a pren-" derle? Un abbassamento della luce perché il sole se ne stava an- dando gli diede la paura. Faceva freddo. « Aooh! » chiamo con una specie di furore. « Aooaaoooh! » ripeterono sette otto volte le montagne, anche dall'altra parte della valle. Allora gli venne una speranza. Trasse la rivoltella e len- dendo il braccio in alto, quasi che lo potessero udir meglio, sparo, scanditi, tutti i colpi. Gli echi ripeterono. Silenzio. Mai aveva visto cose tanto immobili come le montagne, neanche le case erano capaci di stare cosí ferme. La tenuta di volo non bastava, il giovane sbatté le braccia per scal- darsi. Provo una rigaretta, non ebbe sollievo. Quando si sarebbero deciri ad arrivare, per farlo prigioniero, quei por- ci di Tedeschi?) Ritrovarono il corpo alla base della paretina. Nella ca- duta esso era uscito fuori del sacco. Lo ricomposero alla meglio. Franceschini, con l'aiuto di due cinghie da calzoni lo trascino fin dove la neve terminava. Qui, la salma fu messa su una barella. E si fermarono di nuovo. (Solo quando anche l'estremo picco 1imase lenzaole e la notte si rovescio a fiotti giú per i burroni, L'aviatore capí di essere solo. Gli uomini, i paesi, il fuoco, i caldi letti, le spiagge, le ragazze furono assurde sto1ie di un altro mondo. Mangio quel poco che aveva con sé, a gran sorsate man- do giú il gin di una fZaschettina. Ma certo: domattina qual- cuno sarebbe giunto. Si accoccolo sulla cornice. Provo a chiamare ancora ma gli echi, ora che non si vedeva quasi piú niente, gli diedero fastidio. L'alcool, la stanchezza, la gioventú: poco dopo prese sonno.) Il tenente prego Franceschini di scendere fino alla Mal- "ga Canali; di l`a avrebbe potuto mandare un mulo. Loro," col morto, sarebbero intanto venuti giú adagio adagio. Si capiva che erano terribilmente stanchi. Franceschini ando ma dopo poco udí alle sue spalle alcune voci. Erano gli Americani che scendevano di corsa senza barella. E il mor- to? chiese Franceschini. L'abbiamo lasciato l`a, dietro a quel- la roccia. E quando venite a prenderlo? Il tenente rispo- se: Quando peser`a meno. (Si risveglio e vide Filadel~ia. La sua citt`a, Dio santo.l Cambiata in modo inde!inibile da come la ricordava ep- pure sbagliarsi era impossibile. Vedeva, nellalotte, le fac- ciate dei grattacieli risplendere alla luna e dal lato opposto gli spigoli inabissarsi neri nelle vie, vedeva le strade bian- che, perché mai cosí bianche? vedeva piazze e monumenti, e cupole e le bizzarre incastellature pubblicitarie in cima ai tetti, contro le stelle. Sí, laggiu, dietro il muro della Dutchin Inc., dopo quella selva di fumaioli, era la sua casal Dor- mivano? perché neanche una luce? Perché neanche una luce, unanestra accesa, un minu- scolo breve riverbero di lighter? E le strade cosí deserte, senza una macchina che rnuova attraverso i candidi qua- drivi. Scintillano qua e l`a, altissime, come azzurre lamine di quarzo, le vetrate sui giardini pensili dei miliardari. ma anche lassu tutto e sprofondato in un paU1-050 sonno. Filadell~a e morta. Un nZisterioso cataclisma l'ha la.rciata cosi, con le turbine f erme, gli ascensori congelati a met~i strada lungo le vertigini dei cementi armati, le caldaie spen- te, i vecchi quaccheri impietriti con in mano la cornetta mu- ta del telefono. Il freddo entra a pungiglioni negli stivali foderati di pelliccia. Ma che cos'e questa voce che asromi- glia a un respiro sommesso ? E il vento, entra quasi con timidezza tra i colonnati, ne cava un querulo lamento Op- pure e voce umana? A momenti sembra di udire una spe- cie di confusa musica, come di violini e di chitar1e dalle recondite sale dei palazzi circostanti. S~lle cuspidi supreme c'e un polverio d'argento. Il freddo e una lama che lo taglia. E Dio, del quale egli ha sentito tanto parlare, dov'e Dio? Non e Filadel~a, maledizione, questa e l'ultima schi- fosa fossa della terra.) Cosí il sottotenente Muller rimase solo, esposto al sole, in mezzo alle montagne che lo contemplavano. I pastori che d'estate salgono lassú con le pecore gli tolsero gli sti- valetti di cuoio ancora in buone condizioni. Poi, non sop- portando lo spaven~()so odore, bruciarono la salma. Gli A- mericani tornarono tre mesi dopo a prendere le ossa. " (L'alba, rna a che lerve? knotte ""~li e entrata cori in" fondo che mille eltati non basterebbero a riscala'arlo, non c'e piú niente del sottotenente Muller tranne che un auto- ma sonnolento. Picchi, muraglie, pencolanti baldacchini, dor- mono ancora. Nonerr`a nessuno. Adesso I gli rnisura l'a- bisso sotto di lui. Ea tutto come per un dovere, senza con- vinzione. Si toglie gli rtivali di volo, sguaina la breve baio- netta per in.~la11a t~a roccia e roccia e cosí tenersi. Sceglie una larga fessura che sprofonda a imbuto. Forse, incastran- dosi dentro. Con una mortale svogliatezza prova, tenendosi aggrappato con le mani. Ma le mani semb1ano di un alt10, "tanto sono insensibili. Eccolo;ccato nel camino. Centime-" tro a centimetro ri lascia rcivolare. Vede per un attimo il sole battere su una lamina di r occia sospesa a un'altezza ~mmensa. Quanto durer`a l'abillo? Sotto il piede destro qualcosa a cui era appoggiato 1~olaia. Ode lo scroscio dei sassi che precipitano. La punta della baionetfa gratta con affanno senza trovare. Una fo~za lenta e persuasiva lo rovescia in- dietro. Ecco, la pareteli si abbassa dinanzi, quasi diven- tasse orizzontale. Libero.' Una risata fugge su tre cinque dieci pareti allungandori grotteSCamente, presto si spegne. Volando giú di roccia i~Zoccia, la baionetta tintinna alle- gramente. Poi tutto fermo e rrluto come prima.) Ora, sul posto, non e rimasto niente. Perché resti un "ncordo, il custode del rifugio ""Treviso"", l`a dove il morto" fu lasciato per tre mesi, ha segnato con vernice rossa, su alcune pietre in mezzo all'erba, il nome: F. P. Muller, e una croce. E sotto, in sbaglio: England. Forse perché dal- le misteriose rupi della Val Canali America e Inghilterra sono ugualmente distanti, lontane miliardi di chilometri, ed e facile fare confusione. 34 LA FRANA Fu svegliato dal campanello del telefono. Era il direttore del giornale. « Parta subito in auto » gli disse. « E venuta giú una grande frana in Valle Ortica... Sí, in Valle Or- tica, vicino al paese di Goro... Un villaggio e rimasto sot- to, ci devono essere dei morti... Del resto vedr`a lei. Non perda tempo. E mi raccomando! » Era la prima volta che gliffidavano un servizio impor- tante e la responsabilit`a lo preoccupava. Tuttavia, fatto il conto del tempo disponibile, si rassicuro. Dovevano esserci duecento chilometri di strada, in tre ore sarebbe arrivato. Gli restava tutto il pomeriggio disponibile per 1 inchiesta "e per scrivere il ""pezzo . Un servizio comodo, penso; senza" difficolt`a avrebbe potuto farsi onore. Partí nella fredda mattina di febbraio. Le strade essen- do quasi deserte, si poteva andare svelto. Prima quasi che se l'aspettasse, vide avvicinarsi i profili delle colline, poi gli apparve, fra veli di caligine, la neve delle vette. Pensava intanto alla frana. Forse era una catastrofe, con "centinaia di vittime; ci sarebbe stato da scrivere un paio" "di colonne per due o tre giorni di fila; né il dolore di" tanta gente lo rattristava, benché egli non fosse d'ammo cattivo. Gli venne poi il pensiero sgradevole dei concor- renti, dei colleghi degli altri giornali, li immaginava gi`a sul posto a raccogliere preziose notizie, molto piú svelti e furbi di lui. Comincio a guardare con ansia tutte le auto- mobili che procedevano nella stessa direzione. Senza dub- bio andavano tutte a Goro, per la frana. Spesso, avvistata una macchina in fondo ai rettilinei, forzava l'andatura per "raggiungerla e vedere chi ci fosse dentro; ogni volta era" convinto di trovare un collega, invece erano sempre volti sccnosciuti, per lo piú uomini di campagna, tipi di fitta- voli e mediatori, persino un prete. Avevano una espres- sione annoiata e sonnolenta, come se la terribile sciagura non avesse per loro la minima importanza. A un certo punto lascio il rettilineo di asfalto e piego a sinistra, per la strada della Valle Ortica, una via stretta e polverosa. Sebbene fosse mattino avanzato, non si scor- gevano sintomi anormali: né reparti di truppa, né auto- ambulanze, né camion coi soccorsi, come lui si era imma- ginato. Tutto ristagnava nel letargo invernale, solo qualche casa di contadini emetteva dal camino un filo di fumo. Le pietre sui bordi della strada dicevano: a Goro km. zo, a Goro km 19, a Goro km. 18, eppure non appariva fermento o allarme di sorta. Gli sguardi di Giovanni in- vano lspezlonavano I precipitosi fianchi delle montagne, per scoprire la frattura, la bianca cicatrice della frana. Arrivo a Goro verso mezzogiorno. Era uno di quegli strani paesi di certe valli abbandonate, che sembrano essere "rimasti indietro di cent'anni; torvi e inospitali paesi, op-" pressi da squallide montagne, senza boschi d'estate o neve d'inverno, dove usano villeggiare tre o quattro famiglie disperate. La piazzetta centrale era in quel momento vuota. Stra- no, si disse Giovanni, possibile che dopo una catastrofe simile tutti fossero fuggiti o chiusi in casa? A meno che, penso, la frana non fosse caduta in un altro paese vicino, e tutti fossero sul posto. Un pallido sole illuminava la facciata di un albergo. Sceso di macchina, Giovanni aprí la porta a vetri e sentí un intenso vociare, come di gente allegra che fosse a tavola. L'albergatore infatti stava facendo colazione con la nu- merosa famiglia. Clienti, di quella stagione, evidentemente non ce n erano. Giovanni domando permesso, si presento come giornalista, chiese notizie della frana. « La frana? » fece l'albergatore, omaccione volgare e cordialissimo. « Qui non ci sono frane... Ma forse lei de- sidera mangiare, si accomodi, si accomodi. Si sieda qui con noi, se si degna. Di l`a, nella sala, non e riscaldato. » Insisteva perché Giovanni mangiasse con loro e intanto, senza badare al visitatore, due ragazzi sulla quindicina pro- vocavano fra i commensali grandi risate per mezzo di al- lusioni familiari. L'albergatore desiderava proprio che Gio- vanni si sedesse, gli garantiva che non era facile trovare altrove, nella valle, di quella stagione, una colazione pron- "ta; ma lui cominciava a sentirsi inquieto; avrebbe man-" giato, si capisce, ma prima voleva vedere la frana, come mai a Goro non se ne sapeva nulla? Il direttore gli aveva dato ben chiare indicazioni. Non mettendosi i due d'accordo, i ragazzi seduti a ta- vola cominciarono a farsi attenti. «La frana?» fece a un certo punto un ragazzetto di dodici anni circa, che aveva intuito la questione. « Ma sí, ma sí, e piú su, a Sant'EI- mo » cosí gridava, lieto di poter mostrarsi piú informato "del padre. « E successo a Sant'Elmo; lo diceva ieri il Lon-" go! » «Che cosa vuoi che sappia il Longo?» ribatté l'alber- gatore. « Sta' zitto tu. Che cosa vuoi che sappia il Longo? Di frane ce n'e stata una quando era ancora bambino, ma molto piú in basso di Goro. Forse l'avr`a vista signore, a un dieci chilometri di qui, dove la strada fa... » « Ma sí, pap`a, ti dico! » insisteva il ragazzetto. « A Sant'Elmo, e successo! » Avrebbero continuato a disputare se Giovanni non li avesse interrotti: « Bene, io vado fino a Sant'Elmo a ve- dere ». L'albergatore e i figlioli lo accompagnarono sulla piazza, interessandosi visibilmente dell'automobile, di recen- te modello, quale lassú mai si era vista. Quattro chilometri soltanto separavano Goro da Sant'El- mo, ma parevano a Giovanni lunghissimi. La strada saliva con serpentine ripide e cosí strette da richiedere spesso re- tromarce. La valle si faceva sempre piú scura e torva. Solo un lontano rintccco di campana diede a Giovanni sollievo. Sant'Elmo era ancora piú piccolo di Goro, piú derelitto e miserabile. Erano appena le una meno un quarto, eppure "si sarebbe detto che la sera non fosse lontana; forse per" l'ombra cupa delle montagne incombenti, forse per il di- sagio stesso provocato da tanto abbandono. Ormai Giovanni si sentiva inquieto. Dove era caduta dunque la frana? Possibile che il direttore l'avesse spedito con tanta urgenza se non fosse stato sicuro della notizia? O che si fosse sbagliato nel dargli il nome del posto? Il tempo faceva presto a correre, lui rischiava di lasciar man- care il servizio al giornale. Fermo la macchina, chiese indicazioni a un ragazzo il quale sembro capire subito. « La frana? lassú » rispose e faceva segno verso l'alto. « In venti minuti ci si arriva. » Poi, accennando Giovanni a risalire in macchina, avvertí: « Non si puo passare in auto, bisogna andare a piedi, c'e soltanto un sentiero ». Ac- consentí quindi a fare da guida. Uscirono dal paese, inerpicandosi per una mulattiera fan- gosa, di traverso a un costone. Giovanni faticava a se- guire il ragazzo né trovava il fiato per fare domande. Ma che importava ? Fra poco avrebbe visto la frana, il servi- zio al giornale era assicurato e nessuno dei colleghi era giunto prima di lui. (Curioso pero che non si vedesse "persona in giro; bisognava dedurne che di vittime non" ce n'erano state e che non erano stati chiesti soccorsi, tut- t'al piú era rimasta travolta qualche casa disabitata.) « Ecco qui » disse finalmente il ragazzo, come raggiun- sero una specie di contrafforte. E fece segno col dito. Di- nanzi a loro, sul fianco opposto della valle, si scorgeva infatti una gigantesca frana di terra rossiccia. Dal culmine della rottura al fondo della valle, dove si erano accatastati i macigni piú grossi, potevano esserci trecento metri. Ma non si capiva come in quel punto potesse essere mai esi- stito un villaggio o soltanto un gruppo di case. Parvero poi sospette alcune vegetazioni abbarbicate sui dirupi. « Lo vede, signore, il ponte ? » chiese il ragazzo, indi- cando un resto di costruzione diroccato proprio sul fondo della valle, nell'intrico dei macigni rossi. « E non c'e nessuno? » domando Giovanni stupefatto, non vedendo anima viva per quanto si guardasse attorno. Solamente brulli costoni vedeva, rocce affioranti, umidi co- latoi di rigagnoli, muretti di pietre a sostegno di brevi col- tivazioni, dovunque un desolato colore ferruginoso, mentre il cielo si era lentamente riempito di nubi. Il ragazzo lo guardo senza capire. « Ma quand'e suc- cesso? » insistette Giovanni. « E gi`a da qualche giorno? » « Chiss`a quando ! » fece il ragazzo. « Certi dicono trecento anni, certi anche quattrocento. Ma ogni tanto viene giú ancora qualche pezzo. » « Bestia ! » urlo Giovanni fuori di sé. « Non lo potevi dire prima? » Una frana di trecento anni prima lo avevano portato a vedere, la curiosit`a geologica di Sant'Elmo, forse indicata dalle guide turistiche ! E quegli avanzi di mura- tura in fondo al vallone erano magari resti di un ponte romano ! Che stupido sbaglio, e intanto la sera si avvici- nava. Ma dov'era, dov'era la frana? Scese di corsa per la mulattiera, seguito dal ragazzo mez- zo piangente per la paura di aver perso la mancia. L'affan- no di questo ragazzo era incredibile: non riuscendo a ca- pire perché Giovanni si fosse arrabbiato, gli correva dietro supplichevole, sperando di rabbonirlo. « Il signore cerca la frana! » andava dicendo a quanti in- contrava, facendo segno a Giovanni. « Io non so mica, io credevo che volesse vedere quella del ponte vecchio, ma non e quella che cerca. Lo sai dove e caduta la frana?» andava chiedendo a uomini e donne. « Aspetta, aspetta ! » rispose finalmente a quelle parole una vecchietta che trafficava sulla porta di una casa. « A- spetta chc ti chiamo il mio uomo! » Poco dopo, preceduto da un gran rumore di zoccoli comparve sulla soglia un uomo sulla cinquantina, ma gi`a rmsecchlto, dall'espressione tetra. « Ah, sono venuti a ve- dere! » comincio a vociare come scorse Giovanni. « Non basta che tutto vada a ramengo, adesso i signori vengono a vedere lo spettacolo! Ma sí, ma sí, venga a vedere! » Gridava rivolto al giornalista, ma si capiva che lo sfogo era diretto al prossimo in genere, piuttosto che a lui per- sonalmente. Aft'erro per un braccio Giovanni e se lo trasse dietro su per una mulattiera, simile a quella di prima, chiusa fra muretti di rozze pietre. Fu allora che, portando la mano sinistra al petto per chiudersi meglio il palto (il freddo infatti si faceva sempre piú intenso) Giovanni getto per caso un'occhiata sull'orologio a polso. Erano gi`a le cinque e un quarto, fra poco sarebbe giunta la notte e lui della frana non sapeva letteralmente nulla, neppure dove era caduta. Se almeno quell'odioso contadino lo avesse con- dotto sul posto ! «E contento? Eccola qui, se la guardi pure, la sua ma- ledetta frana ! » fece a un certo punto il contadino, fer- "mandosi; e col mento in segno di odio e spregio, indicava" la deprecata cosa. Giovanni si trovo sul margine di un campicello di poche centinaia di metri quadrati, un pezzo di terra assolutamente trascurabile se non fosse stato sul fianco della ripida montagna, un campicello artificiale, gua- dagnato palmo a palmo col lavoro e sorretto da un muro di pietre. Lo spiazzo era pero invaso almeno per un terzo da uno smottamento di terra e sassi. Le piogge forse, o l'umidit`a della stagione, o chiss`a che altro, avevano fatto scivolar giú, sul campicello, un breve tratto di montagna. « La guardi, e contento adesso? » imprecava il conta- dino, indignato non ccntro Giovanni di cui ignorava le intenzioni, ma contro quella malora che gli sarebbe co- stata mesi e mesi di fatiche. E Giovanni guardo sbalordito la frana, scalfittura del monte, quell'inezia, quel nulla mi- serabile. Non e neppur questa si disse sconsolato, deve esserci sotto qualche errore. Intanto il tempo correva e pri- ma di notte bisognava telefonare al giornale. Pianto in asso il contadino, corse indietro alla piazzetta dove aveva lasciato la macchina, interpello ansiosamente tre bifolchi che stavano palpando i pneumatici: « Ma dov'e la frana? » urlava, come se fossero loro i responsabili. Le montagne si chiudevano nel buio. Un tizio lungo e vestito passabilmente si alzo allora da un gradino della chiesa dove fino a quel rnomento era rimasto seduto a fumare, e si avanzo verso Giovanni: « Chi gliel'ha dctto? Da chi ha avuto la notizia? » gli domando senza preamboli. « Chi e che parla di frane? » Chiedeva cio in tono ambiguo, quasi di minaccia sottin- tesa, come se udir toccare l argomento gli fosse sgradito. E d'improvviso attraverso la mente di Giovanni un con- solante pensiero: ci doveva essere proprio qualche cosa di losco e delittuoso nella storia della frana. Ecco perché tutti si erano messi d'accordo per sviare le ricerche, ecco perché l'autorit`a non era stata avvertita e nessuno era ac- corso sul posto. Oh, se invece di una semplice cronaca di sciagura, coi suoi inevitabili luoghi comuni, gli fosse stata destinata la scoperta di un complotto romanzesco, tanto piú straordinario l,.ssú, in quel paese tagliato fuori del mondo ! « La frana! » disse ancora il tizio con accento di disprez- . zo, prima che Giovanni avesse avuto il tempo di rispon- dergli. « Non ho mai sentito una stupidaggine simile ! E Ib, che ci va a credere! » concluse, voltando le spalle e in- camminandosi a lenti passi. Per quanto eccitato, Giovanni non ebbe il coraggio di abbordario. « Che cosa aveva da dire quello lí ? » domando poi a uno dei tre bifolchi, quello dal volto meno ottuso. « Ehi » fece ridendo il giovanotto « la vecchia storia ! Eh, io non parlo! Io non voglio fastidi! Io non so niente di niente. » « Hai paura di quello l`a ? » gli rinfaccio uno dei due com- pagni. «Perché lui e un imbroglione, tu vuoi stare zitto? La frana? Si capisce che c'e la frana! » A Giovanni, avido di sapere finalmente, il bifolco spiego la faccenda. Quel tizio aveva due case da vendere, appena fuori di sant Elmo, ma da quelle parti il terreno non te- neva, presto o tardi i muri sarebbero crollati, gi`a si erano aperte alcune crepe, per rimetterli in sesto sarebbero oc- corsi lunghi lavori, una grande spesa. Pochi sapevano que- sto, ma la voce si era sparsa e nessuno voleva piú comprare. Ecco perché il tizio ci teneva a smentire. Tutto qui il mistero? Melanconica sera delle montagne in mezzo a gente stupida e misteriosa. Si faceva buio, sof- fiava un vento gelido. Gli uomini, incerte ombre, dilegua- vano ad uno ad uno, le porte delle casupole si chiudevano cigolando, anche i tre bifolchi si erano stancati di esaminare la maccchina e d'un tratto scomparvero. Inutile chiedere ancora, si disse Giovanni. Ciascuno mi darebbe una risposta diversa, come e avvenuto finora cia- scuno mi condurr`a a vedere posti differenti, senza ii mi- nimo costrutto per il giornale. (Ciascuno ha in verit`a la sua propria frana, a uno e crollato il terriccio sul campo all'altro sta smottando la concimaia, un altro ancora co- nosce il lavorio dell'antico ghiaione, ciascuno ha la sua propria misera frana, ma non e mai quella che importa a Giovanni, la grande frana, su cui scrivere tre colonne di giornale, che sarebbe forse la sua fortuna.) Nel silenzio grandissimo si udí ancora un suono remoto di campana, poi basta. Giovanni era risalito sull'automo- bile, ora accendeva il motore e i fari, sfiduciato si avviava al ritorno. Che cosa triste, pensava, e chiss`a come successa. La no- tizia di un fatto da nulla, forse quella minuscola frana sul campo del contadino collerico, era stranamente scesa fino in citt`a, per vie inesplicabili, e nel viaggio si era sempre piú deformata fino a diventare una tragedia. Storie simili non erano rare, in fin dei conti cio rientrava nella norma- lit`a della vita. Ma adesso toccava a Giovanni pagare. Lui non ne aveva proprio nessuna colpa, era vero, comunque tornava a rnani vuote e avrebbe fatto una misera figura. « A meno che... » ma sorrise, misurando l'assurdit`a della cosa. La macchina aveva ormai lasciato le case di Sant'Elmo, con ripide serpentine la strada sprofondava nelle conca- vit`a nere della valle, non un'anima viva. L'auto scendeva con lieve fruscío di ghiaia, i due raggi dei fari perlustra- vano attorno battendo ogni tanto sull'opposta parete del vallone, sulle basse nubi, su sinistri roccioni, alberi morti. Essa scendeva adagio, quasi attardata da una speranza e- strema. Fino a che il motore tacque o almeno cosí parve perché Giovanni udí alle sue spalle, allucinazione forse, ma po- "teva anche darsi di no; udí alle spalle il principio di uno" "scroscio immenso che sembrava scuotere la terra; e il suo" cuore fu preso da un orgasmo inesprimibile, stranamente simile alla gioia. NON ASPETTAVANO ALTRO Era caldo. Dopo il lungo viaggio sempre in piedi nel corridoio, Antonio e Anna giunsero stanchissimi alla gran- de citt`a dove avrebbero dovuto passare la notte. Fino al mattino successivo non c'erano treni per proseguire. Dalla stazione uscirono sul piazzale rovente. Con un braccio lui portava la valigetta comune, con l'altra soste- neva Anna la quale non ne poteva piú, i piedi gonfi per la stanchezza. Era caldo. Adesso, trovare subito un albergo per riposare. Di alberghi ce n'era una quantit`a, nei dintorni della sta- zione. E si sarebbero detti tutti vuoti, con le persiane chiu- se, nessuna automobile ferma davanti, deserti gli anditi d'in- gresso. Loro ne scelsero a occhio uno dall'apparenza mode- "sta. Si chiamava ""Hotei Strigoni""." Nel vestibolo non un'anima viva. Tutto assopito e im- mobile. Poi scorstro .lietro il banco il portiere che dor- miva, insaccato in una poltrona. « Scusi » disse Antonio senza alzare la voce. Lui aprí con fatica un occhio, lenta- mente si levo in piedi, divenne nero ed altissimo " Prima che Antonio parlasse, il portiere scosse la testa;" e fissava la coppla come si guardano i nemici. Indicando con l'indice la pianta dell'albergo sul piano del banco. « Siamo completi » annuncio « mi dispiace non c'e nean- che un buco. » Pareva che pronunciasse con fastidio una formula ripetuta senza interruzione per anni e anni. Neppure gli altri alberghi avevano posto. E pure gli atri di ingresso erano vuoti, nessuno entrava o usciva né si udivano rumori umani dalla parte delle scale. I portieri per lo piú dormicchiavano, erano sudaticci e tristi. Anche essi indicavano la pianta delle stanze a dimostrare che non restava libero neanche uno sgabuzzino. E ugualmente fis- savano i due con sospetto. Vagarono cosí per circa un'ora nelle strade torride, di- ventando sempre piú stanchi. Finalmente, al settimo o ottavo portiere che rispondeva di no, Antonio chiese se almeno avessero potuto fare un bagno. «Un bagno?» fece l'altro. «Loro cercano un ba- gno? Ma perché non vanno all'albergo diurno? qui vi- cino, a due passi. » E spiego la strada. Andarono. Anna faceva orínai una faccia dura e non parlava, segno che era esasperata. Ecco il grande cartello policromo all'entrata del diurno, la scala che scendeva nel sotterraneo. Anche qui non c'era anima viva. Ma, come furono discesi, lo scoraggiamento li prese. Di- "nanzi ai due sportelli con soprascritto ""Bagni"" c'erano lun-" "ghe code; e altra gente, che evidentemente aveva gi`a ac-" quistato lo scontrino, aspettava, seduta intorno, bisbigliando. Uno sportello era per gli uomini, L'altro per le donne. « Dio mio, non ne possc piú » disse Anna. E lui: « Corag- gio, adesso ci rinfreschiamo un poco. E poi, se Dio vuole, troveremo un albergo ». Cosí entrambi si misero in coda. Pure laggiú, a motivo del vapore caldo che usciva dal corridoio dei bagni7 L'aria era umida e opprimente. Intanto Antonio si accorse che la gente seduta li esaminava, fissan- do specialmente Anna: gettavano un'occhiata e poi bisbi- "gliavano tra loro; senza malizia, si sarebbe detto, perché" nessuno sorrideva. Anna fece piú presto di lui. Dopo circa mezz'ora la vi- de, nella coda di fianco, sopravanzarlo e avvicinarsi allo sportello. Quando fu il suo turno, la ragazza porse un biglietto da cento lire. A- questo punto Antonio fu distratto da un sommesso battibecco tra colui che lo precedeva e l'impiegato allo sportello. Il commesso non disponeva di spiccioli, l'altro non aveva che biglietti da mille. « La prego, si tiri in di- sparte, lasci passare gli altri... » Discutevano sottovoce, co- me temessero di farsi udire. Infine l'uomo si trasse da un lato, brontolando, e fece posto ad Antonio. Solo allora egli si accorse che Anna a sua ·olta stava di- scutendo allo sportello accanto. Si era fatta rossa in volto e affannata, cercava con ansia qualche cosa nella borsetta. « Hai perso i soldi ? » gli chiese lui. « No, ma qui vogliono i documenti. E non riesc., piú a trovare la tessera! » « Su allora, signore » sussurro l'impiegato, esortando An- tonio. « Un bagno?... Ottanta... » « E occorre un documen- to? » Il commesso ebbe un vago sorriso. « Spero bene... » rispose con chiss`a quali sottintesi. Antonio trasse la carta di identit`a di cui l'altro ricopio i dati su un registro. Nel frattempo, a causa di Anna, la coda delle donne si era inceppata e ne usciva un brusio di protesta. Finchc dallo sportello venne una voce sgradevole di donna: « Si- gnorina, se non ha il documento, si levi per favore!... ». «Ma io sto male, ho bisogno... » insisteva Anna, sorri- dendo con fatica, per impietosirla. « Qui c'e un signore che mi conosce e ha i documenti... » La commessa taglio corto: « Non ho tempo da perdere... Mi faccia il piacere... ». Antonio trasse via dolcemente la ragazza per un braccio. Allora lei perse la calma: « Che modi ! » grido all'impiegata. « Neanche se si fosse dei delinquenti! » L'alta voce echeg- gio nella quiete con scandalo. Tutti si voltarono stupefatti e ripresero a bisbigliare con piú foga. « Anche questa doveva succedere! » diceva Antonio. « E adesso come fai? >« Che ne so? » fece Anna sull'orlo del pianto. « Neanchc un bagno si puo fare in questa male- detta citt`a... Tu almeno, L'hai preso, lo scontrino? » « Io sí... Ora voglio provare: se potessi andare tu al mio posto... » Si avvicinarono infatti alla inserviente che riceveva gli scontrini all'ingresso dei bagni, e chiamava, con voce opaca, i numeri successivi, via via che il turno procedeva. « La prego » disse Antonio supplichevole. « Io ho gi`a preso lo scontrino ma devo andare... Non potrebbe utiliz- zarlo la signorina ? » « Sí certo » rispose la donna. « Non ha che da andare allo sportello dei reclami e far registrare il documento... » « Senta » intervenne Anna. « Sia buona... io l'ho smarrita la carta di identit`a... mi lasci fare il bagno lo stesso... non mi sento bene... guardi che caviglia... » « Ma io non posso, figliola » fece la inserviente. « Se per caso se ne accorgono, i guai sono miei, stia pur sicura... » « Andiamo » disse Antonio, esasperato anche lui. « una caserma, questa. » Gli sguardi dei presenti erano piú che mai concentrati sulla coppia e quando i due giovani si avviarono alla scala per risalire sulla via, il bisbiglio per un istante tacque. « Oh, andiamo a sederci da qualche parte, te ne sup- plico » si lamentava Anna. «Non ce la faccio piú a stare in piedi... Guarda un giardino! » La strada jboccava infatti ai margini di un giardino pubblico che pareva da lontano pressoché deserto. In real- t`a le panchme completamente in ombra erano tutte oc- cupate. Si dovettero accontentare di un sedile riparato a met`a da un ramo. Seduta, per prima cosa Anna si slaccio "le scarpette. Tutt'intorno crepitavano le cicale; e c'erano" polvere e desolazione. Poco piú in l`a, dinanzi a loro, in uno spiazzo rotondo, essi vedero una larga fontana circolare, con uno zampillo al centro. Di tutto il giardino questo era l'unico posto affollato, sebbene esposto al sole. Donne e anche uomini fatti sedevano sull'orlo, per lo piú con le mani immerse "nell'acqua a scopo di refrigerio; mentre nel mezzo della" fontana una torma irrequieta e vociante di bambini semi- nudi giocava con le barchette. Sguazzavano felici, si schiz- ~avano a vicenda, qualcuno si immergeva a pancia in giú, col vestito e tutto, senza badare ai richiami della mamma Per i flaccidi vapori ristagnanti sulla citt`a - forse venuti dalle circostanti risaie in putrefazione - i raggi del sole si erano nel frattempo fatti smorti. Ma il caldo sembrava diventare ancora piú pesante. «Guarda... L'acqua!» fece improvvisamente Anna. «A- spettami un momento... » E lasciando le scarpette, prima che Antonio potesse trattenerla si affretto sorridendo alla "fontana, chiese ""Permesso"" a quelli che sedevano sul bor-" do, lo scavalco agilmente ed entro nell'acqua sollevando un poco le gonne. « Ah, che consolazione! » grido ad An- tonio che, con la valigetta e le scarpe di lei, si era subito avvicinato. Dall'acqua, dove cercavano conforto, gli sguardi della gente si alzarono a quella bella ragazza, misurandola. Su- bito le teste, sonnolente e immote, si animarono, incro- ciandosi fitti dialoghi. Poi si alzo, precisa, una voce: « Signorina, torni indietro, per favore, la fontana e ri- servata ai bambini! » Era una donna sui quarant'anni, un tipo di massaia, dal volto ener.gico. Ma Anna era cosí contenta di trovarsi nell'acqua. Tra quel vociare di bambini non udí il richiamo. « Signorina » ripeté la donna piú forte. « Guardi che non si puo entrare nella fontana. iriservata ai bambini. » Al- tre donne l'approvarono con cenni. Anna si volto sorpresa, il ·-olto ancora ridente. « Bam- bini o no » rispose « ho bisogno di rinfrescarmi un poco, Se permette. » 11 tono era cordiale, con un accento quasi di cerimonia che voleva riuscire scherzoso. Poi avanzo ver- so il centro della fontana, dove l'acqua diventava progres- sivamente piú profonda. Un'altra donna dall'espressione volpina agito in alto le mani. « Questa fontana e dei bambini » grido. « Ha capito? idei bambini! » Altre ancora fecero eco: « Fuori dalla fontana ! Fuori ! riservata ai bambini! ». Anche i piccoli, che da princi- pio non vi avevano fatto caso, guardarono la ragazza en- "trata nell'acqua in mezzo a loro; e interruppero i giochi," come aspettando qualcosa. « Torni indietro ! proibito ! Fuori ! » Anna era gi`a quasi sotto lo zampillo, dove i bambini erano piú fitti. L'acqua le arrivava alle ginocchia. A quelle grida si voito m1ova- mente e, chiss`a come, non vide che cosa erano diventate in pochi istanti le faccc delle donne intorno: sudaticce, rosse, tirate dall'ira, con una piega odiosa agli angoli delle labbra. Non vide, non ebbe paura. « Eh ! » rispose, alzando una mano a esprimere impazienza e noia. Dal bordo della fontana, in tono accomodante, Antonio cerco di evitare un litigio. « Anna, Anna, torna adesso Ti sei rinfrescata abbastanza. » Ma lei capí che Antonio si vergognava di lei e giustifi- cava in certo modo le donne. In risposta scalpito nell'ac- qua come una ragazzina. « Sí, sí, anccra un momento! » Non voleva darla-inta a quelle streghe. Ci`ac. Qualcosa di grigio volo sopra l'acqua e subito si "vide una chiazza pesante di sudicio sulla schiena dell'Anna;" e scolava giú per la stoffa azzurra a fiori. Chi era stato ? All'improvviso una delle popolane, bella donna alta e ro- busta, aveva tuffato una mano nel fondo, raccogliendo un pugno di fango. Poi l'aveva lanciato. Risate e grida si levarono. « Fuori! Fuori della fontana! Fuori! » Erano anche voci di uomini. La gente, poco prima intorpidita e molle, si era tutta eccitata. Gioia di umiliare quella ragazza spavalda che dalla faccia e dall'accento si capiva ch'era forestiera. «vigliacchi! » grido Anna, voltandosi d'un balzo. E con un fazzolettino cercava di togliersi di dosso la fanghiglia. Ma lo scherzo era piaciuto. Un altro schizzo la raggiunse a una-spalla, un terzo al collo, all'orlo dell'abito. Era di- ventata una gara. « Fuori! Fuori! » gridavano, in una specie di giubilo. Una grande risata si allargo quando un bel blocco di fango "si spiaccico su un'orecchia di Anna, insozzandole la faccia;" gli occhiali da sole volarono via, scomparendo sott'acqua. Sotto la tempesta, la ragazza cercava di ripararsi, ansiman- do, e gridava frasi incomprensibili. Qui Antonio intervenne, facendosi largo. Ma come av- viene nei momenti di eccessiva emozione, pronuncio pa- role sconnesse: « Per piacere, per piacere » comincio « la- sciate stare ! Che cosa vi ha fatto di male, per piacere... Vi dico che... Sentite... Vi consiglio... Anna, Anna, vieni via subito ! » . Antonio era forestiero e tutti, l`a, parlavano in dialetto. Le sue parole ebbero un suono curioso, quasi ridicolo. Proprio al suo fianco uno si mise a ridere. « Per pia- cere eh? per piacere? » E gli faceva il verso. Era un gio- vane sui trent'anni, in canottiera, dal volto asciutto e fur- besco da teppista. Ad Antonio tremarono le labbra. « Cosa c'e? cosa c'e? » chiese. Nello stesso istante, con la coda dell'occhio, scorse una donna che alzava un braccio, nell'atto di lanciare an- cora fango. Con un balzo lui la afferro al polso, ferman- "dola; la poltiglia sfuggí dalle dita." « Con le donne eh ? Te la prendi con le donne ? » fece il giovanotto in canottiera. « Tu saresti l'amico? » E si fece sotto. « No, eh! » minaccio, passando una mano rasente alla faccia di Antonio, per provocarlo. Per respingerlo An- tono sferro un pugno. Ma era un pugno maldestro, e colpí solo una spalla di striscio. Il giovane non barcollo neppure. Rideva, sembrava di- "vertirsi moltissimo; e comincio a saltellare, tutto proteso" in avanti, come fanno i boxemulinando i pugni. « Ec- co, per piacere! » Il suo braccio sinistro si allungo. Lentamente, si sarebbe detto, senza alcun impeto. Eppure Antonio, chiss`a perché, NON ASPETTAVANO ALTRO 329 non riuscí a evitarlo. Un colpettino dalla parte del fegato, un pugno dato per scherzo, pareva. Ma subito, tirando il fiato, egli sentí un atroce dolore propagarsi nelle viscere: profondo, cupo, maligno. Gli manco il respiro. « Per piacere! Per piacere! » ridacchio l'altro, facendogli ancora il verso. E allungo l'altro braccio. Il pugno tocco appena, sembrava. Tuttavia, dopo un attimo, Antonio si piego in due, gemendo. Poi dal fondo gli salí un senso orrendo di nausea. Non vide piú che una confusione di ombre. Retrocedette fino all'albero piú vicino, per appog- glarsl. Come si riebbe - ed erano passati pochi secondi - alla fontana stava succedendo qualche cosa di nuovo. Anna non si era ancora ritirata dal centro. Tutta im- brattata di fango, la faccia tesa a una smorfia di affanno, ora cercava di ripararsi con le mani, ora tentava di schiz- zare getti d'acqua contro chi la bersagliava. Ma si muove- va con fatica, come per una grande stanchezza che la avesse sorpresa. Si teneva adesso in mezzo ai bimbi cal- colando che le mamme, per non rischiare di colpirli, a- vrebbero risparmiato anche lei. « Antonio, Antonio! » chia- mava « guarda corne mi han ridotto ! Dio come mi han ridotto! » Ripeteva meccanicamente questo grido e pareva non sapesse dire altro. «Fuori! Fuori! Via di qui! Tieni questa!... Fuori!... Sei sporca? dl', sei sporca? Fuori! fuori!... E tu Nini vien via... Venite via, bambini! » Cosí le donne. Infatti i bimbi co- minciaronO a ritirarsi, lasciando l'Anna sempre piú sola. Ormai, anche se l'Anna si fosse decisa a uscire, non sarebbe stata piú una cosa semplice. La avrebbero lasciata passare ? Non si sarebbero accaniti ancora ? Dagli alberi intorno all'improvviso le cicale fecero uno strepito rab- "bioso e acuto, molto piú forte di prima; come se un ter-" rore fosse passato tra le foglie. Quasi nello stesso istante un bambino di otto-nove anni, eccitato dalle grida, si av- vicino all'Anna alzando una sua rudimentale barchetta di legno. Fattosi dappresso, senza una parola, vibro il gio- cattolo di forza contromo stinco della ragazza. La chiglia, rinforzata da una striscia di latta, urto nell'osso con un colpo secco. Molte cose succedono in un minuto o due, molto rie- scono a fare gli uomini in cosí piccolo spazio di tempo, anche se e caldo e i marci vapori delle risaie imputridi- scono sulla grande citt`a, rendendo odiosa la vita. Un urlo volle uscire dalla gola della ragazza. Non ne venne fuori che il fiato senza suono, una specie di sibilo. Nello spa- simo lei abbranco fulmineamente il bimbetto, scaraventan- dolo lungo disteso nell'acqua. Per un istante la testa scom- parve sotto la superficie. Dal bordo della vasca, rispose un urlo bestiale, orribile a udirsi. « Ámmazza il mio bambino! Ammazza il mio bambino ! Aiuto ! aiuto ! » Chi sentiva piú il caldo ? Il pretesto sembrava meravi- glioso. Niente ormai tratteneva il buttare fuori il fondo dell'animo: il SOzZO carico di male che si tiene dentro per anni e nessuno si accorge di avere. Un'agitazione frenetica prese le donne. Quella dal volto volpino comincio a saltel- lare, girando su se stessa, e gridava: « Boia! Boia! Boia! » senza alcun senso. Qualche decina di metri piú in l`a, con quel dolore al fianco che stentava a spegnersi, Antonio ansimava anco- ra. Intravide soltanto la scena e non capiva. Ma ecco si accorse che la gente non parlava piú come prima. Fino allora aveva udito intorno parlare il solito dialetto della cit- t`a, per lui facilmente comprensibile. Adesso, inspiegabil- mente, le bocche sembravano gonfiarsi, incespicando, e ne uscivano parole diverse, di suono rozzo ed informe. Co- me se dai remoti pozzi della citt`a fosse venuta su un'eco turpe e nera. La scellerata voce dei bassifondi antichi al- L'improvviso riviveva, carica di delitti ? Egli fu tra stra- nieri, in una terra lontana e inspiegabile, a lui feroce. In quel mentre le grida s'accrebbero. E la gente scavalco il bordo della fontana irrompendo nell'acqua. Ci fu un groviglio. Poi tutti uscirono dalla vasca e per prima ap- parve l'Anna bmtalmente tenuta da due tre donne che la battevano. Era tutta lorda e scarmigliata, e il volto si era fatto terreo, con dentro un mortale affanno. Piangeva? sin- ghiozzava? gridava? Le urla coprivano la sua voce, né si poteva capire. Ogni tanto, sotto i colpi, inciampava, ma le altre la trascinavano via, tenendole le braccia immobilizzate dietro la schiena. Dove la conducevano? Antonio guardava sgomento. Intorno a lui solo volti im- bestialiti, sguardi duri che lo fissavano. Battendogli il cuore, corse a cercare una guardia. Lo raggiunse, mentre si al- lontanava, una nuova esplosione di urla: « Alla gabbia! » gli parve che gridassero. Ma forse aveva capito male. Che cosa poteva voler dire? Non aveva fatto duecento metri quando scorse due guar- "die municipali che si avvicinavano, attratte dal baccano; ma" senza fretta. Lui disse, e faticava a parlare: « Presto, per carit`a, ammazzano una ragazza ! L'hanno presa, la porta- no via! ». I due lo guardarono con stupore, quasi non avessero capi- "to; né accelerarono minimamente il passo. La turba delle" donne che trascinavano Anna veniva pero incontro. La ra- gazza era ormai un cencio, sembrava inebetita. «Mamma! mamma!» ripeteva senza interruzione. E quelle la sospin- gevano come una bestia. Ma subito dietro veniva un altro gruppo, in maggio- ranza di donne, portando in trionfo un bambino. Era il bambino che l'Anna aveva gettato nell'acqua. Sua mamma gli accarezzava le gambe. « Tonino, anima mia! » gridava. «Tesoro! Chelle cnn che lev mmmmmm! » Dopo le pri- me parole tutto si disfaceva in un mugolio incomprensi- bile. Le altre donne facevano di sí con la testa, approvan- ·- do, battevano le mani, poi una correva avanti, come non ci fosse un istante da perdere, e pestava i pugni sull'Anna, cercando di farle piú male possibile. Che cosa aspettavano le guardie? A passi incerti si erano affiancate al corteo, facendo degli strani gesti con le mani. Un ometto gobbo si fece loro incontro. « L'abbiamo pre- sa! » spiego ansimando. « Voleva mmegh n bemb ghh mmmm mmmm! » Anche a lui le parole si intorbidivano in quel tenebroso mugolio. Le guardie impallidirono. Uno dei sorveglianti guardo allora Antonio, come vo- lesse scusarsi. Ma il volto costernato del giovane parve ri- chiamarlo al dovere. Fece un segno al compagno per dirgli ch'era l'ora. Quindi afferro per un braccio una delle donne. « Un momento! Un momento! » intimo con voce malfer- ma. La donna non si volto nemmeno. Una forza cupa ed enorme la trascinava via con le altre. Indecifrabili com- menti si intrecciavano. La guardia mollo la presa. I piedi sollevavano nembi di polvere misti a caldi fiati pestilen- ziali. Spinsero Anna verso l'antico castello che sorgeva ai mar- gini del giardino. Qui, appesa sopra il ponte levatoio e so- stenuta da una specie di argano, c'era una piccola gabbia in ferro, usata anticamente per mettere i delinquenti alla gogna. Sembrava, contro il muro giallastro, un gigantesco pipistrello. Ci fu l`a sctto un ingorgo, entro cui Anna sparve, poi si vide la gabbia oscillare, calando a sbalzi sulla folla. Le urla divennero trionfali. Pochi minuti, ed ecco tendersi le funi, e la gabbia risalire con dentro una creatura umana: era vestita d'azzurro, era inginocchiata, era scossa da sin- gulti, le mani strette alle sbarre. E cento braccia erano tese verso di lei mentre incomprensibili oggetti volavano per colpirla . Ma, come fu circa un metro sopra le teste, quella spe- cie di antica gru scricchiolo e cedette, girando l'asta di le- gno. E la fune, non piú trattenuta, comincio a scorrere, ca- lando la gabbia di l`a del ponte, entro il negro fossato del castello. Finché la macchina con un cigolio, ristette, e la gabbia sbatté, fermandosi, contro la muraglia esterna, quat- tro metri sotto il livello del terreno. Ululo la gente, con l'ansia di non restare defraudata. Lasciato il ponte, subito si addensava lungo la ringhiera di ferro, e tutti si protende- vano, guardando giú a picco. Qualcuno si mise a spu- tare. Dall'alto si vedevano le esili spalle di Anna sussultare, "la testa abbandonata in giú; sui capelli sconvolti piovevano" terra, ghiaia e sudicizia. « Guardala guardala » dicevano. « Non ha mica i cragghh craghh guaaaah! » E alzavano so- pra le spalle Tonino, il quale non capiva e si guardava in- torno spaventato. Antonio finalmente riuscí a raggiungere il parapetto del ponte. Ora poteva vedere la gabbia. « Anna! Anna! » co- mincio a chiamare in mezzo a quell'inferno. «Anna! An- na! Sono io! » Provo tre volte, poi qualcuno lo tocco a una spalla. Era un signore sulla cinquantina dall'aria squallida e sconso- "lata; scuoteva il capo. « No, no » disse, ed Antonio ebbe" un moto di gratitudine nell'udire che parlava civilmente. « Per carit`a, non lo faccia! » Antonio non comprese. « Che cosa? che cosa? » balbet- to L'altro scosse ancora la testa, porto l'indice alle labbra per raccomandare silenzio. «Non lo faccia, no... imeglio che lei se ne vada, fa caldo qui, molto caldo... » « lo? Io?... » chiese, tremando, e vide intorno sei sette facce orrende protendersi per ascoltare. Allora si ritiro dal parapetto. Gi`a si avvicinava il tramonto, senza fresco né consolazio- ne. Le grida a poco a poco calavano, resto un mormorio sordo e cupo, la folla lungo la ringhiera del fossato pero non si muoveva. Poco discosto, coppie di guardie ciondola- vano su e giú nervosamente. Aspettavano che la gente se ne andasse ? Cosí forse era stato ordinato dalle autorit`a per evitare disordini. « Dio mio, che disgrazia » mormorava Antonio, cercando di riguadagnare la balaustra. Ci riuscí dopo parecchi minuti. Ma lontano dalla gabbia. Tento ugualmente di chiamare: « Anna ! Anna ! ». Lo riscosse un colpo alla nuca. Era ancora il giovane in canottiera «Sei qui, sei qui tu?» fece con un sorriso velenoso. « Non ti bst bst cedín ghaaaah ! » E ruppe in un gorgoglio inarticolato. « iil compiice, arrestatelo ! Face guisc guisc elleh.... mmm.... mmmm! » gridarono. « Anche lui! » propose uno. Risposero: « Anche lui ». Antonio tento di allontanarsi. Fu afferrato, lo tennero. Gli legarono i polsi, d'impeto fu rovesciato di l`a della balau- stra, resto appeso nel fossato, trattenuto a una corda. Cosí venne strascinato lungo la muraglia, fin sopra la gabbia: qui mollarono. Cadde di schianto sul fondo, pestando un piede dell'Anna che non si mosse. Sopra di loro tuono un muggito selvaggio. La luce del giorno diminuiva. Slegatosi con fatica, Antonio cinse le spalle di lei, sentí sotto le dita il viscido che la imbrattava. Anna continuava a tenere giú la testa. « Mamma, mamma » andava ripetendo senza espressione. Poi prese a tossire e si scuoteva tutta. In alto ancora vociavano. Ormai sazi o con un certo disgusto molti si allontana- rono. I rondoni del crepuscolo stridevano intorno al castel- lo. Da una lontana caserma si udí anche la tromba della ritirata. Sulla citt`a pulverulenta era scesa infine la sera. "Quand'ecco arrivare una vecchia con un grosso involto; e ri-" deva felice. «Tonino! Tonino! » grido facendo segno al pacco come se annunciasse una cosa bellissima. La calca si aprí, lasciandola passare. Come fu presso la balaustra, la vecchia dischiuse il fa- "gotto, mostrando un piccolo vaso; e l abbasso affinché tut-" ti potessero vedere dentro. « Tonino, Tonino » ripeteva, facendo cenno al contenuto. Poi si sporse dalla ringhiera, tese un braccio col vaso sopra la gabbia, calcolo la mira. Disse: « Non se la meri- terebbe neanche ! ». La materia piombo, con fíaccido scroscio, sulle spalle di Anna. Ma lei non si mosse, non protesto. Si udí soltanto la sua tosse, profonda e secca, che non riusciva a liberarsi. Nella turba ci fu un attimo di indecisione. Poi, la vecchia sghignazzando, si allargo una risata. Nel silenzio che seguí, dal muro del fossato a cui la gabbia appoggiava, proprio in corrispondenza, giunse il tre- mulo richiamo di un grillo. Cri-cri, pareva si avvicinasse. Attraverso le sbarre, Anna tese adagio verso il grillo una piccola mano tremante, come chiedendo aiuto. 36 IL DISCO SI POSO Era sera e la campagna gi`a mezza addormentata, dalle val- lette levandosi lanugini di nebbia e il richiamo della rana solitaria che pero subito taceva (L'ora che sconfigge anche i cuori di ghiaccio, col cielo limpido, L'inspiegabile serenit`a del mondo, L'odor di fumo, i pipistrelli e nellemtiche ca- se i passi felpati degli spiriti), quand'ecco il disco volante si poso sul tetto della chiesa parrocchiale, la quale sorge al sommo del paese. All'insaputa degli uomini che erano gi`a rientrati nelle caseL'ordigno si calo verticalmente giú dagli spazi, esito qualche istante, mandando una specie di ronzio, poi tocco il tetto senza strepito, come colomba. Era grande, lucido, com- "patto, simile a una lenticchia mastodontica; e da certi sfia-" tatoi continuo a uscire zufolando un somo. Poi tacque e re- sto fermo, come morto. Lassú nella sua camera che d`a sul tetto della chiesa, il parroco, don Pietro, stava leggendo, col suo toscano in bocca. All'udire l'insolito ronzio, si alzo dalla poltrona e an- do a affacciarsi al davanzale. Vide allora quel coso straor- dinario, colore azzurro chiaro, diametro circa dieci metri. Non gli venne paura, né grido, neppure rimase sbalor- dito. Si e mai meravigliato di qualcosa il fragoroso e im- perterrito don Pietro? Rimase l`a, col toscano, ad osservare. E quando vide aprirsi uno sportello, gli basto allungare un braccio: l`a al muro c'era appesa la doppietta. Ora sui connotati dei due strani esseri che uscirono dal disco non si ha nessun affidamento. iun tale confusiona- rio, don Pietro. Nei successivi suoi racconti ha continuato a contraddirsi. Di sicuro si sa solo questo: ch'erano smilzi e di statura piccola, un metro un metro e dieci. Pero lui dice anche che si allungavano e accorciavano come fossero di elastico. Circa la forma, non si e capito molto: « Sem- bravano due zampilli di fontana, piú grossi in cima e stret- ti in basso » cosí don Pietro « sembravano due spiritelli, senlbravano due insetti, sembravano scopette, sembravano due grandi fiammiferi ». « E avevano due occhi come noi? » « Certo, uno per parte, pero piccoli. » E la bocca? e le braccia? e le gambe? Don Pietro non sapeva decidersi: « In certi momenti vedevo due gambette e un secondo dopo non le vedevo piú... Insomma, che ne so io ? Lasciatemi una buona volta in pace ! ». Zitto, il prete li lascio armeggiare col disco. Parlottava- no tra loro a bassa voce, un dialogo che assomigliava a un cigolio. Poi si arrampicarono sul tetto, che ha una modera- tissima pendenza, e raggiunsero la croce, quella che e in ci- ma alla facciata. Ci girarono intorno, la toccarono, sembrava prendessero misure. Per un pezzo don Pietro lascio fare, sempre imbracciando la doppietta. Ma all'improvviso cam- bio idea. « Ehi ! » grido con la sua voce rimbombante. « Giú di l`a, giovanotti. Chi siete? » I due si voltarono a guardarlo e sembravano poco emo- zionati. Pero scesero subito, avvicinandosi alla finestra del prevosto. Poi il piú alto comincio a parlare. Don Pietro - ce lo ha lui stesso confessato - rimase ma- le: il marziano (perché fin dal primo istante, chiss`a pcrché, "il prete si era convinto che il disco venisse da Marte; né" penso di chiedere conferma), il marziano parlava una lin- gua sconosciuta. Ma era poi una vera lingua ? Dei suoni, erano, per la verit`a non sgradevoli, tutti attaccati senza mai una pausa. Eppure il parroco capí subito tutto, come se fosse stato il suo dialetto. Trasmissione del pensiero ? Oppure una specie di lingua universale automaticamente comprensibile ? « Calmo, calmo » lo straniero disse « tra poco ce n'an- diamo. Sai? Da molto tempo noi vi giriamo intorno, e vi osserviamo, ascoltiamo le vostre radio, abbiamo imparato quasi tutto. Tu parli, per esempio, e io capisco. Solo una cosa non abbiamo decifrato. E proprio per questo siamo scesi. Che cosa sono queste antenne?e faceva segno alla croce). Ne a-Tete dappertutto, in cima alle torri e ai cam- panili, in vetta alle montagne, e poi ne tenete degli eserci- ti qua e l`a, chiusi da muri, come se fossero vivai. Puoi dir- mi, uomo, a cosa servono? » « Ma sono croci! » fece don Pietro. E allora si accorse che quei due portavano sulla testa un ciuffo, come una tenue spazzola, alta una ventina di centimetri. No, non erano capelli, piuttostc assomigliavano a sottili steli vegetali, tremuli, estremamente vivi, che continuavano a vibrare. O invece erano dei piccoli raggi, o una corona di emanazioni elettriche ? « Croci » ripeté, compitando il forestiero. « E a che cosa servono? » Don Pietro poso il calcio della doppietta a terra, che gli restasse pero sempre a portata di mano. Si drizzo quindi in tutta la statura, cerco di essere solenne: « Servono alle nostre anime » rispose. « Sono il simbolo di Nostro Signore Gesú Cristo, figlio di Dio, che per noi e morto in croce. » Sul capo dei marziani all'improvviso gli evanescenti ciuf- fi vibrarono. Era un segno di interesse o di emozione ? O era quello il loro modo di ridere ? « E dove, dove questo sarebbe successo? » chiese sempre il piú grandetto, con quel suo squittio che ricordava le tra- "smissioni Morse; e c'era dentro un vago accento di iro-" nia. « Qui, sulla Terra, in Palestina. » « Dio, vuoi dire, sarebbe venuto qui, tra voi? » Il tono incredulo irrito don Pietro. « Sarebbe una storia lunga » disse « una storia forse trop- po lunga per dei sapienti come voi. » In capo allo straniero la leggiadra indefinibile corona oscillo due tre volte. Pareva che la muovesse il vento. « Oh, dev'essere una storia magnifica » fece con condi- scendenza. « Uomo, vorrei proprio sentirla. » Baleno nel cuore di don Pietro la speranza di convertire l'abitatore di un altro pianeta? Sarebbe stato un fatto sto- rico, lui ne avrebbe avuto gloria eterna. « Se non vuoi altro » disse, rude. « Ma fatevi vicini, veni- te pure qui nella mia stanza. » Fu certo una scena straordinaria, nella camera del parro- co, lui seduto allo scrittoio alla luce di una vecchia lampa- da, con la Bibbia tra le mani, e i due marziani in piedi sul letto perché don Pietro li aveva invitati a accomodarsi, che si sedessero sul materasso, e insisteva, ma quelli a sedere non riuscivano, si vede che non ne erano capaci e tanto per non dir no alla fine vi erano saliti, standovi ritti, il ciuffo piú che mai irto e ondeggiante. « Ascoltate, spazzolini! » disse il prete, brusco, aprendo il "libro, e lesse: ""... L'Eter1lo Iddio p~ese dunque l'uomo e lo" po~e nel giardino d'E~en... e diede que~to comandarnento. Mangia p~/re liberame1lte del frutto di ogni albero del giar- dino, ma del trutto dell'albero della c01loscenza del bene e del male non ne mang~iare. perché nel giorno che tu ne "mangerai, ber certoar`a la tua mo1te. Poi l'Eterno Iddio ..""." Levo gli sguardi dalla pagina e vide che i due ciuffi erano in estrema agitazione. « C'e qualcosa che non va? » Chiese il marziano: « E, dimmi, L'avete mangiato, inve ce? Non avete saputo resistere? andata cosí, vero? ». < Gi`a. Ne mangiarono » ammise il prete, e la voce gli si riempí di collera. « Avrei voluto veder voi ! forse cresciuto in casa vostra l'albero del bene e del male? » « Certo. cresciuto anche da noi. Milioni e milioni di anni fa. Adesso e ancora verde... » «E voi?... I frutti, dico, non li avete mai assaggiati?» « Mai » disse lo straniero. « La legge lo proibisce. » Don Pietro, ansimo, umiliato. Allora quei due erano pu- ri, simili agli angeli del cielo, non conoscevano peccato, non sapevano che cosa fosse cattiveria, odio, menzogna? Si guar- do intorno come cercando aiuto, hnché scorse nella penom- bra, sopril letto, il crocefisso nero. Si rianimo: « Sí, per quel frutto ci siamo rovinati... Ma il figlio di Dio » tuono, e sentiva un groppo in gola « il figlio di Dio si e fatto uomG. Fd e sceso qui tra noi! ». L'altro stava impasslbilc-. Solo il suo ciuffo dondolava ~ « Piú tardi quando ? » « Vieni... vieni fra due ore. » Sbatté sul trespolo la cornetta del telefono, gli pareva di aver perso un tempo irrimediabile, la lettera doveva es- sere imbucata per l'una, altrimenti sarebbe giunta a desti- nazione il giorno dopo. No, no l'avrebbe spedita per espres- so . " ""... farei subito cambio"" scriveva ""quando penso che la" nebbia circonda la tua casa e ondeggia dinanzi alla tua camera e se avesse occhi chiss`a, forse anche la nebbia vede- potrebbe contemplarti attraverso la finestra. E vuoi che non ci sia una fessura, un sottilissimo interstizio da cui entrare? un minuscolo soffio, niente di piú, un esile fiato di bambagia impalpabile che ti accarezzi? basta cosí poco "alla nebbia, basta cosí poco all'am...""" Il fattorino Ermete sulla porta. « Perdoni... » « Te l'ho gi`a detto, ho un lavoro urgente, io non ci sono per nes- suno, dl' che ritornino stasera. » « Ma... » « Ma cosa? » « C'e da basso il commendatore Invernizzi che l'aspetta in macchina. » Maledizione, L'Invernizzi, il sopraluogo al magazzino do- ve c'era stato un principio d'incendio, L'incontro coi peri- ti, maledizione non ci pensava piú, se n'era completamen- te dimenticato. E non c'erano santi. Quel tormento che gli bruciava dentro, proprio in cor- rispondenza dello sterno, raggiunse un grado intollerabile. Darsi malato? Impossibile. Terminare la lettera cosi come stava? Ma aveva ancora da dirle tante cose, tante cose im- portantissime. Scoraggiato, chiuse il foglio in un cassetto. Prese il cappotto e via, L'unica era tentar di fare presto. In mezz'0ra, con l'aiuto di Dio, sarebbe stato forse di ri- torno. Torno che era l'una meno venti. Intravide tre quattro uo- mini che attendevano, seduti in sala d'aspetto. Ansimando, si sprango in ufficio, sedette allo scrittorio, aprí il casset- tó, la lettera non c'era piú. Il tumulto del cuore gli tolse quasi il fiato. Chi poteva aver frugato nella scrivania? O che si fosse sbagliato? Aprí d'impeto gli altri cassetti, uno ad uno. Meno male Si era confuso, la lettera era l`a. Ma impo- starla prima dell'una era impossibile. Poco male - e i ra- gionamenti (per una faccenda cosí semplice e banale) si accavallavano nella sua testa tumultuando, con alternative spossanti d'ansia e di speranze - poco male, se la spediva espresso faceva in tempo a prendere l'ultima distribuzione della sera, oppure... meglio ancora, l'avrebbe data a Ermete da portare, no no, meglio non immischiare il fattorino in una faccenda delicata, l'avrebbe portata lui personalmente. " ""... basta cosí poco all'amore"" scrisse ""per vincere lo" "spazio e oltrepass...""" Dren, il telefono, rabbioso. Senza lasciare la penna, af- ferro con la sinistra la cornetta. « Pronto? » « Pronto, qui la segretaria di sua eccellenza Tracchi. » «Dica, dica. » « Per quella licenza d'importazione ri- guardante la fornitura di cavi a... » Inchiodato. Era un affare enorme, ne dipendeva il suo awenire La discussione duro venti minuti. " ""... oltrepassare"" scrisse ""le muraglie della Cina. Oh,~" "cara Orn...""" Il fattorino ancora sulla porta. Lui lo investí selvaggia mente. « L'hai capita o no che non posso ricevere nessu- no? » « Ma c'e l'is... » « Nessuno, nessunoooo! » urlo im- bestialito. « L'ispettore della Finanza che dice di avere ap- puntamento. » Sentí le forze abbandonarlo. Mandare indietro l'ispetto- re sarebbe stata una pazzia, una specie di suicidio, la rovi- na. Ricevette l'ispettore. Sono le una e 35. Di l`a c'e la cugina Franca che aspetta da tre quarti d ora. E poi l'ingegnere Stolz, venuto apposi- tamente da Ginevra. E l'avvocato Messumeci, per la cau- sa degli scaricatori. E l'infermiera che viene ogni giorno a fargli le iniezioni. " ""Oh cara Ornella'` scrive con il furore del naufrago su" cui si abbattono i cavalloni sempre piú alti e massacranti. Il telefono. « Qui il commendator Stazi del Ministero dei commerci. » Il telefono. « Qui il segretario della Con- federazione dei consorzi... » " ""Oh mia deliziosa Ornella"" scrive ""vorrei che tu sap...""" Il fattorino Ermete sulla porta che annuncia il dottor Bi. vice-prefetto. " ""... che tu sapessi"" scrive ""qu...'`" Il telefono: « Qui, il capo di Stato maggiore generale )>. Il telefono: « Qui il segretario particolare di Sua Eminen- za l'arcivescovo... ». " ""... quando io ti v...'scrive febbricitante con l'ultimo" fiato. Dren, dren, il telefono: « Qui il primo presidente della Corte d'appello ». « Pront~, pronto! » « Qui il Consiglio Supremo, personalmente il senatore CormoranO » « Pronto, pronto! » « Qui il primo aiutante di campo di Sua Maest`a l'lmperatore... » Travolto, trascinato via dai flutti. ~f« Pronto, pronto ! Sí son io, grazie, eccellenza, estrema- mente obbligato !... Ma subito, subitissimo, sí signor ge- nerale, provvedero senz'altro, e grazie infinite... Pronto, E pronto ! Certamente Maesta, senz'altro, con infinita devo- zione (la penna, abbandonata rotolo lentamente fino al- L'orlo, si fermo un istante in biiico, cadde a piombo stortan- ,dosi il pennino, ed ivi giacque)... Prego s'accomodi, per- bacco, avanti avanti, no, se mi permette, forse e meglio si accomodi nella poltrona che e piú comoda, ma quale onore inaspettato, assolutamente, per l'appunto, oh grazie, un caffe, una sigaretta... » Quanto duro il turbine ? Ore, giorni, mesi, millenni ? Al calar della notte si ritrovo solo, finalmente. Ma prima di lasciar lo studio, cerco di mettere un po' d'ordine nella montagna di scartafacci, pratiche, progetti, protocolli, accumulatisi sulla scrivania. Sotto all'immensa pila trovo un foglio di carta da lettere senza intestazione scritto a mano. Riconobbe i propri segni. " Incuriosito, lesse: ""Che baggianate, che ridicole idiozie." "Chiss`a quando mai le ho scritte ?"" si chiese, cercando in-" vano nei ricordi, con un senso di fastidio e di smarrimen- to mai provato, e si passo una mano sui capelli oramai gri- "gi. ""Quando ho potuto scrivere delle sciocchezze simili? E" "chi era questa Ornella ?""" BATTAGLIA NOTTURNA ALLA BIENNALE DI VENEZIA Stabilitosi per l'eternit`a nei campi elisi, il vecchio pittore Ardente Prestinari manifesto un giorno agli amici l'inten- ziOne di scendere sulla Terra per visitare la Biennale di Venezia dove, a due anní dalla morte, gli era stata dedi- cata una sala. Gli amici tentarono di dissuaderlo: « Lascia perdere, Ar- duccio » (era il vezzeggiativo che aveva sempre portato in vita). « Tutte le volte che uno di noi scende laggiú, sono amarezzeNon pensarci, rimani qui con noi, i tuoi quadri li conosci e sta pur certo avranno scelto i peggio come al solito. E poi, se parti, chi far`a stasera il quarto allo sco- pone? » « Vado e torno » ribadí il pittore e si precipito al piano di sotto dove vivono gli uomini vivi e si fanno esposizio- ni di arti belle. Arrivare sul posto e scovare fra le centinaia di sale quel- la dedicata a lui fu questione di secondi. Cio che vide lo lascio soddisfatto: la sala era spaziosa e situata lungo il percorso obbligato, su una parete il suo norne campeggiava con le due date, di nascita e di morte, e i quadri per la verit`a erano stati scelti con piú discerni- mento di quanto avesse sperato. Certo, ora che li esami- nava con la mentalit`a di defunto, per cosí dire s~b s~ecie aeternitatis, gli saltavano agli occhi una quantit`a di difetti e di errori che da vivo non aveva mai notato Avrebbe avutO l'impulso di correre a prendere i colori e di rimediare sul posto in fretta e furia, ma come fare? Iuoi arnesi dLI BATTAGLIA NOTTURNA ALLA BIENNALE 435 pittore, ammesso che esistessero ancora, chiss`a dove era- no andati a finire. E poi non sarebbe successo uno scan- dalo ? Era un giorno feriale, tardo pomeriggio, visitatori po- chi. Entro un giovanotto biondo, straniero senza dubbio, probabilmente americano. Diede un'occhiata circolare e con un'indif~erenza piú oltraggiosa di qualsiasi insulto, passo oltre. " ""Il bifolco !"" penso Prestinari. ""Va a cavalcare vacche" "nelle tue praterie invece di visitare mostre d'arte!""" Ecco una giovane coppia, presumibili sposi in viaggio di nozze. Mentre lei si aggira con la caratteristica espres- sione atona e spenta dei turisti, lui si ferma, interessato, dinanzi a una piccola opera giovanile del maestro: una viuzza di Montmartre con il fatidico sfondo del Sacré- Coeur. " ""Dev'essere di modesta levatura, il giovanotto"" Presti-" "nari si dice ""eppure la sensibilit`a non gli manca. Anche" se di modeste dimensioni, questo e proprio uno dei pezzi piú notevoli. Si vede che la straordinaria delicat~zza dei "toni lo ha colpito.""" Altro che delicatezza di toni. « Vieni qui tesoro » dice il giovane alla sposa. « Guarda un po'... Manco a farlo ap- posta. » « Che cosa? » « Ma non ti ricordi? Tre giorni fa, a Montmartre. Quel ristorante dove abbiamo mangiato le lumache. Guardalo qui. Proprio su quest'angolo » e fa segno al quadro. «E vero, e vero » esclama lei, rianimata. « Pero ti con- fesso che a me sono rimaste sullo stomaco. » Ridendo stupidamente, se ne vanno. E la volta di due signore cinquantenni accompagnate da un bambino. « Prestinari » dice una leggendo ad alta voce il nome « Che sia parente dei Prestinari che abitano sotto di noi?... Sta fermo Giandomenico, non toccare con le ma- ni! » Esasperato dalla stanchezza e dalla noia, il bambino infatti sta cercando di staccare con le unghie un groppo di colore che sporge da un Tempo di mietitura In quel mentre Prestinati ha un tuffo al cuore vedendo entrare l'avvocato Matteo Dolabella, suo vecchio e caro amico, assiduo frequentatore della trattoria artistica di cui egli era stato uno dei personaggi piú brillanti. Lo accom- pagna un signore sconosciuto. « Oh, Prestinari! » esclama compiaciuto Dolabella. « Gli hanno dedicato una sala, meno male. Povero Arduccio, sa- "rebbe felice se potesse essere qui; una intera sala solo per" lui, finalmente, lui che da vivo non era mai riuscito ad ot- tenerla... E come ci soffriva! Lo conoscevi tu? » « Personalmente no » risponde il signore sconosciuto « de- vo averlo visto una volta... Era un tipo simpatico, vero? » « Simpatico? Piú che simpatico. Un ca~se~r affascinante, una delle persone piú intelligenti e spiritose che abbia mai conosciute... Le sue frecciate, i suoi paradossi... Delle sera- te indimenticabili si passavano con lui... Il meglio del suo ingegno si puo dire lo spendesse con gli amici, chiacchie- rando... Sí, certo, come vedi, anche i suoi quadri hanno del buono, o meglio avevano, e un vecchiume ormai questa pittura... Dio mio, quei verdi, quei viola, fanno legare i denti, verdi e viola erano la sua manía, non gli pareva di scaricarne mai abbastanza sulla tela, povero Arduccio... coi risultati che tu vedi. » Sospiro, scuotendo il capo e cerco nel catalogo. Fattosi da presso. Prestinari allungo l'invisibile collo per vedere cosa c'era scritto. Vide una mezza pagina di pre- sentazione firmata Claudio Lonio, altro suo intimo amico. Con altrettante strette al cuore, lesse alcune frasi di sfug- "gita: ""... rilevata personalit`a... ardenti anni giovanili della" Parigi della tramontante Belle Epoque... che gli valse i piú aperti riconoscimenti della... non dimenticabile apporto a BATTAGLIA NOTTURNA ALLA BIENNALE 437 quel moto di nuove idee e di audaci tentativi che... un po- "sto e non degli ultimi nella storia del...""." Ma Dolabella, chiuso il libro, gi`a si avviava nella sala successiva. « Che caro uomo! » fu il suo ultimo commento. Lungamente - i custodi andati, sempre piú buio, tutto deserto e stranamente inutile - Prestinari resto a contem- plare quella sua estrema gloria, dopo la quale mai e poi mai lo capiva benissimo - ci sarebbe piú stata una sua mo- stra personale. Fallito ! Avevano ragione i suoi amici las- sú dei campi elisi: era stato uno sbaglio ritornare. Non si era sentito mai tanto infelice. Con che superbia, sicurez- za di se stesso, una volta resisteva impavido all'incompren- sione della gente, con che risate rispondeva alle piú mali- gne critiche. Ma allora aveva dinanzi a sé un futuro, una indefinita serie di anni disponibili, una prospettiva di ca- polavori uno piú bello dell'altro che avrebbero sbalordito il mondo. Mentre adesso ! La storia era finita, né gli sa- rebbe mai concesso piú di aggiungere sia pure un solo colpo di pennello, e ogni giudizio sfavorevole gli doleva con l'acerba pena della condanna che non ha rimedio. In tanto sconforto, si riscosse d'impeto il suo tempera- "mento battagliero. ""I verdi e i viola ? E io starei qui a" mangiarmi l'animo per le asinerie di Dolabella? Quell'i- diota, quel cafone, che di pittura non ha mai capito un'ac- ca? Lo so ben io chi gli ha stravolto il cranio. Gli anti- figurativi, gli astrattisti, gli apostoli del verbo nuovo! An- che lui si e accodato alla masnada e si lascia menare per "il naso.""" La collera, che gi`a da vivo lo prendeva alla vista di certe pitture d'avanguardia, si rinnovo, riempiendogli l'animo di fiele. Per colpa di questi scalzacani - egli era convinto - L'ar- te vera, quella ancorata alle gloriose tradizioni, oggi veniva disprezzata. La malafede e lo snobismo, come succede spes- so, avevano vinto la partita, sconfiggendo gli onesti. " ""Pagliacci, istrioni, venditori di fumo, opportunisti !""" "dentro di sé imprecava. ""Qual e il vostro lurido segreto" per darla a bere a tanta gente e ottenere nelle grandi mo- stre la parte del leone ? Garantito che anche quest'anno qui a Venezia, siete riusciti ad avere il meglio e il buono. "Voglio cavarmi il gusto di vedere...""" Cosí brontolando lascio la sua sala scivolando verso gli ultimi reparti. Era ormai notte, ma il plenilunio batteva sui vasti lucernari diffondendo una fosforescenza quasi ma- gica. Via via che Prestinari procedeva, nei quadri appesi al- le pareh avvemva un progressivo mutamento: le classiche Immagmi - I paesaggi, le nature morte, i ritratti, i nudi - sempre piú si deformavano gonfiandosi, allungandosi, tor- cendosi, dimenticando l'antico decoro finché a poco a poco si rompevano perdendo completamente ogni traccia della primiera forma. Ecco le ultime generazioni: sulle tele, per lo piú im- mense, non si scorgevano che confusi grovigli di macchie, spruzzi, ghirigori, veli, vortici, bubboni, buchi, parallelo- grammi e ammassi vlscerali. Qui trionfavano le scuole nuo- ve, I giovam e rapacisslmi pirati della dabbenaggine uma- na « Ps, ps, maestro » bisbiglio qualcuno nella arcana pe- nombra. Prestinari si fermo di scatto, come al solito pronto alla discussione o alla battaglia. « Chi c'e?, chi c'e? » All'unisono, da tre quattro parti gli risposero, crepi- tando, triviali versi di dileggio. Seguirono rotte risate e un'eco di fischiolini che si persero in fondo all'allineamen- to delle sale. « Ecco quello che siete » tuono Prestinari, a gambe lar- ghe, gonfiando il petto come per resistere a un assalto « dei teppisti da trivio ! Impotenti, rifiuti dell'Accademia, im- brattatele da casa di salute, fatevi avanti se ne avete il fe- gato. » Ci fu una lieve sghignazzata e, accettando la sfida, giú dalle tele scesero affollandosi intorno a Prestinari, le piú enigmatiche parvenze: coni, globi, matasse, tubi, vesciche, schegge, cosce, ventri, glutei, dotati di particolare autono- mia, pidocchi e vermi giganteschi. E fluttuavano in danza beffarda sotto il naso del maestro. « Indietro, pallonari, adesso ve le suono io! » Con l'e- nergia strapotente dei vent'anni, chiss`a come ritrovata, Pre- stinari si avvento contro la folla, menando botte da orbi. « L`a, tieni questa, e questa!... Carogna, vescicone, maledet- to. » I pugni affondavano nell'eterogenea massa e con giu- bilo il maestro constato che sgominarla sarebbe stato faci- le. Le astratte parvenze, sotto i colpi si sbriciolavano o cre- pavano dissolvendosi in una specie di pantano. Fu una strage. In mezzo ai detriti, finalmente Prestinari si fermo, ansimando. Un superstite frammento come una cla- va gli sbatté sul viso. Lo ghermí al volo, con le potenti ma- ni, lo scaravento in un angolo, ridotto a un cencio inerte Vittoria! Ma proprio dinanzi a lui quattro informi spet- tri stavano ancora ritti con una sorta di severa dignit`a. Una debole luce ne emanava e al maestro parve di riconoscervi qualcosa di caro e familiare, riecheggiante da anni remo- tissimi. ~r Finché comprese. In quei grotteschi simulacri, cosí dis- simili da cio ch'egli aveva dipinto nel corso della vita, pal- pitava tuttavia il divino sogno d'arte, lo stesso ineffabile miraggio ch'egli aveva inseguito con testarda speranza fino all'ultima sua ora. C'era dunque qualcosa di comune fra lui e quelle infre- quentabili creature ? In mezzo a furbacchioni in malafede esisteva dunque qualche artista onesto e puro? O addirittu- ra non potevano essere costoro i geni, i titani, i beniami- ni della sorte ? E un giorno, per mano loro, cio che oggi non era che follia, si sarebbe trasformato in bellezza uni- versale ? Da quel galantuomo ch'era sempre stato, Prestinari li os- servo interdetto con una improvvisa commozione. `' « Ehi, voi » disse in tono paterno « su da bravi, tornate dentro ai quadri, che non vi veda piú. Avete anche ottime intenzioni, non dico di no, ma siete su una cattiva strada figli miei, una pessima strada. Siate umani, cercate di pren- dere una forma comprensibile! » « Impossibile. Ciascuno ha il suo destino » sussurro con rispetto il piú grosso clei quattro fantasmi, fatto di una in- tricata filigrana. «Ma cosa potete pretendere combinati come siete oggi? Chi vi puo capire? Belle teorie, fumo, diffficili parole, che sbalordiscono gli ingenui, questo sí. Ma in quanto ai ri- sultati, ammetterete che finora.. » « Finora, forse » rispose la filigrana « ma domani... » "E c'era in quel ""domani"" una tale fede, una potenza cosí" grande e misteriosa, che rintrono nel cuore del maestro. « Be', che Dio vi benedica » mormoro. « Domani... do- mani... Chiss`a. In un modo o in un altro ci arriverete per davvero... » " ""Pero che bella parola 'domani""' penso Prestinari, che" non poteva pronunciarla piú. E per non lasciar vedere che piangeva, corse fuori, anima in pena, galoppando via sulla laguna. OCCHIO PER OCCHIO I Martorani, ch'erano andati al cinematografo nella vicina citt`a, tornarono molto tardi alla loro vecchia e grande casa di campagna. Erano il padre, Claudio Martorani, possidente terriero, sua moglie Erminia, la figlia Victoria col marito Giorgio Mirolo, agente di assicurazioni, il figlio Giandomenico, stu- dente, e la vecchia zia Matelda, un po svanita. el breve viaggio di ritorno avevano discusso il film: Iligillo di porpora, un western di Georg Friedder con Lan Bunterton, Clarissa Haven e il famoso caratterista Mike Mustiffa. E ancora ne parlavano, dopo aver lasciato L'auto- mobile in garage, mentre attraversavano il giardino. Giando17lenico: « Ma fatemi il piacere, uno che per tut- ta la vita non fa altro che pensare a una vendetta, per me e un verme, un essere inferiore. Io non capisco... ». Cla~/dio: « Tu non capisci molte cose... Da che mondo e mondo, per un gentiluomo toccato nell'onore, la vendetta e un dovere elementare ». Giando17~enico: « L'onore! E che cos'e questo famoso onore ? ». Victoria: « Io la trovo una cosa sacrosanta, la vendetta. A me, per esempio, quando uno e potente, e ne approfitta, e fa delle ingiustizie, e schiaccia chi e piú debole di lui, a me viene una rabbia, ma una rabbia... ». Zia Matelda: « Il sangue... come si dice?... ah sí: il sangue chiama sangue. Io mi ricordo ancora, a quei tempi E ero bambina, del famoso processo Serralotto... Dunque que- sto Serralotto ch'era un armatore di Livorno, no aspetta, mi confondo... di Livorno era il cugino, quello che l'ha u«i- so..Lui era di..di Oneglia, ecco. Si diceva che..». rminia: « Basta, adesso. Non vorrete mica stare qui in giardino a fare l'alba, con questo freddo cane. quasi l'u- na. Fa presto, Claudio, apri la porta ». Aprirono la porta, accesero la luce, entrarono nel grande vestibolo d'ingresso da cui una scala solenne, vigilata da statue e armature, conduceva al piano superiore. Stavano per salire, quando Victoria, rimasta in coda al gruppo, mando un grido: « Che schifo ! Guarda quanti scarafaggi. » In un angolo, sul pavimento di mosaico, c'era una sot- tile striscia nera brulicante. Sbucando di sotto a un casset- tone, decine e decine di insetti, in regolare fila indiana, marciavano verso un minuscolo buco all'interstizio fra pa- vimento e muro. Era evidente, nelle bestiole, una nervosa precipitazione. Sorpresa dalla luce e dal ritorno dei pa- droni, la processione stava affrettando i tempi. Tutti e sei si avvicinarono. « Non ci mancavano che gli scarafaggi » protesto Victo- ria « in questa decrepita bicocca! » « In casa nostra non ci sono mai stati scarafaggi » ret- tifico la mamma, perentoria. « E questi, cosa sono? Farfallette? » « Saranno entrati dal giardino. » Insensibile a questi commenti, il corteo degli insetti pro- seguiva, senza rompersi o sbandare, inconsapevole dell'in- combente sorte. « Giandomenico » disse il padre « fa una corsa in rimes- sa, ci deve essere lo spruzzatore dell'insetticida. » « Non mi sembrano scarafaggi, questi » disse il ragazzo. « Gli scarafaggi vanno in ordine sparso. » « vero. E poi queste striature colorate sulla schiena... e poi questi nasi... Mai visti scarafaggi con un nasone si- mile. » Victoria: « Be', fate qualcosa. Non vorrete che invadano la casa ! ». Zia Matelda: « Se poi salgono di sopra e si arrampica- no sulla culla di Ciccino... Le bocche dei bambini sanno di latte e per il latte gli scarafaggi vanno pazzi... a meno che io non confonda con i topi... ». Erminia: « Per carit`a, non dirlo neanche... Sulla boc- cuccia di quel povero tesoro che sta dormendo come un an- gioletto ! ... Claudio, Giorgio, Giandomenico, cosa aspettate ancora ad ammazzarli? ». Claudio: « Ho capito. Sai cosa sono? Sono rincoti ». Victoria: « Cosa ? ». Claudio: « Rincoti, dal greco ris, rinos, insetti con il naso ». Erminia: « Col naso o no, in casa non ne voglio ». Zia Matelda: « State attenti pero: porta disgrazia ». Erminia: « Che cosa ? » . Zia Matelda: « Uccidere bestie dopo mezzanotte » Erminia: « Ma lo sai, zia, che sei una bella menagra- mo? ». Claudio: « Coraggio, Giandomenico, va a prendere l'in- setticida ». Giandomenico: «Io, per me, li lascerei in pace». Erminia: « Sempre bastian contrario, tu ! ». Giandomenico: « Arrangiatevi, io vado a letto ». Victoria: « Voi uomini, sempre gli stessi vigliacchi. Guar- date un po' come si fa ». Si tolse una scarpetta e, chinatasi, vibro un colpo di tra- verso al corteo delle bes~iole. Si udí un cec come di vesci- chette E di tre quattro insetti non rimasero che delle mac- chioline scure e immobili. Il suo esempio fu decisivo. Eccezion fatta per Giando- menico salito in camera e zia Matelda che scuoteva il ca- po, anche gli altri si diedero alla caccia, Claudio con le suole delle scarpe, Erminia con uno scacciamosche, Gior-, gio Mirolo con un attizzatoio. Ma la piú eccitata era Victoria: « Guardali adesso, questi schifosi, come scappano... Ve la do io la marcia di tra- sferimento!... Giorgio, sposta il cassettone, che l`a sotto ci deve essere l'adunata generale... Ciac! ciac! prendi questa! Ci sei rimasto secco, eh ?... E guardalo quest'altro, voleva nascondersi sotto una gamba del tavolo, il furbetto voleva fare! Euori di l`a, fuori di l`a, ciac, anche tu sei sistemato! E questo piccolino... alza le zampette lui, vorrebbe ribel- larsn.. ». Uno degli insetti piú piccoli, un neonato si sarebbe detto invece di fuggire come gli altri, correva infatti animosa- mente verso la giovane signora, sfidando i suoi colpi mor- tali. Non solo: fattosi sotto, si era, chiss`a come, eretto in gesto temerario, protendendo le zampe anteriori. E dal nasetto a becco venne un cigolio minuscolo ma non percio meno indignato. « Va' che carogna questo qui. Strilla anche... Ti piace- rebbe mordermi eh, piccolo bastardo ? Ciac... Ti e pia- ciuta ? Ah, tieni duro ? Cammini ancora, anche se hai le budella fuori... E allora prendi! Ciac, ciac! » e lo incollo sul pavimento. In quel mentre zia Matelda chiese: « Chi c'e di sopra? ». « Come sarebbe a dire ? » « Stanno parlando. Non sentite? » « Chi vuoi che parli ? Di sopra non c'e che Giandomenico e il bambmo. » « Eppure queste sono voci » insisteva zia Matelda. Tutti ristettero, ascoltando, mentre i pochi insetti su- perstiti arrancavano verso i piú vicini nascondigli. Qualcuno stava effettivamente parlando, alla sommit`a del- lo scalone. Una voce profonda, grassa, baritonale. Non era f di certo Giandomenico, né il pianto del bambino. « Madonna, i ladri ! » gemette la signora Erminia. Il Mirolo domando al suocero: «Hai una rivoltella?». « L`a, l`a, nel primo cassetto... » Insieme alla voce baritonale adesso se ne udiva una se- conda: sottile, stridula, che gli rispondeva. Senza fiatare, i Martorani guardavano alla sommit`a dello scalone, dove le luci del vestibolo non potevano arrivare. « C'e qualcosa che si muove » mormoro la signora Er- minia. « Chi va l`a? » tento di gridare Claudio, facendosi corag- gio, ma gli uscí un rantolo grottesco. « Su, va a accendere la luce sulla scala » gli disse la mo- glie. « Vacci tu. » Una, anzi due, anzi tre ombre nere cominciarono a scen- dere la scala. Non si capiva cosa fossero, sembravano dei sacchi neri, oblunghi e vacillanti che parlavano fra loro. E adesso le parole si capirono. « Dimmi ben su, cara » diceva la voce baritonale, ilare, con un inconfondibile accento bolognese. « Secondo te, que- ste sarebbero scimmiette? » « Picole, brute schifose maledete simie » confermo in tono saccente l'interlocutrice, che tradiva alla pronuncia la sua origine straniera. « Con quelle nappe? » fece l'altro, ridacchiando piuttosto volgarmente « Si son mai viste scimmie con dei nasi si- mili ? » « Su, svelto » incito la voce femminile. « Se no queste bestiaze scapano... » « Non scappano no, tesoro mio. Nelle altre stanze ci e sono i miei fratelli. E c'e chi fa la guardia anche in giardino! » Tac tac, come un rumore di stampelle sui gradini della scala. Finché qualcosa sbuco dall'ombra, risultando illu- minato dalle luci del vestibolo. Una specie di rigida pro- boscide lunga almeno un metro e mezo, laccata di ver- nice nera, e intorno delle lunghe aste brancolanti, poi il corpo liscio e compatto, della dimensione di un baule, che dondolava sui tubi articolati delle zampe. Al suo fianco un secondo mostro, piú smilzo. E alle spalle altri incalza- vano, in un accavallamento di lucide corazze. Erano gli insetti - scarafaggi, o rincoti, o altra ignota specie - di po- co fa, che i Martorani avevano schiacciati. Ma spavento- samente ingigantiti, carichi di una forza demoniaca. Inorriditi, i Martorani cominciarono a arretrare. Ma un sinistro tramestio di stampelle giungeva pure dalle stanze intorno, e dalla ghiaia del giardino. Il Mirolo alzo il braccio, tremante, puntando la pistola " « Sp... sp... » sibilo il suocero. Voleva dire ""spara, spara';" ma la lingua gli si era attorcigliata. Partí un colpo. « Dimmi ben su, amore » commento il primo mostro dall'accento bolognese « non sono ridicoli abbastanza? » Con un balzo la sua compagna dalla pronuncia straniera gli sguscio al fianco, awentandosi in direzione di Victoria. « E questa squinzia » stridette, facendole il verso « vuol nascondersi sotto il tavolo, la furbetta !... Ti divertivi con la scarpetta poco fa ? Ti piaceva vederci spiazicati ? E le ingiustizie, vero, ti fazevano una rabia, ma una rabia I "E;uori di l`a, fuori di l`a, caronia sudiza, che adesso ti zi" stemo io ! » Afferro la giovane donna per un piede, la trascino fuori del nascondiglio, le calo addosso di tutta forza il rostro. Pesava almeno un paio di quintali. 53 GRANDEZZA DELL'UOMO Si era fatto gi`a buio quando la porta della buia prigione fu aperta e le guardie scaraventarono dentro un vecchiet- tino minuscolo e barbuto. La barba di questo vecchietto era bianca e quasi piú grande di lui. E nella greve penombra del carcere ema- nava una debole luce, cio che fece, ai manigoldi chiusi l`a dentro, una certa impressione. Ma per via della tenebra il vecchietto sulle prime non si era accorto che in quella specie di spelonca ci fosse altra .gente e dornando: « C'e qualcuno ? » Gli risposero vari sogghigni e mugolii. Quindi ci furono, . secondo l'etichetta locale, le presentazioni. «Riccardon Marcello » fece una voce roca « furto ag- gravato. » Una seconda voce, pure discretamente cavernosa: « Bezed`a Carmelo, recidivo in truffa. » E poi: « Marfi Luciano, violenza carnale. » « Lavataro Max innocente. » Scroscio una saiva di grosse risate. La facezia infatti era piaciuta moltissimo dato che tutti conoscevano Lavataro come uno dei banditi piú famosi e carichi di sangue. Quin- di ancora: « Esposito Enea, omicidio » e palpito nella voce un fre- mito d'orgoglio. « Muttironi Vincenz0 » il tono era di trionfo « parrici- dio... E tu, vecchia pulce? » « Io... » rispose il nuovo venuto « precisamente non so Mi hanno fermato, mi hanno chiesto i documenti, io i documenti non li ho mai avuti. » « Vagabondaggio, allora, puah ! » disse uno con disprezzo. « E il tuo nome? » « Io... io sono Morro, ehm ehm... detto comunemente il Grande. » « Morro il Grande, questa e mica male » commento uno invisibile, dal fondo. « Ti va un po' largo, un nome simile Ci stai dentro dieci volte. » « Proprio cosí » disse il vecchietto con grande mansue- tudine. « Ma la colpa non e mia. Me l'hanno cacciato ad- dosso a scopo di dileggio, questo nome, io non ci posso fare niente. E mi procura delle noie, anche. Per esempio una volta... ma e una storia troppo lunga... » « D`ai, d`ai, sputa fuori » incito duramente uno di quei malnati « il tempo non ci manca. » Tutti approvarono. Nella tetra noia del carcere qualsiasi diversivo era una festa. « Bene » il vecchietto r~cconto « un giorno che giravo per una citt`a che forse e meglio tacere, v edo un grande pa- lazzo con servitori che vanno e vengono dalla porta ca- richi di ogni ben di Dio. Qui si d`a una festa, io penso, e ml avvlcino per domandare l'elemosina. Non faccio in tempo che un marcantonio alto due metri mi abbranca "per il collo. ""Eccolo qui, il ladro"" si mette a urlare ""il ladro" che ieri ha rubato ia gualdrappa del nostro padrone. E ha il coraggio anche di tornarc. Adesso ti conteremo noi le "ossa !"" ""Io ?'` rispondo. ""Ma se ieri ero almeno a trenta" "miglia da qui. Come e possibile?"" ""Ti ho visto con que-" ste mie pupille, ti ho visto che te la filavi con la gual- "drappa sulle spalle"" e mi trascina nel cortile del palazzo." "Io mi butto in ginocchio: ""leri ero a trenta miglia alme-" no da qui. In questa citt`a non sono mai stato, parola di "Morro il Grande"". ""Cosa ?"" fa l'energumeno guardando-" "mi con tanto d'occhi ""Parola di Morro il Grande"" io ripe-" to. Quello, da imbufalito che era, improvvisamente scop- "pia a ridere. ""Morro il Grande?"" dice. ""Venite, venite a" vedere questo pidocchio che dice di chiamarsi Morro il "Grande"" e a me: ""Ma lo sai chi e Morro il Grande ?""." "Oltre a merispondo non conosco nessun altro."" '""Mor-" "ro il Grande"" dice il sacripante ""e nientemeno che il no-" stro eccellentissimo padrone. E tu, pezzente, osi usurparne "il nome! Ora stai fresco. Ma eccolo qua che viene.""" « Proprio cosí. Richiamato dalle grida, il padrone del pa- lazzo era sceso personalmente nel cortile. Un mercante ric- chissimo, L'uomo piú ricco di tutta la citt`a, forse del mondo. Si avvicina, domanda, guarda, ride, L'idea che un poverac- cio come me porti il suo stesso nome, lo esilara. Ordina al servo di lasciarmi, mi invita a entrare, mi fa vedere tutte le sale piene zeppe di tcsori, mi conduce perfino in una stanza corazzata dove ci erano mucchi cosí d'oro e di gem- me, mi fa dar da mangiare e poi mi dice: " « ""Questo caso, o vecchio mendico che porti un nome" uguale al mio, e tanto piú straordinario perché anche a me, durante un viaggio in India, e capitata la stessa identica cosa. Ero andato al mercato per vendere e subito, vedendo le preziose cose che portavo, si erano fatti intorno in molti a chiedermi chi ero e da dove venivo. `Mi chiamo Morro il Grande' io rispondo. E quelli, con la faccia scura: 'Morro il Grande? Che grandezza puo essere mai la tua, volgaris- simo mercante? La grandezza dell'uomo sta nell'intelletto. Di Morro il Grande ce ne e uno solo, e vive in questa citt`a Egli e l'orgoglio del nostro Paese e tu, briccone, ora gli renderai conto della tua millanteria'. Mi prendono, mi legano e mi conducono da questo Morro di cui ignoravo l'esistenza Era un famosissimo scienziato, filosofo, mate- maticO, astronomo ed astrologo, venerato quasi come un dio Per fortuna lui ha capito subito l'equivoco, si e messo a ridere, mi ha fatto liberare, poi mi ha condotto a visitare GRANDEZZA DELL'UOMO 451 il suo laboratorio, la sua specola, i suoi meravigliosi stru- menti tutti costruiti da lui. E infine ha detto: " « ""Questo caso, o nobile mercante straniero, e tanto piú" straordinario perché anche a me, durante un viaggio nelle Isole del Levante, e capitata la stessa identica cosa. Mi ero col`a incamminato verso la cima di un vulcano che inten- devo studiare, quando un gruppo di armigeri, insospettiti dai miei abiti stranieri, mi fermarono per sapere chi fossi. E avevo appena fatto in tempo a pronunciare il mio nome che mi caricarono di catene, trascinandomi verso la citt`a. 'Morro il Grande ?' mi dicevano 'che grandezza mai puo essere la tua, miserabile maestrucolo ? La grandezza del- L'uomo sta nelle gesta eroiche. Di Morro il Grande ne esi- ste uno solo. iil signore di questa isola, il piú valoroso guerriero che abbia mai fatto balenare la sua spada al so- le. E ora ti far`a decapitare.' Mi condussero infatti alla presenza del loro monarca che era un uomo dall'aspetto terribile. Per fortuna riuscii a spiegarmi e lo spaventoso guerriero si mise a ridere per la singolare combinazione, mi fece togliere le catene, mi dono ricche vesti, mi invio a entrare nella reggia e ad ammirare le splendide testimo- nianze delle sue vittorie su tutti i popoli delle isole vicine e lontane. Infine mi disse: " « ""Questo caso, o illustre scienziato che porti il medesimo" mio nome, e tanto piú straordinario perché anche a me, quando ero a combattere nella lontanissima terra denomi- nata Europa, capito la stessa identica cosa. Avanzavo in- fatti con i miei armati per una foresta quando mi si fecero incontro dei rozzi montanari che mi chiesero: 'Chi sei tu che porti tanto fragore d'armi nel silenzio delle nostre selve?'. E io dissi: 'Sono Morro il Grande' e pensavo che al solo nome sbigottissero. Invece quelli ebbero un sorriso di commiserazione, dicendo: 'Morro il Grande ? Tu vuoi scherzare Che grandezza mai puo essere la tua, vanaglo- rioso armigero? La grandezza dell'uomo sta nell'umilt`a del- la carne e nell'elevazione dello spirito. Di Morro il Grande ce n'e al mondo uno solo e adesso ti condurremo da lui affinché tu veda la vera gloria dell'uomo'. Infatti mi gui- darono in una solitaria valletta e qui in una misera capanna stava, vestito di cenci, un vecchietto dalla barba candida, che passava il tempo, mi dissero, contemplando la natuta "e adorando Dio; e onestamente devo ammettere che non" avevo mai visto un essere umano piú sereno, contento e probabilmente felice, ma per me in verit`a era ormai troppo "tardi per cambiare strada""." «Questo ave-a raccontato il potente re dell'isola al sa- piente scienziato e lo scienziato poi lo aveva narrato al ric- chissimo mercante e il mercante l'aveva detto al povero vecchietto presentatosi al suo palazzo per chiedere la ca- rit`a. E tutti si chiamavano Morro e tutti, chi per una ra- gione o per l'altra, erano stati denominati grandi. » Ora, nel tenebroso carcere, avendo il vecchietto finito la sua storia, uno di quei furfanti domando: « E cosí, se il mio cranio non e pieno di stoppa, quel dannato vecchietto della capanna, il piú grande di tutti, non saresti altro che tu? » « Eh, cari figlioli » mormoro il barba senza rispondere né sí né no « e una cosa ben buffa la vita! » Allora per qualche istante i manigoldi che lo avevano ascoltato, tacquero, perché anche agli uomini piú sciagura- ti certe cose danno parecchio a pensare. 54 LA PAROLA PROIBITA Da velati accenni, scherzi allusivi, prudenti circonlocuzio ni, vaghi sussurrl, mi sono fatto finalmente l'idea che in questa citt`a, dove mi sono trasferito da tre mesi, ci sia il divieto di usare una parola. Quale? Non so. Potrebbe es- sere una parola strana, inconsueta, ma potrebbe trattarsi anche di un vocabolo comune, nel qual caso, per uno che fa il mlo mestlere, potrebbe nascere qualche inconveniente. Piu che allarmato, incuriosito, vado dunque a interpel- lare Geronimo, mio amico, saggio fra quanti io conosco che vivendo in questa citt`a da una ventina d'anni, ne co- nosce vita e miracoli. « ivero » egli mi risponde subito. « vero C'e da noi una parola proibita, da cui tutti girano alla larga. » « E che parola e ? » « Vedi ? » mi dice. « Io so che sei una persona onesta, di te posso fidarmi. Inoltre ti sono sinceramente amico. Con tutto questo, credimi, meglio che non te la dica. Ascolta: io vivo in questa citt`a da oltre vent'anni, essa mi ha ac- colto, mi ha dato lavoro, mi permette una vita decorosa non dimentichiamolo. E io? Da parte mia ne ho accettate le leggi lealmente, belle o brutte che siano. Chi mi impe- diva di andarmene ? Tuttavia sono rimasto. Non voglio darmi le arie di filosofo, non voglio certo scimmiottare So- crate quando gli proposero la fuga di prigione, ma vera- mente mi rlpugna contravvenire alla norma della citt`a che mi considera suo figlio... sia pure in una minuzia simile. Dio sa, poi, se e dawero una minuzia...» « Ma qui parliamo in tutta . Qui non ci sente 4s3 nessuno. Geronimo, suvvia, potresti dirmela, questa parola benedetta. Chi ti potrebbe denunciare? Io? » « Constato » osservo Geronimo con un ironico sorriso « constato che tu vedi le cose con la mentalit`a dei nostri nonni. La punizione ? Sí, una volta si credeva che senza punizione la legge non potesse aver efficacia coercitiva. Ed era vero, forse. Ma questa e una concezione rozza, primor- diale. Anche se non e accompagnato da sanzione, il pre- "cetto puo assurgere a tutto il suo massimo valore; siamo" evoluti, noi. » « Che cosa ti trattiene allora? Ia coscienza? il presenti- mento del rimorso ? » « Oh la coscienza! Povero ferravecchio. Sí, la coscienza, per tanti secoli ha reso, agli uomini, inestimabili servigi, anche lei tuttavia ha dovuto adeguarsi ai tempi, adesso e trasformata in un qualcosa che le assomiglia solo vaga- mente, qualcosa di piú semplice, piú standard, piú tran- quillo, direi, di gran lunga meno impegnativo e tragico. » « Se non ti spieghi meglio... » « Una definizione scientifica ci manca. Volgarmente lo si chiama conformismo. la pace di colui che si sente in ar- monia con la massa che lo attornia. Oppure e l'inquietu- dine, il disagio, lo smarrimento di chi si allontana dalla norma. » « E questo basta ? » « Altro, se basta! una forza tremenda, piú potente del- l'atomica Naturalmente non e dovunque uguale. Esiste una geografia del conformismo. Nei paesi arretrati e ancora in fasce, in embrione, o si esplica disordinatamente, a suo capriccio, senza direttive. La moda ne e un tipico esem- pio Nei paesi piú moderni, invece, questa forza si e or- mai estesa a tutti i campi della vita, si e completamente rassodata, e sospesa si puo dire nell'atmosfera stessa: ed e nelle mani del potere. » «E qui da noi?» LA PAROLA PROI~ITA « Non c'e male, non c'e male. La proibizione della parola, per esempio, e stata una sagace iniziativa dell'autorit`a ap punto per saggiare la maturit`a conformistica del popolo. Cosí e. Una specie di test. E il risultato e stato molto, ma molto superiore alle previsioni. Quella parola e tabú, ora- mai. Per quanto tu possa andarne in cerca col lumino, ga- rantito che, qui da noi, non la incontri assolutamente piú neanche nei sottoscala. La gente si e adeguata in men che non si dica. Senza bisogno che si minacciassero denunce, multe, o carcere. » « Se fosse vero quanto dici, allora sarebbe facilissimo far diventare tutti onesti. » « Si capisce. Pero ci vorranno molti anni, decenni, forse secoli. Perbacco, proibire una parola e facile, rinunciare a una parola non costa gran fatica. Ma gli imbrogli, le mal- dicenze, i vizi, la slealt`a, le lettere anonime, sono cose gros- se... Ia gente ci si e affezionata, prova a dirle un po' che ci rinunzi. Questi sí sono sacrifici. Inoltre la spontanea on- data conformista, da principio, abbandonata a se stessa, si e diretta verso il male, i porci comodi, i compromessi, la vilt`a. Bisogna farle invertire rotta, e non e facile. Certo, col tempo ci si riuscir`a, puoi star certo che ci si riuscir`a. » « E tu trovi bello questo? Non ne deriva un appiatti- mento, una uniformit`a spaventosa? » « Bello ? Non si puo dire bello. In compenso e utile, estremamente utile. La collettivit`a ne gode. In fondo - ci "hai mai pensato? - i caratteri, i ""tipi"", le personalit`a spic-" cate, fino a ieri cosí amate e affascinanti, non erano in fondo che il primo germe dell'illegalit`a, dell'anarchia. Non rappresentavano una debolezza nella compagine sociale? E, in senso opposto, non hai mai notato che nei popoli piú forti c'e una straordinaria, quasi affliggente, uniformit`a di tipi umani ? » « Insomma, questa parola, hai deciso di non dirmela? » « Figliolo mio, non devi prendertela. Renditi conto: non e per diffidenza. Se te la dicessi, mi sentirei a disagio. » « Anche tu? Anche tu, uomo superiore, livellato alla quo- ta della massa? » « Cosí e, mio caro » e s~osse melanconicamente il capo. « Bisognerebbe essere titani per resistete alla pressione del- l'ambiente. » « E la ? Il supremo bene! Una volta l'amavi. Pur di non perderla, qualsiasi cosa avresti dato. E adesso? » « Qualsiasi cosa, qualsiasi cosa... gli eroi di Plutarco... Ci vuol altro... Anche il piú nobile sentimento si atrofizza e si dissolve a poco a poco, se nessuno intorno ne fa piú caso. E triste dirlo, ma a desiderare il Paradiso non si puo essere soli. » « Dunque: non me la vuoi dire? una parola sporca? O ha un significato delittuoso? » « Tutt'altro. una parola pulita, onesta e tranquillissi- ma. E proprio qui s'e dimostrata la finezza del legislato- re. Per le parole turpi o indecenti, c'era gi`a un tacito di- vieto, anche se blando,... Ia prudenza, la buona educazio- ne. L'esperimento non avrebbe avuto gran valore. » «Dimmi almeno: e un sostantivo? un aggettivo? un ver- bo ? un avverbio ? » « Ma perché insisti? Se rimani qui tra noi, un bel giorno la identificherai anche tu, la parola proibita, all'improvvi- so, quasi senza accorgertene. Cosí e, figliolo mio. La as- sorbirai dall'aria. » « Bene, vecchio Geronimo, sei proprio un testone. Pa- zienza Vuol dire che per cavarmi la curiosit`a dovro an- dare in biblioteca, a consultare i Testi Unici. Ci sar`a al proposito una legge, no? E sar`a stampata questa legge! E dir`a bene che cos'e proibito! » « Ahi, ahi, sei rimasto in arretrato, ragioni ancora con i vecchi schemi. Non solo: ingenuo, sei. Una legge che, per proibire l'uso di una parola, la nominasse, contravver- rebbe automaticamente a se stessa, sarebbe una mostruosi t`a giuridica. E inutile che tu vada in biblioteca. » « Via, Geronimo, ti prendi gioco di me ! Ci sar`a ben stato qualcuno che ha avvertito: da oggi la parola X e proibita E l'avr`a pur nominata, no? Altrimenti la gente come avreb be fatto a sapere ? » « Questo, effettivamente, e l'aspetto forse un poco pro- blematico del caso. Ci sono tre teorie: c'e chi dice che la proibizione e stata diffusa a voce da agenti della munici- palit`a travestiti. C'e chi garantisce di aver trovato a casa sua, in busta chiusa, il decreto del divieto con l'ordine di bruciarlo appena letto. Ci sono poi gli integralisti - pessi- misti li chiameresti tu - che sostengono addirittura non esserci stato bisogno di un ordine espresso, a tal punto i "cittadini sono pecore; e bastato che l'autorit`a volesse, tutti" l'hanno subito saputo, per una specie di telepatia. » « Ma non saranno mica diventati tutti vermi Per quanto pochi, esisteranno ancora qui in citt`a dei tipi indipendenti che pensano con la propria testa. Degli oppositori, etero- dossi, ribelli, fuorilegge, chiamali pure come vuoi. Capi- ter`a, no, che qualcuno di costoro, a titolo di sfida, pronunci o scriva la parola incriminata? Cosa succede allora? » «Niente, assolutamente niente. Proprio qui sta lo stra- ordinario successo dell'esperimento. Il divieto e cosí en- trato nella profondit`a degli animi da condizionare la per- cezione sensoriale. » « Come sarebbe a dire? » - « Che, per un veto dell'inconscio, sempre pronto a inter- . venire, in caso di pericolo, se uno pronuncia la nefanda parola, la gente non laen~e piú nemmeno, e se la trova scritta non la vede... » « E, al posto della parola, cosa vede? » « Niente, il muro nudo se e scritta sul muro, uno spazio bianco sulla carta, se e scritta su di un foglio. » Io tento l'ultimo assalto: « Geronimo, ti prego: tanto per curiosit`a, oggi, qui, parlando con te, L'ho mai rata questa parola misteriosa ? almeno questo me lo r re, non ci rimetti proprio niente ». Il vecchio Geronimo sorride c strizza un occhio. « L'ho adoperata, allora? » Lui strizza ancora l'occhio. 4s7 "; adope-" lotrai di- Ma una sovrana mestizia improvvisamente illumina il suo volto. «Quante volte? Non fare il prezioso, su, dimmi, quante volte? » « Quante volte non so, guarda, parola mia d'onore. An- che se l'hai pronunciata, io udirla non potevo. Pero mi e parso, ecco, che a un certo punto, ma ti giuro non mi ricordo dove, ci sia stata una pausa, un brevissimo spazio vuoto, come se tu avessi pronunciato una parola e il suono non me ne fosse giunto. Puo anche darsi pero che si trat- tasse di una involontaria sospensione, come succede sem- pre nei discorsi. » « Una volta sola ? » « Oh basta. Non insistere. » « Sai cosa faccio allora? Questo colloquio, appena ritorno a casa, io lo trascrivo, parola per parola E poi lo do alle stampe. » « A che scopo? » « Se e vero quello che hai detto, il tipografo, che pos- siamo presumere sia un buon cittadino, non vedr`a la pa- rola incriminata. Dunque le possibilit`a sono due: o egli lascia uno spazio vuoto nella riga di piombo e questo mi "spiegher`a tutto; o invece tira diritto senza spazi vuoti e" in questo caso non avro che da confrontare lo stampato "con l'originale di cui naturalmente io tengo copia; e co-" sí sapro qual e la parola. » Rise Geronimo, bonario. « Non caverai un ragno dal buco, amico mio. A qual- siasi tipografia tu ti rivolga, il conformismo e tale che il tipografo automaticamente sapr`a come comportarsi per elu- dere la tua piccola manovra. Egli cioe, una volta tanto, vedr`a la parola scritta da te ammesso che tu la scriva _ e non la salter`a nella composizione. Sta pur tranquillo, so- no bene addestrati i tipografi, da noi, e informatissimi. » «Ma scusa, che scopo c'e in tutto questo? Non sarebbe un vantaggio per la citt`a se io apprendessi qual e la parola proibita, senza che nessuno la nomini o la scriva? » « Per adesso probabilmente no. Dai discorsi che mi hai fatto e chiaro che non sei maturo. C e bisogno di una ini- ziazione Insomma, non ti sei ancora conformato. Non sei ancora degno - secondo l'ortodossia vigente- di rispettare la legge. » « E il pubblico, leggendo questo dialogo, non si accor- ger`a di niente? » « Semplicemente vedr`a uno spazio vuoto. E, semplice- mente penser`a: che disattenti, hanno saltato una parola. » I Santi hanno ciascuno una casetta lungo la riva con un balcone che guarda l'oceano, e quell'oceano e Dio. D'estate, quando fa caldo, per refrigerio essi si tuffano nelle fresche acque, e quelle acque sono Dio. Alla notizia che sta per arrivare un santo nuovo, subito viene intrapresa la costruzione di una casetta di fianco alle altre. Esse formano cosí una lunghissima fila lungo la riva del mare. Lo spazio non manca di sicuro. Anche San Gancillo, come giunse sul posto dopo la no- mina, trovo la sua casetta pronta uguale alle altre, con ' mobili, biancheria, stoviglie, qualche buon libro e tutto quanto. C'era anche, appeso al muro, un grazioso scaccia- mosche perché nella zona vivevano abbastanza mosche, pero non fastidiose. Gancillo non era un santo clamoroso, aveva vissuto umil- mente facendo il contadino e solo dopo la sua morte, qual- cuno, pensandoci su, si era reso conto della grazia che riem- piva quell'uomo, irraggiando intorno per almeno tre quat- tro metri. E il prevosto, senza troppa fiducia in verit`a, aveva fatto i primi passi per il processo di beatificazione. ·Da allora erano passati quasi duecento anni. Ma nel profondo grembo della Chiesa, passettino passet- tino, senza fretta, il processo era andato avanti. Vescovi e Papi morivano uno dopo l'altro e se ne facevano di nuovi, tuttavia l'incartamento di Gancillo quasi da solo passava da un ufficio all'altro, sempre piú su, piú su. Un soffio di grazia era rimasto attaccato misteriosamente a quelle scar- toffie ormai scolorite e non c'era prelato che, maneggian- dole, non se ne accorgesse. Questo spiega come la faccen da non venisse lasciata cadere. Finché un mattino l'imma gine del contadino con una cornice di raggi d'oro fu issata in San Pietro a grande altezza e, di sotto, il Santo Padre personalmente intono il salmo di gloria, elevando Gan- cillo alla maest`a degli altari. Al suo paese si fecero grandi feste e uno studioso della storia locale credette di identificare la casa dove Gancillo era nato, vissuto e morto, casa che fu trasformata in una specie di rustico museo. Ma siccome nessuno si ricordava piú di lui e tutti i parenti erano scomparsi, la popolarit`a del nuovo santo duro ben pochi giorni. Da immemora- bile tempo in quel paese era venerato come patrono un altro santo, Marcolino, per baciare la cui statua, in fama taumaturgica, venivano pellegrini anche da lontane con- trade. Proprio accanto alla sontuosa cappella di San Mar- colino, brulicante di ex voto e di lumini, fu costruito il nuovo altare di Gancillo. Ma chi gli badava? Chi si ingi- nocchiava a pregare ? Era una figura cosí sbiadita, dopo duecento anni. Non aveva niente che colpisse l'immagi- nazi one. Comunque, Ganclllo, che mai si sarebbe immaginato tan- to onore, si insedio nella sua casetta e, seduto al sole sul balcone, contemplo con beatitudine l'oceano che respirava placido e possente. Senonché il mattino dopo, alzatosi di buon'ora, vide un fattorino in divisa, arrivato in bicicletta, entrare nella ca- "setta vicina portando un grosso pacco; e poi passare alla" "casetta accanto per lasciarvi un altro pacco; e cosí a tutte" "quante le casette, finché Gancillo lo perse di vista; ma a" lui, niente. Il fatto essendosi ripetuto anche nei giorni successivi, Gancillo, incuriosito, fece cenno al fattorino di avvicinarsi e gli domando: « Scusa, che cosa porti ogni mattina a tutti i miei compagni, ma a me non porti mai? ». «:Ela posta » rispose il fattorino togliendosi rispettosamente il berretto « e io sono il postino. » « Che posta? Chi la manda? » Al che il postino sorrise e fece un gesto come per indicare quelli dell'altra parte, quelli di l`a, la gente laggiú del vecchio mondo. « Petizioni? » domando San Gancillo che cominciava a capire. « Petizioni, sí, preghiere, richieste d'ogni genere » disse il fattorino in tono indifferente, come se fossero inezie, per non mortificare il nuovo santo. « E ogni giorno ne arrivano tante? » Il postino avrebbe voluto dire che quella era anzi una stagione morta e che nei giorni di punta si arrivava a dieci, venti volte tanto. Ma pensando che Gancillo sarebbe ri- masto male se la cavo con un: « Be', secondo, dipende ». E poi trovo un pretesto per squagliarsela. Il fatto e che a San Gancillo nessuno si rivolgeva mai. Come neanche esistesse. Né una lettera, né un biglietto, neppure una cartolina postale. E lui, vedendo ogni mat- tino tutti quei plichi diretti ai colleghi, non che fosse in- vidioso perché di bmtti sentimenti era incapace, ma certo rimaneva male quasi per il rimorso di restarsene l`a senza far niente mentre gli altri sbrigavano una quantit`a di pra- "tiche; insomma aveva quasi la sensazione di mangiare il" pane dei santi a tradimento (era un pane speciale, un po' piú buono che quello dei comuni beati). Questo cruccio lo porto un giorno a curiosare nei pressi di una delle casette piú vicine, donde veniva un curioso ticchettío . « Ma prego, caro, entra, quella poltrona e abbastanza comoda Scusa se finisco di sistemare un lavoretto, poi sono subito da te » gli disse il collega cordialmente. Passo quindi nella stanza accanto dove con velocit`a stupefacente detto a uno stenografo una dozzina di lettere e vari ordini di "servizio; che il segretario si affretto a battere a macchina:" Dopodiché torno da Gancillo: « Eh, caro mio, senza un minimo d organizzazione sarebbe un affare serio, con tutta la posta che arriva. Se adesso vieni di l`a, ti faccio vedere il mio nuovo schedario elettronico, a schede perforate ». In- somma fu molto gentile. Di schede perforate non aveva certo bisogno Gancillo che se ne torno alla sua casetta piuttosto mogio. E pensava: pcssibile che nessuno abbia bisogno di me? E sí che po- trei rendermi utile. Se per esempio facessi un piccolo mi- "racolo per attirare l'attenzione?""" Detto fatto, gli venne in mente di far muovere gli occhi al suo ritratto, nella chiesa del paese. Dinanzi all'altare di San Gancillo non c'era mai nessuno, ma per caso si trovo a passare Memo Tancia, lo scemo del paese, il quale vide il ri- tratto che roteava gli occhi e si mise a gridare al miracolo. Contemporanearr.ente, con la fulminea velocit`a loro con- sentita dalla posizione sociale, due tre santi si presentaro- no a Gancillo e con molta bonariet`a gli fecero intendere ch'era meglio lui smettesse: non che ci fosse niente di ma- le, ma quei tipi di miracolo, per una certa loro frivole~- za, non erano molto graditi in alto lo~o. Lo dicevano sen- za ombra di malizia, ma e possibile gli facesse specie quel- L'ultimo venuto il quale eseguiva lí per lí, con somma di- sinvoltura, miracoli che a loro invece costavano una fatica maledetta. San Gancillo naturalmente smise e giú al paese la gente accorsa alle grida dello scemo esamino a lungo il ritratto senza rilevarvi nulla di anormale. Per cui se ne andarono delusi e poco manco che Mem.o Tancia si prendesse un sac- co di legnate. Allora Gancillo penso di richiamare su di sé l'attenzione degli uomini con un miracolo piú piccolo e poetico. E fece "sbocciare una bellissima rosa dalla pietra della sua vecchia;" tomba ch'era stata riattata per la beatificazione ma adesso era di nuovo in completo abbandono. Ma era destino che egli non riuscisse a farsi capire. Il cappellano del cimitero, avendo visto, si affretto dal becchino e lo sollevo di peso. «Almeno alla tomba di San Gancillo potresti badarci, no? E una vergogna, pelandrone che non sei altro. Ci son pas- sato adesso e l'ho vista tutta piena di erbacce. » E il becchi- no si affretto a strappare via la pianticella di rosa. Per tenersi sul sicuro, Gancillo quindi ricorse al piú tra- dizionale dei miracoli. E al primo cieco che passo davanti al suo altare, gli ridono senz'altro la vista Neppure questa volta gli ando bene. Perché a nessuno venne il sospetto che il prodigio fosse opera di Gancillo, ma tutti lo attribuirono a San Marcolino che aveva l'altare proprio accanto. Tale fu anzi l'entusiasmo, che presero in spalla la statua di Marcolino, la quale pesava un paio di quintali, e la portarono in processione per le strade del paese al suono delle campane. E l'altare di San Gancillo rimase piú che mai dimenticato e deserto. Gancillo a questo punto si disse: meglio rassegnarsi, si vede proprio che nessuno vuole ricordarsi di me. E si sedette sul balcone a rimirare l'oceano, che era in fondo un grande sollievo. Era lí che contemplava le onde, quando si udí battere alla porta. Toc toc. Ando ad aprire. Era nienterneno che Marcolino in persona il quale voleva giustificarsi. Marcolino era un magnifico pezo d'uomo, esuberante e pieno di allegria: «Che vuoi farci, caro il mio Gancillo? Io proprio non ne ho colpa. Sono venuto, sai, perché non vorrei alle volte tu pensassi... ». « Ma ti pare » fece Gancillo, molto consolato da quella visita, ridendo anche lui. « Vedi? » disse ancora Marcolino. « Io sono un tipaccio, eppure mi assediano dalla mattina alla sera. Tu sei molto piú santo di me, eppure tutti ti trascurano. Bisogna aver pazienza, fratello mio, con questo mondaccio cane » e dava a Gancillo delle affettuose manate sulla schiena. « Ma perché non entri ? Fra poco e buio e comincia a rin- frescare, potremmo accendere il fuoco e tu fermarti a cena » « Con piacere, proprio col massimo piacere » rispose Mar- colino Entrarono, tagliarono un po' di legna e accesero il fuoco, con una certa fatica veramente, perché la legna era ancora umida. Ma soffia soffia, alla fine si alzo una bella fiammata. Allora sopra il fuoco Gancillo mise la pentola piena d'ac- qua per la zuppa e, in attesa che bollisse, entrambi sedet- tero sulla panca scaldandosi le ginocchia e chiacchierando amabilmente. Dal camino comincio a uscire una sottile co- lonna di fumo, e anche quel fumo era Dio. 56 IL CRITICO D'ARTE Nella DCXXII sala della Biennale il noto critico Paolo Malusardi sosto perplesso. Era una personale di Leo Squit- tinna, una trentina di quadri apparentemente tutti ugua- li, formati da un reticolo di linee perpendicolari tipo Mon- drian, solo che in questo caso il fondo aveva colori accesi e nell'inferriata, per cosí dire, i tratti orizzontali, molto piú grossi di quelli verticali, qua e l`a diventavano piú fit- ti, il che dava un senso di pulsazione, di stretta, di cram- po, come quando nelle digestioni difficili qualcosa si in- gorga nello stomaco e duole. per poi sciogliersi nel giusto andamento viscerale. Con le code degli occhi, il critico si accerto di non avere testimoni. Completamente solo. Nel pomeriggio torrido i visitatori erano stati pochi e quei pochi gi`a sfollavano. Tra breve si sarebbe chiuso. Squittinna ? Il critico cerco nella memoria. Una perso- nale a Roma, tre anni prima, se non si sbagliava. Ma a quel tempo il pittore dipingeva ancora cose: figure umane, pae- saggi, vasi e pere, secondo la putrefatta tradizione. Di piú non ricordava. Cerco nel catalogo. La lista dei quadri esposti era prece- duta da una breve introduzione di un ignoto Ermanno Lais. Diede una occhiata: le solite parole. Squittinna, Squit- tinna, ripeté sommessamente. Ii tlome gli richiamava qual- che cosa di recente. Ma il ricordo al momento gli sfuggiva. Ah sí. Due giorni prima, gliene aveva parlato il Tambu- rini, un gobbetto immancabile in tutte le grandi mostre d'arte, un maníaco che sfogava all'ombra dei pittori le sue~ fallite aspirazioni, un rompiscatole, attaccabottoni temuti simo. Tuttavia infallibile, data la lunga e disinteressata pra- tica, nel percepire, anzi nel presentire il fenomeno di cui i giornali a rotocalco, due anni dopo, avrebbero dedicato con l'avallo della critica ufficiale, intere pagine a colori. Eb- bene, questo Tamburini, vero furetto delle arti belle, due sere prima, a un tavolino del Florian, aveva lungamente perorato, senza che i presenti gli badassero, a favore ap- punto dello Squittinna, L'unica grande rivelazione, soste- "neva, della Biennale veneziana, la sola personalit`a che ""e-" mergesse dalla palude (testuali parole) del conformismo non "figurativo""." Squittinna, Squittinna, strano nome. Il critico passo in rassegna mentalmente i cento e piú articoli dei colleghi pubblicati fino allora sulla mostra. Nessuno aveva dedicato alla Squittinna piú di due o tre righe. Squittinna era pas- sato inosservato. Terreno dunque vergine. Per lui, critico ormai di prima linea, poteva essere un'ottima occasione. Guardo piú attentamente. Certo, quelle nude geometrie per commuoverlo, non lo commuovevan di sicuro. Diciamo pure, non gliene importava un fico secco. Eppure poteva es- serci uno spunto. Chiss`a, il destino riservava a lui l'invi- diabile compito di rivelare un nuovo grande artista. Guardo di nuovo i quadri. Sbilanciarsi in favore di Squittinna - si domando - sarebbe stato un rischio? Qual- che collega gli avrebbe potuto rinfacciare d'aver commesso una scandalosa gaffe? Assolutamente no. Erano cosí essen- ziali, quelle tele, cosí nude, cosí lontane da qualsiasi pos- sibile diletto dei volgari sensi, che un critico, lodandole, si sarebbe trovato in una botte di ferro. Senza contare l'ipo- tesi - perché escluderlo a priori? - che l`a dentro ci fosse veramente un genio destinato a far parlare di sé per lunghi anni e a riempire di quadricromie parecchi volumi di Skira. Cosí rincuorato, con la prospettiva di scrivere un arti- colo che avrebbe fatto spasimare d'invidia i suoi colleghi per la rabbia di essersi lasciata sfuggire una preda cosí ghiotta, egli fece un lieve esame di coscienza. Che cosa si poteva dire di Squittinna ? In determinate, e rare, condi- zioni favorevoli, il critico riusciva almeno a essere sincero "con se stesso. E si rispose. ""Potrei dire che Squittinna e un" astrattista. Che i suoi quadri non vogliono rappresentare niente. Che il suo linguaggio e un puro gioco geometrico di spazi quadrilateri e di linee che li chiudono. Ma spera di farsi perdonare il manifesto plagio di Mondrian con una innovazione spiritosa: fare grosse le linee orizzontali e sot- tili quelle verticali, e variare tale ispessimento cosí da otte- nere un curioso effetto: come se la superficie del quadro non fosse piana bensí a onde rilevate. Un tro~pe l'oeil "astrattista insomma...""" " ""Perbacco, e una magnifica trovata"" disse a se stesso il" "critico ""va l`a che non sei del tutto idiota."" A questo punto" fu colto da un brivido, come chi passeggiando spensiera- tamente d'un súbito si avvede di procedere sull'orlo di un abisso. Se avesse manifestato sulla carta quelle idee, sem- plicemente, tali e quali, come gli erano venute in mente, che cosa mai si sarebbe detto di lui in giroai tavolini del Florian, in via Margutta, alla Sovrintendenza, nei caffe di via Brera ? Al pensiero, sorrise. No, no, grazie a Dio il mestiere lo conosceva a fondo. Per ogni cosa c'e il linguag- gio adatto e nel linguaggio che si addice alla pittura lui era ferratissimo. Sí e no, c'era solo il Poltergeister che potesse stargli alla pari. Sugli spalti dell'avanguardismo critico lui, Malusardi, era forse il piú in vista di tutti, il piú temuto. Un'ora dopo, nella camera d'albergo, con dinanzi il ca- talogo della Biennale aperto alla sala di Squittinna, e una bottiglia d'acqua minerale, fumando una sigaretta dopo l'altra, scriveva: " ""...al quale (Squittinna) sarebbe oltremodo faticoso di-" sconoscere, pur sotto il voluto peso di inevitabili e fin trop po ovvii apparentamenti stilistici, un irrigidimento, per non dire infrenabile vocazione, verso ascetismi formali che, sen- za rifiutare le suggestioni della casualit`a dialettica, amano ribadire una stretta misura dell'atto rappresentativo, o me- glio evocativo, quale perentoria imposizione ritmica secon- do uno schedario di filtratissime prefigurazioni...' - E come esprimere con un minimo di decenza esoterica il banale concetto di trompe l'oeil? Ecco, per esempio: " ""Ma qui appunto si preciscome la meccanica mondria-" niana a lui si presti solo nel limite di un termine di tra- passo da nozione a coscienza della realt`a, dove questa sar`a sí rappresentata nella sua prontezza fenomenica piú esigente, ma, grazie a un puntuale astrarsi, si amplier`a in una surro- "gazione operazionale di piú vasta e impervia portata...""" " Rilesse due volte, scosse il capo, cancello ""infrenabile" "vocazione~, inserí, dopo ""ribadire"", la precisazione ""con" "inusitata pregnanza"", rilesse altre due volte, scosse 'di nuo-" vo il capo, sollevo la cornetta del telefono, chiese la comu- nicazione con il bar, ordino un doppio whisky, giacque sul- la poltrona assorto in pensieri tortuosi. Non era soddisfatto. Chiss`a forse il whisky gli avrebbe dato la vagheggiata Isplrazl0ne. Gliela diede. In un baleno. Ma se - fu la domanda che egli rivolse a se stesso d'improvviso - se dalla poesia er- metica e germinata quasi per necessit`a una critica ermetica non era giusto che dall'astrattismo nascesse una critica a- strattista ? Rabbrividí quasi, misurando confusamente gli sviluppi di una cosí audace concezione. Un vero colpo d'ala. Semplicissimo, eppur difficile come tutte le cose sem- plici. Tanto e vero che nessuno ci aveva mai pensato. E lui sarebbe stato il caposcuola. In pratica non restava che da trasferire sulla pagina la tecnica finora adottata sulle tele. Con una certa titubanza sulle prime, come chi prova un meccanismo ignoto, quindi rinfrancandosi, via via che le IL CRITICO D'ARTE 469 parole si accavallavano l'una sull'altra, infine con incal- zante orgoglio, scrisse: " ""...al quale (Squittinna) sul mentre perciocché nel con-" trappunto di una strategia testimoniale, si reperisce il nesso di riscatto dal consunto pedissequo relazionamento realt`a _ realt`a fra i postulati additivi. Sintomo esplicito di un farsi. E l'inquieto immergersi in un momento fatale dun- que, da cui i moduli consumerebbero l'apparenza di una sostanza efficiente, cosí avvertita e sensibile da consumare i "termini in sopravvivenza peculiare di poesia.""" Si arresto, ansando. Febbricitava. Rilesse ansiosamente. No, non c'era ancora. La forza d'inerzia delle vecchie abi- tudini tendeva a riportarlo indietro, a un linguaggio ormai troppo risaputo. Anche le ultime catene bisognava infran- gere, per conquistare una sostanziale libert`a. Si getto a ca- pofitto. " ""Il pittrore"" scrisse, padroneggiato da un incalzante rclp-" "tu""di del dal col affioriccio ganolsi coscienziamo la simi-" leguarsi. Recusia estemesica ! Altrinon si memocherebbe il persuo stisse in corisadicone elibuttorro. Ziano che diman- nuce lo qualitare rumelettico di sabirespo padrono. E son- fio tezio e stampo egualiterebbero nello Squittinna il trili- smo scernosti d'ancomacona percussi. Tambron tambron, qui- lera dovressimo, ghiendola namicadi coi tuffro fulcrosi, quantano, sul gicla d'nogiche i metazioni, gosibarre, che pio levapo si su predomioranzabelusmetico, rife comerizzando "per rerare la biffetta posca o pisca. Vere chi...""" Era gi`a buio quando prese fiato. Si sentiva sfinito e rotto, quasi avesse preso un sacco di legnate. Ma felice. Quindici fogli di fitta scrittura giacevano sparpagliati attorno. Li rac- colse. Li rilesse centellinando l'ultimo whisky del fondo del bicchiere. Alla fine improvviso una danza di vittoria. Per il demonio, questo sí, era genio. Sdraiata mollemente sul divano, Fabrizia Smith-Lombras- sa, ragazza aggiornatissima o per dirla piú elegantemente assai avvertita, leggeva avidamente il saggio critico. A un tratto scoppio in una risata. « Senti, senti, Diomeda, che tesoro » disse volgendosi all'amica « senti come glieia can- ta, il Malusardi, a quei poveri fi~urativi... Rife comer~zzan- do per rerare la biffefta po~ca o pi~ca.» Risero di gusto entrambe. « Spiritoso, niente da dire » apprOvo Diomeda. « Ah, io l adoro, il Malusardi. iun formidabile! » UNA PALLOTTOLA DI CARTA Erano le due di notte quando Francesco e io, per caso - ma era davvero un caso? - passammo dinanzi al numero 37 di viale Calzavara, dove abita il poeta. Come e giusto e simbolico, il celebre poeta abita all'ul- timo piano della grande casa, alquanto squallida. Quando ci fummo sotto, entrambi, senza dire una parola, guardammo in su, sperando. Ed ecco, la facciata del tetro falansterio era completamente buia, ma in alto, l`a dove l'ultima cor- nice sfumava nel cielo delle nebbie, una finestra, sola, ap- pariva illuminata da un fioco lume. Al paragone del resto, al paragone dell'umanit`a che dormiva bestialmente, in con- trasto con il nero schieramento di finestre sprangate, avare e cieche, come trionfalmente risplendeva! Sar`a logora romanticheria, ma ci consolo il sapere che mentre gli altri erano sprofondati nel tetro sonno, lassú, al- la luce di una solitaria lampada, lui stesse poetando. Que- sta era infatti l'ora remota e massima, il profondo recesso della notte dove nascono i sogni, e l'anima, se puo, si li- bera dei dolori accumulati, spaziando sopra i tetti e le cali- gini del mondo, cercando le parole misteriose che domani soccorrendo la grazia, trapaneranno i cuori della gente, in- ducendola a pensare cose grandi. Sarebbe infatti mai possi- bile che i poeti lavorassero, poniamo, alle dieci del matti- no, con la barba appena fatta, dopo un'abbondante cola- zione ? Mentre stavamo intenti con la faccia volta in su, e con- fusi pensieri ci attraversavano la mente, qualcosa, come un~ombrasi agito all'improvviso nel riquadro della fine- stra illuminata e un oggetto piovve, con molle volo, su di noi. Prima che toccasse terra, al riverbero del prossimo lam- pione, si rivelo per una pallottola di carta. Rimbalzo sul marciapiede. Era un messaggio diretto a noi o quanto meno un ap- pello al passante sconosciuto che per primo lo trovasse come quelli che i naufraghi delle isole deserte chiudono in bottiglia e affidano alle onde dell'oceano? Questo il primo pensiero che ci venne. O per caso il poeta si sentiva male e, non essendoci nessuno in casa, chia- mava aiuto? O addirittura dei banditi erano penetrati nella sua stanza, e quella era una suprema invocazione? Insieme ci chinammo per raccogliere la carta. Io fui piú lesto. « Cos'e? >) chiese il mio amico. Sotto il lampione, sta- vo gi`a spiegando il foglio. Non era un foglio accartocciato. Non era un'invocazione di soccorso. La realt`a era piú semplice e banale. O forse piú enigmatica. Fra le mani mi trovai un involto di pez- zetti di carta, su cui notai brandelli di parole. Evidente- mente il poeta, dopo avere scritto, era stato preso dalla delusione, o dalla rabbia, aveva stracciato il foglio in cento pezzi, ne aveva fatto una pallottola e l'aveva scaraventata nella via. « Non buttare » disse subito Francesco « forse e una bel- lissima poesia. Con un po' di pazienza possiamo rimettere insleme I pezzi. » « Se fosse bellissima non l'avrebbe buttata, sta' pur si- curo. Se l'ha buttata vuol dire che si e pentito, che non gli piace, che non la riconosce come sua. » « Si vede che tu non lo conosci. I suoi versi piú famosi sono stati salvati dagli amici che gli stavano alle costole. Lui voleva distruggerli. incontentabile. » « E poi » io dico « e vecchio, sono anni che non fa piú poesle. » UNA PALLOTTOLA DI CARTA « Sí che ne fa, soltanto non le pubblica, perché non e mai contento. » « Bene. E se invece di una poesia » io dissi « fosse sem- plicemente un appunto, una lettera a un amico, o addirit- tura una nota delle spese? » « A quest'ora? » « Certo. A quest'ora. I poeti, immagino, fanno anche i conti alle due di notte. » Ma io intanto serrai le mani, premendo di nuovo i bran- delli di carta insieme, e me li misi in una tasca della giac- ca. Nonostante le proteste di Francesco, non ho piú separato quei frammenti, non li ho distesi su di un tavolo, non ho tentato di ricomporre il foglio e di leggere cio che c'era scritto. La pallottola di carta, pressapoco nelle condi~ioni in cui l'ho tratta da terra, e chiusa in un cassetto, e vi ri- mane. Non e da escludere che il mio amico abbia ragione e che il grande poeta sia solito pentirsi di cio che ha appena fatto e per questa sua smania di perfezione distrugga ancheersi che altrimenti diventerebbero immortali. Puo darsi che le parole da lui scritte quella notte formino un'armonia divina che siano la cosa piú potente e pura che sia mai stata fatta al mondo. Ma bisogna anche tener conto di altre ipotesi: che si "tratti di una carta insignificante; che sia, come dicevo sopra," un volgarissimo appunto di fatti domestici: che a scrivere sul foglio, e a lacerarlo, non sia stato il poeta, ma un fa- miliare o una persona di servizio (quel poco che ho visto "della calligrafia non mi consente una identificazione); op-" "pure che sia veramente una poesia, ma brutta; o addirittu-" ra, non possiamo escluderlo, che noi ci siamo sbagliati e che la finestra accesa non fosse quella del poeta bensí di un altro appartamento, nel quale caso il lacerato manoscrit to sarebbe niente piú che carta straccia. Non sono tuttavia queste supposizioni negative a disto- gliermi dal ricostruire il foglio. Anzi. Le circostanze not- turne del ritrovamento, la persuasione, forse gratuita, che un arcano disegno disponga, piú spesso di quanto noi pen- siamo, i fatti della vita che in apparenza sembrano dipen- dere da un cieco caso, L'idea quindi che sia stata una sorta di provvidenza, di sapiente destino a farci capitare l`a, Fran- cesco ed io, proprio quella notte, proprio in quell'ora, af- finché potessimo raccogliere Ull tesoro che altrimenti sa- "rebbe andato perso; tutto questo, con la potente suggestione" degli argomenti basati sull'irrazionale, mi ha convinto che nella raminga pallottola di carta sia contenuto un segreto enorme: versi di una bellezza sovrumana, intendo, che il poeta fu indotto a distruggere dall'amara certezza di non poter mai piú salire tanto in alto, (infatti l'artista il quale toccato il culmine della sua parabola, fatalmente discende e tratto a odiare tutto cio che ha fatto prima e che gli parla di una felicit`a persa per sempre). Con tale certezza, io preferisco mantenere intatta la pre- ziosa sorpresa chiusa nell'involto, tenerla in serbo per un vago futuro. E come nella vita l'attesa di un bene certo ci d`a piú gioia che il raggiungerlo (ed e saggio non approfit- talne subito, ma conviene assaporare quella meravigliosa specie di desiderio che e il desiderio sicuro di essere appa- gato ma non ancora praticamente soddisfatto, l'attesa in- somma che non ha piú timori e dubbi e che rappresenta probabilmente l'unica forma di felicit`a concessa all'uomo) come la primavera, che e una promessa, rallegra gli uomi- ni piú dell'estate che ne e il compimento sospirato, cosí il pregustare con la fantasia lo splendore del poema igno- to, equivale, anzi supera il godimento artistico della diretta e profonda conoscenza. Si dir`a che questo e un gioco della immaginazione un po' troppo disinvolto, che cosí si apre la porta alle mistificazioni e ai blu~s. Eppure, se ci si guarda indietro, constatiamo che le piú dolci e acute gioie non hanno mai avuto un piú solido costrutto. Del resto, che stia qui il mistero della poesia, espresso in uno dei suoi esempi estremi? Puo darsi infatti ch'essa non abbia bisogno di tenere un linguaggio aperto e universal- mente comprensibile, né di avere un senso logico, né che le sue parole formino delle frasi articclate, o esprimano dei ragionevoli concetti. Ancora: le parole, come nel nostro caso, possono essere divise in brani e confusamente mesco- late in un intrico di sillabe. Di piú: per goderne l'incan- to, percepirne la potenza, e persino superfluo leggerle. Ba- sta d-mque guardarle, basta il contatto, la vicinanza fisica? Forse e cosí. L'importante, soprattutto, e credere che in quel libretto, in quella pagina, in quei versi, in quei se- "gni, ci sia un capolavoro (vedi Leopardi, Zibald one: ""Il" bello in grandissima parte non e tale, se non perché tale "si stima""). Io, per esempio, quando apro il cassetto e strin-" go in mano la descritta pallottola di carta dove si presume sia celato, in un groviglio di lacerti, un abbozzo di poesia, sar`a la forza della suggestione, ma d'incanto mi sentG piú contento, piú vivo, piú leggero, intravedo una luce di ma- gnificenza spirituale, e dall'estremo orizzonte lentamente cominciano ad avanzare verso di me le montagne, le so- litarie montagne! (E magari, l`a dentro, non c'e che ia mi- nuta di una lettera anonima per la rovina di un coilega.) 58 LA PESTE MOTORIA Un mattino di settembre, nel garage Iride di via Mendo- za - per caso ero presente - entro un'auto grigia di marca esotica e di forma inusltata, con una targa straniera che non si era vista mai. Il padrone, io, il vecchio capo meccanico Celada, mio ottimo amico, e gli altri operai, eravamo tutti di l`a nell'offi- cina. Ma attraverso una vetrata il grande salone dei po- steggi era visibile. Dall'auto scese un signore sui0, alto, biondo, elegan- tissimo, un po' curvo, che si guardo intorno preoccupato. Il motore non era stato spento e andava al minimo. Cio- nonostante, ne veniva un rumore strano, mai udito, un ari- do stridio, quasi i cilindri macinassero dei sassi. Subito vidi come Celada si sbiancasse in volto. « Ma- donna santa » mormoro. « Questa e la peste. Come nel Mes- sico. Me la ricordo bene. » Poi corse incontro allo scono- sciuto, che era straniero e non capiva una parola d'italia- no. Ma al meccanico bastarono le gesticolazioni per spie- garsi, tanto era ansioso che quello se n'andasse. E il fore- stiero se n'ando, sempre con quel rumore orrendo. « Hai delle gran balle tu » disse il padrone del garage al capomeccanico, come fu rientrato in officina. Li conosce- vamo fin troppo bene, per averli uditi cento volte, gli in- verosimili racconti di Celada, che da giovane era stato nel- le Americhe. L'altro non se la prese. « Vedrete, vedrete » disse. « Per noi tutti sar`a un affare serio. » Questa, che io sappia, fu la prima avvisaglia del flagel- lo, il timido rintocco che prelude al dispiegato scampanío di morte. Passarono pero tre settimane prima che un altro sintomo affiorasse. Era un ambiguo comunicato del Comune: a evi- "tare ""abusi e irregolarit`a"", speciali squadre erano state" istituite, a cura della polizia stradale e della vigilflnza ur- bana - era scritto - per controllare, anche a domicilio e nelle rimesse, l'efficienza degli automezzi pubblici e priva- "ti e, nel caso, ordinare il ""ricovero conservativo"", anche im-" mediato. Era impossibile indovinare, sotto cosí vaghi ter- "mini, il vero scopo; e la gente non ci fece caso. Chi so-" "spetto che quei ""controllori"" non fossero altro che monatti?" Ci vollero altri due giorni prima che l'allarme si spar- gesse. Poi, con rapidit`a fulminea, la voce, per quanto in- verosimile, si diffuse da un capo all'altro della citt`a: era arrivata la peste delle macchine. Sui prodromi e manifestazioni del misterioso male se ne sentí di ogni colore. Dicevano che l'infezione si rivelasse con una cavernosa risonanza del motore, come per un in- toppo di catarro. Poi i giunti si gonfiavano in gibbosit`a mostruose, le superfici si ricoprivano di incrostazioni gialle e fetide, infine il blocco motore si disfaceva in un intrico sconvolto di assi, bielle ed ingranaggi infranti. In quanto al contagio, si pretendeva che avvenisse attra- verso i gas di scarico, percio gli automobilisti evitavano le strade frequentate, il centro divenne pressoché deserto e il silenzio, gi`a tanto invocato, vi si stabilí sovrano come un incubo. Oh, festosi clacson, oh tonanti scappamenti dei bei giorni . Anche i garages, per la promiscuit`a che implicavano, fu- rono nella maggioranza abbandonati. Chi non disponeva di un ricovero privato, preferiva lasciare l'auto nelle loca- lit`a meno battute come i prati della periferia. E al di l`a dell~ippodromo il cielo rosseggio dei roghi delle macchine uccise dalla peste e ammucchiate a bruciare in un vasto re- cinto che il popolo chiamava lazzaretto. Come era fatale, si scatenarono i peggiori eccessi: furti "e saccheggi di vetture incustodite; denunce anonime di" auto che in realt`a erano sane ma ad ogni buon conto, nel "dubbio, venivano prelevate e date al fuoco; abusi dei mo-" "natti incaricati del conttollo e dei sequestri; incoscienza" delittuosa di chi, pur sapendo la propria macchina impe- "stata, circolava tuttavia, seminando il contagio; autG so" spette bruciate ancora vive (se ne udivano, a distanza, le urla atroci). Da principio, per la verit`a, il panico fu maggiore del danno. Si calcola che nel primo mese non piú di 5000 au- tomobili, sulle zo0.000 della nostra provincia, soccombes- "sero alla peste. Parve quindi subentrare una tregua; il che" fu male perché, con l'illusione che il flagello fosse prati- camente terminato, una quantit`a di macchine torno in cir- colazione, moltiplicando cosí le occasioni di contagio. Ed ecco il morbo ridestarsi con esacerbata furia. Lo spet- tacolo di vetture fulminate dalla peste per la via divenne la cosa piú normale. Il soffice rombo del motore all'improv- viso si increspava e screpolava, frantumandosi in un rovi- nío frenetico di ferro. Qualche sussulto ancora, poi il mez- zo si fermava, maceria fumigante e maledetta. Ma piú or- ribile ancora era l'agonia dei camion, le cui possenti viscere impegnavano una disperata resistenza. Lugubri tonfi e scro- sci uscivano allora da quei mostri, finché una sorta di ulu- lato sibilante annunciava l'obbrobriosa fine. Ero in quel tempo autista di una ricca vedova, ia mar- chesa Rosanna Finamore, che viveva in compagnia di una nipote nell'antico palazzo di famiglia. Io mi ci trc,vavo molto bene. La paga non si poteva dire principesca, ma in compenso il servizio era pressoché una sinecura: poche u- scite di giorno, rarissime alla sera, e la manutenzione della macchina. Si trattava di una grossa Roll-Royce nera, gi`a ve- terana, ma di aspetto superlativamente aristocratico. Nc ero orgoglioso. Per la via, anche le piú potenti supersport smar- rivano l'abituale tracotanza alla comparsa di quel superatis- simo sarcofago trasudante sangue blu. Il motore poi, no- nostante l'et`a, era un miracolo. Insomma, io le volevo bene piú che se fosse mia. L'epidemia quindi tolse anche a me la pace. Si diceva, e vero, chc le maggiori cilindrate fossero praticamen.e im- muni. Ma come esserne sicuri ? Anche per mio consiglio, la marchesa rinuncio a uscire di giorno, quando era piú "facile il contagio; e limito l'uso della macchina a rare sor-" tite dopo cena, in occasione di concerti, conferenze o vi- site. Una notte verso la fine d'ottobre, proprio nel colmo "della peste, tornavamo a casa, con la solita Roll-Royce;" tornavamo da un ridotto di dame solite a scamblare quat- tro chiacchiere per passare la malinconia di quel tempo. Quand'ecco, proprio mentre si imboccava piazza i3ismarck, percepii, nell'armonioso fruscío del motore, una breve in- crinatura, un aspro grattamento che duro una frazione di secondo. Ne chiesi alla marchesa. « Non ho sentito niente, io » mi disse. « Sta' su di giri, Giovanni, non pensarci, questo vecchio catenaccio n(,n ha paura di nessuno. » Tuttavia, prima di arrivare a casa, altre due volte quel sinistro cigolío, o ingorgo, o sfregamento, non saprcí pro- prio come dire, si ripeté, riempiendomi l'animo di orgasmo. Rientrato, a lungo rimasi nel piccolo garage a contemplare la nobile macchina, apparentemente addormentata. Finché, per certi indicibili gemiti provenienti a tratti dal cofano, benché il motore fosse spento, fui certo del peggio. Che fare? Per avere un consiglio pensai di rivolgermi al vecchio meccanico Celada, che, oltre all'esperienza messi- "cana, pretendeva di conoscere una speciale mistura d'oli;" minerali capace di prodigiose guarigioni. Bencné fosst pas- sata mezzanotte, telefonai al caffe dove egli usava farc qua- si ogni sera la partita. C'era. « Celada » gli dissi « tu sei sempre stato mio amico. » « Eh, spero bene? » « Siamo sempre andati d'accordo. » « Per grazia di Dio. » « Di te mi posso fidare... ? » « Diavolo ! » « Vieni, allora. Vorrei che tu vedessi la Roll-Royce. » « Vengo subito. » E mi parve, prima che quello mettesse giú la cornetta, di udire un lieve risolino. Restai, seduto su una panca, ad aspettare, mentre dalle profondit`a del motore uscivano sempre piú frequenti ran- toli. Con l'immaginazione contavo i passi del Celada, cal- "colavo il tempo; fra poco sarebbe stato lí. E, standomene" in orecchi, per sentire se il meccanico arrivava, tutt'a un tratto udii nel cortile uno stropiccío di piedi, ma non di un uomo solo. Un orrendo sospetto mi passo per la mente. Ed ecco aprirsi l'uscio del garage, presentarsi e venire avanti due sudice tute marrone, due facce scomunicate, due . monatti, in una parola: vidi mezza la faccia del Celada che, nascosto dietro un battente, rimaneva lí a spiare. « Ah, lurida carogna... Via maledetti ! » E cercavo affan- nosamente un'arma, una chiave inglese, una barra metal- lica, un bastone. Ma quelli mi erano addosso, fra quelle braccia forzute fui ben presto prigioniero. « Tu, mascalzone » gridavano, con versacci di rabbia in- sieme e di scherno « rivoltarsi contro i controilori dei Co- mune, contro i pubblici funzionari ! contro quelli che la- vorano per il bene della citt`a! » E mi legarono alla panca, dopo avermi infilato in una tasca, suprema irrisione, il mo "dulo regolamentare per il ""ricovero conservativo. Infine" misero in moto la Roll-Royce che si allontano con un mu- "·oiío oo;oroso m.l l ieno di sovralla .lignit`a. Sel`i~brava vo-" lcssc :,l jr!i`i`i l(~liO. r~!le. dol~o mezz`0rl di nelllcndi sforzi. fui ri~ls ito "a lr.Lrilli. scnz;l nepl-ure ivs~ertire dell accaduto la pa-" ~`irolla. !Ui lannella nc)tte, correndo come ur. pazzo al laz.lr~rít. .li l`a dlll'ipl~odrolllo, speran-lo di giungere in te Zo rol-rio melltre io arriv `is o il Cela~la coi ·iue mo- natLi s.i uscen~lo dal recintoe hlo -i~ia come se non mi "`aVeS~C' ` i~to !ll.li ;lilel~UdlldO nel buio." 'iojl riusc!i a ra-L-giun~erlonon riuicii .entrare nel can~niuscii attel1ere che sospendessero la distru- ~iGile ·iell l Roll-Ro~e. A lungo restai con un Gcchio incol- "lata Ull;l fcssura della p aliziatavedevo il rogo delle s~en-" tuiaíc nll~c`ilille sa~ome scure si contorcevano spasimando tra lc-ampe. Dov era la `inia? In quell'inferno era impos- sibile disting~uere. Solo pcr un istalltesopra ii nluggito "scl~a~,~no .ielle hammecredetti di riconoscere la SU~L voce;" un urlo altissimo, strazilnte, che saní presto nel nulla. 59 LA NOTIZIA Il maestro Arturo Saracino, di 37 anni, gi`a nel fulgore cdella fama, stava dirigendo al teatro Argentina la ottava Sinfonia di Brahms in la maggiore, op. 137, e aveva ap- " pena attaccato l'ultimo tempo, il glorioso ""allegro appas-" "sionato"". Egli dunque filava via sull'iniziale esposizione del" tema, quella specie di monologo liscio, ostinato e in ve- rit`a un po' lungo, col quale tuttavia si concentra a poco a poco la carica potente di ispirazione che esploder`a verso la fine, e chi ascolta non lo sa ma lui, Saracino, e tutti quelli dell'orchestra 1-> sapevano e percio stavano godendo, cullati sull'onda dei violini, quella lieta e ingannevole vi- gilia del prodigio che fra poco avrebbe trascinato loro, esecutori, e l'intero teatro, in un meraviglioso vortice di gioia~ Quand'ecco egli si accorse che il pubblico lo stava ab- bandonando. questa, per un direttore d'orchestra, L'esperienza piú an- gosciosaLa partecipazione di chi sta ascoltando per ine- splicabili ragioni viene meno. Misteriosamente, egli se ne accorge subito. Allora l'aria stessa sembra diventare vuota quei mille, duemila, tremila arcani fili, tesi fra gli spetta- torl e lui, da cui gli vengono la vita, la forza, l'alimen- to, si afflosciano o dissolvono. Finché il maestro resta solo e nudo su un de`serto gelido, a trascinare faticosamente un'ar- mata che non gli crede piú~ Ma erano almeno dieci anni che aveva smesso quella terribile esperienzaNe aveva perso anche il ricordo e per- cio adesso il colpo era piú duro. Stavolta poi il tradi- mento del pubblico era stato cosí repentino e perentorio da lasciarlo senza fiato~ " ""Impossibile"" penso ""non c'e motivo che sia colpa mia." Io stasera mi sento perfettamente in forma, e l'orchestra sembra un giovanotto di venti anniDev'esserci un'altra "spiegazione~""" Difatti, tendendo allo spasimo le orecchie, gli parve di percepire nel pubblico, alle sue spalle, e intorno, e sopra, serpeggiare un sommesso brusío. Da un palco proprio alla sua destra giunse ur esile stridoreCon l'estrema coda del- l'occhio intravide due tre ombre che in platea sgusciavano verso un'uscita laterale~ Dal loggione qualcuno zittí imperiosamente, imponendo il silenzio. Ma la tregua fu breve. Ben presto, come per una fermentazione incoercibile, il sussurro riprese, accom- pagnato da fruscii, sussurri, passi furtivi, stropiccii clan- destini, spostamenti di sgabelli, porticine aperte e chiuse. Che stava succedendo? All'improwiso, come se in quel- L'istante lo avesse letto su una pagina stampata, il maestro Saracino seppe. Trasmessa probabilmente dalla radio poco prlma e portata in teatro da un ritardatario, era giunta una notizia. Qualcosa di spaventoso doveva essere accaduto in qualche parte della terra, e ora stava precipitando su di Roma. La guerra ? L'invasione ? Il preannuncio di un at- tacco atomico? In quei giorni, erano lecite le piú rovinose ipotesi E sgusciando fra le note di Brahms, mille pensieri angosciosi e meschini lo assalirono. Se scoppiava la guerra, dove avrebbe mandato i suoi ? Fuggire all'estero ? Ma la villa appena costruita, in cui aveva speso tutti i suoi risparmi, che fine avrebbe fatto ? Sí, come mestiere, lui Saracino era fortunatoIn qualsiasi parte del mondo, con la sua celebrit`a, di fame non sarebbe sicuramente mortoE poi i russi, per gli artisti hanno notoriamente un debole. Ma a questo punto, con orrore, si ricordo che due anni prima egli si era alquanto compro- messo firmando, con tanti altri intellettuali, un manifesto antisovieticoFigurarsi se i colleghi non l'avrebbero fatto sapere alle autorit`a d'occupazione. No, no, meglio fug- gire. E sua mamma, oramai vecchia? E sua sorella minore? E i cani? Precipitava in un pozzo di sgomento~ Del resto, che fosse giunta una informazione di catastrofe fulminea, non c'era ormai piú ombra di dubbioCon la minima decenza imposta dalla tradizione del teatro, il pub- blico stava scandalosamente disertando. Saracino, alzando gli occhi verso i palchi, notava sempre piú numerosi vuoti A uno a uno, se ne andavano. La pelle, i soldi, le provvi- ste, lo sfollamento, non c'era da perdere un minuto. Altro "che Brahms. ""Che vigliacchi penso Saracino, che aveva" dinanzi a sé ancora dieci minuti buoni di sinfonia, pri- "ma di potersi muovere. ""Che vigliacco"" si disse pero su-" bito dopo, misurando l'abbietto panico, da cui si era la- sciato impossessare. Tutto infatti andava disfacendosi, dentro e dinanzi a lui. I cenni, ormai puramente meccanici, della bacchetta, non trasmettevano piú nulla all'orchestra la quale inevitabil- mente si era a sua volta resa conto della dissoluzione gene- raleE fra poco si sarebbe giunti al punto decisivo della "sinfonia, alla liberazione, al grande colpo d'ala. ""Che vi-" gliacco'si ripeté Saracino, nauseato. La gente se ne an- dava? La gente stava fregandosene di lui, della musica, di Brahms per correre a salvare le loro esistenze miserabili ? E con questo? Improvvisamente capí che la salvezza, L'unica via di scam- po, la sola utile e degna fuga era, per lui, come per tutti gli altri, stare fermo, non lasciarsi trascinare via, con- tinuare il proprio lavoro fino in fondoUna rabbia lo: prese al pensiero di cio che accadeva nella penombra alle Sue spalle, che stava per accadere pure a luh Si riscosse, alzo la bacchetta gettando a quelli dell'orche- stra una spavalda e allegra occhiata, d'incanto ristabilí il flusso vitale. Un tipico arpeggio discendente di clarino lo avvertí che erano ormai vicini: stava per cominciare lo stacco, la sel- vaggia impennata con cui la ottava Sinfonia, dalla pianura della mediocrit`a scatta verso l'alto e con gli accavallamenti tipici di Brahms, a potenti folate, si leva verticalmente, fi- no a torreggiare vittoriosa in una suprema luce, come nu- vola. Vi si butto dentro con l'impeto moltiplicato dalla collera. Scossa da un brivido, anche l'orchestra si impenno, oscil- lando paurosamente per una frazione di secondo, quindi partí al galoppo, irresistibile. E allora il brusío, i sussurri, i colpi, i tramestii, i passi, il viavai tacquero, nessuno si mosse né fiatava piú, inchio- dati tutti restarono, non piú paura ma vergogna, mentre dalle argentee antenne delle trombe, lassú, le bandiere sventolavano. 60 LA CORAZZATA TOD Hugo Regulus, gi`a capitano di corvetta tedesco nell'ultima guerra, pubblicher`a nel mese prossimo un libro straordi- nario (Das Ende des Schla~hfschi,~es Konig Friedri~h ll, Gotta Verlag, Amburgo). I pochi che hanno letto il ma- noscritto, da principio sono rimasti forse un po' perples- si, tanto i fatti riferiti confinano col regno dell'invero- simile se non addirittura della pura pazzia. Senoncbé, pro- cedendo, si deve riconoscere che la documentazi~ndel- L'autore appare indiscutibilmente seria e persuasiva. Tra l'altro e impressionante la fotografia - L'unica a dir la ve- rit`a ma tale da non poter essere facile frutto di mistifica- zione- dell'inaudito mostro, creato si direbbe in un deli- rio di grandezza, dannato dalla fatalit`a dell'avvilimento di un inglorioso e imbelle esilio, finalmente tratto quando tutto sembrava gi`a dissolversi in degradazione obbrobriosa #NOME? ed ambizioso perché nessuno al mondo ne avrebbe dovuto mai sapere nulla. Se e vero quanto narra il Regulus, questa e la rivelazione del segreto piú stupefacente e tenebroso dell'ultimo conflit- to. Stupefacente per la vicenda in se stessa, che a prima vista ha dell'incredibile e si distacca stranamente da qual- siasi altro episodio della guerra. Stupefacente forse ancor piú per la congiura del silenzio con cui migliaia e migliaia "di uomini hanno protetto e proteggono tuttora il segreto;" quasi che l'esserne a parte, con la coscienza che nessun altro sa, dia loro una gioia senza prezzo. E sulla necessit`a, o con- venienzadi tacere, sono stati e sono d'accordo uomini ric- chi e poveri, potenti e umili, colti e ignoranti, alti ufficia- li e oscuri manovali di cantiere, tutti fedeli al patto anche quando la catastrofe li ebbe sciolti da ogni vincolo di di- sciplina militare. Costoro - dichiara il Regulus, e qui per la verit`a sorge qualche dubbio - continueranno a tacere anche domani, dopo che il libro sar`a stato pubblicato: e "se qualcuno li identificher`a, negheranno; e se qualcuno li" interrogher`a, diranno di non sapere niente. Tutti, meno uno Tre parti ha il libro. Nella prima il Regulus narra in pri- ma persona come venne a sapere la misteriosa storia. una specie di meticoloso memoriale che descrive le varie fasi del- la inchiesta: i primi vaghi sospetti germogliati per cui egli riuscí a collegare vari indizi che apparivano lontanissimi tra "loro; le ricerche lungamente infruttuose fino a che il caso" lo condusse sul luogo stesso dove la vicenda ebbe la sua origine e dove sconvolte tracce di macerie parlavano ancora "di insensati sogni; le testimonianze, se si possono chiamare" tali le induzioni tratte da frasi udite nelle nere taverne dei porti quando la notte e la stanchezza smorzano la ostinazio- "ne dell'uomo; e poi l'incontro col superstite che nel vaneg-" giamento dell'agonia parla e parla, buttando fuori il terri- bile segreto, finalmente! La seconda parte consiste nel resoconto, purtroppo molto lacunoso, di cio che avvenne a bordo della nave dal giorno che salpo per la sua prima missione fino al mattino della tragedia sui confini estremi dell'oceano. Nella terza parte, che ha carattere di appendice, il Re- ~ulus risponde a c~uelli che prevede possano essere i dubbi, le obiezioni, le critiche del pubblico. Cercando soprattutto di spiegare come un fatto di tali proporzioni, che coinvolse le sorti di migliaia, sia potuto rimanere chiuso per tanto tempo sotto una cappa di silenzio. Citando nei minuti par- "ticolari, con una insistenza fin sospetta, i ""documenti"". E" per ultimo tentando di interpretare l'estremo atto del dram- ma che, nonostante ogni suo sforzo, resta sospeso in una aura sovrumana e chiede a noi un vero atto di fede. Ma, sebbene si stenti a credere, un'avventura tanto disperata po- teva forse avere una conclusione meno assurda? Che mera- viglia se, affascinate da cosí pura follia, le potenze delle te- nebre, di cui talora si udí narrare nei passati tempi, sono uscite dagli abissi australi per rispondere alla sfida degna- mente ? Hu~,o Regulus, figlio di un armatore di Lubecca, aveva 35 anni allo scoppio della guerra. Ufficiale di marina, aveva lasciato il servizio nel 1936, col grado di capitano di cor- vetta, per ragioni di salute e per poter aiutare il padre, or- mai vecchio, nell'azienda. Richiamato all'inizio delle ostilit`a, avrebbe potuto essere esonerato date le sue condizioni fisi- che. Per patriottismo volle invece prendere servizio e fu as- "segnato al Ministero della Marina da guerra, reparto ""Per-" sonale~, dove rimase fino in ultimo. Non ebbe mai compiti difficili o di responsabilit`a. So- vrintendeva allo schedario dei sottufficiali e ne seguiva le promozioni, i trasferimenti, le licenze, le mancanze disci- plinari e cosí via. Indirettamente egli aveva cosí sempre sot- to gli occhi un quadro completo ed aggiornato rispecchian- te le vicende della Kriegsmarine. Ebbene - e lui che lo racconta a partire dall'estate 1942 cominciarono ad arrivare nel suo ufficio degli ordini di tra- sferimento di nuovo genere. Vi si indicavano il luogo o l'unit`a di provenienza ma per destinazione si dava una for- "mula segreta: ""Eventualit`a 9000 - Missione speciale - Pre-" "sentarsi all'Ufficio operativo 27""." " Ordini di questo tipo, con la sigla ""missione speciale""," arrivavano di quando in quando e sarebbe stato indiscreto, "oltre che sospetto, se gli addetti al reparto ""Personale"" aves-" sero indagato cercando di sapere di quale impresa si trat- tasse. Ma fino allora capitavano di raro, a gruppetti di sette otto al massimo. Ed era facile supporre cio che il segreto nascondesse: o incarichi riservati per conto del Servizio in- formazioni e controspionaggio, o missioni in territorio ne- mico, o crociere di sommergibili specialmente delicate per cui si riteneva necessario aggiungere una supplementare garan- zia di segretezza a quelle usate come regola per tutte le operazioni belliche. " Questa volta pero i destinati alla ""missione speciale"" non" erano sette o otto e neppure una decina. Nel giro di poche settimane i soli sottufficiali trasferiti alla ignota sede assom- mavano gi`a a quasi zo0. Il ritmo di questi strani trasferi- menti poi rallento, prolungandosi tuttavia per mesi e mesi. Coi colleghi, il Regulus ne parlava poche volte. Talora ebbe la impressione che qualcuno, nel suo stesso ufficio, ne "sapesse piú di lui; ma che preferisse evitare l'argomento." Quasi fosse uno di quei segreti che e una fortuna non co- "noscere; perché la paura di lasciarsi sfuggire una parola, di" commettere una indiscrezione sia pur minima diventa, per gli iniziati, un incubo, tanto grave e la posta in gioco. E allora uno evita perfino gli amici e non si rilascia mai e, se vive in famigli~, si sveglia di soprassalto in piena notte col terrore di aver parlato in sonno e che la moglie abbia sentito. " Divenne, I""'Eventualit`a 9000"", come una porta misterio-" "sa che inghiottiva a centinaia gli uomini; e di l`a c'era il buio" pesto. Una base per nuove armi segrete? Un corso di ad- destramento in vista di qualche progetto temerario? Un cor- po di spedizione per sbarcare in Inghilterra ? Finché, nel febbraio 1943, L'enigmatica chiamata porto via anche il ca- po di prima Willy Untermeyer, ch'era il braccio destro di Regulus. Questo Untermeyer era uomo zelantissimo e devoto ma tutt'altro che tempra di guerriero. La sua paura, non del tutto dissimulata, era di dover lasciare il Ministero, dove Iavorava da sei anni, per fare il suo turno di imbarco. La stessa sua bravura, la simpatia dei superiori lo avevano fino- ra risparmiato. Ma ecco le sue speranze disilluse e nella for- "ma piú temibile. A quelli del reparto ""Personale"", che igno-" "ravano cio che c'era sotto, I""'Eventualit`a 9000"" era infatti" sinonimo di massimo pericolo, di separazione dal consor~io umano, di partenza senza prospettive di ritorno. Di solito taciturno e timido, capo Untermeyer, alla vigilia del commiato, non riusciva a dominarsi e interrogava an- siosamente i superiori chiedendo una sia pur vaga spiega- zione. Ma da ogni parte trovava un muro impenetrabile. Il capitano di corvetta Regulus lo vide partire con dolo- "re. E l'enigma dell""'Eventualit`a 9000"", fino allora a lui" estraneo, entro, per dire cosí, nella sua vita. La curiosit`a, il desiderio di sapere cio che sapere non si deve, questo sen- timento cosí poco militare, divenne un quotidiano assillo. E bastava che un piantone gli consegnasse una busta indi- "rizzata a lui con l'annotazione ""riservata"" - cio avveniva" parecchie volte al giorno perché gli venisse il batticuore: "I""'Eventualit`a 9000"" non poteva forse aver bisogno anche" di lui? Ma la chiamata per il capitano di corvetta Regulus non arrivo, e i mesi passarono, e decine e decine di altri sottuf- ficiali partirono per la destinazione sconosciuta e per quanto stesse sempre con le orecchie tese e gli occhi aperti, egli non riuscí a raccogliere il piú piccolo indizio, né una parola, né un'allusione, né un gesto, né una occhiata, nulla che si po- tesse in qualche modo riferire al preoccupante enigma. E vennero i bombardamenti, il suo ufficio si trasferí alla peri- feria di Berlino in sede protetta, poi ci fu la fine della guer- ra e Regulus riuscí, anche per le sue condizioni,di salute, a evitare internamento e prigionia. Ma neppure allora, sfal- datasi ormai l'impalcatura militare e divenuti di dominio pubblico i segreti piú gelosi, poté sapere qualche cosa del- "I""'Eventualita 9000"". Eppure centinaia di sottufficiali, pro-" babilmente migliaia di marinai, vi erano rimasti coinvolti. Dove erano ·lunque finiti ? Quale che fosse il retroscena del segreto, molti di loro dovevano essere tornati. Come mai ncssuno parlava? E perché capo Untermeyer che dal giorno della partenza gli aveva mandato ogni mese, regolarmente, una cartollna in franchigia coi saluti (ma né il testo né il timbro rivelavano la reale provenienza) perché capo Unter- meyer non si faceva vivo? Nacque cosí nell'ex-capitano di corvetta Regulus la de- terminazione di risolvere il mistero. Nella conoscenza dei fatti bellici, il segreto militare o l'invalicabile barriera del fronte avevano per anni determinato delle vaste lacune che pero adesso le rivelazioni dei protagonisti, da entrambe le parti, andavano via via colmando. Le intimit`a piú recondite dei governi e degli alti comandi venivano giornalmente mes- se in piazza, quasi con una smania invereconda. Cosí il pa- norama ·lel conflitto si completava a poco a poco degli epi- sodi rimasti fino allora sconosciuti. Vita del Fuhrer, armi se- gretecongiure di generali, sondaggi per armistizi separati, "eccetera, tutto veniva a galla. Tutto, tranne l""'Eventualit`a" 9000``. Questo l'unico vuoto che continuasse a rimanere tale, e non era un vuoto trascurabile se vi era sparita tanta gente. Nel gigantesco gioco d'incastri che ricostruiva la storia di quegli anni mancava ancora un pezzo e per riempire il buco non c'era che quella formula convenzionale e senza "senso; dietro la quale non si scorgeva niente, neppure l'om-" bra confusa di un fantasma. " Certo, tale lacuna era nota a pochi; solo a coloro che," come il Regulus, ne avevano avuto sentore per motivi di servizio. Il mondo esterno non ne sapeva nulla. Anche in- glesi, americani e russi pareva che non fossero al corrente. Perfino i pochi colleghi che il Regulus aveva occasione di incontrare sembrava se ne fossero dimenticati: « L'Eventua- ht`a 9000 ? » rispondevano. « Ah sí. adcsso mi ricorc3.(.. Una missione speciale,ero.... Mahchissi`i cos'era .. Non ne ho mai saputo niente ». E avevilno l'arla di essere sinceri. a il Regul,ls non disilrmo (cosí alrneno egli racconta) "~assan-lo il tempo anzi l""'Eventua!it`a 90()0`divento per lui" una specie di mania. Sc-bbene la sua famiglia fosse stata im- poverita dalla guerra, egli non si tro-o mai in risircttezze avendo trovatoUl posto decorosl) in una impresa commer- ciale di Lubecca. Nc il suo lavoro era assiilante. Cosicché alle ir.dagini poté ·lcdicare ul1 certo tempo. Comincio. nel no~emkre t9 i5 a:cr~-are la famiglia del- L'Untermeyer di cui a-eva conser~a~o L'indiri~zo. Ando ap- posta a Kiel. Trovo I radre e !~noglie del sottufficiale che dopo l'aprile l S non aveva piú dato notizie. No, non Ivevano mai saputo la sua reale destinazione. Nodopo la sua partenza per la `'missione sreciale' non era mai tornato a casa in licenza. No. non avevano la piú lontana idea della sua sorte. Pero speravano di rivederlo comparire da un mo- mento all'altro. No, non avevano neppure mai udito notizie "o ipotesi o dicerie circa l""'Eventualit`a 9000"". Fu un sopra-" luogo completamente negativo. Hugo Regulus confessa che a questo punto si sentí al- quanto scoraggiato. Non gi`a veniva meno in lui la corvin- ~ione che sotto ci dovesse essere un mistero - e un misterO di carattere mostruoso ma dubitava di venirne mai a ca- "po. Mancava anche il piú sottile appiglio a cui afferrarsi;" "era impossibile formulare anche una semplice ipotesi; do-" vul1que Si -volgesse, annaspava nel vuoto inutilmente. Stava domandandosi se non fosse quasi meglio rinuncia- "re quando fece la sua prima ""scopertaIn realt`a era sol-" tanto la interpretazione molto fantastica di una noti~ia com- parsa nel dicembre 1945 sugli Sta.r a1ld .ftri~e.r il giorna- letto pubblicato dai Comani oc(upa.ione americani Ma fu un barlume. La notizia era la seguente: " ""L'equipaggio di un piccolo piroscafo da carico argentino," il Maria Dolore.r lll, giunto a Bahia Blanca proveniente dal- le isole Malvine, raccontava di aver awistato un serpente di mare 'grande come una collina. Lo avevano incontrato poco prima del tramonto. Il gigante flottava immobile, con- troluce, apparentemente addormentato. Concordi, i marinai del mercantile lo descrivevanmunito di 'almeno tre o quat- tro teste e di numerosi tentacoli, o antenne, simili a quelle degli insetti ma di lunghezza spaventevole che si protende- vano verso il cielo ruotar/do lentamente come se cercassero qualcosa'. L'appari~ione fu cosí paurosa che il Maria Dolo- res lll a~costo subito in fuori, allontanandosi a tutta forza. Poco dopo le tenebre della notte avvolsero il mostro ormai "lontano sull'orizzonte e sem~re immobile.""" Poi ci fu, pochi giorni dopo, un'altra notizia interessante. Il pilot.. di un ae~eo proveniente dal Sud Africa e direttc "a Buenos Aires riferiva di ;3~ere visto in pieno oceano - e" ne dava la E~osizione esasia una isoletta vulcanica di re- ~ente I ormazione. A! passaggio dell'apparecchio l'eruzione era an~ora in pienoviiuppo. Infatti il nuovo scoglio era semico~~erro da una coltre di vapori innalzatisi per alcune centin,lia di metri. E in quel tratto di mare, che si sapesse, non era~lo mai esistite isole. Fu per E`~gulus la luce. La cosa apparsa al Maria Dolores 111 - egli p«ns() - poteva essere tutto tranne che un ser- pente di rr`iare, simili mostri non essendo mai esistiti. Non solo: per una specie di chiaroveggenza, mise in rapporto le due notizie diversissime e si chiese: non potrebbero essere due interpretazioni, entrambe assurde, del medesimo feno- meno? Perché escludere che sia il serpente di mare e sia l'isola vulcanica fossero un bastimento gigantesco? Era ben poco, nulla si puo dire. Gratuite fantasticherie su due notizie forse nate da allucinazioni, ingrandite dai corrispondenti dei giornali e poteva anche darsi inventate di sana pianta. Eppure il Regulus non riusciva a staccarsi da quella idea "esageratamente romanzesca: che insomma I ""Eventualit`a" "9000"" fosse una nave da guerra di proporzioni eccezionali," progettata in segreto, costruita in un cantiere segreto, di na- scosto varata, armata e messa a punto affinché all'improvviso comparisse sul mare a sterminare con pochi colpi le flotte dei nemici. E forse quelle antenne avvistate dai marinai della Maria Dolore.r 111 erano dei cannoni di statura mai vista, ciascuno grande come la ciminiera delle Lederer Stahl- werke che sorgono alla periferia di Lubecca. Ma potevano essere anche armi nuove e tremende, questo anzi avrebbe spiegato meglio tutta quella segretezza, da cui si dipartivano proiettili o raggi di sterminio, cosí come e nei sogni dei ~iovanissimi cadetti, quando si addormentano alla sera nel freddo e duro lettino dopo una pesante giornata di studio e di esercizi. Solo che la nave invincibile non aveva fatto in tempo - tale la supposizione del Regulus - e quando si era trovata pronta alla battaglia, proprio allora su tutti i fronti della terra e del mare si era cessato di combattere, per la prostra- zione, la rovina, la totale sconfitta dell'amata grande Ger- mania. Ciononostante era salpata per la sua prima missione, ave- va raggiunto inosservata l'oceano Atlantico approfittando di quei giorni di eccitamento, confusione, frenesia mondiale perché la guerra era finita e non si doveva piú morire. Percio la nave - fantasticava il Regulus - era andata va- gando nelle acque piú solitarie come quelle per esempio a levante dell'Argentina. Ma a quale scopo? Con quali spe- ranze? E vivendo di che cosa? Con che nafta accendendo le sue caldaie vaste come le antiche cattedrali gotiche? Co- sicché a questo punto l'ex-capitano di corvetta Regulus era ripreso dai dubbi e si metteva perfino a ridere della propria follia. Ma quella specie di demone non si era arreso dentro di lui e lo spinse anzi a girare per le citt`a dove erano esistiti i piú grandi cantieri della Kriegsmarine, oppure nelle lo- calit`a della costa poco conosciute dove la flotta del Reich aveva disposto le sue basi minori. Vestito male, con un berretto da macchinista, passava le sere nelle bettole piú malfamate dei porti, ivi bevendo, fu- mandochiacchierando, chiedendo le informazioni piú scioc- che come per esempio su dove trovare fresche ragazze a buon mercato, eppure ogni tanto faceva quasi casualmente anche domande d'altro genere come potrebbe fare un uomo gi`a avanti con l'et`a che si trovi fortuitamente in un'osteria di basso rango in una citt`a non sua dopo aver bevuto birra in modo da fluttuare a mezz'aria, con le parole che corrono fuori della bocca di loro spontanea volont`a. Parlava della leggendaria nave - non aveva trovato de- nominazione piú adatta - come se quello fosse un dato di dominio pubblico che non ci fosse nessun pericolo a toccare. Intorno a lui erano operai, scaricatori, marinai, bottegai, bagasce che dovevano sapere vita, miracoli e morte del loro porto. Mai pero che uno mostrasse di capire l'allusione. Mai che uno denotasse per lo meno riluttanza o fastidio, o che invitasSe, dichiaratamente o no, il signor Regulus a smettere un interrogatorio cosí inopportuno. Sembrava proprio che nessuno sapesse niente di niente, mai sentito parlare di un grandissimo bastimento costruito in segreto, varato di nascosto e cosí via per la salvezza della patria agonizzante. Era sul punto di rinunciare alle ricerche quando la for- tuna ando appositamente ad aspettarlo, in una birreria di infimo ordine a Wilhelmhaven. Essa aveva assunto la forma corporea di un facchino o tipo del genere, grigio di capelli, tarchiato, stanco, che si era addormentato in un angolo, dinanzi al suo boccale vuoto. Hugo Regulus come sempre fece varie conversazioni coi presenti e arrivo con molta astuzia all'argomento che gli si era incastrato nell'animo. Domando a questo domando a quello, non capivano neppure a che cosa lui alludesse, mai avevano sentito parlare di una storia siffatta. Cosicché la sera passo inutilmente e a un certo punto il Regulus si trovo solo nel locale e il proprietario aveva tutte le intenzioni di chiudere, e di fuori, nella notte di minuto in minuto piú silenziosa, si udiva un ritmico doloroso cigo- lio come quello dei velieri alla banchina quando l'onda li fa dondolare. Allora il facchino grigio di capelli si alzo per uscire ma quando fu sulla soglia si volto con un curioso sogghigno e disse: « Quella storia, signore, che lei poco fa raccon- tava, L'ho sentita raccontare anche da un altro. Era uno del- L'isola di Rugen ». E scomparve. Il Regulus gli corse dietro. Ma fuori non c'era anima viva. Guardo a destra guardo a sinistra, niente alla luce del- L'unico lampione acceso, come se la terra lo avesse inghiot- Ebbene, eccolo nell'isola di Rugen che gira con un ca- valletto e una cassettina fingendo di essere un pittore. Men- tre dipinge da ragazzo si divertiva a fare degli acquarelli, dopo tutto puo anche recitare la parte - gli piace, si di- rebbe, scambiare due parole con i paesani, vecchi per lo piú, bambini e qualche donna che gli stanno alle spalle per ve- dere come fa. a A proposito, a proposito » dice « ho sentito dire tempo fa che qui all'isola di Rugen durante la guerra avevano messo su un grande cantiere. » « vero e vero » dice uno « facevano tutto di nascosto, come se tutti noi non si sapesse ! » Per l'emozione all'ex-capitano di corvetta viene meno il fiato. « E che cosa costruivano? Una corazzata, vero? Era una grande nave da guerra?» L'uomo ride, ridono anche gli altri. « Corazzata? Altro che corazzata. Era lo stadio, lo stadio per 500.000 spettatori, per le grandi olimpiadi del 1948 che dovevano essere la festa dell'umanit`a, dopo la vit- toria di Hitler sul mondo! » Questa e una amara delusione per chi ha cercato e si e affaticato tanto. « E perché allora costruirlo in segreto ? » « Chi lo sa. Forse perché doveva essere una meravigliosa sorpresa, da rivelare improvvisamente al popolo stanco do- po la vittoria. » « E anche voi ci lavoravate? » « Oh, nes- suno di noi, qui, di Rugen. Soltanto gente venuta da fuori, migliaia e migliaia, tutti giovani. E noi si diceva: perché mai mandano qui a lavorare allo stadio tutti questi giova- notti che dovrebbero invece essere sul fronte? » « E a vedere il cantiere vi lasciavano andare? » « Intorno al cantiere filo spinato con corrente ad alta tensione. E sen- tinelle armate. Poi un bello spazio deserto. Poi ancora un grande muro e altro filo spinato, sul muro le sentinelle che avevano l'ordine di sparare. » « E dopo, che cosa ne hanno fatto? » domanda l'ex-capi- tano di corvetta. « Dopo e stato distrutto tutto quanto. Per la rabbia, probabilmente. Ordine di far saltare gli impianti. Per quattro giorni continue esplosioni, si vedevano le vampe di qua, L'isola tremava. » « E adesso? » « Adesso non c'e piú niente, solo qualche maceria. » « Ma dov'e ? » Allora gli insegnano la strada. Arriva dunque l'ostinato Hugo Regulus sul posto dove Hitler aveva ordinato di costruire il piú grande stadio del "mondo per le olimpiadi dell'apoteosi tedesca; proprio nel-" L'isola di Rugen, che idea. Ma il Regulus se ne intende e capisce subito che non si e mai lavorato per lo stadio, il suo animo veramente trema di una commozione straordina- ria, alla vista di cio che lui cerca da tanti mesi. una specie di avvallamento che finisce nelle acque del mare, e ci sono erbacce, sconvolti macigni, pezzi di mura- tura e cemento, ferri contorti, pareti infrante, ma soprattutto erbacce e grami cespugli che coprono pietosamente ogni cosa. Lui calcola la lunghezza della svasatura, circa mezzo chi- lometro, calcola larghezza, profondit`a, tutto quanto. Vede resti di rotaie, di gru, di pontoni, di lamiere, di travi, per- fino un bossolo di granata affondato completamente nel fan- go. Inoltre avverte ancora nell'aria un odore caratteristico a lui ben noto, profumo persistente di nave da guerra: naf- ta, vernice, lamiera rovente, fiato di marinai. " Questa dunque la recondita base dell""'Eventualit`a 9000." Qui e stata costruita una nave di proporzioni mai tentate, in questo bacino e nata, di qui e scesa in mare, e adesso non resta neppure il ricordo, perché tutto c- stato fatto in segreto e gli uomini che sanno non aprono mai bocca, deve essere questione di un giuramento sacro che impegna l'ono- re e la vlta: a meno che non siano tutti morti, migliaia e migliaia sprofondati sotto la superficie della terra. O del mare. Poi vede i resti del filo spinato, del lunghissimo muro di cinta, delle officine, delle baracche, una intera citt`a deve essere vissuta qui per anni all'insaputa del mondo, protetta da chiss`a quali mascherature, all'insaputa degli stessi pezzi grossi della Kriegsmarine. Ma adesso non c'e altro che una landa petrosa e abban- donata dove non passa mai nessuno, con in mezzo quella fatale concavit`a ormai senza senso, e sopra pochi uccelli si- mili a corvi che girano e girano tendenziosamente man- dando lamentevoli strida, e sopra ancora il cielo grigio e immobile del Baltico con quella sua luce diafana che chiama al nord, sempre al nord, e davanti il mare che cammina in eterno, mare duro e potente di colore griglo con lunghe creste bianche le quali compaiono e scompaiono senza mo- tivo e cercandole gli sguardi vanno in l`a, sempre piú in l`a, fino al lontanissimo orizzonte, interamente disabitato. " Cosí il mistero dell""'Eventualit`a 9000diventava ancora" piú vero e inquietante, Hugo Regulus non poteva tirarsi in- dietro neanche volendolo con tutte le forze, bisognava inol- trarsi fino in fondo a costo di consumarci l'intera vita che gli rimaneva. Era il maggio del 1946. Ma subitamente l'enigma tanto difficile e oscuro si aprí quasi da solo. Comparve su un giornale di Amburgo una breve notiziola da Kiel che riferiva un tentato suicidio: in un giardino pubblico era stato trovato un uomo privo di sensi e insanguinato con una grave ferita alla testa. Strin- geva ancora una rivoltella nella destra. Era un certo Wil- helm Untermeyer, gi`a sottufficiale di marina, rimpatriato recentemente dal Sud America dove era stato qualche tempo internato. Ignote le cause del suicidio. Era proprio il capo Willy Untermeyer che aveva lavorato tanto tempo alle dipendenze del Regulus e che era stato "portato via dall'Eventualit`a 9000"". Il Regulus lo trovo" all'ospedale di E~iel con la testa tutta bendata che parlava, ininterrottamente parlava, e invano i medici gli sommini- stravano dei sedativi. Ogni tanto cadeva in un sonno pro- fondo ma appena sveglio ricominciava a parlare, dicendo cose apparentemente incomprensibili, e perc`io tutti erano convinti che delirasse. La ferita - dicevano i medici - era grave, scarse le probabilit`a che l'uomo sopravvivesse. In quanto al padre e alla moglie del disgraziato, non sa- pevano spiegarsi l'accaduto. Willy era tornato gi`a da oltre un mese, piú taciturno e chiuso che mai. E di quanto gli era capitato aveva detto poco o niente. Avevo detto soltanto di essersi imbarcato su una nave, che alla fine della guerra questa nave si era autoaffondata, che lui era stato internato in Argentina e che qui se l'era passata discretamente, fin quando lo avevano fatto rimpatriare. Pero non aveva spie- gato che nave, né dove, né quando, né le circostanze rela- tive. Strano anche che dopo il rimpatrio non si fosse fatto vivo col Regulus a cui era sempre stato affezionato. La mo- glie una volta gli aveva chiesto: « Come mai non scrivi al comandante Regulus? venuto qui apposta a cercarti, sar`a felice di saperti tornato ». « Sí, sí, gli scrivero » aveva ri- sposto Willy. Ma poi non ne aveva fatto niente. Capo Untermeyer riconobbe il suo ex-superiore quando costui entro nella stanzetta d'ospedale ? Il Regulus scrive che la cosa e incerta. Tuttavia alle sue domande il ferito ri- spose quasi sempre a tono. Poche domande in verit`a perché i medici avevano proibito di interrogarlo. Parlava fin troppo lui da solo, quasi che dentro egli avesse uno spaventoso in- gorgo di cose rimaste compresse che adesso volevano sfo- "garsi; quasi che il colpo della rivoltella avesse aperto un" varco e di qui traboccasse fuori cio che in lui fermentava con dolore da troppo lungo tempo. Capo Untermeyer, in questi interminabili sproloqui che terminarono soltanto un'ora prima della sua morte, non fece mai un racconto filato. I ricordi lo assalivano dalle piú sva- riate parti senza ordine alcuno, per cui a un episodio ne se- guiva un altro che magari si riferiva a parecchi mesi prima. La storia che il Regulus ne ricavo presento percio lacune e sconnessioni. In compenso il Regulus crede che nulla di quanto usciva dalle labbra di Untermeyer fosse frutto di delirio. Per quanto frammentaria, la narrazione e in ogni suo punto motivata e soprattutto risponde in modo esaurien- "te ai maggiori interrogativi che l""'Eventualit`a 9000"" aveva" lasciato. Sia come sia, si tratta dell'unica testimonianza at- tendibile e diretta su uno degli avvenimenti piú meravigliosi del nostro tempo. A questo punto comincia la seconda parte del libro, la piú importante e, purtroppo, la piú breve. A ragione, il Re- gulus non ha voluto, per amplificarla, lavorare di fantasia e neppure coordinare la rotta materia con legamenti e ag- giunte che la logica poteva anche autorizzare. Nel trascri- vere cio che disse l'Untermeyer, il suo intervento si limita a disporre i fatti secondo un'ovvia successione cronologica e nel dare forma sintattica alle cose che dalla bocca del- L'agonizzante uscirono in frasi monche, espressioni dialet- tali, balbettii. E ora non resta che ascoltare. Nel cantiere dell'isola di Rugen- detto appunto cantiere 9000 con una segretezza che avrebbe fatto invidia ai pal- lidi burc,crati degli Uffici Cifra e un impegno di mezzi che sembrava dovesse esaurire il sangue stesso del Paese fino all'ultima estenuata stilla, per cui tutti i presenti avevano "una specie di paura quasi che fosse una follia calamitosa;" all'ombra di una sterminata tettoia sulla quale ogni mattina degli uomini stendevano ramaglie verdi, sterpi giallastri, "blocchi di neve, a seconda delle stagioni; in ermetica clau-" "sura di militari e operai; protetta da un giuramento solen-" "ne di tutti i partecipanti; fu costruita dal giugno 1942 al" gennaio 1945 la corazzata Konig Friedrieh ll che doveva essere l'arma segreta del grande Reich per sbaragliare le flotte unite della Gran Bretagna e Stati Uniti e quante altre vi si affiancassero, infelici loro, pace all'anima dei marinai che vi si fossero trovati a bordo poiché non avranno neppu- re il tempo di rivolgere una breve preghiera al Signore Nostro Onnipossente. Il dislocamento doveva essere di 1zo.000 tonnellate e tale infatti riuscí. La velocit`a, 30 nodi. Duplice protezione anti- siluri della carena per cui la nave poteva incassare almeno 30 torpedini prima di vacillare. Propulsione a getto con due eliche ausiliarie. Protezione verticale di 45 centimetri dell'opera viva, di 35 sul ponte corazzato. Quattro torri tri- nate da zo3, 3complessi da 75 antiaerei. E l'armamento principale consisteva in dodici ordigni senza precedenti, a gruppi di tre, che forse erano cannoni e forse no, capo Un- termeyer li denominava Vernichtungsgeschutze e diceva che potevano annientare in pochi secondi qualsiasi unit`a di su- perficie in un raggio di 40 chilometri. Lunghezza, circa 280 metri. Equipaggio 2100 uomini. I fumaioli erano tre. All'ospedale, in un intermezzo di relativa calma, capo Untermeyer si fece portare dalla moglie le sue carte chiuse in una cartella di cuoio e ne trasse, per consegnarla al co- mandante Regulus, una piccola fotografia del leviatano. Non essendoci nella veduta alcun punto di riferimento, le di- mensioni non si possono apprezzare, inoltre si tratta di una mediocre istantanea da inesperto dilettante. Nel complesso la sagoma ripete la linea delle precedenti grandi unit`a tede- sche con la caratteristica prora falcata. Solo che mancano le solite torri dei grossi calibri, al loro posto si vedono delle aste o tubi metallici lunghi almeno una ventina di metri a brandeggio ed elevazioni autonomi, che potrebbero essere cannoni ma anche no. Manca a queste armi, almeno in apparenza, qualsiasi corazzatura protettiva. Essi si dipartono all'altezza della coperta, protendendosi in alto con forte inclinazione (almeno nella fotografia). Il Regulus esclude che si trattasse di armi atomiche, dimostra pure che non "potevano essere dei semplici lanciarazzi; e rinuncia a una" descrizione tecnica. Fu varata nell'ottobre 1944, passarono parecchi mesi pri- ma che fosse pronta. Non si sa se eseguí in zona esercita- zioni di tiro, e anche troppe altre cose non si sanno di quella vigilia disperata. Ma nessuno dei nemici ebbe mai il sospetto di cio che si stava preparando nel cantiere 9000 non ci furono quindi mai bombardamenti e i ricognitori di passagglo tlravano via apparentemente soddisfatti. Poi venne il febbraio, il marzo, L'aprile, la barriera di- fensiva del fronte scardinata, i russi che premevano su Ber- "lino; ma sebbene i bollettini del Quartier Generale non" facessero piú mistero della disfatta, a bordo della Konig Frie~rich ll gli uomini vivevano tranquilli. Come chi e chiuso nella solida casa di granito mentre di fuori la bufera mugola. Tanto pareva invincibile la nuova grande corazzata, Supremo capolavoro della stirpe tedesca. Ma perché non si accendevano i fuochi? Che si aspettava ancora ? Di veder comparire alle spalle le prime fangose pattuglie sovietiche? Berlino stava per cadere, doveva anzi essere gi`a caduta, una sera il bollettino del Quartier Gene- rale non fu piú trasmesso. Allora gli operai e gli ingegneri sbarcarono dalla coraz- zata, L'aria sopra i tre fumaioli comincio a tremolare, segno che le caldaie erano state accese, opposti pensieri e speranze si combattevano negli animi, la pace sembrava terribilmente desiderabile pur nell'obbrobrio della disfatta ma era anche amaro abbandonare cosí il bastimento meraviglioso senza aver tentato neppure di combattere. Il comandante dell'unita, capitano di vascello Rupert George, fece suonare dalla tromba l'assemblea generale. Era un uomo alto, biondo, aristocratico, dagli occhi molto chia- ri, cosí sensibile e vergognoso dei propri sentimenti che per salvarsi si era dovuto fare una volont`a di ferro. Erano le ore 3 pomeridiane del 4 giugno 1945. Come tutto l'equipaggio fu riunito sulla coperta di poppa, il co- mandante comincio a parlare nei seguenti termini: « Ufficiali, sottufficiali, marinai, devo dirvi poche cose, e gravn « Come forse voi stessi immaginate, le forze armate te- desche di terra, di mare e dell'aria stanno cessando di com- battere. Entro stasera forse verr`a firmato un armistizio. Alle clausole di tale armistizio tutti i militari del Reich dovranno sottostare. » A questo punto si fermo e con i suoi chiari occhi osservo lungamente gli uomini che stavano dinanzi a lui. « Ma la nostra sorte e diversa. Per un decreto clel co- mando supremo la corazata Konig Friedrich ll e esentata dall'ottemperare alle clausole di qualsiasi eventuale armi- stizio. Il documento e nelle mie mani da parecchi giorni e piú tardi sar`a esposto affinché ciascuno di voi possa con- trollarlo. « La corazzata Konig Friedrich ll quindi partir`a stasera stessa portandosi in una zona che non posso rivelarvi Mentre il territorio nazionale sar`a interamente calpestato dagli eserciti nemici, noi continueremo a restare libera e indipendente Germania. Noi non attaccheremo piú il ne- mico, siamo pero decisi a difenderci. Noi saremo l'ultimo pezzo intatto della nostra patria. « Ho il dovere di farvi sapere che ci aspettano giorni, settimane, mesi, anni forse di duro sacrificio, e puo darsi che ci aspetti la morte. Ma a noi, sappiatelo, e stato afii- dato l'ultimo brandello della devastata bandiera. A noi forse toccher`a l'ultimo e piú grave combattimento. Il quale ci potr`a dare gloria ma non altro perché non ci saranno piú speranze. « Nello stesso tempo ho il dovere di lasciarvi completa- mente liberi. La scelta e a voi soltanto. Chi ritiene chiusa la partita e preferisce seguire la sorte comune del nostro popolo, e libero di sbarcare questa sera stessa esonerato da ulteriori impegni militari. Motivi di notevoie interesse umano e familiare possono giustihcare tale scelta, e a me non spetta il sindacarli. « Chi invece sceglie con libera volont`a di rimanere a bordo sappia che non andr`a incontro a gioie di sorta. Sar`a una missione lunghissima, della cui fine non si puo preve- dere né la data, né il modo. Disagi, solitudine, separazione assoluta dalle vostre famiglie, ignoranza del proprio desti- no, sono tutto cio che potete sperare. Vale la libert`a tanto sacrificio? A ciascuno di voi tocca decidere. Ascoltate quindi la vostra coscienza. Io da lungo tempo ho gi`a deciso. « Flno a quando potremo conservare questo supremo be- ne? Quale ultima meta ci prefiggiamo? Saremo chiamati a una battaglia decisiva? Neppure io lo so, ma anche se lo sapessi non ve lo potrei dire. « Percio chi rimane a bordo, quando salperemo in dire- zione dell'ignoto, dia pure uno sguardo d'addio alla terra patria che lasciamo. Puo darsi che non la rivedremo mai piú. » Tale, pressapoco, il discorso del comandante George. E subito dopo l'assemblea fu sciolta e nessuno capiva bene che cosa stesse succedendo, eppure le parole del comandante erano rintronate con strana potenza negli animi cosicché furono appena zz7 gli uomini che chiesero lo sbarco. La luce di quel giorno non si era ancora spenta intera- mente che la corazzata Konig Friedrich ll uscí di sotto la gigantesca copertura mimetica che l'aveva per cosí lungo tempo nascosta e mosse verso l'aperto mare. Immediata- mente, a terra, cominciarono a tuonare le cariche esplosive predisposte per distruggere il bacino, il cantiere, le officine e tutto il resto affinché di cio che era stato fatto non rima- nesse traccia comprensibile. E per lungo tempo, da bordo, sempre piú lontane, si videro quelle vampe cosí significa- tive. Laggiú non si sarebbe mai tornati. La storia a questo punto fa un grande salto e non dice parola su come il bastimento poté uscire inosservato dal Bal- tico, impunemente scavalcare la Sc0zia e percorrere l'oceano Atlantico da nord a sud senza incontrare il nemico. Ritroviamo la corazzata ferma in pieno mare a est del Golfo di San Matteo, ormeggiata a una specie di boa che per lei era stata sistemata, non si sa da chi né come, in cor- rispondenza di un bassofondo. Ivi quasi duemila uomini intrapresero una assurda vita, separati dal restante mondo che ne ignorava l'esistenza. La vita a bordo proseguiva re- golarmente come in qualsiasi porto, solo che qui non esi- stevano banchine e tracce visibili di terra ferma, bensí la vacuit`a disperante delle onde. All'alba lavaggio, poi eserci- tazl0nl di ogm genere, solo raramente il radar segnalava l avvlclnarsi di una nave o di un aeroplano sconosciuti. Al- lora il mostro dei mari si copriva immediatamente di una pesante nebbia per mezzo di speciali apparecchiature e i navlgantl sempre passarono oltre senza badare troppo a "quella strana nube in mezzo all'oceano; e ugualmente fecero" gll aeren (Clrca l'avvistamento da parte del Maria Dolo- res Ill l'Untermeyer non seppe dare spiegazioni.) Di tanto in tanto una grossa motobarca veniva messa a mare e si allontanava verso ponente. Dopo non molte ore era di ritorno con nuove provviste di viveri. Il sistema di rifornimento era stato infatti organizzato preventivamente attraverso Incontri m aperto oceano con navi provenienti dall'Argentina. Navi tedesche o straniere, e come camuffate? Di preclso non lo si e saputo. Invece della motobarca, alle "volte vemva ammainata una piccola cisterna; allora, invece" dl viveri, era nafta. Intanto le notizie della catastrofe tedesca si accavallavano alla radio, e a bordo voci discordi e sediziose serpeggiarono, sebbene la semphce vlsta del comandante George bastasse a rlsvegllare, nel cuorl sofferenti, un senso di venerazione e dl tlmore. A lungo andare tuttavia neppure la disciplina formale e l'intensa attivit`a di ogni genere bastarono a spegnere il fermento. Discussioni sempre piú audaci si accendevano la sera nel quadrato uí~iciali e qua e l`a, nel chiuso dei came- rmi, avvenivano quasi dei complotti. Che cosa si stava aspettando? Che cosa si poteva sperare? L'illusione romantica che li aveva sedotti alla partenza ormai era perduta. La solitudine diventava un incubo. L'immobi- lit`a esasperante. Che cosa si aspettava? Di essere avvistati come presto o tardi era fatale, e macellati dall'aviazione americana? Di marcire in quell'assurdo esilio? Voci, dicerie, calunnie, sospetti, favole passavano ormai di bocca in bocca. Qualcuno dubitava che il comandante George fosse pazzo. Giro la voce di una violenta discussione da lui avuta col comandante in seconda Stephan Murlutter, un uomo solido, freddo, con la testa sulle spalle. Si diceva che Murlutter fosse favorevole all'autoaffondamento e alla resa. Dello stesso parere era la maggioranza. C'erano pero anche quelli che parteggiavano per George. Specialmente gli ufficiali piú giovani, i guardiamarina, i sottotenenti di vascello. Era giusto - costoro sostenevano - che una aristocrazia di pochi espiasse le infami colpe di cui si era macchiata la Germania. Erano i puri, i mistici, gli asceti. Quanti mesi passarono cosí? Il tempo precipitava su di loro come succede agli ammalati per cui i giorni, uno ugua- le all'altro, si confondono, e il passato perde ogni profon- dit`a. Venne novembre, si giunse a dicembre, ecco Natale e la invincibile fortezza nata per la distruzione e la battaglia continuava a giacere nell'ignavia. E quella sera - laggiú era piena estate - dalla coperta del bastimento il canto di Stille Nacht si allargo patetico sull'immensit`a nuda del- L'oceano, senza trovare un'eco. Strane leggende nacquero. Si diceva per esempio che con le navi dei rifornimenti clandestini fosse giunta a bordo una donna, anzi le donne erano tre e vivevano nascoste negli alloggi dei sottufficiali. Si diceva che qualcuno, in reparto macchina, lavorasse a sobillare i fuochisti arfi~nché si ammutinassero. Si diceva, anche che fosse prossimo un combattimento. Ma contro chi? Nessuno lo sapeva. La gente, fino allora disciplinatissima, diede frequenti se- gni di nervosismo. Cominciarono, senza motivo i falsi al- larmi. Le vedette avvistavano apparecchi inesistenti o fumi ch'erano semplici miraggi. Di punto in bianco, anche nella piena notte, si propagava una smaniosa agitazione: i ma- rinai balzavano giú dalle brande, si vestivano, correvano "ai posti di combattimento. Si era sentito un ""tocco di ra-" dar, si era acceso un bengala all'orizzonte, era passato vi- "cino un sommergibile; queste le voci. Poi si accertava che" non era vero niente. In questa, mentre si delineava lo sfacelo, il comandante George si ammalo. Il maggiore medico Leo Turba diagno- stico una forma tifica. La notizia contribuí al disfattismo Dopo otto giorni il comandante George comincio a de- lirare. Credeva di essere nella propria casa di Brema, chia- mava la moglie, ordinava che gli sellassero il cavallo. Al nono giorno si riebbe, ebbe un lungo colloquio col "comandante in seconda Murlutter; informato dell'eccitazione" che si manifestava a bordo, ordino di accendere per salpare il giorno dopo. Cio rianimo sulle prime l'equipaggio, ma lo scoraggia- mento si aggravo quando la nave mise la prora a sud, al- lontanandosi ancora di piú dalla Germania. Finalmente pero apparve terra e a questa vista poco man- co che i marinai impazzissero di gioia. Anche stavolta le illusioni caddero. La costa era la Terra del Fuoco e la gigantesca nave si infilo in una insenatura tortuosa dove getto l'ancora. Intorno, il piú inospitale e sel- vagglo ambiente. Rocce scabre, ghiacciai immensi, non un filo di verde, torme di pinguini, freddo. Ormai nessuno chlamava piú il bastimento col suo nome. Tutti dicevano: la corazzata Tod. Addí 23 gennaio 1946 morí il comandante George e per la maggioranza fu un sollievo. Il comando infatti passava al capitano di fregata Murlutter che si sapeva favorevole all'autoaffondamento e alla resa. Gli onori funebri tributati a George furono commoventi. Quando la cassa avvolta dalla bandiera scivolo, sprofondan- do, in mare, la banda attacco l'inno nazionale. Molti, coi nervi ormai spezzati, ruppero in singhiozzi. Passarono altri dieci giorni nell'immobilit`a tetra del fiordo patagonico. Chiss`a come, gli allarmi erano molto piú fre- quenti di quando la nave stava ormeggiata nell'aperto ocea- "no; per cui durante la giornata si continuava quasi sempre" a fare nebbia, e l'aria era irrespirabile. Ci si aspettava che da un momento all'altro Murlutter desse l'ordine di salpare verso il nord. E difatti diede or- dine alle trombe che suonassero per convocare l'assemblea generale. Ma per la terza volta i marinai, che gi`a respiravano, fu- rono crudelmente contristati. Quasi che con le consegne estreme, il comandante George gli avesse trasmesso anche la foll~a, Murlutter annuncio che tutti dovevano prepararsi all'ultima e piú dura prova: all'indomani, disse, si sarebbe impegnata battaglia. Un mormorío minaccioso attraverso l'esasperata folla di quegli uomini per lo piú cenciosi e barbuti. Allora la voce di Murlutter divenne una specie di tuono. « Ripeto » disse « che domani con ogni probabilit`a sar`a giornata di combattimento. Ebbene, negli occhi vostri leggo una sola domanda: contro chi? Io vi rispondo: non lo so. Ignoro il nome del nemico Non so che colore abbia la sua bandiera. Ma questo, devo aggiungere, non ha la minima importanza. Ricordatevi: molti di voi usano chiamare que- sta nave col nome di Tod. La corazzata Morte! Credevate forse di scherzare? « E~d ora ascoltatemi con molta attenzione. Poiché tra voi puo darsi che qualcuno, o molti, non si sentano chiamati, io a costoro dico, cosí come disse il comandante George quando si lascio l'isola di Rugen, io dico: siete liberi di scegliere. Chi vuole sbarcare, sbarchi pure, ne faremo senza A loro disposizione metto le imbarcazioni neces- sarie, con carburante e viveri sufficienti a raggiungere la localit`a abitata piú vicina. Unico loro dovere, su cui io non transigo, sar`a il dovere del silenzio. Con giuramento pesan- tissimo essi dovranno impegnarsí a non dire mai una pa- rola ad anirna viva, per nessuna ragione, circa la corazzata... circa la corazzata Tod. Io non sono certo un filosofo e non so spiegare bene certe cose ma vorrei dire semplicemente questo: un sacrificio non arriver`a mai ai piedi di Dio Onni- potente se non sar`a stato consumato in segreto. Una vostra parola indiscreta, e tutto sarebbe sprecato nel modo piú mi- serabile. La maledizione eterna dunque a chi non sapr`a tacere. « Ma per coloro che restano a combattere, gloria! Gloria a noi, alla corazzata Tod ! Gloria alla sventurata patria lon- tana ! » Il discorso piombo come una violentissima pietra sul cuo- re afflitto di quegli uomini. E il primo loro pensiero fu: anche Murlutter e impazzito come George. Specialmente le ultime frasi, pronunciate con un ardore cupo e doloroso, dimostravano infatti una pericolosa esaltazione. Poi il nuovo comandante in seconda Hellmuth von Wal- lorita diede l'attenti e saluto Murlutter presentando l'equi- pagglo. Ma nell'atto che alzava la mano alla visiera, von Wal- lorita si lascio sfuggire il monocolo dall'occhio destro. Con uno strano tintinnío il dischetto di vetro batté sulla lamiera ma anziché rompersi rimbalzo rotolando verso il limite della coperta. Nessuno oso muoversi. Nel pesante silenzio si udí l'esile rumore. Gli occhi seguirono il percorso della lente che accelerava via via la rotazione finché si infilo nel trin- carino. Ma invece di fermarsi, ebbe qui un ultimo sobbalzo e piombo in mare. Al cloc che fece il vetro dentro l'acqua, per le inespli- cabili risonanze delle cose, un sentimento di atroce solitu- dine si impadroní degli uomini esiliati ai confini della terra, quale non avevano provato mai. E gli sguardi, smarriti, andarono con odio alle tetre montagne, alle rupi e ai ghiac- ciai che assistevano impassibili, sprofondati nel loro sonno eterno. Chiesero di essere sbarcati esattamente 86 uomini di cui "due ufficiali e 12 sottufficiali; tra i quali era Untermeyer." Molti altri della corazzata sarebbero partiti volentieri per ritornare nel consorzio umano e quindi in patria. Senonché pensavano che quella fuga fosse inutile. All'indomani, la demenza del comandante si sarebbe rivelata tale a lui stesso. L'impossibilit`a di resistere a lungo in quel selvaggio appro- do sarebbe stata piú forte di ogni follía. E la nave si sarebbe finalmente arresa. Alla presenza del comandante, gli 86 partenti prestarono il giuramento di tacere, quindi col bagaglio personale - era gi`a buio presero posto nella motobarca che si diresse al- L'uscita dell'insenatura e ben presto fu al largo. Solo allora in alcuni comincio a risvegliarsi il pentimento, rimorso anzi, quasi che la loro fosse una vile diserzione. Rimorso che col passar dei giorni avrebbe perseguitato l'Untermeyer sempre di piú, fino a indurlo a uccidersi. Per tutta la notte, con mare calmo, la motobarca proseguí per rotta a levante poiché occorreva portarsi parecchio in fuori a evitare l'insidia delle scogliere e ra~iungere lo stretto di Le Maire. L'alba venne col cielo sereno, vaga foschia all'orizzonte, la terra quasi non si vedeva piú. A poco a poco gli uomini poterono guardarsi in faccia, riconoscersi sotto le spesse barbe. « Attenzione, un'unit`a sconosciuta a poppavia! » grído uno all'improvviso. Tennero il respiro. « Ma e la corazzata Tod ! Viene per la stessa nostra rotta... Sí, accosta nella no- stra direzione... No, no, si allontana... E dove demonio sta andando ?... Adesso accosta in fuori... Perdio, va a tutta forza! » Era una scena impressionante. Lanciato alla massima an- datura, il leviatano usciva dalle brume della notte, irto delle sue antenne misteriose, la possente prora a becco fendendo l'acqua con due alti rigurgiti di schiuma. Rapidamente la motobarca ando scadendo. Quando la corazzata Tod fu quasi al traverso, a una di- stanza di circa mezzo miglio, sembro a quelli della moto- barca di distinguere, portato dal vento, un caratteristico se- gnale di tromba. « Senti la tromba?... Sí, la sento... La sento anch'io... Ma sono impazziti!... Suonano posto di combatti- mento generale! » Poi un urlo strozzato, con dentro un terrore senza nome: « Jesus Maria, guardate laggiú ! » Tutti gli 86 guardarono. E il sangue gli si gelo nel petto. All'estremo orizzonte australe, confusi nella caligine dell'al- ba, paurose ombre di bastimenti avanzavano in linea di fila. Navi vere o soltanto fantomatiche parvenze? Esse torreggiavano con inusitate forme di intenso colore nero, e al paragone la gigantesca corazzata Tod sembrava una navicella da bambini. Dovevano essere alte centinaia di metri, dovevano pesare milioni di tonnellate, dovevano es- sere uscite dall'inferno. Ne contarono due, tre, quattro, cin- que, sei, e altre ancora si intrawedevano attraverso la fo- schia, in un corteggio senza fine. Ciascuna era di sagoma diversa, con strane alberature, torrioni sghembi che dondo- lavano nel cielo, simili a minareti. A riva, criniera funebre, fluttuava una selva di lunghissimi stendardi. Il tutto- e spiegarne il perché era impossibile - aveva un'aria estrema- mente antica. Chi erano? Dai recessi occulti della Terra venivano gli ammiragli dell'apocalisse con le orbite vuote e nere simili a spelonche, per umiliare l'uomo? Angeli o demoni popo- lavano quelle funebri fortezze? Forse era quello il nemico ultimo a cui alludeva il comandante George? Ma evidentemente la corazzata Tod precipitava a capo- fitto verso la propria perdizione. La videro serrare le di- stanze, accelerare la velocit`a, quasi temendo che l'occasione le sfuggisse. Intanto i vascelli delle tenebre riempivano or- mai tutto l'orizzonte con le loro sinistre architetture. Il combattimento - racconto poi capo Untermeyer- duro una decina di minuti. Quelli della motobarca vi assisterono, impotenti e paralizzati dall'orrore. Videro la corazzata Tod brandeggiare i dodici lunghi colli dei Vernichtungsgeschutze all'elevazione massima, verso gli spettrali simulacri. Poi una triplice vampa, un triplice fiotto di fumo rossiccio che rimase indietro, sospeso sopra le onde. Dalle canne uscirono come tre aste incandescenti che in curvo volo salirono rapidissime ad altezza vertiginosa per poi precipitare sul bersaglio. Sparirono, parve, nel fianco di uno dei neri bastimenti. « Colpito in pieno ! » grido uno sulla motobarca con un assurdo ritorno di speranza. Difatti nel centro del vascello si aprí una voragine di fuoco, immediatamente i torrioni vacillarono, rimasero qualche istante in bilico, tutto quindi crollo in un frenetico intrico di macerie, e sprofondo nel Ma quando la corazzata Tod diede fuori la seconda salva, anche il nemico fece fuoco. Barbagli giallastri lampeggia- rono contemporaneamente su quattro unit`a dell'armata mi- steriosa. Col fiato in gola, quelli della motobarca aspettarono l'ar- rivo dei proiettili. Finché uno disse: « Ma non arriva nien- te. Ma non sono che fantasmi ! ». In quel preciso istante, mentre un terrificante tuono per- cuoteva gli echi dell'oceano, a proravia della corazzata Tod, dal mare livido, si levo verticalmente una dozzina di smi- surate torri fatte di schiuma e d'acqua. Si eressero alte, altissime, sempre piú alte, sembrava che non dovessero fi- nire mai. Quanto alte? Seicento o settecento metri? Ciascuna era un cataclisma. Sfogato l'impeto, ricaddero, insaccandosi, tremenda massa in cui la corazzata Tod sparí per un paio di minuti. Ricomparve intatta, tutta grondante spume, subito emise le terza e quarta salva lanciando altre sei aste incandescenti. Tre, corte, finirono nel mare. Tre invece si infissero in un bastimento che assomigliava a un carro funebre con sette lunghi fumaioli. Ancora qualche secondo, ed ecco la nave scoperchiata da una violentissima esplosione: accartoccian- dosi i neri bordi, la ferita spaventosa vomito fuori le visce- re di fuoco. Allora il mare con furiosi sibili ribollí, e si formo un nuvolone di vapore acqueo nel quale disparvero, in un totale rovinio, le strutture della nave scardinata. Anche ai guerrieri dell'inferno la corazzata Tod teneva dunque testa. Ma a che valevano i suoi magnifici colpi ? Una seconda mostruosa selva di colonne d'acqua circondo la Tod scuotendola come fosse stata una barchetta. Che proiettili erano? Di che calibro? Grossi come vagoni? Co- me case? Di che sovrumane artiglierie? Ora tutti i Vernichtungsgeschutze fecero fuoco in salva sincrona. Dodici fusi ardenti galopparono su per i nembi addensatisi sopra la battaglia. Fulminei ridiscesero. Un terzo bastimento nero fu sventrato e salto in aria con un cipresso di fiamme e fumo che raggiunse la cupola del cielo. Ma fu l'ultimo. A un tratto, nel preciso punto dove si trovava la corazzata Tod proruppe un picco d'acqua verti- cale, dalle pareti lisce e di dimensioni indescrivibili. Simile a un mostro, si drizzo in aria sorpassando l'altezza delle nubi. Qui resto immobile un se~ondo. Repentinamente tre- mo, si sciolse in cateratta, schiantandosi sul dorso grigio delle onde. Quindi, di colpo, il nulla. Impietriti, quelli della moto- barca non credevano quasi ai propri occhi. Di colpo dile- guati i funerei vascelli dell'abisso, cessate le colonne d'ac- qua, le vampe, le detonazioni, sparita la corazzata Tod. Co- me se tutto quanto era successo se lo fossero inventato loro. Niente piú c'era sulla vastit`a uniforme delle acque, non un rottame, un cadavere, una macchia di nafta irlde- scente. Il nudo oceano e basta (solo restavano nel cielo, a testimoniare, brandelli di catramose nubi). E nell'orribile silenzio, che si spalanco nei loro cuori come una immensa e vuota tomba, l'elica della motobarca borbottava, ntmlca- mente borbottava. - - I6 I7 I8 I9 zo zI zz 3 I I sette messaggeri 3 2 L'assalto al grande convoglio 8 3 Sette piani 2 5 4 Ombra del sud 43 5 Eppure battono alla porta 50 6 Il mantello 65 7 L'uccisione del drago 7I 8 Una cosa che comincia per elle 88 g Vecchio facocero 98 Paura alla Scala I03 Il borghese stregato I46 Una goccia I 54 La canzone di guerra I 5 7 Il re a Horm-el-Hagar I62 La fine del mondo I74 Qualche utile indicazione I 78 Inviti superflui I86 Racconto di Natale I90 Il crollo della Baliverna I 94 Il cane che ha visto Dio zoI Qualcosa era successo 2 3 3 topi 2 38 Appuntamento con Einstein 244 Gli amici 250 I reziarii 257 All'idrogeno 26I L'uomo che volle guarire 267 24 marzo 1958 274 29 Le tentazioni di Sant'Antonio 280 3O Il bambino tiranno 286 3 I Rigoletto 294 32 Il musicis,ta invidioso 299 33 Notte d'inverno a Filadelfia 306 La frana 3 I 3 Non aspettavano altro 3zz Il disco si poso 336 L'inaugurazione della strada 342 L'incantesimo della natura 349 Le mura di Anagoor 354 Direttissimo 3 5 8 La citt`a personale 365 Sciopero dei telefoni 372 La corsa dietro il vento 380 Due pesi due misure 387 Le precauzioni inutili 394 Il tiranno malato 401 Il problema dei posteggi 407 Era proibito 4I 4 L'invincibile 4zI Una lettera d'amore 428 5 I Battaglia notturna alla Biennale di Venezia 434 5 2 Occhio per occhio 44 I 5 3 Grandezza dell'uomo 447 54 La parola proibita 452 5 5 I santi 459 56 Il critico d'arte 465 57 Una pallottola di carta 47I 58 La peste motoria 476 59 La notizia 482 60 La corazzata Tod 486 I racconti dal numero l al g compre~v "appartenevans al volume I sette messaggerí;" "q~lelli dal numero lO al 18, al l~olume Paura alla Scala;" quelli dal numero lg al 3~, "al volume Il crollo della Baliverna;" tl~tti e tre li6ri eauriti. QUESTO VOLUME E STATO IMPRESSO NEL MESE Di MAGGIO DELL'ANNO MCMLXIX NELLE OPFICINE GRAE~ICI~E VERONESI Di ARNOLDO MONDADORI STAMPATO IN ITALIA - PRINTED IN ITALY I 947 I948 I949 I950 I95I I952 I952 I953 I954 I955 I956 I957 I958 I959 I960 I96I I962 1963 I964 I 965 I GRANDI PREMI LETTERARI ITALL I PREMI STREGA Ennio Flaiano Vincenzo Cardarelli Giambattista Angioletti Cesare Pavese Corrado Aivaro Alberto Moravia Alberto Moravia Massimo Bontempelli Mario Soldati Giovanni Comisso Giorgio Bassani Elsa Morante Dino Buzzati Giuseppe Tomasi di Lampedusa Carlo Cassola Raffaele La Capria Mario Tobino Natalia Ginzburg Giovanni Arpino Paolo Volponi Tempo dí uccidere Villa Tarantola La memoria La bella estate Quasi una vita I racconti, I I racconti, II L'amante fedele Le lettere da Capri Un gatto attraversa la strada Cinque storie ferraresi L'isola di Arturo Sessanta racconti Il Gattopardo La raga~a di Buhe Ferito a morte Il clandestino Lessieo famigliare L'ombra delle colline La maeckina mondiale (Longanesi) (Meridiana) ( Bompiani) (Eina~di) (Bompiani) ( Bompiani) ( Bompiani) (Aiondadori) (Garzanti) (~llondadori) (Einaudi) (Eina~di) ~lIondadori) (Feltrinelli, (Eina~di) Bompiani) (Illondadori) (Eina~di) (Mondadori) ( Garzanti) Unable to recognize this page.