Nell'agosto del 2007 un gruppo di buontemponi, ucciso dallo spleen e un pizzico di balordaggine, rubo un'altra sta-tua del frate santo, quella bronzea in piazza Umberto a Martina Franca. II reato di iconoclastia non viene menzionato nel nostro codice penale. Eppure si scateno un putiferio sulla stampa locale. Nacque un'associazione cittadina per «il ri-scatto» della statua, un quotidiano locale mise una taglia, il commissario di polizia veniva continuamente intervistato, come se nel paese fosse awenuto un delitto gravissimo. In quei giorni, in cui le polemiche sulla sicurezza erano cresciute a dismisura, era addirittura iniziato un delirante pellegrinaggio sul luogo del furto, una piccola piazza ricava-ta in uno slargo dove un tempo cresceva un maleodorante mercato coperto. E proprio in quel momento che ricompar-ve la statua, scheggiata ma integra. Accanto alia statua venne rinvenuto un biglietto con su scritto in dialetto: «Me scfatt do pass», mi sono andato a fare due passi, firmato Pio. I tre au-tori della bravata vennero immediatamente riconosciuti, rin-tracciati e arrestati, con rapidita e severita scandinava. In quei tre ladruncoli tutti hanno riconosciuto gli autori di una bravata, un delitto gravissimo contro la fede pubblica. Nessuno, nemmeno per un attimo, ha pensato che dietro ci fosse un atto di appartenenza; quella statua e anche nostra, il culto a volte non e solo preghiera, si puo essere fedeli in mo-do diverso, la dimensione del rito ha aspetti insondabili. (Mentre ancora questo libro era in stampa, la statua rubata e poi ritrovata e stata fatta saltare in aria con una carica di di-namite. Ingarbugliando ulteriormente quanto detto finora.) Nell'aria c'e ancora profumo dei comignoli nonostante la primavera alle porte, Lucio si congeda e mi abbraccia: «Quando passi davanti a Padre Pio controlla se c'e ancora il cappello, che stasera fa freddo sul serio». Gliusati Parma, stazione di Parma. L'aria di questa aurora ě piena di vento e acquerugiola, le banchine dei binari sono stracolme, una processione di pen-dolari percorre la costa del binario tre dove sta per arrivare il regionale diretto a Bologna. Dal mio třeno scendono studenti meridionali a frotte, si riconoscono, hanno i trolley pesan-ti e le borse frigo colorate a vista. Valerio mi attende nello spiazzo della stazione dentro una Clio profumata di Arbre Magic, ma ricolma di ogni cianfrusaglia, oggettistica esem-plare del buono e del cattivo gusto: bruchi di stoffa, pupazzi a ventosa, mani di gomma. Ě stato molto caro a venirmi a prendere alle 6.30 in una mattina cosi cattiva. Passiamo un'o-ra assieme, bevendo un cappuccino dietro l'altro nel ventre caldo d'un bar che sa di carta di caramella. Poi mi lascia davanti al teatro. Ci accomiatiamo con grande calore. Trecento accrediti stampa da tutto il mondo, centinaia di curiosi in fila con un bigliettino in mano, ě il giorno in cui inizia il processo del crack finanziario piü importante del nostro paese. Lo scandalo Parmalat. II tribunále della cittä emiliana ha dovuto affittare la sala d'un teatro per poter 59 svolgere la prima udienza davanti a centinaia di giornalisti, parti civili, imputati, procuratori, risparmiatori, semplici cu-riosi e awocati. La maggior parte dei giornalisti stranieri non sapeva a co-sa andava incontro. Dopo la prima udienza ě tomata in po-chi minuti in albergo con le pive nel sacco e la faccia delusa. La seduta ě durata pochissimo, il tempo necessario per pren-dere atto che serviva un rinvio per unificare i diversi proce-dimenti in un'altra udienza. Bisognerá aspettare due mesi. Ordine del giorno per chi lavora in un tribunále nostrano; evocazione dell'attitudine italiana a procrastinare tutto, per la massa di giornalisti stranieri accorsi da tutto il mondo. An-che io sono accreditato al processo, ma in mezzo a decine di altri giornalisti sono l'unico senza un registrátore e senza un'agenda su cui scrivere. Sono l'unico che non sa nulla del-le ragioni e dei torti di questo processo, l'unico che non ě in-tenzionato a conoscere l'evolversi delle vicende giudiziarie. Sono qui per una donna. C'e un maxischermo dove scorrono le immagini sgranate della corte. Sono rapito dalla tensione dei piccoli risparmiatori, i volti tradiscono dawero un'emozione, rughe di un pre-sagio come se effettivamente dovesse decidersi in quelle ore il destino dei loro investimenti finanziari; nelle prime file del-la platea spicca la massa scura degli awocati con le toghe, at-torno un sistema solare altrettanto scuro e disordinato di as-sistenti, praticanti e solerti passacarte in grisaglia. Diceva un professore di diritto civile di cui seguivo le le-zioni solo per abbandonarmi al suo eloquio, crogiolarmi nel-la sua retorica di alti e bassi, tecnicismi e dialettismi, ultimo esponente della scuola giuridica barese che faceva capo ad Aido Moro, che un bravo awocato si riconosce da come si veste. L'abito fa dawero il monaco. Non sará mai troppo ele- gante, c'ě gente che scambia i processi per un matrimonio, col doppio petto e la cravatta stretta in gola. A volte nell'ele-ganza si manifesta 1'insicurezza. II grande awocato ha uno stile compunto e mai appariscente, suddiviso tra essenzialitá e gusto. Mai un doppio petto, mai una cravatta troppo visto-sa, colori tendenzialmente scuri, camicia con polsini che non facciano trapelare maniche troppo grandi. II vademecum che il professore ci snocciolava in aula era una delle taňte perle che seminava e forse pochi, pochissimi raccoglievano, a vedere i risultati nelle mattine affollate nei tribunali pugliesi, luoghi da me frequentati con grande assiduitá nei due anni di pratica legale. La donna per cui sono qui si chiama Marianna Chiarelli, una dei cento awocati impegnati nella tutela dei risparmiatori truffati, ed ě infinitamente la piú agguerrita di tutti. Marianna ě un'altra těsta di quella foto di classe, ě la piú alta, la piú pallida, la piú triste. II giorno del flash eravamo appena tornati dalla gita scolastica, lei non era venuta perché il suo fidanzato non voleva, per questo aveva litigato e aveva iniziato a meditare di lasciarlo. Marianna stava con un cara-biniere cinque anni piú grande, che a quelPetá sono un'epo-ca. Un tipo che rifletteva il piú classico cliché del fidanzatino geloso di paese: niente uscite miste, niente gite, appunta-mento tutti i giorni al campanello dell'ultima ora. Marianna andó a studiare - come molti di noi - con poca convinzione giurisprudenza a Parma. Gli studi giuridici ve-nivano visti come un valido compromesso per il futuro, divi-so tra libera professione e pubblici concorsi. Dopo un mese di universita prese quel coraggio che dona la prima indipendenza, dunque lo molló. Quello che accad-de dopo ě affidato all'uso distorto delle chiacchiere di paese. 60 61 Si diceva in giro che lui la minacciava, forse addirittura la pic-chió. Ma Marianna era cambiata, seguiva le lezioni, si appas-sionava ai manuali di diritto civile. Schizzó, come si dice da queste parti, divenne ancora piú seducente, con le gambe sot-tili e un po' storte come quelle ďun fenicottero; si era dipin-ta negli anni universitari i capelli di biu, dopo la laurea per una settimana andó in giro con un caschetto rosa che poi negli anni si tinse di rosso scuro. Dopo gli studi nell'universita di «Martina 2», come Vale-rio chiama Parma, due anni di scuola forense tarantina, la pratica in uno dei migliori studi martinesi, esame di stato bril-lantemente superato e una scelta di vita precisa: tornare a svolgere la professione di awocato nel proprio paese. Marianna sgargiante nei suoi tailleurini coloratí faceva di tutto per infrangere la regola del vecchio professore di diritto civile. Passava tutto il giorno in tribunále, la mattina seguiva i processi del suo «dominus», il pomeriggio restava a seguire i processi della Corte ďAssise anche se non la riguardavano, la sera andava in studio e ci rimaneva fino a mezzanotte. Nelle sere martinesi con il vento che rendeva matti, camminavo per le vie secondarie con il bavero alzato, la těsta bassa e passavo spesso davanti alla sua camera. Questa era al piano terra di un vecchio mulino restaurato e scomposto in uffici e studi le-gali. Vedere la luce sempře accesa fino a tarda ora mi tra-smetteva serenitá. Spesso mi fermavo e con le nocche bussa-vo alla finestra, lei si affacciava aprendo bruscamente e fin-gendo una scenata in dialetto «Uagnon, scetavnn da do, ca a c'ss or i crstien faťgghn» (ragazzi, andatevene che qui la gen-te lavora). Sotto sotto Marianna era un'attrice e il ruolo da protagonista delle commedie scolastiche non glielo aveva mai sottratto nessuno. Le volevo bene, le avevo dato qualche passaggio in tribu- 62 nale a Brindisi e Lecce e in quei viaggi ci eravamo parlati con ľaria complice di chi si awerte inadeguato al resto delľuma-nitä ed ě felice di esserlo. Marianna nonostante il suo fascino non aveva avuto piú fidanzati dai tempi del suo primo e uni-co grande amore. Mi confessô un paio di flirt con due com-pagni di corso alľuniversitä, che confermarono quello che lei chiamava «la disastrosa qualita umana della razza maschile». Lei era un carrarmato, un tondo di metallo, un concentrate di vitalita. Dal canto mio ero sempře malinconico e la in-vestivo dei miei dubbi e dei miei cattivi umori. Marianna sdrammatizzava e raccontava gli incredibili aneddoti legati al suo studio, dove era in corso una guerra senza esclusione di colpi tra i vari praticanti per ottenere le cause da seguire, quelle che un domani sarebbero potute essere divise in per-centuale con il «dominus». Pratiche nascoste, chiavi di ar-madietti che sparivano, corruzione di segretarie, manipola-zioni di agende. Annotava su un diario le malelingue che gi-ravano fra i suoi colleghi di studio, una dozzina tra praticanti e giovani awocati, tutti a meta strada tra la devozione al «dominus» e la prevaricazione sui colleghi. «C'ě gente che ha chiamato la moglie deľľawocato per dire che in studio il praticante tizio fa battute su di lui.» «Che pescecani!» «Cani, Mario, sono dei cani, i pescecani non abbaiano, questi abbaiano e latrano, e poi come i cani hanno la lingua per leccare le mani del padrone.» A quel diario Marianna consegnava pensieri, riflessioni e un divertente almanacco che lei chiamava «il lunario delle ca-tegorie forensi». L'awocato che assume per i due anni di pratica il neolaureato in giurisprudenza si chiama «dominus»: per Marianna ě il negriero, a causa dello sfruttamento inten-sivo senza un'adeguata contropartita. Ma a volte, in termini 63 piü sottíli, fa la crasi e spesso nei corridoi del tribunále la sen-tivi civettare con i colleghi: «Chi ě il tuo negus?». II praticante si chiama in gergo il «plebeo», molta gente all'antica usa il piú nobile «procuratore», parola scomparsa dal dizionario se non per definire 1'accusa nel processo. Tra questi spicca il «posteggiatore» figura moko frequente. Viene usato dalFawocato come palo tra le auto in doppia o tripla fila. Spesso deve spostare l'auto all'arrivo di uno degli ausilia-ri del traffico, altre volte si limita a segnalare con uno squillo di cellulare il pericolo di una multa incombente. In via Rava-nas o in via Calefati a Bari si puö ammirare il piú diffuso uso di questa figura professionale e fu li che un giorno vidi Marianna realizzare uno dei suoi piú tipici pezzi di repertorio, quello del-la moglie tradita. «Vede il mio anulare vigile, lo vede? Ho appena riconsegnato la fede a mio marito.» E qui lei scandiva il nome di un awocato qualunque. «Come potevo altrimenti, lo sa con chi 1'ho trovato in casa? Guardi ě un nome grosso, una importante, una che sta in politica, poi con l'etä che ha, chi mai poteva credere che si sarebbe potuta divertire con mio marito, che ě molto piú giovane di lei.» E dopo questa onda-ta, chiudeva con una domanda retorica: «Potrei denunciarla quella signora, anche se ě molto potente? Cosa pensa di una violazione di domicilio?». Insomma la sentii una volta e se mi avessero chiesto di pagare per assistere, lo avrei fatto. E cosi, ogni giorno che un particolare saltava all'occhio di Marianna, lei aggiornava il lunario. Nelle mattine rugginose del tribunále di Corso Italia a Taranto rimaneva rapita e as-sorta a contemplare gli «appostati» e uno «sciarpista», «co-lui che occupa le sedie nell'aula di tribunále utilizzando una sciarpa di seta o una piú modaiola pashmina. Solitamente co-stui si finge assorto nella lettura di atti giudiziari a lui il piú delle volte incomprensibili.» II praticante awocato che fa la fila dal giudice per conto del «dominus» ě detto ľ«appostato» per via delia sua posta in fila, altri lo chiamano «appestato» per via del fatto che spesso gli altri awocati in fila con lui fingono di non vederlo. Tra appestati, negus e sciarpisti la sottile e maliziosa Marianna dominava il panorama con le sue mise smaglianti e ľi-ronia di una veterána del varieta. Provammo l'esame di stato assieme e a differenza mia, lei lo superô. A causa del mio fal-limento mi prendeva in giro. «Mario, sarô la tua negus dovrai fotocopiare quindici volte quell'atto di citazione e poi inviar-lo per raccomandata a tutti i quindici citati prima di arrivare a rivolgermi la parola.» In primavera gli awocati organizzavano una festa. Cera un sapore di stantio, fuoritempo. L'aria era quella di una riu-nione studentesca, ma gli invitati erano quasi tutti trentenni, indomenicati e goffi negli abiti identici alle mattine in tribunále. Avevo accompagnato Marianna, eravamo i piú giovani, o forse apparivamo i piú giovani con un po' di colore nei no-stri abiti: «Non lasciarmi un istante da sola». Marianna non aveva tutti i torti perché durante la festa fu awicinata decine di volte da colleghi ďogni risma e ad ognuno parlava del suo fantomatico spasimante sacrista, un bandito sanguinario che le toccava difendere d'ufficio, gente pericolosa, nonché molto gelosa. Quell'estate andai a Roma e iniziai a fare i miei primi la-vori editoriali, Marianna spari improwisamente, parti in viaggio per festeggiare il titolo professionale nuovo di zecca. Destinazione Londra. Quando tornai a Natale passai davanti alia finestra del mulino che rimaneva accesa e che nei tempi d'oro lo sarebbe sta- 64 65 ta anche la sera della vigilia. Ma nessun riverbero dietro le persiane tirate giu. La luce era spenta e lo fu anche nei gior-ni seguenti fino all'Epifania quando presi il treno per torna-re a Roma. E prodigioso come ci si perda di vista in paese e come non ci si ritrovi mai se non quando lo decide il caso. Marianna aveva disattivato il numero di telefono e le poche persone a cui avevo chiesto mi risposero che dopo il viaggio a Londra non si era piii vista. Durante Testate camminai lungo la via del mulino soltan-to per rivedere quella finestra e capire se qualcuno avesse preso il posto di Marianna. Le lastre erano aperte sulla stra-da e una testa bionda era piegata sulla scrivania... Marianna? Era Marianna e si era fatta bionda. Allora tamburellai sul ve-tro come facevo anni prima e attesi con inquietudine che quella testa si alzasse e mi offrisse gli indimenticabili pezzi di teatro a cui ero abituato. Quando quella testa si alzo dalla scrivania trovai un volto sconosciuto, con un'espressione prima spaventata e poi ostile. «Cercavo Marianna.» Mi fu restituito soltanto un diniego col capo. Neanche al famoso raduno seppi nulla di Marianna, fu lei a farsi viva con una mail nella quale scrisse: «So che mi hai cercata, ma sono disperatamente alia ricerca di una disintos-sicazione dalla martinesita: ambizioni mediocri, vanita del ri-sibile, sfoggio del superfluo e sfruttamento continuo. Mi displace, ma tutti nella vita abbiamo una fase di rigetto dei no-stri luoghi e amici natali». Quello che Marianna chiamava martinesita e che ogni meridionale chiamera coniugando il nome del proprio paese in sostantivo e la storia di un disagio esistenziale. Ma anche l'awertire un'ingiustizia. Nel caso di Marianna tutto questo era in controluce nei racconti che mi faceva, nelle sue teorie un po' bislacche e in quella sua indi-gnazione che nascondeva nelľironia. In seguito a quelľama-ra mail con Marianna abbiamo ripreso a parlare e lunghe telefonáte hanno ristabilito il nostro rapporto. Era andata a Londra, dopo due settimane capi che era la sua dimensione, una dimensione soprattutto esistenziale, quella di sentirsi al centro delle cose che succedono. Si era sempře data un con-tegno entusiasta, ma senza una vera ragione, adesso ce ľ aveva e come spesso accade, quando si ě in procinto della felicita si ě predisposti alľamore. Marianna intrecciô una relazione con Samir, un ragazzo iraniano che era a Londra per ragioni di studio e che lei chiamava «il principe persiano». Iniziô con un semplice flirt, ma diventô qualcosa di piú con il passare dei giorni. Fu un lampo e i soldi finirono, la vacanza anche, ma Marianna non voleva tornare a Martina. «Mi feci fare un vaglia, come negli anni deľľUniversitä. Una donna di ventisei anni che si fa fare un vaglia nel 2003 ě qualcosa di umiliante. Non avevo carte di credito perché non avevo mai guadagnato una lira in anni di pratica legale, di formazione, di continua ed in-finita formazione. Ma formazione di cosa? Mentre ritiravo quei soldi che mio padre mi mandava con preoccupazione, ma anche con il sottile piacere di sapere che mi avrebbe rivi-sta pochi giorni dopo alľaeroporto di Bari, decisi tutto della mia vita.» II padre di Marianna ě un impiegato in pensione, uno congedato a cinquantacinque anni e, come Marianna in una sua caustica mail scrisse, «aveva con decisione intrapre-so un'ossessiva campagna di abbattimento dei coglioni di sua figlia tesa a trovare un uomo a cui romperli altrettanto. Chia-mate l'Onu, si tratta di crimini contro ľumanitä!! !:-D». Marianna iniziô a lavorare come cameriera in un pub a 66 67 Soho e prese a guadagnare: quattro volte alia settimana, die-ci ore fino a piegarsi in due, ma finalmente metteva da parte dei soldi. Ando a vivere nella stanza del suo principe persia-no, «un principe a tutti gli effetti, aveva dei modi aristocrati-ci, era di una famiglia bene di Teheran, ma forse era per me tutto fatato in quel momento, tutto mi sarebbe sembrato principesco.» Marianna per circa un anno fece la vita londinese di molti ragazzi italiani emigrati, ogni notte si addormentava con ad-dosso l'odore della birra spillata e del legno bisunto. Eppure l'emigrazione nelle definizioni che danno i voca-bolari moderni ha un significato sempře piú allargato, ma non per questo illimitato. Per esempio 1'AssoCina (associa-zione degli immigrati cinesi di seconda generazione in Italia) definisce emigrato colui che lascia volontariamente il proprio paese per migliorare il suo stato economico e sociále, ma che alio stesso tempo non ha certezze di tornare in patria. Che miglioramento economico/sociále poteva ricevere un awocato di grandissimo talento di un paese del sud, nel fare la cameriera in un affollato pub londinese? «La cosa stupefacente ě che guadagnavo piu di chiunque dei miei colleghi negli anni di pratica.» In effetti loro si era-no laureáti come Marianna, andavano a fare pratica in uno studio legale che ti sta facendo un favore a prenderti e poi ti fa lavorare con qualche rimborso e magari una pacca sul se-dere se sei una bella ragazza. Quando diventi awocato con-tinui a essere sfruttata per avere un brandello di causa, come la carne d'un osso spolpato. «Ti sembra giusto che una cameriera che lavora quattro giorni a settimana a Londra met-te da parte i soldi che un awocato meridionale sotto i trenta-cinque anni non riuscirá quasi mai a vedere?» Marianna, dai capelli dipinti nel profondo sud e che un giorno capisce che la svolta alia tua vita la puoi dare solo con una decisione ra-dicale. Dopo un anno di Londra, Marianna torna in Italia e fissa la propria residenza a Parma, la cittá dei suoi studi dove il professore della tesi la prende nel suo studio. «Dopo tre me-si avevo giá le mie prime cause, dopo un anno aprii il mio studio. Lo aprii nella casa che avevo in affitto, trasformai l'in-gresso in uno studiolo usando un séparé blu.» Tra i risparmiatori truffati c'era una famiglia di Taranto che si era rivolta al vecchio studio martinese dove Marianna faceva pratica. II vecchio «dominus» le chiese di domiciliarsi da lei. Marianna chiamó questa famiglia e fece presente: «0 vi difendo io, o vi trovate un altro studio dove farvi rappre-sentare». Rischió parecchio, un comportamento del genere ě passibile di un procedimento disciplinare da parte dell'ordi-ne, Marianna lo sapeva, ma aveva un asso nella manica: la lu-cida disperazione, quella che emerge quando non hai piu nulla da perdere. «Avevo rubato un cliente all'awocato che aveva usufruito gratis del mio lavoro.» Intanto i tempi per comparire correvano e la famiglia truf-fata scelse lei. A quel punto il suo vecchio «dominus» si ri-trovó con un cliente in meno e Marianna con una causa in piu. II vecchio awocato promise di fargliela pagare, ma non la denunció all'Ordine anche se ne aveva tutti i motivi. Quando l'udienza Parmalat ě finita ritrovo senza difficoltá la chioma rossa di Marianna. Sono passati anni da quando l'ho vista l'ultima volta, impalata nel centro di una festa del Consiglio dell'Ordine. Ha qualche ruga, ě un po' curva, tie-ne i capelli intrecciati attorno a una matita. 68 69 «Marianna!» le faccio festa e lei, come se ci fossimo visti la séra prima, con tono canzonatorio mi investe di una cardella sostenendo ehe lei parla solo con chi ě in grado di scrivere senza sbavature una comparsa conclusionale. «Hai imparato a farle, in questi anni ehe non ci siamo visti?» Non ho ancora imparato ad apprezzare tutte le svariate sfaccettature delľumorismo di Marianna, a volte non riesco a capire quando sia séria e quando invece stia sfornando solo una boutade, un guizzo dei suoi. Ma mi riempie di buon úmore e di quella serenita degli anni in cui bussavo alla sua finestra e attendevo lo show. Andiamo a mangiare un club sandwich in una paninoteca, davanti a due gigantesche coche piene di ghiaccio ci raccon-tiamo mesi di assenza, di principi persiani, di notti brumose sul Tamigi e di nostalgie murgiane. Marianna racconta che non le manca mai Martina, non le manca piú il sud, anche se ha quella nostalgia di raggiungere in venti minuti le spiagge di Torre Canne e gli scogli Savelletri. L'unico trauma della sua vita da emigrante ě stato il secondo trasferimento a Parma, una cittä che riteneva morta, dove non c'erano piú le vecchie amicizie universitarie, dove erano svaniti gli anni di studio, ma anche di spensieratezza delľuniversitä. Dove, anche li, i colleghi dello studio erano ostili, ipocriti e pronti alla lotta. Stiamo tanto tempo che il ghiaccio della coca diventa ac-qua, poi sale il vento che mi segue sempře, un vento di libec-cio e provo a congedarmi da lei. Ho il třeno alle 18, ma Marianna tiene a farmi vedere il suo studio. «Prenderai il třeno successivo» mi intima. La casa/studio di Marianna ě piena di Marianna, di tutto quello che lei era sempře stata per me, di un disordine alle- gro e pulito, di scartafacci in colorate cartelline e quaderni traboccanti di biglietti, tovaglioli e cartoline. Tutti i segni della sua mai perduta grafomania. II séparé miracolosamente suddivide in due la casa, come un taglio di Fontána, profon-do, solco tra la vita e il lavoro, la passione e il dovere. La parte dello studio ě una scrivania riempita di totemici codici e lunghi fogli informatici pieni di nomi e cognomi. Ě davanti a quei fogli che Marianna ha perso il velo della sua innocenza, gli anni trascorsi nello studio di provincia, alla ricerca delle ořme seminate dal suo «dominus», la difesa palmo a palmo del territorio conquistato contro i suoi colleghi. Apriamo una bottiglia di negroamaro e, come non ě mai stata, Marianna inizia a raccontare una storia, quella storia sotterranea che l'ha lentamente cambiata per 1'ennesima volta, dopo la timidezza degli anni liceali, la passione dei primi anni in studio, fino alTirruenza delle scelte improwise e ra-dicali dopo il viaggio a Londra. Marianna si ě tolta le scarpe e giace accovacciata sul letto con la divisa luminosa del processo mattutino. II vino quando si ě stanchi entra piú rapidamente nel sangue e fa scatu-rire destini sepolti, o soltanto un'autenticitá che non sempře ě veritá. Marianna ě con quel candore con cui mi ha raccon-tato tutta la sua vita degli ultimi anni che mi confida un aspetto del suo ultimo lavoro, quello che lei chiama «il vero lavoro». «Mario, ma sai chi sono dawero?» «Sei mille cose per me.» Lo dico con un tono commosso, anche a me il vino e la stanchezza fanno 1'effetto di vederla con un sentimento insolito. «Ho i miei clienti, ho le mie prime cause, ma la cosa che 7d 71 mi fa andare avanti si chiama ambizione, anche se ě una parola sbagliata. Forse ě ľaria, il respiro, quella cosa per cui sia-mo andati via tutti.» «Liberta?» «No, Mario, liberta mi sembra una parola troppo grossa e importante per questa cosa ehe ti sto per dire e forse cam-bierä le cose tra noi.» Temevo quello che da li a poco avrebbero pronunciato le sue labbra. «Hai presente quelľelenco sulla mia scrivania?» «Ho visto di sfuggita.» «Sono gli elenchi dei praticanti di tutti gli awocati dei con-sigli dell'ordine di ogni regione del mezzogiorno. Contatto studi legali del nord che cercano praticanti. A Milano, Parma, Bologna, Firenze, Torino, i praticanti prendono anche mille euro al mese. Non sono niente, eppure c'e gente che la-vorerebbe in quegli studi anche a meno. Lo sai vero?» «Temo di si.» «Contatto ragazzi che fanno pratica in piccoli studi di provincia.» Marianna mi fa presente la realtä di certi piccoli pae-si delľentroterra calabrese o irpino o, senza andare lontano da casa nostra, pensa a Martina o posti come Gravina, San-teramo, Palo del Colle, Ruvo. Chi ha un po' di iniziativa ca-pisce che la professione in quei posti ě satura, non c'e eco-nomia, non ci sono cause e quelle che ci sono ě difficile far-sele pagare. Appena laureáti, bene che va si lavora a rimbor-so in uno studio, a qualcuno il negus non gli indennizza nean-che la benzina. E allora quattrocento euro al mese in uno studio a Milano vengono considerati un'occasione. «Vuoi dire che fai da intermediario?» «Sono una reclutatrice, o forse un caporale, e una brutta parola, ma mi sento cosi.» II racconto di Marianna e sconcertante, ma awincente. Ogni giorno batte le bacheche on-line degli Ordini e quelle reali dei tribunali che visita. Poi contatta giovani neolaureati, ne saggia la consistenza con un colloquio telefonico e li propone agli studi che cercano giovani da inserire nei loro orga-nigramma. Molti studi del nord cercano praticanti meridio-nali perche costano la meta, sono disposti a piu sacrifici, si ac-contentano anche di quattrocento euro al mese. A Marianna va una mensilita del primo stipendio. «E come una consulenza, ci pago le tasse cosa credi, che la tua Marianna avrebbe infranto la legge?» II vino e finito, Marianna allenta la cintura che tiene il pan-talone del tailleur, poi si sistema di lato dandomi le spalle: «E tardi per partire, dormi con me». Resto vestito anche io e mi metto di spalle, poi Marianna si gira e riconquista lo spazio che ci divide sul suo largo letto matrimoniale. «Samir?» le chiedo. «L'ho lasciato lontano da qui.» Sento il suo alito di vino, un soffio sul mio collo, cerco con la mano il braccio, poi scendo e le prendo la mano. Poi mi giro e mi ritrovo davanti a lei, e indurita da quando eravamo assieme a Martina, ma e ancora piu affascinante, ci abbrac-ciamo. I nostri corpi intrecciati s'addormentano nelle oscil-lanti onde dei nostri respiri e restiamo come due uomini nel-la caverna, con la tempesta fuori e la fiamma stretta nel nostra petto. 72 dorii, e un bidone a Martina e una di quelle umiliazioni che ancora si raccontano con il sapore identico d'un aneddoto su una caduta in gita o una sedia esplosa. II giorno dopo il treno alle 6.56 dalla stazione di Fasano mi aspettava per riportarmi via, volevo farmi qualche ora di son-no. Una volta a casa, nonostante fosse mezzanotte, c'era ancora la luce accesa; mia madre in pigiama e vestaglia era in cu-cina, piegata sui quattro fornelli dove una dozzina di boc-cacci, i barattoli in vetro delle conserve, bollivano neM'acqua profumata di cose buone. E l'indomani me ne sarei andato al-l'alba, via con quell'odore di mamma addosso. I soldáti In ogni documentario sull'emigrazione che si rispetti c'e I'im-magine di repertorio di un treno che entra in stazione. II treno cambia, la grana delle immagini cambia, i volti e gli abiti di chi scende cambiano, e cambiano le valigie e cambiano gli anni; quello che non cambia mai ě la stazione di Miláno. II grande snodo delle ferrovie dell'Europa meridionale con i binari che s'infilzano dentro quell'intestino di ferraglia, sotto il tetto di tubi e plastica che distorce i suoni, gonfia i fischi dei binari, tra-sforma le voci degli altoparlanti in un'eco metallica. U mio treno da Roma arriva li con i soliti quaranta minuti di ritardo. Perlavoro raggiungo Milano quasi ogni settimana; per una volta, solo per una volta ho prenotato un notturno: sette ore di Espresso notte senza cuccetta, un treno che fende i rag-gi pallidi dell'aurora padana, quello che porta dentro odori di carburante, sudore e umido. Ho deciso di arrivare a Milano all'alba, quando la stazione ha lo stesso identico colore che hanno visto gli emigranti di decenni fa. C'e un colore bianca-stro, i volti stravolti e unti che scendono dal treno, il sibilo degli altri convogli e alia fine dei binari il volto d'un conoscente che ti aiuterä a «salire» le valigie su un carrello. I carrelli adesso sono gestiti dai rumeni, arrivano a chiedere tre euro per met- 91 tere su le valigie e darti una mano fino al piazzale dei taxi. Li c'e un piccolo sciame di zingarelli che cercherä di metterti le mani in borsa, poi all'ingresso della metropolitana i materassi con due punkabbestia senza bestie, dall'aria minacciosa. Paolo mi attende sulla banchina. Solo per questa mattina, ha preso un po' di tempo per me, ě felice di partecipare a quella sorta di rimpatriata che ci attende. A Milano ce ne sono tanti della III D, anno di grazia 1995-96, fedeli a quella diceria che il capoluogo lumbärd ě la se-conda cittä pugliese dopo Bari. Tutti hanno raggiunto Milano almeno per una volta con le corriere o i treni notturni, in tanti raccontano dei viaggi dif-ficili, le notti che precedono il periodo natalizio. Forse ě per questa contiguitä con i racconti d'un tempo che mi aspetta-vo di vedere tanti «milanesi», la notte del raduno in villa; ep-pure al grande raduno non c'era quasi nessuno. Non c'era Marianna, non c'era Paolo, non c'era Lucio, non c'era stata neanche Adele, che aveva sempře detto sin da tempi inso-spettabili che avrebbe fatto «la guerra». Quella dichiarazio-ne scioccante awenne durante gli incontri di orientamento con certi inquietanti strizzacervelli che si spacciavano per psi-cologi del proweditorato scolastico. Adele mise in subbuglio le loro certezze presentandosi vestita di bianco come una dama di caritä, una gonna da suo-ra alia caviglia, e riempiendo moduli e questionari che mette-vano in luce «il suo spirito bellicoso». Nonostante quella posa dichiarö pubblicamente di essere interessata a ogni tipo di conflitto umano e urbano. «Ti piacerebbe fare il servizio mili-tare?» le chiesero e lei rispose: «Si, a patto di fare la guerra!» Adele Calö ha trovato la sua guerra in un commissariato di polizia dove da otto anni presta servizio occupandosi di tut-to. F stata nelle volanti nelle notti freddissime sull'asfalto del- la Brianza, ha pattugliato i casermoni dell'Hinterland, ha perquisite, sequestrato, ha «lottato» con malviventi e anche con colleghi, quando e stato il caso. «Basta scendere dal letto / per sentirsi emigranti» scrive, in una poesia chiamata Lo scheletro del pesce, Milo De Ange-lis. Non e un caso che questo verso mi sia molto caro, un poe-ta totalmente milanese, che per anni ha vissuto con una poe-tessa tarantina di grande spessore come Giovanna Sicari, scomparsa alia fine del dicembre 2003. Si tratta d'un verso che compie il miracolo piü tipico della poesia, ossia allargare il significato e il senso d'un rappresentazione mentale. Sentirsi emigrati anche dentro casa propria puö essere una for-zatura, ma ha il carico di un'evocazione e ben si adatta a quel-lo che mi racconterä Adele: «Mi sento emigrata ogni volta che arrivo in stazione a Milano». Adele e venuta qui a Milano nel 1999 e da allora non e sce-sa quasi mai. Poco alia volta si sono sbriciolati tutti i suoi rap-porti familiari e amicali. Come un fiume di montagna, che porta a valle lentamente e tortuosamente, ma inesorabilmen-te, i volvoli dei fiori sugli argini. Sul treno quella notte del dicembre 1999, mentre saliva a prendere il primo servizio nella polizia di Stato, conobbe il suo futuro marito. Oggi vive a Pioltello, un grumo di palazzoni dove ha com-prato casa assieme a suo marito qualche anno fa. Questa piccola riunione non e casuale che sia stata pro-gettata e fissata all'alba di una mattina di primavera; sono le sei e mezza, Adele e tornata da un turno notturno, Paolo ed io abbiamo un paio d'ore libere: poi ci toccherä la libreria per lui e per me la solita riunione settimanale a Segrate. 92 93 Non ě casuale neanche il luogo: per Adele, come per tan-ti emigrati, i třeni a lunga percorrenza hanno un significato che va oltre, sono un luogo di premonizioni, ma anche una specie di luogo ďawento. Col tempo, quando oltre a essere emigrati si ě anche pendolari, assumono la faccia quotidiana di uno sradicamento ed ecco sembrarti quasi imprescindibi-le quel verso di Milo De Angelis. I třeni italiani, poi, sono rimasti ancora uno spazio fonda-mentalmente integro alla modernita e la notte di inverno del 2008 non sara moko dissimile da una notte di inverno del 1958. II tempo di percorrenza non ě moko minore rispetto a un «Crotone-Milano» del 1958. Allora ci volevano ventidue ore. Oggi quindici, ma con i fisiologici ritardi che si accumu-lano nei giorni di festa le cose non sono moko cambiate. II viaggio in třeno ě ancora uno dei racconti preferiti di chi ě an-dato via. II popolo dei pendolari notturni ě un mondo enorme e sotterraneo, sottovalutato addirittura dalle Stesse istitu-zioni che governano le tratte. E bastato sospendere un třeno della dorsale tirrenica nelTestate del 2007 per assistere alle proteste clamorose dei viaggiatori. Adele racconterä che quel torrido giorno ďestate dek"anno precedente le toccö l'infuocata trattativa con gk occupan-ti. É stato il suo giorno piú difficile, non da poliziotta, ma da ragazza del sud. II questore condusse le mediazioni in modo gelido: o si liberavano i binari o quei pendolari, pur con tut-te le loro ottime ragioni, sarebbero stati caricati. Erano quasi tutti lavoratori pendolari a lunga percorrenza, quelli che prendono i notturni due volte alla settimana per andare e tor-nare dai grandi cantieri del nord. Si tratta di maestranze, ma anche di operai semplici. II luogo comune che siano tutti ex-tracomunitari a lavorare nell'edikzia si puö facilmente smen-tire attendendo il «Villa San Giovanni-Milano centrale» di un lunedi mattina qualunque: ne scendono a dozzine e tutti in tenuta, con i pantaloni pieni di tasche e le vecchie camicie in flanella stile grunge. Hanno accenti inconfondibili e le infles-sioni di tutti i sud d'ltalia: le imprese cercano operai con esperienza, che sappiano non soltanto fare, ma anche inse-gnare alla nuova generazione di rumeni e marocchini. Sono decine di migliaia in Italia, quasi tutti campani, ma ve ne sono stimati migliaia anche in Puglia. Vivono sui notturni e dormono per quasi tutta la settimana nelle casette di lamiera e plastica dei cantieri, nuclei abitativi minuscoli, ro-venti d'estate, freddi e inospitali durante l'inverno. «Come si puo far questo?» penso in cuor suo Adele, che al momento dell'unica carica di alleggerimento rimase nelle retrovie con alcune sue cokeghe, e tanti suoi colleghi. Pezzi di un sud in divisa tornarono turbati, afflitti, con le lacrime agli occhi per quello che avevano appena fatto. Occupazioni di binari, presidi e cortei. La protesta ter-mino senza feriti, per fortuna, solo spavento e un paio di ec-chimosi. Di questo scampolo di paese sempre in movimento fanno parte decine di migliaia di padri di famiglia, studenti, lavoratori e questi ultimi non tutti propriamente lavoratori nel ve-ro senso della parola. Aleggiano per esempio ancora le figure dei «soffiatori». I «soffi» sono una tecnica di rapina, consiste nell'entrare nei vagoni e soffiare. Quel lieve alito serve al ladro per capire quanto profondo e il sonno di coloro che dovra derubare. £ la Daunia la zona dei soffiatori piu incalliti. Un tempo figura mitica, oggi si contende il territorio palmo a palmo con gli zingari. Anni fa conobbi uno di loro. Giovanni, nome di fantasia, aveva una trentina d'anni aU'epoca, originario di un mi- 94 93 nuscolo paesino della Capitanata che non mi ha mai voluto dire; di notte alleggeriva i passeggeri dei treni per il nord. Fu lui che mi parló per la prima volta dei soffi. Per lui era un la-voro, un lavoro rischioso e remunerativo. Quando la serata ě buona puoi lavorare bene e «fare soffi» fino a Termoli, Vasto, Pescara. Qualcuno giura di essere arrivato a soffiare fino a Bologna. I treni presi di mira sono soprattutto quelli che sal-gono (quando gli emigrati e gli studenti vanno su sono sempře pieni di soldi), anche se Giovanni, come tutti i rapinato-ri che parlano dei loro reati, mi fece mostra di una persona-lissima e tutta sua moralita. Lui mi giuró mettendosi le mani in croce che non aveva mai derubato nulla a un ragazzo o a un emigrante. «Gli infami sono gli zingari, a loro non impor-ta se ti fanno un taglio.» Rubava solo a chi gli appariva meritevole di essere derubato, anzi soffiato. Giovanni in quella notte mi raccontó dei suoi soffi piu clamorosi (a un personaggio della televisione, uno che «ha l'amante a Bari», e sulla frase amanteabari segui il gesto della mano sulla bocca, come se avesse detto una co-sa che non andava detta). E difficile vederli. Chi ha avuto a che fare con loro non rie-sce a descriverli, sono troppo rapidi e fuggenti come tutte le creature notturne. Sono ombre nere che seguono le traiettorie improbabili dei ragni. E come ragni salgono sui treni senza far-si notare. Le loro prede sono gli espressi e gli intercity nottur-ni, entrano facilmente, perché i vagoni degli espressi notte funzionano con le aperture manuali. Sfuggono ai controllori, i capitreno e i capistazione perché salgono dal lato dei binari e non delle banchine. Si acquattano nelle isole tra i vagoni, den-tro i bagni, addirittura sopra i portabagagli spessi dei corridoi. Sono i «topi di treno» e sono i moderní abigeatari, coloro che un tempo passavano le notti in veglia per rubare il be- stiame. Rocco Scotellaro diede loro dignita letteraria con una meravigliosa poesia: «... amano il loro mestiere / uomini sono gli abigeatari, / spiriti pellegrini della notte, / si cibano al-l'alba...» Proprio all'alba puoi vedere i «topi di treno», perché come gli antichi abigeatari si «cibano» nei bar della stazione di Foggia, San Severo, Barletta, Bari centrale. Certo non man-giano i lampascioni e le fette sottili di pane casereccio, sono awezzi al cappuccino e al cornetto alia crema. Quando le notti vanno bene si fanno correggere il caffě con la sambuca. Hanno gli occhi brillanti per la veglia e per quelle gocce al-coliche miste alia caffeina. Si accontentano di poco. Adele Calö compare sullo sfondo della folia che si incro-cia correndo nel grande androne della stazione. Con Paolo siamo seduti al bar aspettando di ordinäre. Forse tra noi ci sono soffiatori metropolitani, o soffiatori venuti dalla Capitanata, per un attacco di sonno, o semplicemente per fuggi-re. Mi piace pensare che in queU'atmosfera di rumori ďe-spresso, profumo di caffě corretto, cozzi di tazzine e vocio, ci siano loro e siano pronti ad attendere una nuova notte, un nuovo incarico della prowisorieta. Non abbiamo una bell'aria, siamo stanchi, ma chi dovreb-be esserlo dawero ě Adele che torna da dieci ore di lavoro. Ha ancora la divisa, la camicia sbottonata, i capelli raccolti in una coda, il viso regolare e bruno, i suoi colori da principes-sa persiana, le sopracciglia nere e un po' folte per vezzo, le Stesse identiche della foto di classe di tanti anni fa. Sono sei o sette anni che non ci vediamo, ma Adele ci ri-prende bonaria da lontano come se ci fossimo visti la sera prima e ci addita come «spettacolo indecente di primo matti-no». Minaccia scherzosamente di volerci arrestare tutti per 96 97 «oscenitä», e altre boutade innocue, ma che in quel clima pa-cificato funzionano da detonátore di risate. Dopo il primo giro di cappuccini Adele sta giä raccontan-do il suo menage con Giuliano, il ragazzo di Lecce conosciu-to quella fatidica notte in un treno. Era il dicembre 1999, la prima notte di Adele da emigrata. Sali sul treno a Fasano con due enormi valigie e un pezzo di carta dove era indicato ľin-dirizzo delia sua prima caserma. II treno era pieno come un uovo, la gente dormiva sulle traversine, nei portabagagli, a terra nei corridoi. Ogni vagone respirava e in ogni vagone le luci restarono accese tutta la notte perché quella folia enorme che riempiva il treno saliva al nord per il primo concorso pubblico per maestri elementari dopo quin dici anni. C'erano almeno due generazioni di maestri precari che andavano a tentare la fortuna a nord, dove c'era qualche posto in piú da contendersi. Adele racconta la sua prima notte da emigrata come il principio di quella guerra di cui aveva sempre parlato ai tempi delia scuola. E una guerra inizia sempre con un convoglio stracolmo d'umanita sui binari. In quella folia c'erano mille storie, e Adele mai come allora si mise a raccoglierle con quella disposizione ďanimo ehe si ha all'inizio di un lungo viag-gio. Quella ehe la colpi di piu fu la vicenda di due donne, molto simili, lunghe e bellissime, madre e figlia, ľuna dician-nove anni, appena diplomata alle magistrali, l'altra trentacin-que anni, ugualmente diplomata una dozzina d'anni prima, ma con lo stesso concorso preparato da anni, in un'attesa bi-blica e sfibrante. «Mi sentii fortunata e baciata da Dio, due giorni dopo avrei preso a fare un lavoro che avevo sempre sognato di rare.» Quelle due donne dai destini cosi simili, cosi autentica-mente filtrati dal tempo e cosi apparentemente lontani dalla modernita. Eppure alle soglie del terzo millennio un treno ancora si riempiva di migliaia di persone di generazioni diverse, pronte a tentare la fortuna, a lasciare la propria terra senza molta speranza di tornarci. In quella folia di aspiranti maestri c'era Giuliano, un ragazzo piccolo, dal pizzetto curato, i capelli rossicci, i tratti normanni. Anche lui precario, anche lui con nei cuore il so-gno e un progetto di stabilita. Forse ě proprio la stabilita, e di conseguenza la serenitá, il vero sogno di questa nuovissi-ma generazione di emigrati. Giuliano comparve solo all'alba di quella notte lunga, ricca di premonizioni e storie. Le fece strada in mezzo al groviglio di corpi per accompa-gnarla in bagno, le indicó un soffiatore verso cui osservare at-tenzione, e Adéle si senti sproweduta, senza alcun fiuto: po-che ore prima di iniziare a fare la poliziotta, essere messa in guardia da uno sconosciuto. Le parló a lungo mentre i colori dell'alba invernale sulla pianura padana prendevano il soprawento, quando intravi-de Piacenza dove i treni erano incappucciati e lo scatolone dell'Universita del Sacro Cuore compariva nell'orizzonte tra-puntato. Una volta in stazione disse «Faccio io» e porto le valigie sino al tram di piazza Amedeo D'Aosta. Si lasciarono i numeri di telefono, la solitudine dei primi giorni porto entrambi a vedersi e inevitabilmente a sceglier-si. Poi si sono scelti per sempre in una chiesetta sul mare di San Cataldo, un dicembre di qualche anno fa, il mese in cui si sposano gli emigrati, quando dawero tornano tutti, pochi giorni dopo Natale e pochi giorni prima di San Silvestra. Spesso la foto d'un matrimonio racconta meglio di qualun-que storia le vicende ďuna famiglia. La foto di una sposa con un mantello bianco e uno sposo con soprabito scuro vuol dire un matrimonio dicembrino, vuol dire due persone sradi- 98 99 cate e lontane dal posto in cui si sposano, ma anche dotate della volontä di non perdere la loro storia personale e le loro origini. Giuliano insegna in una scuola elementare vicino Novara, prende un regionale traboccante ogni mattina alle sette e torna nel pomeriggio. Ha classi difficili, bambini di tutte le na-zionalitä, arabi, rom, russi, peruviani. Affronta ogni giorno tre ore totali d'un treno affollato e bollente, un rapporto com-plesso con una realtä umana di alunni che quando sali a Mi-lano quella notte di dieci anni fa per lui era impensabile. E forse ě per questo che vedo il nido di Adele e Giuliano come un tenero luogo di amore, ma anche dedizione, come quella di obbedienti soldáti. Un soldato ě colui che deve essere pronto all'eventualitä del caso. E Adele e Giuliano sembrano i simboli piu azzeccati per questa definizione. I minuti assieme trascorrono rapidamente e sembriamo bizzarri, inusuali in un bar dove tutti vanno di fretta e noi coi nostri tempi meridiani, scanditi soltanto dai racconti dei no-stri ricordi e delle nostre ambizioni. Vorrei un figlio, vorrei coltivare un orto di rape, vorrei alzare gli occhi al cielo e os-servare il grande carro e l'orsa maggiore. Sono ambizioni mi-nuscole, impalpabili al tempo che viviamo. Mi sorprendo io stesso di aver detto certe cose e di aver riscontrato una grande sintonia con Adele, quella ragazza contraddittoria, dagli abiti castigati a scuola e le intenzioni guerresche, considerata a lungo opposta e distante. Paolo racconta i suoi ultimissimi mesi e le evoluzioni della vita da commesso di libreria con laurea rigorosamente na-scosta, Adele prende appunti su una moleskine, mi fa legge-re una sua poesia e dice che anche lei un giorno vorrebbe pubblicare un libro «come me», ma ha piü pudore e un sen-so del ridicolo: «certe cose non vanno raccontate» mi ammo-nisce. «I tuoi genitori che dicono?» Confessa che ha tante storie e vorrebbe raccoglierle, di quando era di servizio in stazione centrale, ancora treni, an-cora convogli e sale d'attesa. «Ne ho menati» dice, «ma anche prese». Una volta una tossica le ha puntato una siringa, ma lei l'ha stesa con un manrovescio alla Filumena, dal nome di una ragazza corpulenta che faceva partire colpi di manrovescio con una tecnica particolare, quella di raccogliere tutta l'energia del braccio stringendo con la mano sinistra le dita della mano destra e allungando quella che si chiama in dia-letto mappina. La tossica se lo ricorderä bene, il volto di Adele Calö quella notte. «II 'Filumena' non te lo insegnano al-l'addestramento, ma al nostro liceo. In quella giungla ne ho imparate di cose strane.» Ma la vita di provincia forse le ha insegnato quella sorta di atavica resistenza ai pregiudizi, so-prattutto quelli verso una donna con la divisa. I suoi colleghi non la facevano partecipare, la mandavano a perquisire le barbone, che e un atto di sottomissione e umiliazione. Con alcuni si sono verificati alcuni bisticci, un tale che faceva il verso alla sua inflessione dialettale. «Imitare la terrona» in commissariato era lo sport di quello che Adele ribattezzö «il deficiente», un tale peraltro dotato anche lui di una ruvida cadenza brianzola. Si stupivano che non fosse cattolica praticante («Ma come, tutte le tue colleghe del sud lo sono»), in compenso non ci provavano perche con Giuliano aveva formato una sorta di santa famiglia che tutti ammiravano e rispettavano. E quella era una delle gioie della sua vita. E qui che Adele mi stupisce e mi racconta che forse la ragione piü profonda della sua se- 100 101 renitä coniugale e il poggiarsi reciproco con Giuliano, in un luogo poco ospitale, ma produttivo, col sogno di tornare, ma la voglia di restare. Ho proposto ad Adele e Paolo di seguirmi in Mondadori, in fin dei conti hanno continuato a chiedermi che lavoro fa-cessi. A ognuno di questi amici che incontro dopo tanti anni lo spiego in maniera sempre diversa, miracoli della preca-rietä, ma forse anche dell'atipicitä di chiunque lavori coi li-bri. Adele e Paolo mi chiedono come sia il palazzo monda-doriano che guardano dalla tangenziale con un misto di am-mirazione e sgomento. In quel momento provo uno strano sentimento, si tratta di quello piü tipico di ogni emigrato, ma che nessuno esplicita nelle vere intenzioni. Far visitare il proprio posto di lavoro, soprattutto se questo e imponente, gran-dioso, fuori dagli schemi. Non importa la casella che si occu-pa all'interno di quella struttura, ma l'orgoglio da cui mi sen-to pervadere e forse lo stesso dei bidelli al Quirinale, dei por-tieri al Ministero dei Tesoro, della stessa Adele che ha detto che un giorno di questi ci porta a vedere la Questura, dove «sono tutti amici miei e sono tutti di giü». «Mi faccio sostituire» dichiara Paolo, sempre piü convinto. In fin dei conti quella curiositä e la stessa che vorrebbero vedere negli altri quando toccherä a loro far visitare il proprio posto di lavoro. Ma poi c'e anche la curiositä su cosa realmente si fac-cia in quel palazzo e su come sia fatto dentro: contagia tutti e in parte anche me, come se non ci fossi mai stato. Dopo dieci minuti siamo dentro un taxi. Con stupore Paolo e Adele mi confessano che non ci sono mai saliti, su un taxi di giorno, e di notte sarä capitato un paio di volte in tutta la loro vita. Chiacchieriamo con il tono della voce molto alto, il tassista non ci riprende, anzi si unisce a noi e racconta che i suoi genitori sono di Avetrana, un paese della costa salentina in provincia di Taranto, che lui torna in estate, che le sue fe-rie da trent'anni sono un pezzo di sabbia bianca sulla costa selvatica di San Pietro in Bevagna, in mezzo alle radici di la-vanda e i cespugli di maggiorana. Ci lascia a pochi metri dal grande manufatto di Niemeyer, che nei giorni di sole brilla come un lingotto di metallo pre-zioso. U lago attorno all'edificio ě solcato dalle increspature delle carpe giganti e Paolo lo guarda con lo stupore di chi vede per la prima volta ľacqua. Mentre scendiamo sulla passe-rella di marmo che attraversa i due piccoli bracci acquatici verso l'ufficio, il tassista ci domanda: «Ma siete scrittori?». Risponde il commissario Adele Calô, con una naturalezza che tocca: «No, siamo compagni di classe.» L'aria ě silenziosa e ferma, si sentono i rumori di alcuni trolley sull'asfalto, lo sciabordio di un cigno sul lago, non sembra di essere alle soglie di un palazzo pieno d'uffici. Entriamo nell'atrio, dopo esserci fatti identificare al check in raggiungiamo il bar dove offro l'ennesimo caffě della mat-tinata, «Ma questi sono tutti correttori di bozze?» domanda teneramente Adele, poi raggiungiamo il bancone per ritirare le tazzine, dopo il caffě so giä che loro andranno via, senza aver visto nulla, ma saranno soddisfatti, come lo sono io, «Ho visto dove lavóra Mario». Poi dovrô ricambiare la visita e un po' di stupore. Paolo nota che non ci sono sedie per sedersi, «Sai che chi lo beve in piedi muore povero?», in quel momento ho un mo-to ďistinto e punto un angolo del bar, metto lo zainetto per terra e faccio per sedermi sopra, ma Adele mi blocca: «E chi lo beve a terra muore triste». AUora meglio in piedi, forse poveri, ma felici. 102 103