OPERE DI ITALO CALVINO NUOVA ED1ZIONE Gli amori difficili con uno scritto di Michele Rago // barone rampante con uno scritto di Cesare Cases // castello dei destini incrociati con uno scritto di Giorgio Manganelli II cavaliere inesistente con uno scritto di Paolo Milano Le cittä invisibili con uno scritto di Pier Paolo Pasolini Collezione di sabbia con uno scritto di Pier Vincenzo Mengaldo Le Cosmicomiche con uno scritto di Eugenio Montale L'entrata in guerra con uno scritto di Niccolö Gallo Eremita a Parigi con uno scritto di Marco Belpoliti Fiabe italiane con uno scritto di Cesare Segre La giornata d'uno scrutatorc con uno scritto di Guido Piovene Lezioni americane con uno scritto di Giorgio Manganelli Marcoval do con uno scritto di Domenico Scarpa La memoria del mondo con uno scritto di Domenico Scarpa Mondo scritto e mondo non scritto a cura di Mario Barenghi La nnvola di smog -La formica argentina con uno scritto di Paolo Milano Palomar con uno scritto di Seamus Heaney Perché leggere i classici con uno scritto di Gian Carlo Roscioni Una pietra sopra con uno scritto di Claudio Milanini Prima che tu dica «Pronto» con uno scritto di Pietro Citati 7 racconti con uno scritto di Francesca Serra // sentiero dei nidi di ragno con uno scritto di Cesare Pavese Se una notte d'inverno un viaggiatore con uno scritto di Giovanni Raboni Sotto il sole giaguaro con uno scritto di Luigi Baldacci La speculazione edilizia con uno scritto di Lanfranco Caretti La strada di San Giovanni con uno scritto di Cesare Garboli Sulla fiaba Introduzione di Mario Lavagetto Ti con zero con uno scritto di Giuliano Gramigna Ultimo vicne il corvo con uno scritto di Geno Pampaloni II visconte dimezzato con uno scritto di Mario Barenghi FIABE ITALIANE raccolte dalla tradizione popolare durante gli ultimi cento anni e trascritte in lingua dai vari dialetti da ITALO CALVINO Introduzione di Italo Calvino con uno scritto di Cesare Segre VOLUME PRTMO IN EDIZIONE CARTONATA / nostri antenati - "Orlando Furioso" di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino - Tutte le Cosmicomiche OSCAR MONDADORI © 1993 by Palomar S.r.l. e Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano © 2002 by The Estate of Italo Calvino e Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano Per lo scritto di Cesare Segre Tutti i diritti riservati trattati da Agenzia Letteraria Internazionale, Milano 1 edizione Oscar Opere di Italo Calvino maggio 1993 Introduzione di Italo Calvino Questo volume ě sta to stampato presso Mondadori Printing S.p.A. Stabilimento NSM - Cles (TN) Stampato in Italia. Printed in Italy A questa edizione ha collaborate) Luca Baranelli. II testo di Calvino in quarta di copertina e tratto dall'introduzione all'edizione del 1956. Anno 2011 - Ristampa 27 28 www.librimondadori.it La prima edizione delle Fiabe italiane usci nella collana I Millenni di Einaudi nel novembre del 1956. ĽIntroduzione di Calvino, parte inte-grante di queste Fiabe, ě seguita da una breve Nota all 'edizione 1971, che l'autore scrisse per una ristampa del libro. 1. Un viaggio tra le fiabe La prima spinta a comporre questo libro ě venuta da un'esigen-za editoriale: si voleva pubblicare, accanto ai grandi libri di fiabe popolari straniere, una raccolta italiana. Ma che testo scegliere? Esisteva un «Grimm italiano»? I grandi libri di fiabe italiani, si sa, sono nati in anticipo sugli altri. Giä a meta del secolo XVI, a Venezia, nelle Piacevoli Notti di Straparola, la novella cede il campo alia sua piü anziana e rusti-ca sorella, la fiaba di meraviglie e d'incantesimi, con un ritorno d'immaginazione tra gotica e Orientale alla Carpaccio, e un'in-crinatura dialettale alio stampo delia prosa boccaccesca. Nel Seicento, a Napoli, Giambattista Basile sceglie per le sue acro-bazie di stilista barocco-dialettale i «cunti», le fiabe «de' pecce-rille» e ci da un libro, il Pentarnerone (restituito alle nostre lettu-re dalla versione di Benedetto Croce) che ě come il sogno d'un deforme Shakespeare partenopeo, ossessionato da un fascino dell'orrido per cui non ci sono orchi né streghe che bastino, da un gusto dell'immagine lambiccata e grottesca in cui il sublime si mischia col volgare e il sozzo. E nel Settecento, di nuovo a Venezia, ma stavolta con sufficienza e ostentazione di conce-dersi a un gioco, ľastioso e supercilioso Carlo Gozzi fa calcare alle fiabe le tavole del palcoscenico, tra le maschere dell'Arte. Ma era un divertimento grave e sforzato: Lora delia fiaba bat-teva intanto giä dai tempi del Re Sole alla Corte di Versaglia, dove alio spirare del «Grand Siecle» Charles Perrault aveva in-ventato un genere, e finalmente ricreato sulla carta un prezioso vili Introduzione Introduzione IX equivalente di quella semplicitä di tono popolare in cui la fiaba s'era tramandata di bocca in bocca fin'allora. II genere diventô di moda, snaturandosi: nobildonne e précieuses si diedero a tra-scrivere e ad inventár fiabe; infiorata e candita nei quarantun volumi del Cabinet des Fées la fiaba prosperô e mori nella lette-ratura francese col gusto del gioco di fantasia elegante e tem-perato di simmetrica razionalitä cartesiana. Risorse cupa e truculenta alľalba del secolo XIX nella lettera-tura romantica tedesca, come anonima creazione del Volksgeist, da un'antichitä ancestrale ehe aveva colore ďun atempora-le medioevo, per opera dei fratelli Grimm. II culto patriotti-co delia poesia dei volghi si diffuse tra i letterati delľEuropa; Tommaseo cercô i canti toscani corsi greci illirici; ma le «no-velline» (come nell'Ottocento da noi le fiabe si chiamavano) attesero invano ehe di tra i nostri romantici venisse il loro sco-pritore. Cresciuta alia scuola del Tommaseo, la «contessa con-tadina» Caterina Percoto compose in dialetto friulano racconti e leggende patriottici e morali di cui aleuni tolti dalla tradi-zione orale;1 e dal ceppo degli serittori didascalici conserva-tori alla Cantú, il senese Temistocle Gradi (1824-87) nei suoi «saggi di lettura»2 per i giovani del popolo, riportô fiabe nella parlata vernacola per dare a quelle menti il pane ehe stima-va meno corrompitore. Ci vollero i diligenti studiosi di folklore delia generazione positivista, perché ci si mettesse a serivere sotto dettatura del-le nonne. Essi eredevano - col Max Muller - nelľlndia patria di ogni storia e mito umano se non pur delľuman genere, e nelle religioni solari, talmente complicate ehe per spiegarsi ľaurora inventavano Cenerentola e per la primavera Biancaneve. Ma in-tanto, sotto il primo esempio dei tedeschi (Widter e Wolf a Ve-nezia, Hermann Knust a Livorno, ľaustriaco Schneller nel Tren-tino, e poi Laura Gonzenbach in Sicília) si posero a raceogliere 1 Cfr. nota alia nostra 41-IV. 2 TEMISTOCLE GRADI, Saggio di Letture varie per i giovani, Torino 1865; Prover-bi e modi di dire dichiarati con racconti, Torino 1869; La vigília di Pasqua di Ceppo, Torino 1870. «novelline», Angelo De Gubernatis nel Senese, Vittorio Imbriani a Firenze, in Campania e in Lombardia, Domenico Comparet-ti a Pisa, Giuseppe Pitrě in Sicilia, chi in modo approssimativo e sommario, chi con uno scrupolo che riesce a salvarne e tra-mandarne fino a noi la freschezza. La passione si trasmise a uno stuolo di ricercatori locali, collezionisti di curiositä dialettali e di minuzie, che formarono la rete dei corrispondenti alle riviste di archivio folkloristico: il «Giambattista Basile» di Luigi Molinaro del Chiaro a Napoli, l'«Archivio per lo studio delle tradi-zioni popolari» di Pitrě a Palermo, la «Rivista delle tradizioni popolari italiane» di De Gubernatis a Roma. Perfino Benedetto Croce diciassettenne, ignaro ancora di correr dietro ad uno pseudoconcetto, si faceva dettare dalle lavandaie del Vomero canti e filastrocche per il «Basile» di Del Chiaro. S'accumulö cosi, specialmente nell'ultimo trentennio del secolo, per opera di questi mai abbastanza lodati «demopsicolo-gi» (come per un certo tempo, con termine coniato dal Pitrě, si vollero chiamare) una montagna di narrazioni tratte dalla bocca del popolo nei vari dialetti. Ma era un patrimonio destinato a fermarsi nelle biblioteche degli specialisti, non a circolare in mezzo al pubblico. Un «Grimm italiano» non venne alia luce, sebbene giä nel 1875 il Comparetti avesse tentato una raecolta generale di piü regioni, pubblicando nella collana - diretta da lui e dal D'Ancona - dei «Canti e racconti del popolo italiano», un volume di Novelle popolari italiane e promettendone un paio d'altri, che non uscirono. E il genere «fiaba», mentre da parte degli studiosi veniva con-finato in dotte monografie, tra gli serittori e i poeti non conob-be da noi la voga romantica che percorse l'Europa da Tieck a Puškin, ma divenne dominio degli autori di libri per bambini, con per maestro il Collodi, che aveva derivato il gusto fiabisti-co dai contes des fées secenteschi francesi.3 Ogni tanto, qualche illustre scrittore tentö il libro di fiabe per l'infanzia; ricordere- 3 CARLO COLLODI tradusse in italiano fiabe di Perrault, Mme d'Aulnoy, Mme Leprince de Beaumont (I racconti delle fate voltati in italiano, Firenze 1876). X Introduzione Introduzione XI mo, come eccezionale riuscita poetka, il Cera una volta... di Ca-puana, libro di fiabe nutrite insieme di fantasia e di spirito po-polare.4 (Va poi ricordato che il Carducci porto le narrazioni di tradizione popolare nelle scuole, inserendo nelle antologie per i ginnasi da lui curate5 qualche novellina toscana del Pitrě e del Nerucci. E che il D'Annunzio, nel momento dei suoi maggiori interessi per il folklore, trascrisse e pubblicó con la sua firma, nella rubrica Favole ed Apologhi della «Cronaca Bizantina», alcu-ne novelline abruzzesi raccolte dal Finamore e dal De Nino.6) Ma la gran raccolta delle fiabe popolari di tutta Italia, che sia anche libro piacevole da leggere, popolare per destinazione e non solo per fonte, non l'abbiamo avuto. Si poteva fare oggi? Poteva nascere con tanto «ritardo» sulle mode letterarie e sull'entusiasmo scientifico? Ci parve che forse solo adesso esistevano le condi-zioni per fare un libro cosi, data la vasta mole di materiále reperi-bile e dato il distacco da un «problema della fiaba» piú scottante. Stando cosi le cose, si venne nell'idea che lo dovessi fare io. Era per me - e me ne rendevo ben conto - un salto a freddo, come tuffarmi da un trampolino in un mare in cui da un seco-lo e mezzo si spinge solo gente che v'ě attratta non dal piace-re sportivo di nuotare tra onde insolite, ma da un richiamo del sangue, quasi per salvare qualcosa che s'agita la in fondo e se no perdercisi senza piu tornare a riva, come il Cola Pesce della leggenda. Per i Grimm7 era lo scoprire i frantumi d'una an- 4 Tra gli scrittori che occasionalmente s'occuparono di fiabe in libri per ragazzi, un raro caso di raccolta diretta e trascrizione fedeie ě quello di ANTONIO BAL-DINI che nel 1923 pubblicó La strada delle meraviglie, nove fiabe raccolte da una ragazza della campagna di Bibbiena. 5 Letture italiane scelte e annotate a nso delle scuole secondarie inferior! da GIOSUĚ CARDUCCI e dal dott. UGO BRILLI, Zanichelli, Bologna 1889. 6 «Cronaca Bizantina», a. VI (1886), nil. 2, 4, 5. 7 Non mi soffermo qui, se non per sparsi accenni, sulla storia degli studi e delle interpretazioni della fiaba. Un ampio e documentato quadro del succedersi delle varie scuole folkloristiche, dei loro risultati, delle loro polemiche, il lettore pud trovare nella Storia del folklore in Europa di GIUSEPPE COCCHIARA (Einaudi, Torino 1952), un manuále utilissimo per ogni approccio preliminare a questo campo di studi, e per l'inquadramento d'essi in una generále storia della cultu- tica religione della razza, custodita dai volghi, da far risorgere nel giorno glorioso in cui, cacciato Napoleone, si risvegliasse la coscienza germanica; per gli «indianisti» erano le allegorie dei primi ariani, che stupiti dal sole e dalla luna, fondavano l'evo-luzione religiosa e civile; per gli «antropologi» gli oscuri e san-guinosi riti d'iniziazione dei giovanetti delle tribu, uguali nelle foreste di tutto il mondo tra quei padri cacciatori e ancor oggi tra i selvaggi; per i seguaci della «scuola finnica» delle specie di coleotteri da classificare e incasellare, ridotte a una sigla algebri-ca di lettere e cifre, nei loro cataloghi - il Type-Index e il Motif-Index - e nei loro tracciati delle fluttuanti migrazioni tra i paesi buddistici, lTrlanda ed il Sahara; per i freudiani, un repertorio d'ambigui sogni comuni a tutti gli uomini, rubati all'oblio dei risvegli e fissati in forma canonica per rappresentare le paure piú elementari. E per tutti gli sparsi appassionati di tradizioni dialettali, l'umile fede in un dio ignoto, agreste e familiäre, che si cela nel parlare dei paesani. Invece io m'immergevo in questo mondo sottomarino disar-mato d'ogni fiocina specialistica, sprovvisto d'occhiali dottri-nari, neanche munito di quella bombola d'ossigeno che ě l'en-tusiasmo - che oggi molto si respira - per ogni cosa spontanea e primitiva, per ogni rivelazione di quello che - con un'espres-sione gramsciana fin troppo fortunata - si chiama oggi il «mondo subalterno»; bensi esposto a tutti i malesseri che comunica un elemento quasi informe, mai fino in fondo dominato co-scientemente come quello della pigra e passiva tradizione orale. («Non sei neppure meridionale!» mi diceva un severo amico ra, e per l'informazione e valutazione del lavoro svolto in Italia parallelamen-te ai piu avanzati studi stranieri. Piú in breve, una storia delle teorie sulla fiaba ě nel primo capitolo di Genesi di leggende dello stesso autore (Palumbo, Palermo 1949). Un manuále che da tutto 1'essenziale sulla fiaba dal punto di vista del metodo «finnico» o «storico-geografico» ě quello di STITH THOMPSON, The Folktale, The Dryden Press, New York 1946. Chi invece voglia vedere esempli-ficate le piú suggestive interpretazioni etnologiche dei motivi delle fiabe, leg-ga il volume di V.J. PROPP, Le radiči storiche del racconto di fate, Einaudi, Torino 1949. (II Propp, studioso sovietico, cerca di integrare il metodo e i risultati della «scuola antropologica» in una storicizzazione marxista.) XII íntroduzione Introduzione xm etrtologo.) E nemmeno, per altro verso, ero catafratto dalľim-permeabilitä delia distinzione crociana tra ciö che ě poesia in quanto un poeta la fa propria e ricrea, e ciö che invece ripiom-ba in un limbo oggettivo quasi vegetale; che anzi, non riesco a dimenticare neanche per un momento con quale misteriosa materia ho a che fare, e sto a sentire sempře affascinato e perples-so ogni ipotesi che le opposte scuole avanzano in questo cam-po, difendendomi solo dal pericolo ehe la teorizzazione faccia velo al godimento estetico ehe si puö trarre da quei testi, e d'al-tra parte guardandomi dalľesclamare troppo presto «ah!» ed «oh!» di fronte a prodotti cosi complessi e stratificati e indefini-bili. Insomma, ci sarebbe stato da chiedermi perché avevo ac-cettato ďoceuparmene, se non fosse per un fatto ehe mi legava alle fiabe, e che dirö piu in lä. Intanto, cominciando a lavorare, a rendermi conto del materiále esistente, a dividere i tipi delle fiabe in una mia empirica catalogazione ehe via via ampliavo, venivo a poco a poco pre-so come da una smania, una fame, un'insaziabilitä di versioni e di varianti, una febbre comparatistica e classificatoria. Sen-tivo prender corpo anche in me quella passione da entomolo-go che m'era parsa caratteristica degli studiosi delle «Folklore Fellows Communications» di Helsinki, una passione che rapi-damente inclinava a trasformarsi in mania, per cui avrei dato tutto Proust in cambio ďuna nuova variante del «ciuehino caca-zecchini», e tremavo di disappunto se trovavo l'episodio dello sposo che perde la memoria abbracciando la madre, al posto di quello delia Brutta Saracina, e il mio occhio si faceva - come nei maniaci - d'una mostruosa acutezza, per distinguere al primo sguardo nel piú ostico těsto pugliese o friulano un tipo «Prez-zemolina» da un tipo «Bellinda». Ero stato, in maniera imprevista, catturato dalla natura tenta-colare, aracnoidea dell'oggetto del mio studio; e non era questo un modo formale ed esterno di possesso: anzi, mi poneva di fronte alia sua proprieta piú segreta: la sua infinita varieta ed infinita ripetizione. E nello stesso tempo, la parte lucida di me, non cor-rosa ma soltanto eccitata dal progredire della mania, andava sco-prendo che questo fondo fiabistico popolare italiano ě d'una ric- chezza e limpidezza e variegatezza e ammicco tra reale e irreale da non fargli invidiar nulla alle fiabistiche piú celebrate dei paesi germanici e nordici e slavi, e non solo nei casi in cui ci s'imbat-te in uno straordinario novellatore orale - piú spesso una novel-latrice - o in una localitá di sapiente tecnica narrativa, ma anche proprio come generali qualitá di grazia, spirito, sinteticitá di di-segno, modo di comporre o fissare nella tradizione collettiva un dato tipo di racconto. Cosi, piú mi sospingevo nella mia immer-sione, piú il controllato distacco con cui m'ero tuffato cadeva, e mi sentivo ammirato e felice del viaggio, e la smania catalogatoria - maniaca e solitaria - veniva scalzata dal desiderio di comunica-re agli altri le visioni insospettate che apparivano al mio sguardo. Ora, il viaggio tra le fiabe ě finite, il libro ě fatto, scrivo questa prefazione e ne son fuori: riusciró a rimettere i piedi sulla terra? Per due arvni ho vissuto in mezzo a boschi e palazzi incantati, col problema di come meglio vedere in viso la bella sconosciuta che si corica ogni notte al fianco del cavaliere, o con l'incertezza se usare il mantello che rende invisibile o la zampina di formica, la penna d'aquila e l'unghia di leone che servono a trasformarsi in animali. E per questi due anni a poco a poco il mondo inter-no a me veniva atteggiandosi a quel clima, a quella logica, ogni fatto si přestává a essere interpreta to e risolto in termini di me-tamorfosi e incantesimo: e le vite individuali, sottratte al solito discrete chiaroscuro degli stati d'animo, si vede vano rapite in amori fatati, o sconvolte da misteriose magie, sparizioni istanta-nee, trasformazioni mostruose, poste di fronte a scelte elemen-tari di giusto o ingiusto, messe alia prova da percorsi irti d'osta-coli, verso felicitá prigioniere d'un assedio di draghi; e cosi nelle vite dei popoli, che ormai parevano fissate in un calco statico e predeterminato, tutto ritornava possibile: abissi irti di serpenti s'aprivano come ruscelli di latte, re stimati giusti si rivelavano crudi persecutori dei propri figli, regni incantati e muti si sve-gliavano a un tratto con gran brusio e sgranchire di braccia e gambe. Ogni poco mi pareva che dalla scatola magica che avevo aperto, la perduta logica che governa il mondo delle fiabe si fosse scatenata, ritornando a dominare sulla terra. XIV Intwduzionc lntroäuzione XV Ora che il libro ě finito, posso dire che questa non ě stata un'al-lucinazione, una sorta di malattia professionale. E stata piutto-sto una conferma di qualcosa che giä sapevo in partenza, quel qualcosa cui prima accennavo, quell'unica convinzione mia che mi spingeva al viaggio tra le fiabe; ed ě che io credo questo: le fiabe sono vere. Sono, prese tutte insieme, nella loro sempře ripetuta e sempře varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale della vita, nata in tempi remoti e serbata nel lento ruminio delle coscienze contadine fino a noi; sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna, soprattutto per la parte di vita che appunto ě il farsi d'un destino: la giovinezza, dal-la nascita che sovente porta in sé un auspicio o una condanna, al distacco dalla casa, alle prove per diventare adulto e poi mature, per confermarsi come essere umano. E in questo somma-rio disegno, tutto: la drastica divisione dei viventi in re e pove-ri, ma la loro parita sostanziale; la persecuzione dell'innocente e il suo riscatto come termini ďuna dialettica interna ad ogni vita; l'amore incontrato prima di conoscerlo e poi subito sofferto come bene perduto; la comune sorte di soggiacere a incantesimi, cioě d'essere determinate da forze complesse e sconosciute, e lo sfor-zo per liberarsi e autodeterminarsi inteso come un dovere elementare, insieme a quello di liberare gli altri, anzi il non potersi liberare da soli, il liberarsi liberando; la fedeltä a un impegno e la purezza di cuore come virtu basilari che portano alla salvez-za e al trionfo; la bellezza come segno di grazia, ma che puö essere nascosta sotto spoglie d'umile bruttezza come un corpo di rana; e soprattutto la sostanza unitaria del tutto, uomini bestie piante cose, l'infinita possibilitä di metamorfosi di ciö che esiste. 2. Criteri del mio lavoro II metodo di trascrizione delle fiabe «dalla bocca del popolo», prese le mosse dall'opera dei fratelli Grimm e s'andö codificando nella seconda metä del secolo in canoni «scientifici», di scrupo-losa fedeltä stenografica al dettato dialettale del narratore orale. Proprio «scientifici» come oggi s'intende i Grimm non furono, ossia lo furono a metä. Lo studio dei loro manoscritti conferma ciö che la semplice lettura dei Kinder- und Hausmärchen giä rive-la all'occhio esercitato: che sulle pagine dettate dalle vecchiette8 i Grimm (particolarmente Wilhelm) lavorarono molto di testa loro, non solo traducendo gran parte delle fiabe dai dialetti te-deschi, ma integrando una variante con ľaltra, rinarrando dove il dettato era troppo rozzo, ritoccando espressioni e immagini, dando unitä di stile alle voci discordanti. Questo richiamo serve a introdurre e giustificare (facendo-mi scudo di nomi cosi famosi e cosi distanti) la natura ibrida del mio lavoro, che ě anch'esso «scientifico» a metä, o se vo-gliamo per tre quarti, e per ľultimo quarto frutto ďarbitrio in-dividuale. Ě scientifica infatti la parte di lavoro che hanno fatro gli altri, quei folkloristi che nello spazio ďun secolo hanno messo pazientemente sulla carta i testi ehe mi sono serviti da materia prima; e su questo loro lavoro s'innesta il lavoro mio, paragonabile come tipo ďintervento alla seconda parte del lavoro svolto dai Grimm: scegliere da questa montagna di nar-razioni, sempře le Stesse (riducibili all'ingrosso a una cinquan-tina di tipi) le versioni piü belle, origináli e rare; tradurle dai dialetti in cui erano state raccolte (o dove purtroppo ce n'e giun-ta solo una traduzione italiana - spesso senz'alcuna freschezza d'autenticitä - provare - spinoso compito - a rinarrarle, cercan-do di rifondere in loro qualcosa di quella freschezza perduta); arricchire sulla scorta delle varianti la versione scelta, quan-do si puö farlo serbandone intatto il carattere, ľinterna unitä, in modo da renderla piü piena e articolata possibile; integra-re con una mano leggera ďinvenzione i punti che paiono eli-si o smozzicati; tener tutto sul piano d'un italiano mai troppo personale e mai troppo sbiadito, che per quanto ě possibile af-fondi le radici nel dialetto, senza sbalzi nelle espressioni «col-te», e sia elastico abbastanza per accogliere e incorporare dal 8 Si sa pure che solo una parte delle fiabe dei Grimm furono raccolte dalla bocca del popolo (essi ricordano soprattutto una contadina d'un villaggio presso Cassel); molte furono riferite da persone colte, come ricordavano d'averle sen-tite narrare nell'infanzia dalle loro nutrici. XVI Introduzione Introduzione xvii dialetto le immagini, i giri di frase piü espressivi e inconsueti. Questo era il mio programma di lavoro, ehe non so fino a ehe punto sono riuscito a realizzare. Dunque, come le note in fondo al volume testimoniano, ho lavorato su materiále giä raccolto, pubblicato in libri e riviste specializzate, oppure reperibile in manoseritti inediti di musei o biblioteche. Non sono andato di persona a farmi raccontare le storie dalle vecehiette; e questo non perché non esistano piú in Italia «luoghi di conservazione», ma perché giä in tutte queste raccolte dei folkloristi soprattutto delľOttocento avevo una grande mole di materiále sul quale lavorare, e tentativi di raccolta originale non so se m'avrebbero dato dei risultati apprezzabi-li ai fini del mio libro.9 E poi, insomma, non ě il mio mestiere, ě un lavoro ehe bisogna saperlo fare, bisogna saper entrare in confidenza col prossimo, e io giä partirei con la prevenzione ehe la gente ha altro per il capo che raccontar favole a me. Forse ogni cosa ha la sua epoca; adesso alia gente ehe non sa scrivere si chiede di raccontare la propria vita e i propri pensieri, come han fatto due cari amici miei, Rocco Scotellaro e Danilo Dolci. Eppure, un modo giusto oggi di raccogliere le fiabe dalla bocca del popolo ci dev'essere, un modo moderno, che si val-ga delia maggiore coscienza storica e sociale e psicologica che oggi abbiamo; ed ě questo che m'auguro: che il mio libro serva a ravvivare in Italia un interesse per queste ricerche, e tra i nostri studi di folklore tornino ad avere il posto dovuto quel-li sulla novellistica popolare, e le lacune esistenti per molte re-gioni vengano colmate, e soprattutto siano ricerche intelligen-ti, aggiornate sulle esperienze straniere piú nuove e interessanti compiute in questo campo. Ho orientato il mio lavoro verso due obiettivi: rappresentare tutti i tipi di fiaba di cui ě documentata l'esistenza nei dialetti italiani; rappresentare tutte le regioni italiane. 9 Apposta per il mio libro, Giovanni Arpino ha raccolto nei dintorni di Bra (Cu-neo) una curiosa leggenda locale, La bnrlm del Conte. Per quel che riguarda la «fiaba» vera e propria, - cioě il rac-conto magico e meraviglioso, che di solito parla di re di paesi indeterminati, - tutti i «tipi» di qualche importanza sono rap-presentati da una o piú versioni che mi sono sembrate le piú rappresentative, le meno schematiche, e le piú impregnate del-lo spirito dei luoghi (spiegheró meglio piú avanti questo concetto). Nei libro, poi, sono sparse anche leggende religiose, no-velle, favole d'animali, storielle e aneddoti, qualche leggenda locale: insomma componimenti narrativi popolari di vario ge-nere in cui mi sono imbattuto nella mia ricerca e che m'hanno colpito per la loro bellezza, oppure che mi sono serviti a rappresentare regioni in cui di fiabe vere e proprie o non ne ho tro-vate o erano versioni troppo povere e comuni per esser prese in considerazione. Mi sono servito pochissimo delle leggende locali riguardanti origini di luoghi o usanze o ricordi storici; ě questo un campo del tutto diverso da quello della fiaba, le narrazioni sono brevi, senza sviluppo, e i volumi dei loro raccoglitori - salvo pochis-sime eccezioni - non riportano le storie con le parole del popolo, ma le rievocano in stile enfatico e nostalgico: insomma, era un materiále inutilizzabile ai fini del mio lavoro. Per dialetti italiani ho inteso quelli dell'area linguistica ita-liana, non quelli dell'Italia politica. Quindi ho preso in considerazione le fiabe del Nizzardo e non quelle della Val d'Aosta,10 quelle di Zara e non quelle dell'Alto Adige. Ho fatto un'ec-cezione per i Greci di Calabria di cui ho pubblicato due fiabe (ma m'e parso che il loro folklore narrativo fosse molto fuso con quello del resto della Calabria; e poi mi veniva bene di mettercele). In calce a ogni fiaba del volume e'e tra parentesi un nome di localitá o regione. Esso non vuole assolutamente significa- 10 La Val d'Aosta ě una regione cosi importante folkloristicamente che mi ě di-spiaciuto escluderla; ma dalle raccolte risulta solo un fondo di leggende locali, che nei mio libro sarebbero sembrate completamente staccate da tutto il resto, e i nomi francesi dei luoghi, o addirittura tedeschi (nella valle di Gressoney, molto ricca di leggende) avrebbero accentuato ancora di piú questo divario. Will Intraduzkme Introduzione xix re che quella fiaba e di quel luogo. Le fiabe, si sa, sono uguali dappertutto. Dire «di dove» una fiaba sia non ha molto sense.: anche gli studiosi della scuola «finnica» o storico-geografi-ca, che orientano le loro ricerche appunto verso la determina-zione della zona d'origine di ciascun tipo di fiaba, raggiungono risultati molto incerti, spesso oscillanti tra Asia e Europa. Ma la circolazione internazionale - uso le parole di Vittorio Santo-li11 - «nella comunanza non esclude la diversita», che si esprime «attraverso la scelta o il rifiuto di certi motivi, la predilezione per certe specie, la creazione di certi personaggi, l'atmosfera che avvolge il racconto, le caratteristiche dello stile che riflet-tono una determinata cultura formale». Diciamo dunque ita-liane queste fiabe in quanto raccontate dal popolo in Italia, entrate per tradizione orale a far parte del nostro folklore nar-rativo e similmente le diciamo veneziane o toscane o siciliane; e poiche la fiaba, qualunque origine abbia, e soggetta ad assor-bire qualcosa dal luogo in cui e narrata, - un paesaggio, un costume, una moralita, o pur solo un vaghissimo accento o sa-pore di quel paese, - il grado in cui si sono imbevute di questo qualcosa veneziano o toscano o siciliano e appunto il criterio preferenziale della mia scelta. Sono le note in fondo al volume che danno ragione del nome di localita che ho apposto ad ogni fiaba, ed elencano le versioni in altri dialetti italiani da me viste. Attraverso le note, sara ben chiaro che la designazione Monferrato o Marche o Terra d'Otranto non significa che quella fiaba sia del Monferrato, delle Marche, della Terra d'Otranto, ma soltanto che ho per quella fiaba tenuto presente soprattutto una versione del Monferrato o delle Marche o della Terra d'Otranto, perche tra le varie versioni a mia disposizione, quella m'e parsa non solo la piu bella o piu ricca o meglio narrata, ma anche quella che, messe le sue radi-ci in un terreno, ne ha tratto piu succo, s'e fatta piu monferrina, piu marchigiana, piu otrantina. Ma non si creda che versioni dotate di questi requisiti si tro- 11 Dalla prefazione aW'lndice delle fiabe toscane del U'ARONCO, citato a p. XXXII. vino in egual misura nel materiále ďogni regione; ě da dire che in molti dei primi folkloristi la spinta a raccogliere e a pubblica-re era nutrita dalla passione «comparatistica» propria della cultura letteraria dell'epoca, per cui ľaccento batteva sull'eguale anziché sul diverso, sulla testimonianza della diffusione mon-diale d'un motivo piuttosto che sulla definizione d'un accento particolare del luogo, del tempo e della personalita di chi nar-ra. Le designazioni geografiche del mio libro sono in certi casi d'una evidenza assoluta (in molte delle siciliane, per esempio) mentre in altri casi sembreranno arbitrarie, giustificate soltanto dal riferimento bibliografico della nota. Prevedo giä molte delle critiche che m'aspettano. Chi predi-lige il testo popolare genuino non mi poträ perdonare d'averci «messo le mani» e anche soltanto d'aver preteso di «tradurre». Chi d'altra parte rifiuta il concetto di «poesia popolare», m'ac-cuserä di timidezza e mancanza di liberta e pigrizia, per i miei scrupoli di fedeltä e le pretese di documentazione; insomma per non aver fatto, sullo spunto di qualche tema popolare che par-ticolarmente m'ispirasse, un'opera completamente mia, come nella tradizione dei nostri novellieri classici, o come le fiabe let-terarie settecentesche o romantiche, o come l'Andersen. Non sarô insensibile a queste espressioni di scontento, perche sentirô in esse riecheggiare scontentezze mie, che m'hanno sovente assalito durante il lavoro: quante volte mi sono trovato di fronte a una pagina vernacola che tradurre equivaleva a uc-cidere; e quante volte d'altro canto d'una fiaba non trovavo che testimonianze cosi gracili da domandarmi se non dovevo, per salvarla, ritesserla da cima a fondo di nuove trovate e immagini. Eppure, il mio lavoro non poteva esser impostato con un metodo diverso. Non mi soffermo sul secondo tipo di obiezioni: le creazioni felici non vengono mai per programma. Discuto la prima obiezione, che prevedo sarä la fondamentale, quella della legittimitä del mio intervento sui testi. Certo, cercar di tradurre dei canti popolari dialettali sarebbe impresa assurda: lä ě il verso, la parola che conta. La fiaba gode della maggior tradu-cibilitä che ě privilegio (e, se vogliamo, limite) della narrativa; XX Introduzione Introduzione XXI e questo libro é nato col preciso intento di rendere accessibile a tutti i lettori italiani (e stranieri) il mondo fantastico contenuto in testi dialettali non da tutti decifrabili. Le raccolte in dialetto - segnalerô piú in lä quali tra esse hanno un interesse non me-ramente specializzato - giä esistono (anche se non facilmente reperibili); m'auguro ehe il mio libro metta voglia a qualche let-tore ďandare a ricercarle e a leggerle, e magari a qualche edi-tore di ristamparle. Una traduzione pura e semplice, dunque, sarebbe bastata? Si ricordi ehe le raccolte delle varie regioni sono state condot-te con criteri diversi: Imbriani, Pitré raceoglievano e facevano raceogliere con estrema fedeltä alle sfumature, agli intercalari, ai modi di dire, alle parole anche incomprensibili, agli spropo-siti usciti di bocca del narratore; Comparetti, Visentini pubbli-cavano la novellina tradotta in italiano, talora ridotta a un fred-do compendio; la Gonzenbach e lo Schneller facevano lo stesso ma in tedesco, Andrews in francese; De Nino riferiva le fiabuc-ce abruzzesi in italiano con un piglio di vivacitä «popolaresca» letteraria; Zorzút riporta le sue in friulano, con tutte le čarte in regola, ma il taglio é letterario, un po' estetizzante; a Monta-le Pistoiese poi (donde proviene il bellissimo libro di Neruc-ci), pare si racconti in un modo diverso da tutto il resto ďltalia: circostanziato, verboso, perfin prolisso... II mio lavoro é consi-stito nel cercar di fare di questo materiále eterogeneo un libro; nel cercar di comprendere e salvare, di fiaba in fiaba, il «diver-so» ehe proviene dal modo di raccontare del luogo e dalľaccen-to personale del narratore orale, e ďeliminare - cioé di ridur-re ad unitä - il «diverso» ehe proviene dal modo d i raceogliere, dalľintervento intermediario del folklorista. Un discorso a parte devo fare per le fiabe toscane. La stes-sa operazione di traduzione delle fiabe dai dialetti di tutťlta-lia (e di riserittura delle fiabe ehe ho trovato giä tradotte) ľho dovuto compiere per le fiabe delia Toscana. Perché quelli par-lati in Toscana sono dialetti né piú né meno degli altri, diversi dalľitaliano quanto gli altri e talora piú oseuri; e se nel mio libro non va seritto: «Sentu un ciäuru di carni munnana», non va seritto nemmeno: «Pinto e incoraggito dagli sberci delia mo- glie, a bruzzolo il pescatore rideccolo al lago». Certo, il lavoro su testi toscani e stato il piu difficile, quello i cui risultati sono piu discutibili, quello in cui il confronto coi testi e piu facile e quasi sempre a me svantaggioso. Per molti testi, poi, dovevo (al contrario di quel che ho fatto di solito per gli altri dialetti) cercare d'abbassare d'un grado il tono del linguaggio, di sco-lorire e rinsecchire un po' il vocabolario troppo ricco e cari-co e compiaciuto; lavoro che ho fatto a malincuore, pensando all'efficacia, alia finezza, all'armonia interna di quelle pagine, ma anche con la spietata sicurezza che ogni operazione di «ri-nuncia» stilistica, di riduzione all'essenziale, e un atto di mo-ralita letteraria. Insomma, variano da fiaba a fiaba la misura e la qualita del mio intervento, a seconda di quel che il testo mi suggeriva. Talora esso m'imponeva un tale rispetto che non potevo che cercare di tradurlo pari pari (certe cose pugliesi come J cinque scape-strati o siciliane come Sperso per il mondo o Sfortuna o l'allegoria L'orologio del barbiere), talaltra invece mi si presentava come un mero punto di partenza per un esercizio di stile (nella fiabuc-cia infantile 11 bambino nel sacco ho inventato nomi e filastrocche; in Diavolozoppo, forse per togliermi la soggezione del riscontro letterario, il Belfagor di Machiavelli, mi sono messo a giocare con qualche rozzo suggerimento del testo; nella leggenda sar-da di Sant'Antonio ho «montato» la narrazione come pareva a me, su spunti della tradizione; per le fiabe liguri, su una gracile traccia, ho lavorato di testa mia, supponendo un testo dialetta-le che non avevo, ecc). Talvolta ho dato un nome ai personaggi della fiaba, solitamente anonimi e questo bastava a far scatta-re qualcosa, a passare da un gradino a un altro nella scala della partecipazione poetica. In tutto questo mi facevo forte del proverbio toscano caro al Nerucci: «La novella nun e bella, se sopra nun ci si rappella», la novella vale per quel che su di essa tesse e ritesse ogni volta chi la racconta, per quel tanto di nuovo che ci s'aggiunge pas-sando di bocca in bocca. Ho inteso di mettermi anch'io come un anello dell'anonima catena senza fine per cui le fiabe si tra-mandano, anelli che non sono mai puri strumenti, trasmetti- XXII Introduzione Introduzione XXI11 tori passivi, ma (e qui il proverbio e Benedetto Croce s'incon-trano) i suoi veri «autori». 3. Le raccolte folkloristické 11 lavoro che in quasi un secolo i folkloristi hanno compiuto per documentare la narrativa orale italiana, ha una distribu-zione geografica molto ineguale. D'alcune regioni mi sono tro-vato a disposizione una miniera di materiále, d'altre quasi nulla.12 Raccolte copiose e ben fatte ne esistono soprattutto di due regioni: Toscana e Sicília.13 Ed ě dalla Toscana e dalla Sicilia che ci vengono le due raccolte piú belle ehe lTtalia possieda. Sono le Sessanta novelle popolmi montalesi di Gherardo Nerucci e le Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani di Giuseppe Pitrě. Ľuno ě un libro in un biz-zarro vernacolo del contado pistoiese, presentato come těsto di lingua e bella lettura; ě il libro ďuno scrittore. L'altro consiste in quattro volumi che contengono, ordinati per genere, testi in tutti i dialetti della Sicilia, con gran eura di darne la documen-tazione piú precisa possibile, zeppi di postille con «varianti e ri-scontri», note lessicali e comparatistiche; ě il libro d'uno scien-ziato. Tutt'e due rappresentano, per vie diverse, un optimum di possibile restituzione sulla carta di quella particolare e labile arte che ě il raccontare a voce. E tutt'e due sono - lasciando da parte folklore, fedeltä stenografica, tradizione orale eccete-ra - due bei libri, due bei testi quasi sconosciuti della letteratu-ra italiana, in cui meritano d'entrare a tutti i diritti, come gli Ultimi nostri grandi «novellini». 12 In questo capitolo, darö alcuni cenni generali, regione per regione, sulle raccolte di cui mi sono servito. Piü precise indicazioni d'ogni libro sono reperibili nella bibliografia in fondo al volume [vedi p. 1005] e nelle note a ciascuna fiaba, anch'esse in fondo al volume. 13 Toscana e Sicilia (e poi Piemonte e Toscana-SiciJia) sono state pure - com'e noto -i due poli delle prime ricerche sul canto popolare italiano. Ma non ě possibile estendere alia fiaba i problemi ehe si pongono per il canto, legati a fatti linguistics e metrici (vedine una rassegna nell'introduzione di PIER PAOLO PASOLINI al suo Canzoniere italiano, antológia della poesia popolare, Guanda, Bologna 1955). I quattro volumi di Fiabe, novelle e racconti popolari siciliaui'A contengono trecento narrazioni (e cento varianti riassunte in nota) di tutte le province della Sicilia (la raccolta in tedesco del-la Gunzenbach era limitata alle province ioniche), messe sulla carta da Giuseppe Pitrě (1841-1916), un medico votatosi agli studí di folklore, e dalla vasta équipe di raccoglitori da lui diretti. Non tutti i pezzi, naturalmente, hanno una ragione di bellezza che ne raccomandi la conservazione, ma stupisce, soprattutto avendo pratica delle raccolte consimili, la proporzione dei pezzi rimarchevoli, prodotti d'un artigianato narrativo finissimo. Qual ě il segreto della raccolta? Ě che con essa usciamo dal-l'astratta idea del «popolo» raccontatore, e ci poniamo di fronte a personalita di narratori e narratrici ben distinte,15 segnate quasi sempre con nome e cognome, etä e mestiere, di modo che possiamo, sul calco delle storie senza tempo né volto, di tra il grezzo anonimo parlato dialettale, scavar fuori qualche scoper-ta o sia pur qualche accenno d'un mondo d'immaginazione piü sofferto, d'un ritmo inferiore, una passione, una speranza che s'esprimano attraverso quest'attitudine a favoleggiare. Una tale via, che ebbe i suoi primi maestri in Italia nel Pitrě e nel Nerucci, entrö poi nei canoni della raccolta «scientifica» ed ě seguita in tutte le raccolte piú recenti, ma qui non facciamo discorso di metodo folkloristico, parliamo d'uno speciale spirito con cui il racconto orale ě inteso. La raccolta del Pitrě ě del 1875; nel 1881 il Verga scrive I Ma- 14 Ai quattro volumi maggiori vanno aggiunte le altre raccolte siciliane che il PITRE pubblicö prima e dopo: Saggio di Fiabe e novelle popolari siciliane, Palermo 1873; Nwoo Saggio di Fiabe e novelle popolari siciliane, Imola 1873; Otto fiabe e novelle popolari siciliane, Bologna 1873; Novelline popolari siciliane raccolte in Palermo, Palermo 1873; Fiabe e leggende popolari siciliane, Palermo 1888; Studi di leg-gende popolari in Sicilia e Nuova raccolta di leggende siciliane, Torino 1904. Ma per notizie bibliografiche piü precise, cfr. G. PITRE, Bibliagrafia delle tradizioni popolari d'ltalia, Palermo 1894, pp. 51-54 (nn. 714-51). 15 Giä i due volumi di Laura Gunzenbach erano usciti con in frontespizio i ri-tratti di due narratrici nel costume del paese: Caterina Certo di San Pietro di Monforte (Messina) e Francesca Crialese del Borgo di Catania. Ma nel testo non v'era indicazione di chi narrava racconto per racconto. XXIV Introduzione Introduzione XXV lavoglia. É stato il Cocchiara16 a istituire il parallelo tra i due sici-liani, il poeta e lo scienziato, ehe contemporaneamente (il primo bozzetto «siciliano» del Verga é del '74) tendevano ľorecchio, pur con diversissimi intenti, ad ascoltare pescatori e comari, a rifarsi alle loro parole. Come non comparare il catalogo ideále di voči e proverbi ed usi ehe ľuno e ľaltro cercarono di com-porre, il romanziere ordinandolo sul ritmo interiore suo lirico e corale, il folklorista in un museo ben etichettato ehe si sno-da attraverso i venticinque volumi delia «Biblioteca delle tra-dizioni popolari siciliane» (1871-1913), le ventiquattro annate delia sua rivista (ľ«Archivio per lo studio delle tradizioni popolari^ 1882-1906), i sedici volumi delia collana «Curiositä popolari tradizionali», e anche le sale del Museo vero e proprio, quelle ehe sono ora nei padiglioni delia «Favorita» a Palermo? Quella prima vera entrata in scéna del popolo, ehe nella lette-ratura italiana avviene col linguaggio del capolavoro di Verga - il primo serittore ehe si ponga a registrare, quasi come un folklorista, i modi del dialetto, - nel folklóre avviene col Pitré, -il primo folklorista ehe si proponga di registrare non solo mo-tivi tradizionali o usi linguistici, ma la poesia. Con il Pitré il folklóre prende coscienza delia parte ehe nelľesi-stere stesso ďuna tradizione di racconto ha la ereazione poeti-ca di chi narra, quel qualcosa ehe - diversamente da ciô ehe avviene per il canto, fissato una volta per tutte nei suoi verši e nelle sue rime, ripetuto anonimamente nei cori, con un margine li-mitato di possibili varianti individuali - per la fiaba dev'essere riereato ogni volta, cosieché al centro del costume di raccontar fiabe é la persona - eccezionale in ogni villaggio o borgo - delia novellatrice o del novellatore, con un suo stile, un suo fascino. Ed é attraverso questa persona ehe si mutua il sempre rinnova-to legame delia fiaba atemporale col mondo dei suoi ascoltato-ri, con la Storia.17 1(1 Cfr. il cap. XX delia citata Storia del folklóre in Európa. 17 Su questa via si sono sviluppate le ricerche nelľUnione Sovietica. Scrive il THOMPSON, nel citato volume The Folktale (pp. 451 sgg.) «1 folkloristi russi han-no dato speciale attenzione alle differenze individuali tra i novellatori. In mol- Cosi, protagonista delia raccolta del Pitré é una vecehia narratrice analfabeta, Agatuzza Messia, «cucitrice di coltro-ni ďinverno al Borgo (quartiere di Palermo) nel largo Celso nero n. 8» e antica donna di casa Pitré. Un gran numero dei piú bei «cunti» del Pitré vengono dalla sua bocca, e la mia scelta se n'é largamente giovata (cfr. dal n. 148 al 158). Ecco come il Pitré nella prefazione delia raccolta deserive la sua «narratrice-modello»: Tutťaltro ehe bella, essa ha parola facile, frase efficace, maniera attraente di raccontare, ehe ti fa indovinare delia sua straor-dinaria memoria e delľingegno ehe sorti da nátura. La Messia conta giä i suoi settanťanni, ed é madre, nonna ed avola; da fan-ciulla ebbe raccontate da una sua nonna, ehe le aveva apprese dalla madre e questa, anche lei, da un suo nonno, una infinitä di storielle e di conti; aveva buona memoria, e non le dimenti-cô mai piú. Vi son donne ehe avendone udite centinaia, non ne ricordano piú una; e ve ne sono ehe, ricordandosene, non han-no la grazia di narrarle. Tra le sue compagne del Borgo, rione o, come dice il popolo, quartiere di Palermo, essa godeva riputa-zione di brava contatrice, e piú la si udiva, e piú si aveva voglia di udirla. Presso ehe mezzo secolo fa, ella dovette recarsi insieme col marito in Messina, e vi dimoró qualche tempo: circostanza, questa, degna di nota, giacehé le popolane nostre non usciva-no mai dal proprio paese altro ehe per gravissime bisogne. Tor- te delle loro raccolte, le fiabe raccontate da ciascun narratore sono raggruppate insieme, con notizie sulla sua vita e il suo ambiente sociale. Naturalmente, anche i russi riconoscono ľimportanza delle loro fiabe per il folklore comparato, e di solito vi richiamano ľattenzione nelle loro note, ma il loro interesse principále ě nel racconto popolare come elemento delia vita sociale. La persona del narratore e i suoi rapporti con gli amici e i vicini ě perciö di primaria importan-za per questi Studiosi». II Thompson prosegue riassumendo uno studio del piú importante esponente delia scuola sovietica, MARK K. AZADOVSKIJ (Eine Sibirische Märchenerzählerin, FFC, Helsinki 1926) che tratta dei gruppi di vagabondi ex deportati sul fiume Lena in Siberia, i quali girano per i villaggi raecon-tando storie (storie che riescono a prolungare infinitamente per essere ospitati fino all'ora di cena o ďandare a letto) e analizza i vari stili individuali di nar-razione. Si vedano anche le concezioni di Gorkij e di Sokolov, esposte dal COCCHIARA alle pp. 567-72 della citata Storia del folklore in Europa. XXVI Introduzione Introduzione XXVII nando in patria, essa parlava di cose di cui non potevano parla-re le comari del vicinato (...) La Messia non sa leggere, ma la Messia sa tante cose che non le sa nessuno, e le ripete con una proprieta di lingua che ě un piace-re a sentirla. Questa ě una delle caratteristiche sue, sulla quale chiamo l'attenzione dei miei lettori. Se il racconto cade sopra un bastimento che dee viaggiare, ella ti mette fuori, senza accorger-sene o senza parere, frasi e voci marinaresche che solo i marinai o chi ha da fare con gente di mare conosce. Se la eroina della novella capita, povera e desolata, in una casa di fornai e vi si allo-ga, il linguaggio della Messia ě cosi informato a quel mestiere che tu credi esser ella stata a lavorare, a cuocere il pane, quando in Palermo questa occupazione, ordinaria nelle famiglie de' picco-li e grandi comuni dell'Isola, non ě che de' soli fornai. Non par-liamo ove entrino faccende domestiche, perché allora la Messia ě come in casa sua; né puö essere altrimenti di una donna che, ad esempio, di tutte le popolane del suo rione ha educate alia casa e al Signore, come esse dicono, i suoi figli e i figli de' suoi figli (...) La Messia mi vide nascere e mi ebbe tra le braccia: ecco perché io ho potuto raccogliere dalla sua bocca le molte e belle tradi-zioni che escono col suo nome. Ella ha ripetuto al giovane le sto-rielle che avea raccontate al bambino di trenta anni fa; né la sua narrazione ha perduta un'ombra della antica schiettezza, disin-voltura e leggiadria. Chi legge, non trova che la fredda, la nuda parola; ma la narrazione della Messia piú che nella parola consi-ste nel muovere irrequieto degli occhi, nelľagitar delle braccia, negli atteggiamenti della persona tutta, che si alza, gira intorno per la stanza, s'inchina, si solleva, facendo la voce ora fiacca, ora concitata, ora paurosa, ora dolce, ora stridula, ritraente la voce de' personaggi e ľatto che essi compiono. Della minúca delle nar-razioni, specialmente della Messia, ě da tener molto conto, e si puö esser čerti che, a farně senza, la narrazione perde metá della sua torza ed efficacia. Fortuna che il linguaggio resta qual é, pieno d'ispirazione naturale, a immagini tutte prese agli agenti esterni, per le quali diventano concrete le cose astratte, corporee le soprasensibili, vive e parlanti quelle che non ebbero mai vita o ľebbero solo una volta. Della tipica novellatrice siciliana, la Messia ha la narrazione piena di colori, di natura, di oggetti, sollecita al mera- viglioso ma facendolo spesso nascere da un dato realistico, da una rappresentazione della condizione del popolo; e cosi la lingua ricca d'invenzione ma pur ancorata al buon senso dei modi di dire e dei proverbi. E (caratteristica che mi sem-bra giä personale, di scelta sua di contenuti), ě pronta sempře a far muovere personaggi femminili attivi, intraprenden-ti, coraggiosi, che paiono quasi in aperto contrasto con ľidea passiva e chiusa della donna che si pensa tradizionale della Sicília. Non ha invece - direi - una nota che ě invece forse la dominante di gran parte dei «cunti» siciliani: lo struggimen-to amoroso, la predilezione per i motivi delľamore - sposo o sposa - perduto, questo motivo di tanta parte della fiabisti-ca mediterranea sin dalla sua piú antica testimonianza scrit-ta, la fiaba «grecanica» di Amore e Psiche raccontata nell'Asi-no ďoro di Apuleio (secolo II d.C), e vivo fin qui nelle cento e cento storie d'abbracci e sparizioni, di sposi misteriosi e sot-terranei, di spose invisibili, di re cavalli o serpenti che la not-te diventano giovani bellissimi, o di delicatissime storie tra la fiaba, la novella e la ballata, come quel sospiro di malinco-nica gioia sensuale che ě La sorella del Cants. Se la ricca immaginazione di meraviglie della fiaba siciliana si dispiega su una gamma piuttosto ristretta di motivi, e spesso con un punto di partenza realistico (quante famiglie affama-te, che si mettono a cercar erbe per la minestra nella campa-gna!), la fiaba toscana mostra d'essere un territorio aperto agli influssi piú diversi, un frutto piú «colto» e ben aggiornato. Tipko «luogo di conservazione» non chiuso, ma che faceva da spugna a tutte le storie che correvano per ľltalia, doveva essere Montale, nel «circondario» di Pistoia, il paese delľavvocato Gherardo Nerucci e delle sue Sessanta novelle popolari montale-si. In una delle quali, un certo «Pietro di Canestrino operante» ci dä, con la Regina Marmotta, il piú ariostesco racconto che sia stato trascritto da bocca di popolano, figliato da non so qual sottoprodotto delľepica cinquecentesca, non nella trama, che nelle sue grandi linee ě quella d'una fiaba assai diffusa, e nep-pure nella fantastica geografia che era pure nei cantari cavalle- XXVIII Introduzione Introduzione XXIX reschi, ma nel modo di raccontare, di creare il «meraviglioso» attraverso la dovizia di descrizioni di giardini e palazzi (assai piú estese e letterarie nel testo montalese di quanto non ap-paia nel mio rifacimento, molto abbreviato, per non scostar-mi troppo dal tono generale dei libro). La descrizione dei pa-lazzo della Regina comprende persino un catalogo di famose beltä dei passato introdotte sotto forma di statua: «... e queste statue rappresentavano taňte famose donne, compagne nel ve-stiario, ma diverse in nella faccia, ed erano, Lucrezia di Roma, Isabella di Ferrara, Elisabetta e Leonora di Mantova, Varisilla Veronese, di belľaspetto e di sembianze rare; la sesta, Diana di Re gno Morese e Terra Luba, la piú rinomata per bellezza in Spagna, Francia, Itália, Inghilterra e Austria e piú sublime per regio sangue...», e čosi seguita. II volume delle Sessanta montalesi usci nel 1880, dopo che giä gran parte delle piú importanti raccolte italiane erano usci-te, ma ľavvocato Gherardo Nerucci (che era un po' piú vec-chio18 degli altri folkloristi della generazione «scientifica») aveva cominciato a raccogliere molto presto, nel 1868, e parec-chie delle «sessanta» erano giä state incluse nei libri dei col-leghi: tra i piú bei pezzi delle raccolte Imbriani e Comparetti ci sono i suoi. II Nerucci non s'occupava di novellistica com-parata (la sua passione per i racconti popolari era quella lin-guistica) e non aveva come gli altri la mánia dei «riscontri». Ma giä dalle note delľlmbriani si vede come per le montalesi vengano fuori, piú che elenchi di varianti folkloristiche, ci-tazioni di «fonti» letterarie. Certo, anche a Montale spunta-no tipi di fiabe oscuri e preistorici come Testu di Bufala, che par chieda a gran voce ľinterpretazione delľetnologo; oppu-re, ďaltro canto, di quelle dalľaria stranamente «inventata» e moderna come La novellina delle scimmie; ma quante, invece, che ripetono motivi e tráme di poemetti popolari (e qui pos-siamo risalire ai secoli dal XIV al XVI), e quante delle Mille e una nottel Queste delle Mille e una notte sono čosi fedeli (tra- 1828-1906. Aveva combattuto studente a Curtatone e ne scrisse poi i ricoťdi. sposti solo gli ambienti) alla traduzione settecentesca france-se dei Galland (cioé a un rifacimento nel gusto d'Occidente) da escludere che si tratti ďapporti anticamente giunti chis-sä per quali vie orali dall'Oriente; non c'é dubbio che si tratti invece di casi di «discesa» dalla letteratura al folklóre in epo-ca non lontana da noi.19 E certo, di fronte a un Paolino da Perugia raccontato dalla Luisa vedova Ginanni, che ripete da principio alla fine la trama delľAndreuccio da Perugia di Boccaccio - andato non a Napoli ma «in un altro paese poco di-scosto» dove «ci facevano una gran fiera» - non credo che la nostra pietas arcaizzante possa sperare ďaver ritrovato il filo della tradizione orale alla quale ai tempi suoi s'era abbevera-to il Boccaccio e che ha continuato a correre per conto suo di bocca in bocca; e non, piuttosto, una diretta «discesa» verna-cola della piú picaresca novella dei Decamerone. Ed ecco che il nome di Boccaccio ci avvicina a definire lo spirito con cui a Montale Pistoiese si raccontano storie.20 Si direbbe che in questo paese si sia fissato (o Nerucci v'abbia colto) il nodo tra fiaba e novella, il momento di trapasso tra racconto di meraviglie magiche e racconto di fortuna o bravúra individuale, cioé i tipi di racconto «borghese»: novella o romanzo ďavventura oppure histoire larmoyante di donna perseguitata. Prendiamo // figlio dei mercante di Miláno che ap-partiene a un tipo di fiaba molto antico e oscuro: il giovane che trae da certe sue avventure - dovunque le Stesse, in cui 19 Una delle piü suggestive, Ilfigliolo dei Re di Francia, raccontata da Giovanni Becheroni contadino, ľavevo giä messa nella mia scelta, e non riuscivo a capi-re che mistero ci fosse sotto: aveva dei motivi uguali a un racconto delle Mille e una notte nella nostra versione filologica dei Gabrieli, ma lä era un racconto oscuro e lacunoso, qui tutto filava perfettamente; poi andai a guardarmi il Galland e trovai il racconto montalese tale e quale, tanto che dovetti rinunciare a includerlo nel mio libro, perché - tolto il vernacolo e i nomi dei luoghi - non aveva nulla ďoriginale. 20 «... Le briciole della poetica e della tecnica dei Decamerone e dei suoi deri-vati classici, facilmente si riconoscerarmo nel brioso tritume di tarde raccolte provinciali o vernacole, come quelle delľlmbriani e dei Nerucci.» EMILIO CEC-CHI, nella prefazione alla la giornata dei Decamerone dell'Universale Economi-ca, Miláno 1950. XXX Introduzione Introduzione xxxi hanno parte un cane, un cibo avvelenato, degli uccelli - un indovinello di versetti insensati e lo propone a una principes-sa risolvitrice ďenigmi, e cosi vince la sua mano. A Montale 1'eroe non ě il solito predestinato, ma ě un giovane ďiniziati-va pratica, disposto a rischiare, che sa far fruttare i guada-gni e rifarsi delle perdite. Tanťě vero che - comportamento assai strano per un eroe di fiaba - anziehe sposare la princi-pessa, la esime da ogni impegno verso di lui in cambio ďun vantaggio economico; e questo gli succede non una ma due volte di seguito, la prima in cambio ďun oggetto magico (o meglio, dell'autorizzazione a guadagnarselo) e la seconda, ancor piú praticamente, in cambio d'una rendita fissa. L'ori-gine soprannaturale delle fortuně di Menichino passa in seconda linea di fronte alla sua vera abilitä che ě quella di far fruttare questi poteri magici e di sapersene conservare i van-taggi. Ma la vera, prima virtú di Menichino ě un'altra: ě la sincerita, il saper riscuotere fiducia dalla gente; una virtú da uomo ďaffari. LAgatuzza Messia di Nerucci si chiama Luisa vedova Ginan-ni. Tra i novellatori di Montale ě quella che sa piú fiabe (i tre quarti della raccolta vengono da lei) e sa rappresentarle spes-so con le immagini piú suggestive, ma non c'ě un forte diva-rio tra la sua e le altre voci della raccolta, quelle di Ferdinando Giovannini sarto, di Giovanni Becheroni contadino, di Pietro di Canestrino «operante», e d'altri ancora. II libro di Nerucci ci si presenta come un libro molto unitario, un saggio dello straor-dinario vernacolo di quando i montalesi vogliono parlare in ita-liano, un toscano duro, storpiato, arrotato, ma finalmente senza vezzi, se non la presunzione del dialetto che s'atteggia a «lin-gua», con effetti quasi parodistici: Le donne, sperso Pietro e nun vedendolo piú, si messano a ricercarlo; e doppo dimolti mesi, cammina cammina arrivor-no anche loro a piě dentro al porto di Spagna, e, accomide in un albergo, da un perruechieri si fecian tagliar corti i capelli e da un sarto přesáno de' vestuari, e accosi si trasficurirno da omo; poi al camberieri gli dissano se c'era modo d'impiegarsi in qualche casa. Arrisponde il camberieri: - C'e un omo a po- sta che cerca servitori per gli altri. Se vi garba, tra poco lui ha da vienir qui, vo' potete parlarne con seco -. Uomo all'ora so-lita nentró nelPalbergo, e le du' donne gli manifestorno il su' pensieri. Dice quelFomo: - Oh! Appunto manca il coco e il camberieri al nostro Governatore novo della cittá. I' vi mette-ró li tutťaddua -. Fatto dunque e' patti, la figliola del ciabatti-no piglió il posto di coco, e la su' camberiera quello di camberieri; ma, né Pietro ricognobbe loro, né loro ricognobban punto Pietro (p. 230). Un vernacolo - va ricordato - dal Nerucci rimaneggiato sulla pagina, con la sicurezza che gli veniva dalla perfetta conoscenza,21 reso il piú omogeneo possibile e il piú rappre-sentativo degli usi linguistici locali: lavorato, insomma, dalla penna ďuno serittore, e il suo libro si presenta perció - come dicevo - piú come opera ďautore che come volume di racco-glitore comparatista, nudo di note, con solo la stringata indi-cazione, sotto ogni titolo, di chi ha raccontato la novella. Ma egli seppe sempře renderci il tono parlato, il caratteristico sti-le narrativo montalese: un modo di raccontare senza fretta né economia, zeppo di particolari fino a diventare in čerte par-ti verboso e prolisso, senza scorciatoie, senza forza di sinte-si, e che ha il suo sapore appunto in questa straordinaria fa-cilitá verbale. Ho detto come il mio lavoro di traserizione o riserittura, ap-plicato ai testi toscani, sia stato spinoso, con un bilancio in si-cura perdita. Ed ě appunto su quella quindicina di fiabe che ho tratto da Nerucci - proprio perché sono le piú belle, quelle che giá hanno uno «stile» - che ě stato piú brutto lavorare. (Mentre invece nei testi siciliani della raccolta Pitrě, piú belli erano meglio lavoravo: traducendo letteralmente o liberamente secon-dando 1'avvio del těsto.) Tolto il lessico dialettale, riassorbita la prolissitá del narrare che fuor di quel contesto lessicale non avrebbe sapore e stonerebbe con lo stile del resto del libro, cosa rimane nelle mie rinarrazioni? Poco. Perció, a chi vuole legge- 21 Egli era autore ďun Saggio sopra i Parlari Vernacoli della Toscana: Vernacolo Montalese (contado) del sotto-dialetto di Pistoia, Milano 1865. XXXll Introduzione Introduzione xxxn re le vere fiabe di Montale, io non posso far altro che rimanda-re al volume di Nerucci; nulla io credo d'avergli tolto della sor-presa a gustarle. Toscana22 e Sicília sono - come dicevo - le due regioni privi-legiate per quantitä e qualitä di fiabe raccolte. A fianco d'esse, appena un passo indietro, per una coloritura di mondo fanta-stico sua propria, e per ľabbondanza e la qualitä del materiále raccolto, sta Venezia, anzi tutta l'area dei dialetti veneti. II nome che qui conta é quello d'un laboriosissimo ricercatore di tradi-zioni dialettali veneziane, Domenico Giuseppe Bernoni, che tra i suoi molti opuscoli ne dedicö alcuni (nel 1873,1875,1893) alle 22 La Toscana, oltre a quella di cui ho parlato, ha un mare di raccolte (si veda il recentissimo hidice delle fiabe toscane di GIANFRANCO D'ARONCO, Olschki, Fi-renze 1953). Le Novelline di Santo Stefano di Calcinaia (1869) del contado senese, delľindianista e poligrafo ANGELO DE GUBERNAT1S (1840-1913), sono in reda-zione non stenografica e un po' compendiata. La Novellaja fiorentina (1871) del patriota e giornalista VITTORIO IMBRIANI (1840-86), dä versioni fedeli al parlato e spesso belle ma - tranne quelle fornite dal Nerucci - senza grandi guiz-zi. Nella raccolta generale delle Novelline popolari italiane (1875) del grecista e mitologo e medievalista DOMENICO COMPARETT1 (1835-1927) c'é molto materiále toscano (di Barga, in provincia di Lucca, raccolte da Giuseppe Ferraro; del Mugello, raccolte da Raffaello Nocchi; e di Pisa, raccolte dal Comparetti stesso, «dalla bocca d i una vecchia popolana») ed ottimo, ancorché poco attendibile per fedeltä al dettato popolare. Anche PITRÉ pubblicö (1885) un ricco volume di Novelle popolari toscane, raccolte dal suo amico Giovanni Siciliano nel 1876; ad esso s'aggiunse nell'«edizione nazionale» diretta da Giovanni Gentile (del 1941; rimasta purtroppo in tronco) un secondo volume contenente venticin-que altre fiabe toscane successivamente pubblicate dal Pitré nelľ«Archivio». I due volumi hanno la freschezza che sappiamo essere propria delle raccolte di Pitré, ed anche in essi possiamo confrontare le caratteristiche dell'arte delle varie narratrici. 1 famosi Racconti popolari lucchesi (1889; e poi in edizioni via via arricchite fino a cento racconti) d'IDELFONSO NIERI non sono compresi nel materiále del mio lavoro: primo, perché quasi non ve n'é che possano esser definiti fiabe in senso stretto, essendo nella quasi totalita storielle e aneddoti, e poi perché si devono considerare piü opera di letteratura creativa che raccolta di folklore. Nelle note in fondo al volume il lettore vedrá citáte le mime-rose raccolte minori e gli opuscoli di cui mi sono servito. Ma una raccolta toscana delle put importanti come quantitä e qualitä - le centotrenta novelline senesi raccolte da Ciro Marzocchi - é ancora inedita, nelle carte Comparetti al Museo d'Arti e Tradizioni Popolari Italiane di Roma: ed é un libro giä pronto, ehe non c'é che da stampare. fiabe.23 E sono fiabe ďuna grande limpidezza, piene di signo-ria poetica; e sempře, nonostante ripetano tipi notissimi o noti, impalpabilmente vi si respira Venezia, i suoi spazi, la sua luce, e sono tutte in qualche modo acquatiche, col mare o i canali o il viaggio o le navi o il Levante. II Bernoni non annota i nomi dei narratori, né sappiamo quali furono i suoi criteri di fedeltä; ma una mediazione di tipo letterario non si sente; solo una raggiun-ta unitä nella pacatezza del dialetto e nell'atmosfera che areola per le varie fiabe; doti di cui spero qualcosa sia rimasto nella mia trascrizione delle sette (nn. 29-35) che tra esse ho scelto. Che quest'atmosfera non sia propria del Bernoni, ma dello spirito favoloso del mondo veneto marino, lo prova il fatto ch'essa si puö riconoscere in fiabe ďaltra fonte da me trascritte: una vene-ziana anch'essa (36), una istriana (45), una dalmata (46), e magari anche una faeezia triestina (44) 24 Diverso mi pare lo spirito delle fiabe del Trentino,25 che inclina verso il grottesco e il pauroso e talora il sentenzioso-moralistico. Un posto a sé merita il Friuli, dove la leggenda pare avere un predominio sulla fiaba, e i rac-coglitori, dai primi esempi romantici, animati da moralismo pa-triottico e religioso, come la Percoto nei suoi racconti dialettali, alla grande recente (1924-27) raccolta di Dolfo Zorzüt tendono a dare al dialetto un'intonazione evocativa, un taglio letterario.26 23 (Per questi come per gli altri testi che nomino senza darne indieazione bi-bliografica precisa, si consulti la mia bibliografia in fondo al volume.) Giä prima dei Bernoni fu pubblicata una raccolta di fiabe veneziane in tedesco: GEORG WIDTER und ADAM WOLF, Volksmärchen aus Verteuert, in «Jahrbuch für romanische und englische Literatur», VII, 1-3, Leipzig 1866. Anche Verona ha avu-to un suo solerte raccoglitore: Arrigo Balladoro, che pubblicö un gran numero d'opuscoli e raccolte, contenenti perö soprattutto storielle, aneddoti e leggende. 24 Raccoltine limitate ma ben fatte esistono per l'Istria (Antonio Ive) e per la Dal-mazia (Riccardo Forster). Qualcos'altra della Venezia Giulia si trova nel volume Fonti vive dei Veneto-Ciuliatü dei Babudri, della collana scolastica Trevisini: e in un recentissimo volume di storielle triestine dei Pinguentini. 25 Le testimonianze perö sono piuttosto indirette: la ricca raccolta dello Schneller e in tedesco; e le raccoltine che Nepomuceno Bolognini pubblicö nell'«An-nuario degli Alpinisti Tridentini» sono rifaeimenti con pretese letterarie. Non molto importanti quelle nel volume Trevisini di ANGELICO PRATI, Folklore trentino. 26 Oltre che nei tre volumi di Sot la nape... di ZORZÜT, ho trovato qualche fiaba 6081 XXXIV Introduzione Introduzione XXXV Bologna, nella cui tradizione operô una trasfusione di san-gue napoletano per via letteraria (una delle prime testimonian-ze della fortuna del Pentamerone di Basile fu - come dice il Cro-ce - «una leggiadra riduzione in bolognese del 1713 per opera delle due sorelle Manfredi e delle due Zanotti, sotto il titolo La ciaqlira dla banzola»), ha avuto nella seconda meta dell'Ottocento una buona, copiosa raccolta, quella di Carolina Coronedi-Berti, in un dialetto pieno di sapore, in versioni ricche e ben raccontate, con un'immaginazione ďambienti un po' allucinata, come in sogno, ehe s'aprono su paesaggi di nota campagna. I nomi di chi narra non sono segnati, ma si sente spesso una presenza femminile, incline ora al sentimento ora al brio ardimentoso.27 La raccolta in cui piú la fiaba diventa pretesto ďun divertimento verbale, a base di modi di dire furbeschi e ammiccanti ě quella romanesca - ricca e di gran lettura - di Giggi Zanazzo.28 L'Abruzzo ha due raccolte assai ricche: i due volumi di Gen-naro Finamore (1836-1923, medico e insegnante) con testi dialet-tali dei vari paesi riportati con gran eura glottologica, e da cui traspira talvolta una vena di poesia sospirosa, come un sogno d'Aligi; e quello delľarcheologo Antonio De Nino (1836-1907), amico di D'Anmmzio, ehe invece rinarrô in italiano, in stesure brevi brevi, incorniciate da canzoncine e ritornelli in dialetto, e un'intenzione di stile giocoso e fanciullesco: un metodo spurio dal punto di vista scientifico ed anche agli effetti del mio lavo- ro, ma il libro ě ricco di storie rare, inaspettate (molte pero ven-gono dalle Mille e una notte), euriose (si veda la mia Gobba, zop-pa e collotarto), mosse dalľironia, dal gioco.29 Otto «cunti» tra i meglio raccontati ehe abbia visto sono quel-li in dialetto pugliese del libro di Pietro Pellizzari, Fiabe e can-zoni popolari del contado di Maglie in terra d'Otranto: «tipi» no-tissimi, ma in una lingua cosi spiritosa, in una recitazione cosi goduta, un piacere della deformazione grottesca, che paiono storie nate cosi, apposta per quel tessuto stilistico (come il bel-lissimo J" cinque scapestrati la cui trama invece ritroviamo punto per punto nel Basile).30 A Palmi di Calabria, Letterio Di Francia, il dotto autore del-la storia della Novellistica, ha trascritto una raccolta (pubbli-cata nel 1929 e 1931) che ha i riscontri piú ricchi e precisi che si siano fatti in Italia, e segna i diversi narratori, tra cui si distingue una Annunziata Palermo: e, insomma, sarebbe un mo-dello di metodo, se questi narratori non fossero in gran parte famigliari del Di Francia. Ma, per quel che interessa a noi, ě una raccolta piena di curiosi «tipi» e varianti, d'un'imma-ginazione carica, colorata, complicata, in cui la logica dell'in-treccio spesso s'e persa e si tramanda solo la sfaccettatura delle meraviglie.31 Fuori di queste regioni «privilegiate», il materiále si fa scarso. Pochissimo esiste del Piemonte,32 e giä bašta a dar- nelle Tradizioni popolarifriulanc di LUIGIGORTANI e nella rivista udinese «Pagi-ne friulane» (a. I, 1887). Gianfranco d'Aronco ha pubblicato recentemente un indice delle fiabe friulane. 27 Pochissimo d'altro fu pubblicato dell'Emilia, sparso nelle riviste (un'altra rac-coglitrice fu Carolina Pigorini-Beri). Delia Romagna e'e una buona ma molto breve raccolta del Bagli. PAOLO TOSCHI nella sua Romagna solatia della collana Tre-visini riporta tre fiabe raccolte da lui stesso. Uno dei piú illustri studiosi viventi della scuola finnica, Walter Anderson, raccolse a San Marino con un sistema che non serve per il mio lavoro: facendo raccontare per iscritto ai bambini delle scuole le fiabe che sapevano; naturalmente ne vengono dei riassuntini monchi, che pos-sono servire solo ai catalogatori di tipi e motivi. 28 La prima raccolta di fiabe romanesche fu in inglese: R.H. BUSK, The Folk-Lore of Rome, London 1874. Sono novantaquattro «tra favole, esempi e ciarpe». Altra raccolta la-ziale, ě quella ciociara di Giovanni Targioni-Tozzetti: testi un po' brevi e rudimentali. 29 Dalle opere del De Nino, D'Annunzio trasse molta della sua documentazione sulla vita e il costume dell'Abruzzo. 30 Altre raccolte pugliesi come quelle del Gigli e del La Sorsa sono riscritte in italiano e poco attendibili. 31 Un'altra bella e ricca raccolta di Racconti popolari calabresi é uscita ultimamen-te (1953), quella di RAFFAELE LOMBARDl SATRIANI. Molti «cunti» si trovano poi nella rivista «La Calabria» (a. 1,1888-89). 32 La maggiore raccolta piemontese é contenuta nel volume delle Novelle popolari italiane di Comparetti: sono fiabe del Monferrato scelte tra quelle che Giuseppe Ferraro (1846-1907) aveva raccolto nel 1869 al suo paese natale, a Carpeneto. 11 manoscritto del Ferraro (centoventisette narrazioni, in testo dialettale e tradu-zione; ricche come contenuto, povere come stesura) é reperibile al Museo d'Ar-ti e Trad. Pop. di Roma. II Pitré cita spesso le fiabe raccolte da Antonio Airetti a Monteu da Po, manoscritto di cui egli era in possesso e che si proponeva di pub- XXXVI Introduzione Introduzione XXXVII ci ľidea ďun mondo narrativo con caratteristiche proprie, per cui i motivi di diffusione universale prendono una soda concretezza che si radica alla campagna, al paese. Poco della Lombardia,33 e che non ci lascia giudicare ďuna partico-lare fantasia di racconto, se non un gusto preminente per la fiaba infantile o la filastrocca, comunque per un raccontare senza grande impegno, «per ridere». Pochissimo della Ligu-ria34 (e per me era come per chi, girando il mondo, passi da-vanti a casa sua e trovi ľuscio chiuso), ma non per un'appa-rente ariditä poetica delľindole ligure; quel che ho trovato mi conferma in un'idea che avevo - fondata su sparsi indi-zi soggettivi - ďun gusto fantastico goticizzante e grottesco. Delle Marche ho trovato solo una dozzina di pezzi,35 ma rac- blicare; di fatto ne pubblicô nelľ«Archivio» una sola, Re Crin. Pure sulľ«Archi-vio» usci una fola torinese pubblicata dal Rua (cfr. la nostra 18). Nella raccolta Trevisini, il volume piemontese, della Clotilde Farinetti, ha fiabe senza sapore d'originalitä. Esistono moltissimi libri di leggende locali, particolarmente per le valli alpine, che sempre abbondano soprattutto in questo tipo di tradizioni (si veda quel che dicevo per la Val d'Aosta). 33 La Novellaja Milumse di VITTORIO IMBRIANI (pubblicata separatamente nel 1872, e poi inglobata nelle note alla Novellaja fiorentina nelľedizione del 1877) presenta versioni dialettali stenografate, ma sono poche, e piuttosto rozze e in-ťantili; non m'ha potu to servire molto. Le Fiabe Mantovane di ISAIA VISENTINI, invece, sono cinquanta e dei tipi piú vari e d'ampio sviluppo, ma sono pubbli-cate - secondo i criteri di Comparetti, nella cui collana usci il volume - in italiano e compendiate. A Bergamo, alla Biblioteca Civica, ho trovato una buona raccoltina nelle čarte manoscritte di Antonio Tiraboschi, ma sono tipi molto dif-fusi, senza «novitä» interessanti. 34 I Contes ligures delí'ANDREWS, un folklorista inglese che abitava a Mentone, sono una raccolta piuttosto ricca (sessantaquattro pezzi, ma riassunti in fran-cese) che riguarda soprattutto la Riviéra nizzarda (Mentone, Roccabruna, So-spello) con solo venti pezzi della Riviéra italiana e di Genova. Un opuscolo per nozze del Guamerio riporta la molto bella nostra n. 8. Nella collana Trevisini, il volume Terra e vila di Liguria di AMEDEO PESCIO, per quel che riguarda le fiabe, ritraduce quasi esclusivamente Andrews in genovese. Non conosco altre pub-blicazioni liguri in matéria. Un fantasioso scrittore e illustratore per ľinfanzia, Antonio Rubino, narrô in giornali per ragazzi e libri molte leggende del suo paese, Baiardo, nelľentroterra di Sanremo. 35 Le Marche (e soprattutto la zóna di Jesi) ebbero un ottimo raccoglitore in Antonio Gianandrea, cui si devono le due pubblicate dal COMPARETTI, le sette pub-blicate da lui stesso nelľopuscolo Novelle e fiabe marchigiane e le due pubblicate contati in modo čosi allegro e vivace che sono tentato di pas-sare anche questa tra le regioni «privilegiate». Quasi nulla esiste dell'Umbria36 e del Molise.37 Ma la lacuna piú grave é quella d'una buona raccolta napoletana o campana;38 cosic-ché poco sappiamo di quel terreno da cui trasse alimento il Basile (e, tre secoli prima, il Boccaccio!). Poco abbiamo della Lucania,39 e mi pare (da quelli che presentô il Comparet- dal Gargiolli in un opuscolo per nozze. Qualcos'altro si puô trovare nell'unica annata (1896) ďun settimanale di Ascoli Piceno, «Vita popolare marchigiana», diretto da Alighiero Castelli. Poco v'é d'interessante nel volume della collana Trevisini Dolce terra di Marca di GLJIDO VITALETTI. 36 ĽUmbria é ľunica regióne che non é rappresentata nel mio libro. Par-rä cosa assurda a chi ha in mente čerti gioielli della poesia popolare umbra, specialmente sacra; ma nel nostro campo non ho trovato nulla d'utilizzabi-le. STANISLAO PRATO fece seguire alle sue Quattro novelline popolari livome-si numerose variant! umbre; ma si tratta di stringati riassunti e varianti non egregie di tipi rappresentati molto meglio in altre regioni. Lo stesso si puô dire de La novellina dei gatti nell'Umbria, una conferenza di folklore compa-rato che GEROLAMO DON ATI pubblicô a Perugia nel 1887; forse del Donati si possono trovare i manoscritti delle tredici novelline che raccolse sul Trasi-meno, secondo quanto egli informa. Tra i manoscritti di Comparetti al Mu-seo di Roma ho trovato una raccoltina Morandi di cinque fiabe umbre, ma erano testi troppo rudimentali. Spero d'aver modo di colmare questa lacuna in una prossima edizione. 37 La diligentissima bibliografia molisana di ALBERTO M. C1RESE («Saggi di culture meridionale», I. Gli studi di tradizioni popolari nel Molise, Profilo storico e saggio di bibliografia, De Luca editore, Roma 1955) porta pochissime voči che riguardino i racconti popolari, e di queste la piú parte trattano di apologhi o ťa-vole (come quelle da me scelte) o leggende religiose, sparsi in numeri della «Ri-vista delle tradizioni popolari italiane», nel volumetto d'uno scrittore in dialetto, EUGENIO C1RESE (Tempo d'allora, Campobasso 1939), e in un recente numero della rivista «La Lapa» (Roma, giugno 1955). Qualche fiaba, ma in testi non buoni, si trova nel volume di Oreste Conti e in quello - introvabile - di BERENGARIO AMOROSA [Riccia nella storia e nel folklore, Casalbordino 1903). 38 I Xll conti pomiglianesi dell'IMBRIANI e i XVI conti in dialetto d'Avellino di GAETANO AMALFI ci dänrio testi in dialetto ma di scarso sviluppo narrativo. Migliori, ma appartenenti a «tipi» ultranoti, i ventiquattro «cunti» di Beneven-to contenuti nella raccolta di Francesco Corazzini. Ma le cose piú interessanti si trovano nella rivista di Luigi Molinaro del Chiaro: il «Giambattista Basile» che si pubblicô a Napoli dal 1883. 39 Gli undici «cunti» della Basilicata pubblicati nel volume del Comparetti (in italiano, tranne uno) erano stati raccolti a Spinoso e a Tito (Potenza) XXXVIII Introduzione Introduzione XXXIX ti) che i «cunti» vi si narrino con grande slancio romantico e gusto per le storie piů complicate. La Sardegna non ha grandi raccolte;40 ma il modo di raccontare triste, magro, senza comunicativa, e pur sempře con una lama ďironia, mi pare caratteristico dell'isola. La Corsica, invece, presenta varianti curiose dei «tipi» diffusi sul Continente, con un'inclinazione grottesca e giocosa.41 4. Caratteristiche delia fiaba italiana La questione ďuna poverta di produzione fantastica del popo- 10 italiano fu mal posta dal Comparetti, e quasi negli stessi termini riecheggiata dal Bartoli e dal Graf. Fu Ferdinandu Neri (in un saggio del 1934,42 dove ľaggiornata conoscenza dei proble-mi s'accoppia alľintelligenza estetica) a dissolvere la questione e riporla nei suoi giusti termini. «II "bilancio" delle tradizioni da Raffaello Bonori e i manoscritti si possono ritrovare al Museo di Roma. Altre undid favole e fiabe sono nel recente volume di L. LA RQCCA, Pistic-ci e i suoi canti. 40 Le Novelline popolari sarde del MANGO, che uscirono nella collana delle «Cu-riositä» del Pitrě, sono ventisei tra fiabe, leggende e aneddoti, di breve e pověro dettato campidanese, ma talora - in questa sua povertä - suggestivo. La Sardegna ha poi una delle rare buone raccolte di leggende locali, superstizioni e tradizioni (quella recente del glottologo Gino Bottiglioni), condotta con criteri scientifici, cioě con testi trascritti dalla voce dei paesani nei vari dialetti (pur-troppo resa ostica dalla grafia fonetica), testi molto belli, che ho potuto utilizzare anch'io, mentre di solito, come dicevo, su questo tipo di materiále non riesco a lavorare. Nell'«Archivio» di Pitrě, il Guarnerio pubblicö una vasta raccolta sarda, ma non c'ě gran ehe ďinteressante. Molto materiále sardo aveva messo insieme 11 Comparetti, attraverso una rete di raccoglitori che pare facesse capo a Ettore Pais; ci sarebbe, coi manoscritti ora al Museo di Roma, da fare una raccolta sarda molto importante. Io mi sono soffermato su un gruppetto di dieci fiabe raccolte da Francesco Loriga, di Porto Torres (cfr. le mie 194 e 195), che mi paiono i migliori testi sardi esistenti per quel che riguarda le fiabe propriamente dette. 41 La maggiore raccolta di fiabe corse ě in francese, quella delľOrtoli, e non ci dä ľidea del modo di raccontare, ma solo dei «tipi» raccontati. Ho trovato qual-cosa anche in un libro in dialetto corso, ma piuttosto «letterario»: quello del Reverendo Carlotti. 42 Fiabe, nella «Nuova Antologia» del 16 aprile 1934; ripubblicato in Storia e poesia, Torino 1936. popolari ě quanto mai illusorio: tanto n'ě casuale ľattestazione, soprattutto se si riporta ad un'etä lontana; e quando pure se n'abbia il documento sicuro, gľinnumeri raffronti con il folklore di altri paesi finiscono per escludere ogni possibilita di una localizzazione, se non puntuale e transitoria. La leggenda pas-sa, trasvola, ě per tutti i cammini come un polverio disperso sul-le ořme degli uomini.» E dopo aver chiarito che sul piano del folklore il quesito se lTtalia fosse piú o meno povera di fiabe e di leggende rispetto ad altri paesi non aveva senso, il Neri veni-va a esaminarlo sul piano della storia del gusto letterario (pas-sando in rassegna tutto il filone fantastico-popolare dai «can-tari» all'Ariosto). Dunque parlare di «fiaba popolare italiana» non puô aver si-gnificato? Tutto il problema della fiaba va riportato in un'an-tichitä che non ě soltanto preistorica, ma anche pregeografica? Le scuole che studiano i rapporti tra la fiaba e i riti della societa primitiva danno risultati sorprendenti. Che le origini della fiaba siano la mi pare indubbio.43 Ma, detto questo, si ripiomba in una notte indifferenziata. La nascita e lo sviluppo delle fiabe furono paralleli e corrispondenti in tutto il mondo, come vo-gliono i fautori della «poligenesi»? Considerando la comples-sita di čerti «tipi» parrebbe azzardata una affermazione troppo recisa in questo senso. Ed ogni motivo, ogni complesso narra-tivo di diffusione internazionale puô trovare giustificazione nelľetnologia? Evidentemente no. Quella specie di «mosaico» che ě il folklore «presenta delle stratificazioni culturali nume-rose, variamente combinate».44 Ecco allora che - prescinden- 43 Cfr. soprattutto 1'ultimo capitolo del citato volume del Propp. Confrontando le fiabe popolari russe con le testimonianze degli etnologi sui popoli selvaggi, Propp arriva alla conclusione che la nascita di molte delle fiabe popolari giun-te fino a noi sia avvenuta nel momento di trapasso dalla societa dei dan, basa-ta sulla caccia, alle prime comunitä basate sulľagricoltura; quando cioě i riti di iniziazione caddero in disuso e i racconti segreti che li accompagnavano o pre-cedevano cominciarono a esser narrati senza piú alcun rapporto con le istitu-zioni e le funzioni pratiche cui erano legáti, persero ogni significato religioso e diventarono storie di meraviglie, crudeltä e paure. 44 Sono parole di ANTONIO GRAMSCI (pp. 216 e 221 di Letteratura e vita naziona- XL Introduzione Introduzione XLI do dal problema delle origini piú remote - bisogna riconoscere l'importanza di qtiella vita in epoca «storica» che ogni fiaba ha avuto, come puro racconto di passatempo, quel seguito di viag-gi di bocca in bocca, di paese in paese (con spesso per interme-diario una versione scritta, un libro) fino a diffondersi per tutta ľarea in cui la troviamo oggi. Ho giä detto delia scuola storico-geografica o «finnica» che appunto cerca di risalire alia forma prima d'ogni racconto popolare e di seguirne le trasmigrazioni attraverso l'analisi di tutte le varianti letterarie e folkloristiche.45 E sui risultati (pur spesso, come giä dicevo, molto vaghi) de-gli studi di metodo finnico che potrebb'essere condotta una ri-cerca sulla storia e i caratteri delia fiaba popolare italiana. Ma questa ricerca, a tutťoggi, non ě stata ancora compiuta da nes-suno. Devo perciô, in questo campo, avventurarmi in supposi-zioni intuitive, sulla base del materiále da me preso in esame.46 Molto all'ingrosso possiamo dire che l'influenza del mon-do germanico ě limitata alle zone piú settentrionali (si puô giä vedere dai confront] con Grimm: gli stessi «tipi» si presenta-no molto variati nella piu gran parte dellTtalia), che la corrente dominante ě quella che viene dalla Francia, che l'influenza del mondo arabo-orientale s'ě sedimentata maggiormente nel Sud (come prova la diffusione di «tipi» di cui viene data per sicu-ra l'origine orientale,47 una sedimentazione molto piu profon- le, Torino 1950) messe in rilievo da VITTORIOSANTOL1 nel saggio Tie gsservazioni si/ Gramsci e ilfolclore (in «Societä», a. VII, 1951, n. 3). 45 II metodo finnico mi pare indispensabile per fornire i presupposti d'ogni ricerca interpretativa o storica o estetica sulla fiaba, poiché cerca di precisare ľarea e il periodo storico in cui un dato «tipo» o «motivo» ě rintracciabile. Piu in lä non va né dovrebbe voler andare. Ma questi suoi limiti (il trascurare sia le ricerche etnologiche, sia le valutazioni estetiche, sia una vera dialettica storica) mi pare giustifichino anche le obiezioni «di metodo» che le pongono le va-rie scuole awersarie. (Cfr. il citato primo capitolo di Genesi di leggende di COC-CHIARA, pp. 33-37.) 4ft Un' opera ricca di dati interessanti anche per il nostro studio, sebbene riguar-di la fortuna delia «novella» nella letteratura italiana, ě il volume Novellistica di LETTERIO DI FRANCIA (vol. I, Dalle origini al Bandcllo, Milano 1924) nella «Storia dei generi letterari italiani» Vallardi. 47 Come quelli delle mie 128 e 179. da della piu recente spolveratura originata dalla fortuna anche popolare d'alcune delle Mille e una notte di Galland), che la To-scana attraverso i cantari e i poemetti popolari - spesso rical-cati su motivi fiabistici - deve aver esercitato nei secoli tra il XIV e il XVI una funzione di definizione e diffusione di «tipi» di piú larga fortuna. II cantare - ricordiamo Liombruno, Gismiran-te, I'Istoria di tre giovani disperati e di trefate48 - ha una sua storia, diversa da quella della fiaba, ma le due storie s'attraversa-no: il cantare trae dalla fiaba i suoi motivi e a sua volta modella la fiaba nella sua forma. Dobbiamo, s'intende, andar cauti nel «medievalizzare» la fiaba. La scienza etnologica ci ha abituato a spogliare la fiaba da quel decor che le aveva dato il gusto romantico, e a vedere nel castello la capanna delle iniziazioni venatorie, nella princi-pessa da immolare al drago la vittima di un sacrificio agricolo, nel mago un sacerdote del clan. E del resto, basta una sommaria scorsa a una qualsiasi raccolta fedele alia tradizione orale per ca-pire che il popolo (parlo, beninteso, d'un popolo ottocentesco, che non ha conosciuto né le vignette di Chiostri ai «libri delle fate» Salani, né la Biancaneve di Disney, condizione di verginitä che in qualche parte d'ltalia esiste ancora) non «vede» le fiabe con le immagini che paiono naturali a noi, abituati dall'infan-zia ai libri illustrati. Le descrizioni sono quasi sempre scheletri-che, la terminológia ě generica: nelle fiabe italiane non si parla mai di castello ma di palazzo; non si dice mai (o quasi mai) principe e principessa ma figlio del re, ftglia del re; le denominazioni poi degli esseri soprannaturali come orchi o streghe attingono al piu antico fondo pagano del luogo e non conoscono un'esat-ta codificazione, e ciö non solo per la diversitä dei dialetti, dalla masca piemontese alia mamrna-draga siciliana, dall'om salbadgh romagnolo al nanni-orcu pugliese, ma anche per la confusione nell'ambito stesso d'un dialetto (per esempio, mago e drago in Toscana sono due termini spesso confusi e scambiati). 48 Cfr. la bella raccolta Fiore di leggende, Cantari antichi editi e ordinati da EZIO LEVI, Serie prima, Cantari leggendari, Laterza, Bari 1914. XLI1 Introduzione Introduzione XLII1 Detto questo pero, 1'impronta medievale sulla fiaba popolare resta, e forte. Quanti tornei per la mano delle principesse, quan-te imprese da cavalieri, e quanti diavoli, quanta contaminazione con le tradizioni sacre! Si dovrä dunque necessariamente inda-gare come uno dei momenti piú importanti della vita «storica» della fiaba, quello dell'osmosi tra fiaba ed epopea cavalleresca, che si puö supporre abbia avuto un suo importantissimo epicentre nella Francia gotica e di li abbia propagato la sua influenza in Italia attraverso l'epica popolare. Quel sottofondo di fiaba pa-gana e prepagana che doveva esserci dappertutto (e che ai tempi d'Apuleio prendeva paludamenti ed onomastica dalla mito-logia classica) s'informö allora delle istituzioni, dell'etica, della fantasia feudal-cavalleresche (e della contaminazione religiosa cristiano-pagana di quel mondo), in qualche punto fondendosi con l'altra onda di suggestioni e trasfigurazioni, quella d'origine Orientale, che s'era a sua volta propagata dal Meridione (e con le tradizioni del periodo di piú intense relazioni e minacce di Saracini e Turchi; vedete nelle numerose storie marináře da me riportate come all'arbitraria geografia della fiaba si sostituisca la nozione della divisione del mondo in cristiani e musulma-ni). Se la fiaba dunque successivamente věsti i suoi motivi dei costumi delle varie societa, quello feudale in Occidente ě stato l'ultimo (nonostante che ci s'imbatta ogni tanto in spiragli di fiaba in vesti ottocentesche, per esempio il personaggio del Milord inglese nel Meridione),49 mentre in Oriente trionfö la fiaba «borghese» delle fortune d'Aladino o d'Ali Babä. Tutto questo discorso, dicevo, ě solo un insieme di non dif-ficili congetture in attesa che vengano studi seri a illuminarci. Le ricerche della scuola finnica per ora seguono le piste delle fiabe una per una e a qualche precisione di risultati s'avvicina-no quando trattano dei «tipi» piú elaborati, quelli in cui ě piú ri-conoscibile un piacere d'invenzione «moderno», o una trasmis-sione anche per via letteraria. 49 Cfr. nota al n. 158. Tale ě certo una delle rare fiabe - o forse l'unica?50 - sulla quale si pronuncia un verdetto di «probabile origine italiana»: quella dell'amore delle tre melarance (come in Gozzi), o dei tre cedri (come in Basile), o delle tre melagrane (come nella mia versione):51 una fontána di metamorfosi di gusto barocco (o per-siano?), che meriterebbe d'esser tutta invenzione del Basile52 o d'un visionario tessitore di tappeti, una série di metafoře diven-tate racconto: la ricotta e il sangue, il frutto e la ragazza, la sa-racena che si specchia nel pozzo, la ragazza sull'albero che di-venta colomba, le gocce di sangue di colomba da cui sorge a un tratto un albero, e dal frutto - e qui il cerchio si chiude - risal-ta fuori la ragazza. Ě una fiaba che avrei voluto trattare con piú onore, ma tra le numerosissime versioni popolari che ho visto non ne ho trovata una da poter dire versione-principe. Ne ripor-to due: una abruzzese (la 107), integrata con altre, per rappre-sentare la forma piú classica, e una ligure (la 8), come variante curiosa; perö devo dire che il Basile qui ě senza rivali, e al suo «cunto» (l'ultimo del Pentamerone) rimando il lettore. In quest'esatto ritmo, in quesťallegra logica cui la piú miste-riosa storia di trasformazioni si sottomette, mi par di ravvisare una delle caratteristiche dell'elaborazione popolare della fiaba in Italia. Guardate quanto senso della bellezza in quelle comu-nioni o metamorfosi di donna e frutto, di donna e pianta: le due bellissime fiabe (sorelle tra loro) della Ragazza mela (fiorentina, cfr. la mia 85) e della Rosmarina (Palermo, cfr. la mia 161). II se- 50 Parlo delle fiabe; per le leggende, piú legate ai luoghi, capita piú spesso - ma non quanto si puö credere - di poter dire: «Ě italiana»; e cosi per le novelle di cui ě piú facile datare un'origine in epoca storica. 51 Cfr. il citato The Folktale di THOMPSON, p. 94. II «tipo» ě molto diffuso solo in Italia, Spagna, Portogallo, Grecia, ed anche in Ungheria e Turchia, ma non ě stato mai raccolto nei paesi del Nord («tranne che in Norvegia, dove lo hanno raccolto da una fruttivendola italiana»). Ě stato trovato in Persia e in India ma con troppo scarsa frequenza per far ritenere probabile un'origine Orientale. Fin qui il Thompson: ma questo discorso vale per la fiaba nel suo comples-so: tra i singoli motivi ce ne sono dei diffusissimi (e con profonde ragioni nei riti preistorici, come quello dell'eroe che fa ritorno a casa solo mentre la sposa si ferma per strada; cfr. il citato Propp, p. 210). 2 E forse lo fu: non se ne hanno testimonianze precedenti. XL1V Introduzione Introduzione XLV greto sta neU'accostamento-metafora: rimmagine di freschez-za della mela e della ragazza, o delle pere in fondo al cui cesto e portata a vendere la ragazza per far crescere il peso, nella Bam-bina venduta con le pere (monferrina, cfr. la mia 11). La naturale «barbarie» della fiaba si piega ad una legge d'ar-monia. Non c'e qui quel continuo informe schizzar di sangue dei crudeli Grimm; e raro che la fiaba italiana raggiunga la tru-culenza, esee continuo il senso della crudeltä, dell'ingiustizia anche disumana, come elemento con cui si devono sempre fare i conti, se i boschi echeggiano anche qui dei pianti di tante mai fanciulle o spose abbandonate con le mani mozze, la ferocia san-guinaria non e mai gratuita, e la narrazione non si sofferma a infierire sulla vittima, neppure con un'affettazione di pietä, ma corre verso la soluzione riparatrice. Soluzione che comprende la rapida, e qui sempre spietata, giustizia sommaria dei malva-gio (o, piü spesso, della malvagia): la «camicia di pece» della trista tradizione dei roghi alle streghe, e in Sicilia «sdirubbata di lu finistruni appinninu, e abbruciata» (gettata dalla finestra e poi bruciata). Invece corre, nella fiaba italiana, una continua e soffer-ta trepidazione d'amore. Giä parlavo, a proposito dei «cun-ti» siciliani, della fortuna dei tipo «Amore e Psiche», che non solo in Sicilia ma pure in Toscana e un po' dappertutto domi-na una notevole parte dei nostri raeconti di meraviglie. E lo sposo soprannaturale raggiunto in una dimora sotterranea, dei quale non si puö rivelare il nome o il segreto, pena il ve-derselo fuggire; o l'amante evocato con un sortilegio da un bacile di latte, o uccello in volo su per l'aria, che un'insidia di rivale invidiosa (vetro pestato nel bacile, spilli sul davanza-le dove volando si poserä) riempie di ferite e sdegna; e il re serpente o porco che nel buio e un giovane bellissimo per la sposa che lo rispetta e la cera della candela accesa dalla cu-riositä ributta in preda all'incantesimo; o e il mostro di Bel-linda con lo strano rapporto sentimentale che tra loro via via si configura; oppure - quando a patire e l'uomo - e la sposa incantata che lo raggiunge muta ogni notte nel palazzo disa- bitato, e la fata di Liombruno di cui non si puö far vanto, e la ragazza-colomba che se riä le ali fugge via: storie diverse ma che tutte narrano dell'amore precario, che congiunge due mondi incongiungibili, che ha la sua prova nell'assenza; storie d'amanti inconoscibili, che si hanno davvero solo nel mo-mento in cui si perdono. Neue fiabe non s'incontra quasi mai lo schema per noi piü fa-cile ed elementare di storia d'amore: l'innamoramento e le traver-sie per giungere alle nozze (forse solo in qualche triste fiaba sar-da, dei paese in cui si fa l'amore alla finestra, si sviluppa questo tema). Le innumerevoli fiabe di conquista o liberazione d'una prineipessa, trattano sempre di qualcuna che non s'e mai vista, una vittima da liberare per prova di valore, una posta da vince-re in una giostra per adempiere a un destino di fortuna, oppure ci se n'e innamorati in un ritratto, o solo a sentirne il nome, o vagheggiandola in una goccia di sangue su una bianca forma di ricotta; innamoramenti astratti o simbolici, che hanno dei sortilegio, della maledizione. Ma gli innamoramenti piü concreti e sofferti delle fiabe non sono questi, sono di quando la persona amata prima la si possiede e poi la si deve conquistare. Gli etnologi dänno dei tipo «Amore e Psiche» interpreta-zioni suggestive:53 Psiche e la ragazza che vive nelle case in cui i giovani sono segregati durante l'ultimo periodo della loro ini-ziazione; ha rapporti con i giovani travestiti da animali, oppure al buio poiche essi non devono essere visti da nessuno; quindi e come fosse un solo giovane invisibile ad amarla; finito il periodo d'iniziazione essi tornano alle loro case, dimenticano la giovane che viveva segregata con loro, si sposano e formano nuove fa-miglie. II racconto nasce appunto dalla crisi di quest'istituzione: rappresenta un amore nato durante l'iniziazione e condannato ad essere spezzato dalle leggi religiöse, e di come una donna si ribelli a questa legge e ritrovi il giovane amato. Dimenticati gli usi da millenni, la trama dei racconto vive ancora di questo spi-rito, rappresenta ancora ogni amore che una legge o una con- 53 Cfr. il cap. IV dei citato volume dei Propp. XLVI Introduzione Introduzione XLVI1 venzione o una disparitä tronca e vieta. Perciö poté conservar-si dalla preistoria ad oggi, senza raggelare nella sua schemati-ca cifra la sensualitä che tanto spesso lo percorre, la gioia e lo smarrimento del misterioso abbraccio notturno. Nelle mie stesure, per le quali ho dovuto tener conto dei bambini che le leggeranno o a cui saranno lette, ho naturalmente smorzato ogni carica di questo genere. Una tale necessitä giä basta a sottolineare la diversa destinazione della fiaba nei vari livelli culturali. Questa che noi siamo abituati a considerare «letteratura per l'infanzia», ancora neh'Ottocento (e forse anche oggi), dove viveva come costume di tradizione orale, non aveva una destinazione d'etä: era un racconto di meraviglie, piena espressione dei bisogni poetici di quello stadio culturale. La fiaba infantile esiste si, ma come genere a sé, trascurato dai narratori piú ambiziosi, e perpetuate attraverso una tradizione piú umile, familiäre, con caratteristiche che si possono sintetizzare nelle seguenti: terna pauroso e truculento, partico-lari scatologici o coprolalia, versi intercalati alia prosa con ten-denza alia filastrocca. (Cfr. ad esempio la mia 37, II bambino nel sacco.) Caratteristiche in gran parte (truculenza, scurrilitä) op-poste a quelli che sono oggi i requisiti della letteratura infantile. La spinta verso il meraviglioso resta dominante anche se con-frontata con l'intento moralistico. La morale della fiaba ě sempře implicita, nella vittoria delle semplici virtú dei personaggi buoni e nel castigo delle altrettanto semplici e assolute perversita dei malvagi; quasi mai vi s'insiste in forma sentenziosa o pedagogica. E forse la funzione morale che il raccontar fiabe ha nell'intendimento popolare, va cercata non nella direzione dei contenuti ma nell'istituzione stessa della fiaba, nel fatto di rac-contarle e d'udirle. E ciö puö pure essere inteso nel senso d'un moralismo prudenziale e praticistico come pare suggerire la storia del Pappagallo (cfr. la mia 15), questa fiaba cornice d'altre fiabe, che il Comparetti e il Pitrě pubblicarono a inizio delle loro raccolte, quasi un prologo. II pappagallo, raccontando una storia interminabile, salva la virtu d'una fanciulla. Pare una simbo-lica apologia dell'arte di raccontare (contro chi ne rimproveras- se il carattere profano ed edonistico?): affascinando l'ascoltatore con la sua arcana meraviglia, la fiaba preserva dal commettere peccati. Ě una giustificazione riduttrice e conservatrice, ma nella stessa costruzione narrativa del Pappagallo s'esprime qualco-sa di piú profondo: l'intelligenza tecnica di cui fa sfoggio il nar-ratore, che qui ě oggettivata in senso umoristico, nella parodia delle fiabe «che non finiscono mai». Ed ě lä per noi la sua morale vera: alia mancanza di liberta della tradizione popolare, a questa legge non scritta per cui al popolo ě concesso solo di ri-petere triti motivi, senza vera «creazione», il narratore di fiabe sfugge con una sorta d'istintiva furberia: lui stesso crede forse di far solo delle variazioni su un tema; ma in realtä finisce per parlarci di quel che gli sta a cuore. La tecnica con cui la fiaba ě costruita si vale insieme del ri-spetto di convenzioni e della liberta inventiva. Dato il tema, esi-stono un certo numero di passaggi obbligati per arrivare alia so-luzione, i «motivi» che si scambiano da un «tipo» all'altro (la pelle di cavallo che l'aquila solleva, il pozzo in cui ci si cala per raggiungere il mondo di sotto, le ragazze-colombe cui si rubáno le vesti mentre fanno il bagno, gli stivali magici e il mantel- 10 trafugati ai ladri, le tre noci da schiacciare, la casa dei Venti dove si prendono informazioni sulla strada, ecc...); sta al narratore organizzarli, tenerli su uno sopra l'altro come i mattoni d'un muro, sbrigandosela con rapiditä nei punti morti (caratteristici i modi con cui nei vari dialetti si sospende e subito si riprende 11 racconto: con un «abbasta» in romanesco, con un «lu cuntu nun metti tempu» in siciliano), e usando per cemento la picco-la o grande arte sua, quel che ci mette lui che racconta, il colore dei suoi luoghi, delle sue fatiche e speranze, il suo «contenuto». Giä la maggiore o minore disinvoltura a destreggiarsi in un mondo di fantasia, ha anch'essa le sue ragioni d'esperienza sto-rica (come alio scrittore borghese e letterato che vuol fare il realista capita di trovarsi a corto d'inventiva quando racconta la vita degli operai di fabbrica): vediamo per esempio il modo diver-so in cui si parla di re nelle fiabe siciliane e in quelle toscane. Di solito la corte dei re delle fiabe popolari ě qualcosa di generico XLVllI Introduzione Introduzione XL1X e d'astratto, un vago simbolo di potenza e di ricchezza; in Si-cilia invece, re, corte, nobiltä sono istituzioni ben precise, concrete, con una loro gerarchia, una loro etichetta, un loro codi-ce morale: tutto un mondo e una terminológia d'invenzione, di cui queste vecchiette analfabete sfoggiano una minuziosa com-petenza: «Stu Re di Spagna avia lu Bracceri di manu manca e lu Bracceri di manu dritta...»; «Fici jittari lu bannu pri concurriri tutti Ii Baruna, Cavaleri e Profissura...». Ed ě caratteristica della fiaba siciliana ehe i re non přendáno una decisione importante senza consultare il Consiglio. «Lu Re tocca campana di Cunsig-ghiu: eccu tutti li Cunsigghieri. "Signuri mei, chi cunsigghiu mi dati?"»; oppure piú rapidamente: «Lu Riuzzu grida: "Cunsigghiu! Cunsigghiu!" e cci cunta lu statu di li cosi». In Toscana, invece, dove, benché piü colti in taňte cose, di re non ne hanno mai conosciuti, niente di tutto questo: «re» ě una parola generica ehe non implica alcuna idea istituzionale, e si limita a designare una condizione facoltosa, si dice «quel re» come si direbbe «quel signore» senza connettervi alcuna attri-buzione regale, né ľidea ďuna Corte, ďuna gerarchia aristocra-tica, e neppure ďuno Stato territoriale. Cosi si puö trovare un re vicino di casa d'un altro re, ehe si guardano dalla finestra e si vanno a far visita come due buoni borghesi paesani. Di contro al mondo dei re, quello dei contadini. L'avvio «reali-stico» di molte fiabe, il dato di partenza d'una condizione d'estre-ma miseria, di fame, di mancanza di lavoro ě caratteristico di mol-to folklore narrativo italiano. Ho giä accennato al motivo iniziale d i numerose fiabe specialmente meridionali, quello del «cavoli-ciddaru»: una famiglia non sa cosa mettere in pentola e s'avvia, il padre o la madre con le figlie, a battere la campagna «per mi-nestra»; un cavolo piü grosso degli altri sradicato apre lo spira-glio d'un mondo sotterraneo dove si puö trovare uno sposo so-vrannaturale o una Strega che terra prigioniera la ragazza o un barbablú antropofago. (Oppure - specie nei luoghi di mare - al posto del contadino senza terra né lavoro c'e il pescatore disgra-ziato, cui un giorno incappa nella rete un grosso pesce ehe paria...) Ma la situazione «realistica» della miseria non ě solo un motivo d'apertura della fiaba, una specie di trampolino per il sal- to nel meraviglioso, un termine di contrasto col regale ed il so-vrannaturale. C'e la fiaba contadina da principio alia fine, con 1'eroe zappatore, coi poteri magici che restano appena un preca-rio aiuto alia forza delle braccia e alia virtü ostinata: sono fiabe piü rare e sempre rozze, tradizioni sparse, frantumi d'un'epo-pea di braccianti che mai forse usci dall'informe, e che talora prende in prestito i suoi motivi dalle vicende cavalleresche, so-stituendo le imprese e le giostre per vincere la mano delle prin-cipesse in quantitä di terra da muovere con l'aratro o la zappa. Si veda la stupenda Sperso per il mondo siciliana, e l'abruzzese Giuseppe Ciufolo che se non zappava suonava lo zufolo, o 11 regalo del vento tramontano del Mugello, e Quattordici delle Marche; e cosi per la vita delle donne, quella bellissima Odissea d'umili mestieri femminili che ě Sfortuna o le fatiche delle cucitrici nelle Due engine (entrambe siciliane). Chi sa quanto ě raro nella poesia popolare (e non popolare) costruire un sogno senza rifugiarsi nell'evasione, apprezzerä queste punte estreme d'un'autocoscienza che non rifiuta 1'in-venzione d'un destino, questa forza di realtä che interamente esplode in fantasia. Miglior lezione, poetica e morale, le fiabe non potrebbero dárci. Italo Calvino Settembre 1956 Quest'opera e stata resa possibile dall'aiuto illuminato e generoso di alcuni insigni studiosi, ai quali va il mio ringraziamento piu devoto: per primo al professor Giuseppe Cocchiara deH'Universita di Palermo, direttore del Museo Etnografico «G. Pitre», che m'indirizzo nel lavoro e mi mise a disposizione la ricca biblioteca del Museo; al professor Paolo Toschi dell'LIniversita di Roma, che mi diede preziose indica-zioni bibliografiche e mi fece usufruire dei libri e dei manoscritti del Museo delle Tradizioni Popolari Italiane da lui diretto; infine al professor Giuseppe Vidossi di Torino, che mi e stato guida competentissi-ma e miniera inesauribile di consigli e indicazioni sia nel campo della novellistica popolare che in quello della dialettologia.