P.G.R. Sera Poi, un giorno, il contrabbando e finito. Da allora e stato molto piü penoso tornare a casa di mia madre. E stato come ritornare in strade senza punti di riferimento. Senza i fuochi nei bidoni, senza le donne sedute a cassetta, via Dante e diventata buia e pesante da fare a piedi. II manipolo di ragazzi in smanicato fermo all'angolo della vinella per lo spaccio non e mai stato la stessa cosa, e poi il movimento, all'ora in cui arrivo io, e ancora poco. Scendo dal 111 nero che sono al massimo le sette, qualche tossico dalla provincia che deve rincasare per la notte scende con me e mi accompagna per un tratto. Ne ho visti svuo-tare boccette di En sui sediolini del fondo per spaventare la pau-ra quando il 111 nero arrancava negli ingorghi. Facciamo insie-me il tratto fino aH'incrocio, poi io continuo per corso Italia, loro si fermano al rifornimento. Accelero il passo che i magazzini stan-no chiudendo e non c'e piü ragione di stare in strada. Fino a doma-ni la strada non esiste piü. All'altezza del mercato coperto guardo per forza davanti, in fondo, in alto: mia madre. Aspetta dietro la finestra. la tenda aper-ta a sipario. Le mani sul termosifone. Haifatto tardi, mi stavo preoccupando. Abbasso gli occhi sulla strada senza salutare. Che 76 ci vuole ad alzare il braccio, mentre la guardo? Mamma sono viva ancora, ancora tu lo sei. Invece non sopporto la sua sagoma in controluce. La sua sagoma mi dice che sono in ritardo, che si sta-va preoccupando, che per la preoccupazione le e salito il mal di testa, che il mal di testa se ne andrä solo dormendo, ormai. Attraverso, finalmente: la fila dei balconi mi nasconde alla sua vista e mi protegge dalla pioggia dei sensi di colpa. Dovrei ele-mosinare gocce di En ai tossici della provincia, ogni volta che arrivo. Ho ancora le chiavi, dopo dieci anni. Ma mia madre apre il portone dall'alto sempre nell'attimo in cui le sto infilando nella serratura. Mentre l'ascensore passa tra il terzo e il quarto piano metto a fuoco la cosa che dirö appena la vedo: devo dire una cosa qua-lunque, perche sembri normale rivedersi. Trovo qualcosa per abbattere l'imbarazzo di essere madre e figlia,di essere uscite l'u-na dall'altra e poi esserci separate. Qualcosa che azzeri la mera-viglia di rincontrarsi, due volte a settimana, a giorni di distanza. Dopo quasi quarant'anni questa cosa mi sorprende, mi scuote le fibre come se stessi nascendo ora, come se non continuassimo a vivere quando non ci vediamo. Sto nascendo adesso, traghettata dall'ascensore. Sesto piano. Arrivo. Mamma apre la porta e mi accoglie. "Ue, mammi". "Mi stavo preoccupando". "Oh, venendo ho visto i lavori di fronte alla bancarella di Enzo. Ma e il suo, il negozio?" "Eh, e quello lä, se lo e preso a pigione, rao' ci fa i lavori den-tro". "Quando sono andata a prendere il cd per Luca me lo disse, che aveva fatto la pensata del negozio". "...Mi e salito un mal di testa mentre ti aspettavo, mo' me ne devo andare solo a dormire, oi". Intanto mi libero delle buste e della borsa, entro nella stanzet-ta piccola per poggiare il giubbino sul letto. "Fai piano: sta Luca". Faccio piano: a vederlo addormentato, Luca, sembra un bambino tranquillo. Faccio piano, nel buio, vado a memoria. In questa stessa stanza, al posto dove dorme Luca adesso, mi convinsi per la prima volta che le cose potevano esistere solo fin-che le vedevo io: avevo undici anni e l'epatite virale. Le transa-minasi a ottocento. II medico di base disse che sarebbe stato opportuno un ricovero, mia madre disse che forse il dottore era sbattuto con la testa a terra, e che si sarebbe potuto ricoverare lui, che in casa non mi sarebbero mancate cure. Restai a letto per nove giorni di seguito, ma non fu un sacrificio, perche ero sempre stan-ca. Mi alzavo sei o sette volte, camminavo piano con mia sorella Sara a fianco, per andare a fare la pipi. La pipi era come la ruggi-ne dagli sciacquoni vecchi. Allora non avevo ancora le mestrua-zioni e non ero abituata a vedere l'acqua colorarsi forte, mi impressionavo. La vita in casa continuava secondo il suo tempo: a tratti qual-cuno entrava nella mia stanza per chiedermi se volessi qualcosa, o per portarmi qualcosa, e poi andava via. Io potevo sentire i pas-si allontanarsi, o la voce continuare a parlarmi. Ma mi convinsi che oltre la soglia della mia vista, le persone e le cose si dissol-vessero, smettessero di esistere come le vedevo. Poi la pipi si schiari, il tasso di bilirubina in circolazione nel sangue diminui senza lasciare danni evidenti al mio sistema ner-voso. Rimase la convinzione che le cose esistessero a strappi, e restai stanca. "Mamma, ti ricordi quando preši ľepatite?" "Fu la cozza sotto alľorto botanico". "Ma come vi venne di far mangiare una cozza a una bambina di undici anni?" "Ma perché, se ne tenevi diciotto non te la prendevi, ľepatite?" "Ma che significa, mä?" "E poi i markers ce li abbiamo tutti. Pure tuo padre ce li ave-va". "Comunque mammi, tu il mal di testa lo tieni perché questo bambino é un guaio". Mamma é tornata alla fmestra, sta come una gru su una pan-tofola sola e si gratta ľaltro piede contro il termosifone. Sta aspet-tando Sara. Mamma aspetta sempre qualcuno che la faccia preoc-cupare. Mi avvicino e ľaspetto anch'io, lei mi fa posto lungo il termosifone. Stiamocosi,lafinestraci faguardare fuori,fuori della casa, in stráda, sul negozio di Enzo. "Sara un negozio di telefonini". "Ma poi non capisco: se era nel ramo dei dischi, perché non fa un negozio di musica?" "Mamma, non era nel ramo dei dischi: vendeva i cd falsi..." "Vabbuô,perô sempre meglio di quando era contrabbandiere". "Si, ma in Itália é reato lo stesso, mo' che si mette il negozio fa la prima cosa pulita della vita sua". "Pero é stato bravo". "Vendeva certe Marlboro come la segatura". "Tu a dodici anni giä fumavi, poi dici la cozza..." "A sedici, mamma. Sedici". A dodici anni giä fumavo, avevano espropriato gli ultimi cam-pi, comprato gli ultimi giardini, spianato gli agrumeti e iniziato le prime gittate di cemento, per costruire "il terzo mondo". La periféria si stáva inventando una sua periféria, dove diradare le infra- 7S 79 strutture, isolare i vecchi e ghettizzare i giovani. Noi passavamo le transenne del cantiere sotto il cartello completo e ci arrampi-cavamo sulle fondamenta del "terzo mondo". Accendevamo una sigaretta per volta, una per ciascuna. E facevamo passare il pome-riggio. Era un'epoca in cui fumarsi una sigaretta di nascosto aveva ancora un suo senso private. E uno condiviso, esterno: a tornare a casa femmina di dodici anni con Talito di fumo ci sarebbe State un padre violento. E per chi, come me, non ce l'aveva piü da pochi mesi, ci sarebbe stata una madre a battersi in faccia le mani per la vergogna. "Eccola". L'ha giä detto tre motorini fa, ma stavolta e proprio lei. Arri-va sparata dall'incrocio come se avesse quindici anni e niente da perdere. Inchioda a quattro palazzi da qui, davanti alla rampa del garage. Poi scende dalla sella come una principessa dalla carroz-za il giorno del ballo. Sara non ha neppure bisogno di portarlo giü, il motorino: quando arriva comincia a suonare il clacson con furia, anche di notte, e quelli del garage invece di innervosirsi salgono la rampa sorridendo come sotto incantesimo, la guardano mentre si toglie il casco come un cappellino con veletta, la seguono pas-sarsi la mano nei capelli biondi delle persone bionde. Poi afferra-no le chiavi al volo e la salutano. Ma non portano subito il motorino giü. Lei giä voltata che raggiunge il portone, tentennano la testa sul ritmo dei suoi passi, trattengono ancora un poco que-st'aria di colazione da Tiffany che mia sorella si porta dietro, prima di tornare a respirare il monossido di carbonio. Intanto Sara ha alzato gli occhi e ci ha visto: ci saluta con tut-te e due le braccia. Si vede che mamma non aspettava Sara, aspet-tava quel saluto: schizza verso l'ingresso per andare ad aprire il portone. Allora spengo la luce e mi atTaccio bene da vedere fino in fon-do alla strada: la birreria. la ciminiera, c la terrazza con le sei let-tere grandi tenute dai tubi di ferro messi in croce, come sui palazzi di Manhattan, pe r o n i. Mi accendo una sigaretta mentre sen-to mamma che porta Luca in trionfo verso la porta, e la porta aprirsi. Sara viene a salutarmi con il bambino che le mangia il collo, poi va nella stanza a cambiarlo. Sento Luca che si fa fare tutto e mi viene una rabbia enorme, perche se ci avessi provato io si sarebbe divincolato come un capitone la notte di capodanno. Spengo la sigaretta e raggiungo mia madre in cucina. Ha un for-nello occupato dalla pasta e ceci. uno dalle cotolette e uno dal caffe. Tanto bisogna aspettare Alfrede Sono solo le otto di sera. "Stavo pensando cosi, che mentre ti fanno i lavori, te ne puoi venire a stare qua". "Mamma ma non e che non ce l'ho una casa: mentre mi fanno i lavori mi sto a casa mia". "E vuoi stare accampata? Quando tieni la casa tua qua?" "Giä ti tieni Luca tutto il giorno..." "Ma se esce pazzo per te..." "Si, ma mi fa pure uscire pazza, a me". Mamma rinuncia a capire, solleva il coperchio della moka, ci mette lo zucchero. "Chiedi a Sara se lo vuole". Sara si sta passando i piedi di Luca in faccia, mi dä le spalle. "Lo vuoi il caffe?" Lei seuote la testa toccandosi lo stomaco. Mia sorella e una donna eccezionale: se le brucia lo stomaco, rinuncia al caffe. lo, piuttosto, rinuncio allo stomaco. Luca e talmente pazzo di me che pretende di starmi seduto in braccio mentre ceniamo. Con la mano destra cerca nel piatto i ceci 80 81 scuri, perche mia madre gli ha detto che portano fortuna. Questo lo autorizza a frugarmi nel piatto con le mani,autorizzasuo padre, sua madre e sua nonna a guardarlo ridendo, obbliga me a non dir-gli nulla. "Oggi, mettendo a posto nella cassa, ho trovato gli orecchini di zia Vanda". So gia dove vuole arrivare, a cadenza regolare questi orecchini spuntano dovunque. "Te li dovresti fare, i buchi alle orecchie..." "Mamma, ma ti pare a te che io a trentotto anni mi devo fare i buchi alle orecchie?" "Tu a zia Vanda la farai morire senza la soddisfazione di aver-ti visto quegli orecchini alle orecchie". "Io non lo so... mi devo fare i buchi alle orecchie senno la zia muore disperata..." Sara si pulisce il piatto con il pane: "Mamma, ma ti pare il momento? Con tutto quello che tiene da fare?" "Ma perche, se li sta facendo lei i lavori? Non glieli sta facen-do la ditta di Alfredo?" Io le seguo, mentre parlano di me in terza persona. "La ditta non e di Alfredo: Alfredo ci lavora. La ditta e di Gianni, ma comunque tu non puoi capire: tu ti sei sposata in questa casa, e qua sei rimasta". Mi danno uno strappo, perche ogni tanto se ne tornano anche a casa loro. Alfredo si avvia avanti a prendere la macchina, io e Sara sotto braccio lo seguiamo di venti passi. Camminiamo sul marciapiede: seduta sui motorini, la nuova generazione del "ter-zo mondo" cerca un modo per vincere la solitudine infrasettima-nale. Un gruppetto chiude Pangolo del marciapiede da cui dovremmo scendere, allora io e Sara fisiologicamente ci separia-mo: io scendo e faccio un giro largo, oltre le macchine parcheg-giate, lei prosegue e intanto si lega i capelli con l'elastico che ave- 82 va sul polso. Quelli si aprono in due ali e la lasciano passare senza dire nulla. Quando stiamo per imboccare il vallone di Miano, ci investe un odore dolce di luppolo in fermento. I vestiti di mio padre avevano quell'odore il giorno in cui mi venne incontro nel cortile dello stabilimento, il giorno in cui a scuola era passato un topo e ci avevano mandate tutti a casa prima, e mamma aveva detto: "Andiamo a prendere papá", poi era rimasta al di la del cortile e io avevo fatto a zigzag tra gli operai che uscivano per la pausa pranzo, e sulla soglia dell'edificio avevo visto mio padre che toglieva una cuffietta bianca dalla testa di una donna e le baciava i capelli. Io non avevo mai visto i miei genitori baciarsi cosi. Non c'e-ra tradimento, perché non c'era ripetizione di gesti con un'altra donna: quel padre era un altro padre, un altro uomo, un'altra cosa. Pero mi voltai a guardare mia madre, e mi convinsi che da quel-Pangolazione aveva visto anche lei. Allora per non preferire nes-suno mi fermai giusto a metá strada. Finché mio padre lasció l'ar-co della porta e mi venne incontro. Quella sera a Canzonissima c'era Carlo D'Apporto che rac-contava barzellette che non capivo. Io ero in attesa: stava per succedere qualcosa, qualcosa quella sera e per sempre doveva cambiare. Invece non successe nulla. Mio padre rideva, ma non mi sapeva spiegare le battute. Quando anche mia madre cominció a ridere, io cominciai ad avere paura. Poi comparve Mina. Da un riquadro in alto a destra Alberto Lupo con un fazzolet-to al collo le diceva le parole giuste. Ma lei quelle parole le aveva giá sentite e allora sapeva fame a meno. Faceva a meno dei grilli, della luna, delle rose e solo facendo a meno di tutto, anche di lui, riusciva a dormire e sognare. 83 9-18, con pausa pranzo Papá mori anni dopo, cadde da una scala mentre puliva un alambicco di rame. La Peroni osservo un minuto di silenzio, poi suonarono la siréna. II giorno dei funerali convocarono una riu-nione sindacale, cosi i suoi amici piu stretti poterono scappare per venirci ad abbracciare. Zia Vanda lo disse a Sara convinta che fosse troppo piccola per capire fino in fondo la morte. Invece Sara capi, e grido forte. Quel grido ci bastó a sollevare il suo corpo per chiuderlo nel-la bara, a reggere la predica strascicata del prete, accompagnare la bara a Poggioreale, tumularla a terra, nel posto in cui otto anni dopo saremmo andate cocciutamente anche noi a passare lo spirito sulle sue ossa bianche, tornare a casa e ricominciare a vivere. Archiviare in un loculo qualunque della nostra memoria il padre. Quel grido bastó perché non c'era altro da dire. Era il patto spez-zato, la promessa mancata, la strada lasciata a metá. 11 genitore con i figli bambini che si concedeva la leggerezza della morte. "Se mi lasciate qua prendo le sigarette al distributore". "Vabbene, buonanotte". '"Notte". Cosi, il contrabbando un giorno ě finite. Chi era giá nato alio sbarco degli alleati se lo ricordava da sempře, pero un giorno, da un giorno all'altro, ě finito. Senza lasciare accattoni, o morti di fame, o gente senza arte. Senza sparatorie, saracinesche chiuse all'improvviso, con piccole fortunate riconversioni come quelle di Enzo. Poi erano arrivati i distributoři automatici, ma c'era state un lungo interregno durante il quale avevamo perso tutti i pun-ti di riferimento. Mi svegliano gli operai con una citofonata. Ho il mal di reni e la cervicale. Esco sul pianerottolo in mutande. chiamo l'ascenso-re, quando arriva al piano apro la porta e la lascio socchiusa. Mi lavo la faccia nella caldarella, poi uso la stessa acqua per scarica-re. Dal gabinetto sale la puzza della cittä. Sblocco la porta dell'ascensore mentre mi dico che il mio sto-maco reggerä rantinfiammatorio dopo il caffe, e l'alito di vodka che si portano dietro gli operai me lo conferma. Arrotolo il saeco a pelo per non trovarlo infarinato come un presepe a Natale, e responsabilizzo il capomastro: "Lo chiudo in questa stanza, glielo spieghi tu agli operai?" "Tanto", mi fa, "oggi dobbiamo rifare le controsoffittature in quella stanza". "No, Gianni, e se mi inumidite pure quella stanza io dove mi corico piü?" "Ti porto una canadese?" Gli sorrido, poi perö schiumo rabbia dal portone fino all'im-boeco della metropolitana. "Abbonamento", dico. E mi immergo nel Caikovskij filodiffuso dell'Azienda Napo-letana Mobilitä. Una signora si e rifugiata neH'ultimo angolo prima del binario, proprio sotto le casse: scendo piano la rampa, per non rovinarle Giulietta e Romeo. E la fine dell'Atto Secondo quando scopro che quello e l'unico angolo dove si puö fumare senza essere inquadrati dalle telecamere. Senza che una voce interrompa l'adagio per dirci che e vietato. Mi accuccio sullo sca-lino vicino alla signora e me ne accendo una mia. Dopo venti minuti che lampeggia la scritta nella finestra della destinazione Pozzuoli - Solfatarci la signora decide che il suo amore per il romanticismo russo non ha rette alla prova, e se ne va a prende- 84 85 re un tassi. A me non importa, io comunque vengo espulsa da casa a prima mattina, e poi non finisce qui: dopo la metro mi tocca il C21. Sul display del C21 mandano la pubblicitä per quelli che vogliono fare la pubblicitä su quel display, e l'oroscopo dellagior-nata. II mio fa schifo, scendo che stanno dando il Toro. II Toro non é male: mi metto sotto il suo segno e vado al negozio. La mattina prima delľapertura stiamo cosi: che non ci avvici-niamo subito ľuno all'altro. Mentre tutti gli altri negozi sono ancora chiusi e i bancari si portano il caffé nei monouso sotto la carta argentata, ci intratteniamo tra cellulare e sigaretta. Restia-mo aggrappati ai nostri pensieri privati,quelli che lasceremo chiusi nelľarmadietto, incastrati tra ľorologio e il badge, e non tor-neranno che tra molte ore. Sappiamo che ci aspetta un lavoro che non basterä da solo a costituire un altro vero pensiero. E allora restiamo cosi prima delľapertura, a coccolarci ancora un poco. Come una donna che tra-scorre la propria vita in compagnia di un marito che non ama, e se ha un minuto ancora da rubare, se lo prende sulla soglia del-ľ am ante che non vedra per tutto il giorno. Dopodiché lasciamo andare la giornata via: stiamo in negozio senza che dal lavoro ci arrivi nulla, senza riuscire a dare nulla se non il tempo, avvertendo in ogni momento, come rumore di ton-do, di far tradimento a noi stessi. Fumiamo nei bagni. Io e Maria ci stecchiamo una sigaretta, io seduta sul cesso, lei contro la porta, come a scuola. Poi ci lavia-mo le mani e i denti. In prossimitä delia pausa pranzo la stanchezza diventa eufória. Comincia a infiltrarsi leggeratra i settori, scende veloce le scale. Negli spogliatoi diventa rossetto, capelli sciolti, tanga color fragola comprato ai saldi, respirazione yoga, verdura lessa in vaschetta d'alluminio per la dieta di Rosaria, foto di figli lasciati alia nonna sull'anta dell'armadietto, deodorante sotto le ascelle, pianto premestruale. Passo davanti alPamministrazione mentre il ragioniere dice a Sergio che ha sbagliato una badgiatura. Sento Sergio rispondere: "Vabbě, allora licenziatemi: che io non ho il coraggio". II ragioniere ride, ma io so che non ě una battuta: invito Sergio a mangiare con me. "Perö solo se ci pigliamo i panini e ci facciamo mezz'ora di sole..." E una delle ultime mezz'ore di sole, non me la sento di negar-gliela: settembre ci sta precipitando addosso senza che ci siano stati mesi di cui avere nostalgia. Sugli scogli restiamo noi commessi,gli assicuratori con lacra-vatta slacciata che si tolgono scarpe e calzini, i praticanti avvo-cati con gli occhiali da sole a tutto tondo e i palmari ultima gene-razione. Sotto di noi gli ombrelloni sono chiusi, ma ragazze che sembrano lottatori di sumo si ostinano a cantare i neomelodici come se fosse luglio, come se si trattasse di Mina su una spiaggia della Versilia. "Quando non ho le ferie ad agosto, settembre ě un mese come gli altri". "Settembre non ě mai un mese come gli altri". "Percha, che succede a settembre?" "Io, a settembre, vorrei vivere a Parigi". "Quando sei stata a settembre a Parigi?" "Mai". "E quando sei stata a Parigi?" "Mai". "Ma pari i francese?" "No". "E allora?" "E allora niente, cosi..." 86 S7 E allora niente, ma se fossi a Parigi, a settembre, non suderei. Camminerei veloce in un'aria grigia con un cappottino di lana pet-tinata. e neppure farei caso alle foglie gialle dei tigli che calpesto: tanto sarei sicura di rivederle il giorno dopo. Faccio un segno al Cingalese: che mi voglio fare un tatuaggio da tre euro. Io e Sergio sfogliamo da un raccoglitore decine di disegni possibili: tribali, e felini in tutte le pose e rose di tutte le dimensioni. "Posso anche scrivere un nome..." "Anche una frase?" "Tipo 'ti amo'?" "Tipo 'questi tartari non arrivano mat'". ''Ma e lunga..." "Si, infatti 'ma che cazzo' non ce lo scriviamo", e gli allungo cinque euro. Sergio stira la carta del panino e glielo annota sopra: il Cingalese ricopia con una stilografica all nenne. Mentre mi scrive sulla spalla, attacco a Sergio una pippa sen-za fine sui lavori, gli operai e il capomastro spiritoso: "Non avrei mai dovuto cambiare casa, anche se con Lucio era finita". "Ma tu non hai cambiato casa per quello..." "Io non mi faccio una storia decente da una vita". "E comincia con una storia indecente". "Sono tutte indecenti. Nooo, io mi sono stancata, mi sono fat-ta vecchia, Sergiu, sono stanca, io sogno il matrimonio combinato". "Perche puoi scegliere..." "No, io sogno il matrimonio combinato in una societa di matri-moni combinati, cioe, non mi deve nemmeno sfiorare il dubbio che non e giusto. Capito?" 88 "Non ci dovresti scherzare: pensa quante donne si sono rovinaté la vita per questo". "Si, ma almeno quando ci pensano sanno che la colpa non ě loro". "Comunque, se glielo chiedi a tua mamma, di trovarti un mari-to, quella mica ti dice di no..." No. Ma non basterebbe. Bisognerebbe tornare terreno vergi-ne. Mai avrei voluto guardarlo mentre si addormentava nel nostro letto senza sapere perché. Accettare che passino i giorni senza aver voglia di fare 1'amore. Scoprire che il nostro amore ě diventato quella morsa leggera che stringe senza far male, che lascia com-piere tutti i movimenti, solo con piú lentezza e piú affanno. Mai avrei voluto questo per me. Io voglio scenate, e porte sbat-tute. E fughe senza ritorno. Voglio atti unici con hnali a effetto, veritá urlate in faccia. Sesso per 1'ultima volta a farsi male. Voglio disperarmi perché 1'amore non era finito. Ce n'era ancora da grat-tare sul fondo. Voglio mille volte essere lasciata, abbandonata, il mio posto di un'altra. Invece una mattina l'ho visto nel letto addormentato e ho sapu-to che non lo amavo piú. E mi ě parso impossibile, perché quel-P amore era la mia forma da anni, Punica mia scelta, unico modo di ritrovarmi a sera. Capire che un amore ě finito di sua consunzione ě ammettere che non si ě piú in un modo. Si resta attoniti come il bambino abbandonato dai genitori, si dorme molto come negli orfanotrofi. E una prova delPesistenza da cui nascono molte formě di vita: sono le valigie per non tornare piú, assestamenti consapevoli nel-la noia, amanti, amicizie nelle quali riversare le energie addor-mentate.cambi di lavoro, incentivi di carriera, molti figli. Ma nes-suno che Pabbia capito puó dimenticare che la vita Pha toccato con uno dei suoi segni piú infelici. Quel segno resta nella fronte 89 che si contrae spesso, nella nostalgia a guardare i ragazzi che si baciano nei parchi, nell'ostacolare 1'amore ai propri íigli. "Comincia a prudermi". "Cosa?" "II tatuaggio". "Gráttati. Ci prendiamo il caffě a volo a volo?" "No, rientriamo, ce lo pigliamo alle cinque: senno ci togliamo pure questa speranzella..." Ma prima delle cinque entra al negozio la mia professoressa della tesi, e finalmente so che posso dirglielo. La vedo avanzare tragli scaffali, sřiorare qualche articolo da banco, scomparire die-tro la colonna, riaffiorare, venire decisa verso di me. Finalmente posso dirle che lo so. Che appena un annetto dopo la laurea, un giorno, sťogliando un libro al Provveditorato, avevo trovato una nota a piě di pagina; e la nota rimandava a un altro těsto; e il těsto era suo, di Marta Vassalli, la donna con cui mi ero laureáta; e con un ordine veloce due giorni dopo quel těsto era arrivato, e allora io avevo potuto leggere tutta la seconda parte della mia tesi, quel-la deH'esperimento e delle conclusioni, quella su cui mi ero gua-dagnata la lode, quella scavata di notte nella tastiera della Lette-ra 22, quella che mia madre spazzava via la mattina dopo, accar-tocciata sul pavimento assieme ai filtri delle sigarette, quella la: la mia tesi. Finalmente come un libro vero, corredata di apparato critico, stampata in corpo 12, rilegatura al centro, 28 euro a firma di Marta Vassalli. Adesso ce l'ho davanti e posso dirglielo, facile facile: sei una ladra, ma non lo faccio, le sorrido un sorriso full-time e aspetto che parli prima lei. "Ciaaaao, ma sei tuuu?" "Abbastanza. si". 90 í "E adesso lavori quaa?" Io le sorrido di piú, con tutti i muscoli della grande distribu-zione, e le sventolo davanti il guinzaglio che mi porto al collo, quello che regge il cartellino, che regge il nome, il mio nome di battesimo soltanto, il cognome appena accennato, bloccato sulla prima lettera da un punto: i cognomi firmano i libri, non servono ai commessi. Le sorrido e stringo il cartellino: casomai mi per-dessi, nel negozio, saprei almeno come mi chiamo. "Ma ě un belliiissimo posto dove lavorare". "Mo' non esageriamo..." "Ascolta: mica tutti quelli che si laureano possono fare ricer-ca... o insegnare..." Infatti, non tutti quelli che si laureano possono insegnare. E poi molti di quelli che insegnano non dovrebbero farlo. Io avrei voluto insegnare alle scuole médie, quelle soltanto, perché dodi-ci anni sono terribili e non si possono superare da soli. A quel corpo che si deforma, contro il sudore puberale, ci deve essere pure qualcuno che spieghi perché non cominciare a fumare, che tuo padre non ě morto perché era innamorato di un'altra donna, che tua madre non ě contenta che sia morto, che non l'ha ucciso quan-do se ne ě rimasta zitta. "Si, ě ovvio, 1'importante ě lavorare... cerca qualcosa in parti-colare?" E mentre glielo cerco io quel qualcosa in particolare che lei non sa trovare da sola, so che quello che ha detto l'ho giá sentito taňte volte che quasi ci credo. Qualcosa del genere passo in těsta a mia madre il giorno in cui fui assunta, in cui tornai a casa e mi buttai sul letto. Mia madre chiamo commossa zia Vanda; anche con le orecchie nel cuscino sentivo il suo sollievo: "A tempo indeterminato, i contributi". Usci di pomeriggio che pioveva e le scarpe ancora non le si era-no asciugate dalla spesa, andö dal gioielliere e comprö un ex voto. Non sapevo che mia madre avesse mai chiesto una grazia per me, di taňte che avrebbe potuto, non quella. Non ho mai saputo in quale chiesa 1'avesse lasciato e cosa rappresentasse: non glie-lo ho chiesto perché ero offesa. Ma adesso ancora ritirandomi a casa entro nelle chiese, mi affaccio alle cappelle, frugo con gli occhi tra le teche e sulle statue. Santi di legno dipinto mi mostrano braccia come appendini, tutta la speranza e la preghiera che hanno saputo accogliere, e io mi chiedo dove sia quella di mia madre, che forma avesse quella che lei pensava per me. Una penna, una mano, una testa, un libro con tre lettere pun-tate nell'argento. p.G.R.: la mia condanna e la mia rassegnazione per Grazia Ricevuta. Accendo una candela e getto un euro per me in una cassetta a caso. A mezz'ora dalla fine del turno mi telefona Gianni, il capo-mastro, me la fa breve: "Ě crollato il solaio del bagno". "Cioě, non ě che ě crollato: 1'avete fatto crollare". "Comunque mo' non c'ě il pavimento: ne vogliamo approfit-tare per spostare la colonna fecale?" "Ma che cazzo dici? Ma che cazzo ne so? E grave?..." "Chi?" "II bagno. ě grave che ě crollato? Mo' chi paga? Restate lä, prendo un tassi e arrivo". Sera Dal tassi mando un messaggio a Sara, le spiego il fatto, le dico di mandarmi subito Alfredo. Alfredo giä sta lä, mi scrive, poi for-se capisce e aggiunge che arriva subito anche lei. "Niente di grave". "E sc cadeva qualcuno?" "Non ě caduto nessuno". "Si, ma tu li tieni in regola questi operai? E se cadeva qualcuno? E se c'era qualcuno sotto?" "Alfredo sta in regola". "Perché rispondi solo alia meta delle domande che ti faccio?" "Perché mi fai troppe domande tutte assieme". "Alfredo, cristo benedetto, parlaci tu con questo..." Sara arriva a calmarmi. bacia il marito, guarda giů attraverso il solaio del bagno, nella vasca di quella di sotto, fa un fischio. "Hai visto? Cha 1'idromassaggio..." "E io non c'ho manco il cesso". "E vabbě, te lo rifanno in giornata il cesso, mo' pero vai a par-lare con Gianni, approfittiamo che possiamo mettere i sanitari dove vogliamo". "Io Ii metterei su un pavimento. Che ne dici?" "Dai... hanno detto che non se ne vanno da qua se non ti fini-scono il lavoro..." Mi trascino tra le bottiglie di solvente e quelle di vodka, un operaio mi fa segno che vuole una sigaretta, io gli lascio il pac-chetto e poi gli chiedo di offrirmene una. Mentre contemplo dall'alto gli accappatoi color lavanda della signora di sotto, scegliamo un posto per il gabinetto, uno per il bidet, uno per il lavandino. Gianni tira il metro dal mio dito all'an-golo: "Ma se ti metto il lavandino qua, non ti posso montare la luce sullo specchio". "Meglio, significa che ci metto meno coraggio a guardarmi, la mattina". "Dici le rughe?" 92 43 "Ma io non ho le rughe, non ho le rughe. Ho le rughe?" "No, non ce le hai. Ed ě anche molto bello guardarti, la mat-tina". "...dov'e Alfredo? Alfredoo? Ma mo' chi paga, quaa?" Delego Alfredo a far rinvenire la signora deH'idromassaggio, quando tornerä, e fuggo con Sara. Imbocchiamo l'asse mediáno per andare all'Ipercoop a fare la spesa settimanale di mamma. "Tu a Gianni piaci molto, gli piacciono i tuoi capelli". "Che ne capisce di capelli?" "Gli piacciono i ricci". "Invece a me piacciono i capelli lisci". "Quando Mina li portava ricci, ti piacevano, i tuoi capelli..." "Quando Mina li portava ricci io ero Mina, i miei capelli era-no i suoi capelli". Mi giro a guardare fuori, i capannoni delle conserviere, le nor-dafricane ai falö, le sopraelevate incompiute, i palazzi affacciati suli'autostrada, poi noi dalla strada affacciate sui palazzi, le piaz-zole con le macchine in fila e i vetri appannati anche se ě solo set-tembre, io che nemmeno mi ricordo piü quando ho fatto l'amore l'ultima volta. "Quando facevo anche io l'amore...", attacco, "ogni tanto mi passavano davanti delle immagini, senza una logica, come quelle che si vedono dal finestrino". "Ah, ma allora piace anche a te..." "Ma cosa?" "Gianni". "Smettila". "Comunque pure a me". "Cosa?" "Le istantanee, vedo le scene". "Ma sei sposata da dieci anni..." "Eh, e da venti anni vedo i posti di mare..." Quando aveva quattordici anni Sara torno dal collegio per Natale, io andai con zia Vanda a prenderla alia stazione. Zia Van-da resto in macchina, occupo un posto in terza fila e mando me ad aiutarla con le valigie: io arrivai alia testa del binario e trovai Sara che baciava Alfredo. Con la faccia cosi piena di brufoli che man-co se ne vede il colore, pensai, non le fara schifo baciarlo? Non le faceva schifo: lo voleva. Voleva solo lui, mi chiudeva in camera per ore e mi costringeva a senthia parlare. Nostra madre intercetto dei segnali e comincio a fare domande sospette. Anche noi inter-cettammo i suoi segnali e sviavamo in automatico le risposte. Ma Sara schiattava sotto la pressione dell'amore non detto, fuori c'era mamma, che faceva paura perche nessuno mai si era ritirato a casa innamorato cosi, ma dentro e dovunque c'era Alfredo che cresceva, si nutriva dei minuti in cui non si vedevano, non sopportava piu di restare nascosto, finche Sara esplose e racconto tutto. Mamma scopri che Alfredo aveva solo sedici anni, ma gia lavorava da quattro: faceva il muratore. Con rito abbreviato mamma e zia Vanda decisero che Sara non sarebbe uscita di casa per i giorni che le restavano di vacanza, che avrebbero preso il treno assieme, lei, la zia, e avrebbero riaccom-pagnato l'anima perduta al collegio, Termini - tassi - via Nomen-tana, per le ore diciotto del sei gennaio. Sara disse solo: "'0 voglio e m'o piglio", e mentre lo disse la mano destra si chiuse ad artiglio e se ne volo alta con la sua preda. Sara smise di studiare, poi smise di mangiare, ma non mori. Due anni dopo, con la sua prima macchina, Alfredo fece i due-centoquattordici chilometri della Napoli-Roma e la porto a fare l'amore. Mentre stavano abbracciati sul sedile reclinato, Sara vide il mare. 94 95 Vide il mare di Gaeta come si vede dal finestrino quando il tre-no ti sputa fuori dalla galleria e tu sai che stai tornando a casa. Luca e nato da qui e adesso si muove nella vita con la sicu-rezza con cui stanno a galla quelli che hanno imparato a nuotare da piccoli, prima che potesse arrivare la paura. Quelli che se ne stanno per ore al largo a fare nientc, a rigirarsi su se stessi o a guar-darsi i piedi, e quando gli arrivi vicino senza fiato ti accorgi che nemmeno sono stanchi, e anzi ci puoi poggiare una mano su, per riposare un poco prima di ritornare indietro con il percorso piü rapido possibile, piü perpendicolare possibile alla spiaggia. "Io invece vedo le cittä. scene di cittä dove sono stata, tipo alPestero..." "Non e brutto". "No, non e brutto, solo che non capisco che connessioni hanno..." "No, dico Gianni: non e brutto". "Non lo so se e brutto, perö mi ha buttato giü una casa". "Quella casa stava inguaiata". "Lo so... lo so, non me ne sarei mai dovuta andare, anche se con Lucio era finita". "Ma tu non te ne sei andata per quelle.." Non me ne ero andata. Ero stata cacciata via. Ero uscita dalla metro a mezzogiorno e dieci, avevo riacceso il cellulare, attraversato la strada tra una Smart e una Punto, avevo imboccato la Pignasecca sotto le impalcature del restauro. "Pronto". Sapevo che era Lucio perche avevo guardato il suo numero sul telefono un momento prima di rispondere, il momento dopo una mano aveva tentato di tirarmelo via dall'alto, di farmi mollare la presa e scappare. Ma la mia presa aveva tenuto, la mano era forte, abituata al magazzino e a dodici ore di inventario il sette gennaio di ogni anno. Avevo stretto, tirato verso il basso braccio e cellulare, avevo rafforzato la mano con l'altra e poi avevo continuato: avevo caricato indietro il gomito con tutta la forza della sorpresa e gli avevo preso lo stomaco, giusto allo sterno, giusto dove le ossa della cassa toracica smettono di difendere l'essenziale. 11 ragazzo si era piegato in due come una tovaglia da riporre ed era caduto a terra. Allora pavevo fatto. 1; avevo preso a calci in faccia, sulla testa, avevo urlato: "tu non lo puoi fare, tu non lo puoi fare", poi urlato solo, urlato. Ma non un grido qualunque: quel rantolo di voce che sento quando piango, quel fiato vibrato che mi resta quando so che alle parole conviene smontarsi per continuare a esi-stere. Ci avevano raccolto dal marciapiede, a me senza forze e a lui che sanguinava, che aveva quattordici anni ed era svenuto. lo ero stata portata in un altro ospedale, in stato di shock; quando l'avevo potuto lasciare con un'imputazione di eccesso di dife-sa, Lucio come avvocato difensore e dieci testimoni oculari che stragiuravano che avevo fatto bene, ero andata a trovare il ragazzo in corsia. All'entrata del reparto il padre si era represso a stento: era giä diventata una cittä in cui una donna puö ammazzare di botte un ragazzino, ma era ancora una cittä in cui gli uomini non picchia-no le donne. Sua moglie mi aveva sputato sui piedi. "Va' vattenne". Me ne ero andata. Ero stata assolta perche ero incensurata, avevo un posto fisso, un conto corrente in banca, una laurea in un plexi-glas a casa di mia madre. E poi perche i giornali parlavano da mesi di un giro di vite, e il governo aveva mandato l'esercito a presi- 96 97 diare Forcella e i Quartieri Spagnoli per far fare lo Shopping senza pericoli agli americani che sbarcavano dalla Costa Crociere. Ma il quartiere sentiva la veritä. Sapeva che c'era un motivo se io avevo superato "il terzo mondo" portandomi dietro solo la droga del tabacco, mentre quel ragazzo entrava e usciva dal rifor-matorio. Se a quattordici anni, a mezzogiorno e dieci, quello non aspettava smanioso in un banco che suonasse la campanella, ma che io allentassi la presa sull'ultimo regalo di Lucio. Che io c'e-ro arrivata in qualche modo ai miei trenťanni e passa, e quello era rimasto steso sul marciapiede senza sapere se ci sarebbe arri-vato mai. Quale era questo motivo, e dove fosse, non me lo avrebbe sapu-to dire nessuno, ma questo motivo mi faceva piú forte di lui, e mi rendeva colpevole di averne abusato. II quartiere pensava quello che io pensavo. E piano piano mi isolö in un vuoto di silenzi e cose non dette, le persone dimenti-carono di invitarmi, di farmi partecipare e anche di ricambiare i saluti, finché mi sputö via, come fanno i cani zoppi quando si amputano a morsi la zampa che non riconoscono piú. Avevo cambiato casa e pagato le spese legali a Lucio, perché sapevo che non 1'avrei rivisto. L'odore del luppolo arriva sul balcone solo in estate, o nelle sere come questa. Quando di giorno faceva troppo caldo per stu-diare, quesťodore mi diceva che tra me e quegli operai che strin-gevano e allentavano valvole stava passando una generazione. Adesso so che abbiamo camminato all'indietro. "Luca!", dico dall'altra parte del vetro, "Luca", ma lui sa che voglio fargli notáre che la mia borsa non ě double-face, e non mi ě piaciuto trovarla al rovescio come una federa. Busso alla portafinestra e lo chiamo. "Dovevo giocare a regbi". "A rugby?" Mi ha fregato. Avrei dovuto attaccare con non-si-toccano-le-cose-degli-altri. Ma ormai mi ha scartato: fa tutta una descrizio-ne sulle tecniche di gioco, confonde il rugby con il baseball, e la mia borsa con il suo guantone. Pelle buona. Poi si distrae e se ne va, impunito. "'Sto creatur' ě vinciuto", dico a mamma. "Lascialo staré", fa lei. "Sta buono buono". Infatti adesso sta buono buono, che parla da solo, tutto immer-so in un gioco che nessuno puo seguire. Uguale a come faccio io quando sono sola in questa casa vuota e in quelPaltra, nelPa-scensore, nel bagno: parlo, quando nessuno puó ascoltarmi, di-scorsi che conosco solo io. Divento quella che poteva dare una risposta migliore, quella che sa porre le domande, quella che muo-re e ha qualcuno da far staré male, qualcuno che se ne ě andato senza chiedere il permesso e che adesso torna sui suoi passi. Sono Mina che accompagna con lo sguardo il baciamano di Alberto Lupo. Quella che schiva gli applausi al termine di una lezione magistrále, che fa avanti e dietro sulle stesse mattonelle del bagno per provare mťentrata migliore, un sorriso migliore, uno sguardo piú sensuale. E lo faccio per rimediare. Alfredo torna da casa mia. E stanco, ha la maglietta sporca di calce. Si honda a fare la doccia, passando mi nega una ruga sulla fronte, significa che non devo preoccuparmi. Sara non ha nem-meno bisogno di guardarlo per ringraziarlo ed essere contenta di lui. "Tieni scritto sulla spalla". "E un tatuaggio". "Gesú, gesú, quella si ě fatta il tatuaggio". "Ě finto, mamma, si toglie in quindici giorni". 98 99 "Poi, dico io, il tatuaggio si, e gli orecchini di zia Vanda no?" "Mammaaa? É ŕintooo, si toglie coil l'acquaaa..." "Ma perché, gli orecchini te Ii devi tenere sempre?... quello se non ti piacciono e non te Ii metti piü il buco si chiude..." "Mamma,e lasciatela staré: tiene altri buchi da chiudere mo*". "Madonna, veramente, Alfre", che guaio..." "Ma quäle guaio: per domani é tutto a posto, vuoi un passag-gio?" "No, no, m i prendo un autobus". "Ma io non capisco: é necessario che se ne va, mo"?" "No, sai com'e... avrei nove ore di lavoro domani..." "Eh, e non ti puoi addormentare qua? Che non tieni manco il cesso..." "Mamma, non ho il cesso. Ma me ne devo andare mo'. Aque-sto momento qua". "Mangiati almeno qualcosa". "Non tengo fame". Attraverso il "terzo mondo" con un'urgenza enorme di uscire dalla periféria. La periféria é studiata per far chiudere la gente in casa, e io invece adesso ho bisogno di centro, e di gente che in casa si sente soťfocare e va a sedersi per strada. Aggrappata alle maniglie dell'r5 mi é chiaro: io non sarö mai Mina in "Parole Parole Parole". Forse potrö essere Mina con i figli, Mina ingrassata, Mina che impara il cinese per cantare una canzone senza sbagliare la pronuncia. Ma non sarö mai Mina che seansa le lusinghe di Alberto Lupo, che lo schiaccia di tre ottave e poi gli cede nella passione. Non avrö mai la certezza in bianco e nero delle rine-trasmis-sioni a fme giornata, non lascerö il palcoscenico per chiudere la soirée in un ristorante dopo teatro. Continuerö a essere la bambi-na che andava a dormire in abito lungo e capelli cotonati, che non voleva lavarsi la faccia per non rovinarsi le ciglia bistrate con tan-ta attenzione dalla truccatrice, la stessa che si addormentava con i tacchi. L'ultimo pensiero prima del sonno: un fascio di rose rosse mandato da Alberto nel camerino piü bello del Teatro Dieci. "Ti vuoi sedere?" Cristo, sono invecchiata. Sono Mina invecchiata, irriconosci-bile, che passa stanca in autobus sul corso Garibaldi con dieci tos-sici che rincasano. "Si, grazie". Abbasso gli occhi, e trovo Gianni. "Hai cenato?" "No". "Una pizza?" Stringo la pizza fritta cosi forte che Polio mi cola lungo le mani. Gianni mi pulisce il polso destro prima che la goccia arrivi alla manica. "Tanto la devo lavare". faccio io. Poi, respingo il fastidio, ingoio tutta la distanza insieme al boecone, e mi volto a guardarlo. Gli trattengo la mano che mi ha pulito, io altro adesso non so fare, ma questa mano ha costruito la mia casa e la conosco. Me la porto alle labbra, la bacio leg-germente, un bacio che mi consoli ma che non significhi niente. Niente messaggi, niente ammiccamenti. niente malizia, niente scopare. La bacio piano che significhi solo grazie, o aiuto, che per me e da sempre la stessa parola. Adesso non posso guardarlo piü, ma ho questa mano sulla bocca, la trascino sulla guancia destra, e gonfia e ruvida: e la prima carezza che mi ricordo, la tempia. la fronte. Sento la mia faccia solo sul dorso della sua mano. Quando me la passo sugli occhi ho detto tutto: messaggio, ammiccamento, malizia, scopare, ma anche grazie e aiuto. La bacio ancora e poi la lascio andare. Lui mi guarda. Non dice, non fa. Mi auarda. 100 101 _ "Si, invece: perché no'! Si": Gianni mi parla piano nell'orec- chio, mi stringc forte un polso e mi accompagna nella discesa. La casa ě ghiacciata. Piu umida della strada. Io vorrei accen- Subito dopo ci tiriamo il sacco a pelo addosso e ci addormen- dere la sigaretta. ma ho le tasche piene di cose, del badge, e della tiamo, senza avere nemmeno un posto per fare pipi. tessera del cineforum, e dello sconto sul colore dal parrucchiere. Gianni al buio va a inserire la spina nel cavo con cui stiamo ruban-do la luce dal lampione in strada, lo inciampo negli attrezzi sulla porta d'ingresso, negli stand di vestiti in scatola, nelle mattonelle firmate di zia Vanda, e sono costretta ad appoggiarmi ancora alia mano di quest'uomo. Mi stringe forte nel punto in cui i fianchi cominciano l'incavo della vita, baciandomi mi spinge indietro, ma io non devo fare nulla, perché il baricentro di questo abbraccio lo decide lui. Conosce la pendcnza del pavimento, l'elasticitä del solaio, la ruggine degli infissi. Non parlo, invece tremo. Piů tardi cominciano le istantanee. La prima cosa che vedo ě una cupola. Sembra Lisbona, ma poi piano piano mi convinco che ě Santa Egiziaca a Pizzofalcone. L'angolo di via Case Puntellate. poco dopo il terremoto. L'ufficio postale dietro il mercatino di Antignano. Mergellina, una sera nel fondo umido di una barca, io con una gonna lunga. I Ponti Rossi, scendendo da Miano. Piazza Borsa quando ancora c'era la fontána. Le prostitute a Carbonara. Un portone visto dall'alto: forse Stella dal corso Amedeo. Varco Pisacane, altezza fermata del tram. L'ingresso del Trianon, dal balcone della pizzeria di fronte. La cima delle scale della Posta Centrale, quando i bambini si lanciano in discesa nelle cassette della frutta e io penso che ci vuo-le troppo coraggio e troppa incoscienza per lasciarsi scivolare e arrivare fino alia fine e chiudo sempře gli occhi e dentro di me dico: "No". 102 103