EDMONDO DE AMICIS Cuore EDITRICE PICCOLI OTTOBRE II primo giorno di scuola. 17, lunedi. Oggi primo giorno di scuola. Passarono come un sogno quei tre mesi di vacanza in campagna! Mia madre mi condusse questa mattina alia se-zione Baretti a farmi inscrivere per la terza elementare: io pensavo alia campagna, e andavo di mala voglia. Tutte le strade brulicavano di ragaz-zi; le due botteghe di libraio erano affollate di padri e di madri che com-pravano zaini, cartelle e quaderni, e davanti alia scuola s'accalcava tanta gente, che il bidello e la guardia civica duravan fatica a tenere sgombra la porta. Vicino alia porta, mi sentii toccare una spalla; era il mio maestro di seconda, sempre allegro, coi suoi capelli rossi arruffati, che mi disse: — Dunque, Enrico, siamo separati per sempre? — Io lo sapevo bene; eppure mi fecero pena quelle parole. Entrammo a stento. Signore, signoři, donne del popolo, operai, ufficiali, nonne, serve, tutti coi ragazzi per una mano e i libretti di promozione nelťaltra, empivano la stanza d'entrata e le scale, facendo un ronzio che pareva d'entrare in un teatro. Lo rividi con piacere quel grande camerone a terreno, con le porte delle sette classi, dove passai per tre anni quasi tutti i giorni. C'era folia, le maestre andavano e veniva-no. La mia maestra della prima superiore mi salutó di sulla porta della classe e mi disse: — Enrico, tu vai al piano di sopra, quesťanno: non ti vedro nemmen piú passare! — e mi guardó con tristezza. II Direttore ave-va intorno delle donne tutte affannate perché non c'era piú posto per i lo-ro figlioli, e mi parve ch'egli avesse la barba un poco piú bianca che Tan-no passato. Trovai dei ragazzi cresciuti, ingrassati. Al pian terreno, dove seran giá fatte le ripartizioni, c'erano dei bambini delle prime inferiori che non volevano entrare nella classe e s'impuntavano come somarelli; bi-sognava che li tirassero dentro a forza; e alcuni scappavano dai banchi; 3 altri al vedere andar via i parenti, si mettevano a piangere, e questi dove-vano tornare indietro a consolarli o a ripigliarseli, e le maestre si dispera-vano. II mio piccolo fratello fu messo nella classe della maestra Delcati; 10 dal maestro Perboni, su al primo piano. Alle dieci eravamo tutti in classe : cinquantaquattro: appena quindici o sedici dei miei compagni della se-conda, fra i quali Derossi, quello che ha sempre il primo premio. Mi par-ve cosi piccola e triste la scuola, pensando ai boschi, alle montagne dove passai Testate! Anche ripensavo al mio maestro di seconda, cosi buono, che rideva sempre con noi, e piccolo, che pareva un nostro compagno, e mi rincresceva di non vederlo piú la, coi suoi capelli rossi arruffati. II nostro maestro ě alto, senza barba, coi capelli grigi e lunghi, e ha una ruga diritta sulla fronte; ha la voce grossa, e ci guarda tutti fisso, Tuno dopo l'altro, come per leggerci dentro; e non ride mai. Io dicevo tra me: — Ec-co il primo giorno. Ancora nove mesi. Quanti lavori, quanti esami menšili, quante fatiche! — Avevo proprio bisogno di trovar mia madre all'usci-ta, e corsi a baciarle la mano. Essa mi disse: — Coraggio, Enrico! Studie-remo insieme. — E tornai a casa contento. Ma non ho piú il mio maestro, con quel sorriso buono e allegro, e non mi par piú bella come prima la scuola. 11 nostro maestro. 18, martedi. Anche il mio nuovo maestro mi piace, dopo questa mattina. Durante l'entrata, mentre egli era giá seduto al suo posto, s'affacciava di tanto in tanto alia porta della classe qualcuno dei suoi scolari delFanno scorso, per salutarlo; s'affacciavano, passando, e lo salutavano: — Buon giorno, signor maestro. — Buon giorno, signor Perboni; — alcuni entravano, gli toccavan la mano e scappavano. Si vedeva che gli volevan bene e che avrebbero voluto tornare con lui. Egli rispondeva: — Buon giorno, — stringeva le mani che gli porgevano; ma non guardava nessuno; ad ogni saluto rimaneva serio, con la sua ruga diritta sulla fronte, voltato verso la finestra, e guardava il tetto della casa di faccia; e invece di rallegrarsi di quei saluti, pareva che ne soffrisse. Poi guardava noi, Tuno dopo Taltro, attento. Dettando, discese a passeggiare in mezzo ai banchi, e visto un ra-gazzo che aveva il viso tutto rosso di bollicine, smise di dettare, gli prese il viso tra le mani e lo guardó; poi gli domandó che cos'aveva, e gli passó una mano sulla fronte per sentir s'era calda. In quel mentre, un ragazzo dietro di lui si rizzó sul banco, e si mise a fare la marionetta. Egli si voltó tutťa un tratto; il ragazzo risedette ďun colpo, e restó li, col capo basso, ad aspettare il castigo. II maestro gli pose una mano sul capo e gli disse: — Non lo far piú. — Nienťaltro. Torno al tavolino e fini di dettare. Finite di dettare, ci guardó un momento in silenzio; poi disse adagio adagio, con la sua voce grossa, ma buona: — Sentite. Abbiamo un anno da passa-re insieme. Vediamo di passarlo bene. Studiate e siate buoni. Io non ho famiglia. La mia famiglia siete voi. Avevo ancora mia madre Fanno scor-so: mi ě morta. Son rimasto solo. Non ho piú che voi al mondo, non ho piú altro affetto, altro pensiero che voi. Voi dovete essere i miei figliuoli. 10 vi voglio bene, bisogna che vogliate bene a me. Non voglio aver da punire nessuno. Mostratemi che siete ragazzi di cuore; la nostra scuola sará una famiglia, e voi sarete la mia consolazione e la mia alterezza. Non vi domando una promessa a parole; son certo che, nel vostro cuore, m'a-vete giá detto di si. E vi ringrazio. — In quel punto entró il bidello a dare 11 finis. Uscimmo tutti dai banchi zitti zitti. Il ragazzo che s'era rizzato sul banco s'accosto al maestro, e gli disse con voce tremante: - Signor maestro, mi perdoni. — Il maestro lo bació in fronte e gli disse: — Va\ fi-gliuol mio. Una disgrat^a. 21, venerdi. L'anno ě cominciato con una disgrazia. Andando a scuola, questa mat-tina, io ripetevo a mio padre quelle parole del maestro, quando vedemmo la strada piena di gente che si serrava davanti alia porta della Sezione. Mio padre disse subito: — Una disgrazia! L'anno comincia male! — En-trammo a gran fatica. II grande camerone era affollato di parenti e di ragazzi, che i maestri non riuscivano a tirar nelle classi, e tutti eran rivolti verso la stanza del Direttore, e s'udiva dire: — Povero ragazzo! Povero Robetti! — Al disopra delle teste, in fondo alia stanza piena di gente, si vedeva l'elmetto ďuna guardia civica e la testa calva del Direttore: poi entró un signore col cappello alto, e tutti dissero: — É il medico. — Mio padre domandó a un maestro: — Cos'e stato? — Gli ě passata la ruota sul piede, — rispose. — Gli ha rotto il piede, — disse un altro. Era un ragazzo della seconda, che venendo a scuola per via Dora Grossa, e vedendo un bimbo della prima inferiore, sfuggito alia madre, cadere in mezzo alia strada, a pochi passi da un omnibus che gli veniva addosso, era accorso 5 arditamente, l'aveva afferrato e messo in salvo; ma non essendo stato le-sto a ritirare il piede, la ruota deH'omnibus gli era passata su. E figliuolo d'un capitano d'artiglieria. Mentre ci raccontavano questo, una signora entró nel camerone come una pazza, rompendo la folia: era la madre di Robetti, che avevan mandato a chiamare; un'altra signora le corse incon-tro, e le getto le braccia al collo singhiozzando: era la madre del bambino salvato. Tutt'e due si slanciarono nella stanza, e s'udi un grido disperato: — Oh Giulio mio! Bambino mio! — In quel momento si fermó una car-rozza davanti alia porta, e poco dopo comparve il Direttore col ragazzo in braccio, che appoggiava il capo sulla sua spalla, col viso bianco e gli occhi chiusi. Tutti stettero zitti: si sentivano i singhiozzi della madre. Il Direttore si arrestó un momento, pallido, e sollevó un poco il ragazzo con tutt'e due le braccia per mostrarlo alia gente. E allora maestri e maestre, parenti, ragazzi, mormorarono tutti insieme: — Bravo, Robetti! — Bravo, povero bambino! — e gli mandavano dei baci; le maestre e i ragazzi che gli erano intorno, gli baciarono le mani e le braccia. Egli aperse gli occhi, e disse: — La mia cartella! — La madre del piccino salvato gliela mostró piangendo e gli disse: — Te la porto io, caro angiolo, te la porto io. — E intanto sorreggeva la madre del ferito, che si copriva il viso con le mani. Uscirono, adagiarono il ragazzo nella carrozza, la carrozza parti. E allora rientrammo tutti nella scuola, in silenzio. Il ragat^p calabrese. 22, sabato. leri sera, mentre il maestro ci dava notizie del povero Robetti, che dovrá camminare un pezzo con le stampelle, entró il Direttore con un nuovo iscritto, un ragazzo di viso molto bruno, coi capelli neri, con gli occhi grandi e neri, con le sopracciglia folte e raggiunte sulla fronte; tutto vestito di scuro, con una cintura di marocchino nero intorno alia vita. II Direttore, dopo aver parlato nell'orecchio del maestro, se ne usci, lascian-dogli accanto il ragazzo, che guardava noi con quegli occhioni neri, come spaurito. Allora il maestro gli prese una mano, e disse alia classe: — Voi dovete essere contenti. Oggi entra nella scuola un piccolo italiano nato a Reggio di Calabria, a piú di cinquecento miglia di qua. Vogliate bene al vostro fratello venuto di lontano. Egli ě nato in una terra gloriosa, che diede all'Italia degli uomini illustri, e le dá dei forti lavoratori e dei bravi soldáti; in una delle piú belle terre della nostra patria, dove son grandi fo- reste e grandi montagne, abitate da un popolo pieno ďingegno e di co-raggio. Vogliategli bene, in maniera ehe non s'accorga di essere lontano dalla cittä dove ě nato; fategli vedere ehe un ragazzo italiano, in qualun-que scuola italiana metta il piede, ci trova dei fratelli. — Detto questo s'alzô e segnô sulla carta murale d'Italia il punto dov'e Reggio di Calabria. Poi chiamô forte: — Ernesto Derossi! — quello ehe ha sempre il prime premio. Derossi s'alzô. — Vieni qua, — disse il maestro. Derossi uscí dal banco e s'andô a mettere accanto al tavolino, in faccia al calabrese. — Come primo delia scuola, — gli disse il maestro, — dä ľabbraccio del ben-venuto in nome di tutta la classe, al nuovo compagno; ľabbraccio del fi-gliuolo del Piemonte al figliuolo delia Calabria. — Derossi abbracciô il calabrese, dicendo con la sua voce chiara: — Benvenuto! — e quest i baciô lui sulle due guance, con impeto. Tutti batterono le mani. — Silenzio! — gridô il maestro, — non si battono le mani in iscuola! — Ma si vedeva ehe era contento. II maestro gli assegnô il posto e lo accompagnô al banco. Poi disse ancora: — Ricordatevi bene quello ehe vi dico. Perché questo fatto potesse aceadere, ehe un ragazzo calabrese fosse come in casa sua a Torino, e che un ragazzo di Torino fosse come a casa propria a Reggio di Calabria, il nostro paese lotto per cinquanťanni, e trentamila italiani mo-rirono. Voi dovete rispettarvi, amarvi tutti fra voi; ma chi di voi offen-desse questo compagno, perché non ě nato nella nostra provincia, si ren-derebbe indegno di alzare mai piú gli occhi da terra quando passa una bandiera tricolore. — Appena il calabrese fu seduto al posto, i suoi vicini gli regalarono delle penne e una stampa, e un altro ragazzo, dalľultimo banco, gli mando un francobollo di Svezia. I miei compagni. 25, martedí. II ragazzo che mando il francobollo al calabrese ě quello che mi piace piú di tutti, si chiama Garrone, ě il piú grande della classe, ha quasi quat-tordici anni, la testa grossa, le spalle larghe; ě buono, si vede quando sor-ride; ma pare che pensi sempre, come un uomo. Ora ne conosco gia molti dei miei compagni. Un altro mi piace pure, che ha nome Goretti, e porta una maglia color cioccolata e un berretto di pelo di gatto; sempre allegro, figliuolo ďun rivenditore di legna, che ě stato soldato nella guerra del '66, nel quadrato del principe Umberto, e dicono che ha tre medaglie. C'ě il piccolo Nelli, un pověro gobbino, gracile e col viso smunto. C ě uno molto ben vestito, che sempre si leva i peluzzi dai panni, e si chiama Votini. Nel banco davanti al mio c'e un ragazzo che chiamano il «mura-torino», perché suo padre ě muratore; una faccia tonda come una mela, con un naso a pallottola; egli ha un'abilita particolare, sa fare // muso di lepre, e tutti gli fanno fare il muso di lepre, e ridono; porta un piccolo cap-pello a cencio, che tiene appallottolato in tasca come un fazzoletto. Ac-canto al muratorino c'e Garoffi, un coso lungo e magro, col naso a becco di civetta e gli occhi molto piccoli, che traffica sempre con pennini, imma-gini e scatole di fiammiferi, e si scrive la lezione sulle unghie per leggerla di nascosto. C'e poi un signorino, Carlo Nobis, che sembra molto super-bo, ed ě in mezzo a due ragazzi che mi son simpatici: il figliuolo d'un fab-bro ferraio, insaccato in una giacchetta che gli arriva al ginocchio, pallidi-no che par malato e ha sempre l'aria spaventata e non ride mai; e uno coi capelli rossi, che ha un braccio morto, e lo porta appeso al collo: suo padre ě andato in America e sua madre va in giro a vendere gli erbaggi. Ě anche un tipo curioso il mio vicino di sinistra, — Stardi, — piccolo e toz-zo, senza collo, un grugnone che non parla con nessuno, e pare che capi-sca poco, ma sta attento al maestro senza batter palpebra, con la fronte corrugata e coi denti stretti: e se lo interrogano quando il maestro parla, la prima e la seconda volta non risponde, la terza volta tira un calcio. E ha daccanto una faccia tosta e trista, uno che si chiama Franti, e che fu giá espulso da un'altra sezione. Ci sono anche due fratelli, vestiti uguali, che si somigliano a pennello, e portano tutti e due un cappello alia cala-brese, con una penna di fagiano. Ma il piú bello di tutti, quello che ha piú ingegno, che sará il primo di sicuro anche quest'anno, ě Derossi; e il maestro, che l'ha giá capito, lo interroga sempre. Io pero voglio bene a Pre-cossi, il figliuolo del fabbro ferraio, quello della giacchetta lunga, che pare un malatino; dicono che suo padre lo batte; ě molto timido, e ogni volta che interroga o tocca qualcuno, dice: — Scusami, — e guar da con gli occhi buoni e tristi. Ma Garrone ě il piú grande e il piú buono. Un tratto generoso. 26, mercoledi. E si diede appunto a conoscere questa mattina, Garrone. Quando en-trai nella scuola, — un poco tardi, ché m'avea fermato la maestra di prima superiore per domandarmi a che ora poteva venir a casa a trovarci, — il maestro non c'era ancora, e tre o quattro ragazzi tormentavano il povero 8 Crossi, quello dai capelli rossi, che ha un braccio morto, c sua madre ven-de erbaggi. Lo stuzzicavano con le righe, gli buttavano in faccia delle scorze di castagne, e gli davan dello storpio e del mostro, contraffacendo- 10, col suo braccio al collo. Ed egli tutto solo in fondo al banco, smorto, stava a sentire, guardando ora l'uno ora 1'altro con gli occhi supplichevo- 11, perché lo lasciassero stare. Ma gli altri sempře piú lo beffavano, ed egli cominció a tremare e a farsi rosso dalla rabbia. A un tratto Franti, quella brutta faccia, sali su un banco, e facendo mostra di portar due cesti sulle braccia, scimmiottó la mamma di Crossi, quando veniva ad aspettare il fi-gliuolo alia porta; perché ora ě malata. Molti si misero a ridere forte. Al-lora Crossi perse la testa, e afferrato un calamaio glielo scaraventó al capo di tutta forza; ma Franti fece civetta, e il calamaio andó a colpire nel petto il maestro che entrava. Tutti scapparono al posto, e fecero silenzio, impauriti. Il maestro, pallido, sali al tavolino, e con voce alterata domandó: — Chi ě stato? Nessuno rispose. Il maestro gridó un'altra volta, alzando ancora la voce: — Chi ě? Allora Garrone, mosso a pieta del povero Crossi, si alzó di scatto, e disse risolutamente: — Son io! Il maestro lo guardó, guardó gli scolari stupiti; poi disse con voce tranquilla: — Non sei tu. E dopo un momento: — II colpevole non sará punito. S'alzi! Crossi s'alzo, e disse piangendo: — Mi picchiavano e m'insultavano, io ho perso la testa, ho tirato... — Siedi, — disse il maestro. — S'alzino quelli che lo han provocate Quattro s'alzarono, col capo chino. — Voi, — disse il maestro, — avete insultato un compagno che non vi provocava, schernito un disgraziato, percosso un debole che non si puó difendere. Avete commesso una delle azioni piu basse, piu vergognose di cui si possa macchiare una creatura umana. Vigliacchi! Detto questo, scese tra i banchi, mise una mano sotto il mento di Garrone, che stava col viso basso, e fattogli alzare il viso, lo fissó negli occhi e gli disse: — Tu sei un'anima nobile. Garrone, colto il momento, mormoró non so che parole nell'orecchio al maestro; e questi, voltatosi verso i quattro colpevoli, disse bruscamen-te: — Vi perdono. 9 In una soffitta. 28, venerdí. Ieri sera con mia madre e con mia sorella Silvia andammo a portar del-la biancheria ad una donna pověra raccomandata dalla GaT^etta; io por-tai il pacco, Silvia aveva il giornale, con le iniziali del nome e delťindiriz-zo. Salimmo fin sotto il tetto ďuna casa alta, in un corridoio lungo, dov'erano molti usci. Mia madre picchió alťultimo: ci aperse una donna ancora giovane, bionda e macilenta, che subito mi parve ďaver giá visto altre volte, con quel medesimo fazzoletto turchino che aveva in capo. — Siete voi quella del giornale, cosi e cosi? — domandó mia madre. — Sí, signora, son io. — Ebbene, vi abbiamo portato un poco di biancheria. — E quella a ringraziare e a benedire, che non finiva piú. Io intanto vidi in un angolo della stanza nuda e scura un ragazzo inginocchiato davanti a una seggiola, con la schiena volta verso di noi, che parea che scrivesse: e pro-prio scriveva, con la carta sopra la seggiola, e aveva il calamaio sul pavi-mento. Come faceva a scrivere cosi al buio? Mentre dicevo questo tra me, ecco a un tratto che riconosco i capelli rossi e la giacchetta di fusta-gno di Grossi, il figliuolo delTerbivendola, quello dal braccio morto. Io lo dissi piano a mia madre, mentre la donna riponeva la roba. — Zitto! — ri-spose mia madre. — Puó esser che si vergogni a vederti, che fai la caritá alla sua mamma; non lo chiamare. — Ma in quel momento Crossi si voltó, io rimasi imbarazzato, egli sorrise, e allora mia madre mi diede una spinta perché corressi ad abbracciarlo. Io 1'abbracciai, egli si alzó e mi prese per mano. — Eccomi qui, — diceva in quel mentre sua madre alla mia, — sola con questo ragazzo, il marito in America da sei anni, ed io, per giunta malata, che non posso piú andare in giro con la verdura a gua-dagnare quei pochi soldi. Non ci ě rimasto nemmeno un tavolino per il mio pověro Luigino, da farci il lavoro. Quando ci avevo il banco giú nel portone, almeno poteva scrivere sul banco: ora me l'han levato. Nemmeno un poco di lume da studiare senza rovinarsi gli occhi. E grazia se lo posso mandar a scuola, ché il municipio gli dá i libri e i quaderni. Pověro Luigino, che studierebbe tanto volentieri! Pověra donna che sono! — Mia madre le diede tutto quello che aveva nella borsa, bació il ragazzo, e quasi piangeva quando uscimmo. E aveva ben ragione di dirmi: — Guar-da quel pověro ragazzo, com'ě costretto a lavorare, tu che hai tutti i co-modi, e pure ti par duro lo studio! Ah! Enrico mio, c'ě piú merito nel suo lavoro ďun giorno che nel tuo lavo*ro ďun anno. A quelli li dovrebbero dare i přemi! 10 IL PICCOLO PATRIOTTA PADOVANO Racconto mensile 29, sabato. Io ci andrei molto piú volentieri a scuola, se il maestro ci facesse ogni giorno un racconto come quello di questa mattina. Ogni mese, disse, ce ne fara uno, ce lo dará scritto, e sará sempre un racconto ďun atto bello e vero, compiuto da un ragazzo. Il piccolo patriotta padovano s'intitola que-sto. Ecco il fatto. Un piroscafo francese parti da Barcellona, cittá della Spagna, per Genová, e c'erano a bordo francesi, italiani, spagnuoli, sviz-zeri. C'era fra gli altri un ragazzo di undici anni, mal vestito, solo, che se ne stava sempre in disparte, come un animale selvatico, guardando tutti con Focchio torvo. Ed aveva ben ragione di guardare tutti con l'occhio torvo. Due anni prima suo padre e sua madre, contadini dei dintorni di Padova, l'avevano venduto al capo d'una compagnia di saltimbanchi; il quale, dopo avergli insegnato a fare i giochi a furia di pugni, di calci e di digiuni, se l'era portato a traverso alia Francia e alia Spagna, picchiando-lo sempre e non sfamandolo mai. Arrivato a Barcellona, non potendo piú reggere alle percosse e alia fame, ridotto in uno stato da far pieta, era fug-gito dal suo aguzzino, e corso a chieder protezione al Console dTtalia, il quale, impietosito, l'aveva imbarcato su quel piroscafo, dandogli una let-tera per il questore di Genova, che doveva rimandarlo ai suoi parenti; ai parenti che l'avevan venduto come una bestia. II pověro ragazzo era lace-ro e malaticcio. Gli avevan dato una cabina nella seconda classe. Tutti lo guardavano; qualcuno lo interrogava; ma egli non rispondeva, e pareva odiasse e disprezzasse tutti, tanto l'avevano inasprito e intristito le priva-zioni e le busse. Tre viaggiatori nondimeno, a forza di insistere con le do-mande, riuscirono a fargli snodare la lingua, e in poche parole rozze, miste di veneto, di spagnuolo e di francese, egli racconto la sua storia. Non erano italiani quei viaggiatori; ma capirono, e un poco per compassione, un poco perché eccitati dal vino, gli diedero dei soldi, celiando e stuzzi-candolo perché raccontasse altre cose; ed essendo entrate nella sala, in quel momento, alcune signore, tutti e tre, per farsi vedere, gli diedero an-cora del denaro gridando: — Piglia questo! — Piglia questaltro! — e fa-cendo risonar le monete sulla tavola. Il ragazzo intascó ogni cosa, ringra- 11 ziando a mezza voce, col suo fare burbero, ma con uno sguardo per la prima volta sorridente e affettuoso. Poi s'arrampico nella sua cuccetta, tiro la tenda, e stette quieto, pensando ai fatti suoi. Con quei denari poteva assaggiare quafche buon boccone a bordo, dopo due anni che stentava il pane; poteva comprarsi una giacchetta, appena sbarcato a Genova, dopo due anni che andava vestito di cenci; e poteva anche, portandoli a casa, farsi accogliere da suo padre e da sua madre un poco piu umanamente che non ľavrebbero accolto se fosse arrivato con le tasche vuote. Erano una piccola fortuna per lui quei denari. E a questo egli pensava, racconsolato dietro la tenda della sua cabina, mentre i tre viaggiatori discorrevano, se-duti alia tavola da pranzo, in mezzo alia sala di seconda classe. Bevevano e discorrevano dei loro viaggi e dei paesi che avevano veduti e, di discor-so in discorso, vennero a ragionare dell'Italia. Cominciô uno a lagnarsi degli alberghi, un altro delle strade ferrate, e poi tutti insieme infervoran-dosi, presero a dir male d'ogni cosa. Uno avrebbe preferito di viaggiare in Lapponia; un altro diceva di non aver trovato in Italia che truffatori e briganti; il terzo, che gli impiegati italiani non sanno leggere. — Un po-polo ignorante, — ripeté il primo. — Sudicio, — aggiunse il secondo. — La... — esclamô il terzo; e voleva dir ladro, ma non poté finir la parola: una tempesta di soldi e di mezze lire si rovesciô sulle loro teste e sulle loro spalle, e saltellô sul tavolo e sulľimpiantito con un fracasso ďinferno. Tutti e tre s'alzarono furiosi, guardando alľinsú, e ricevettero ancora una manata di soldi sulla faccia: — Ripigliatevi i vostri soldi, — disse con di-sprezzo il ragazzo, affacciato fuori della tenda della cucceťta; — io non accetto ľelemosina da chi insulta il mio paese. 12 Ferruccio taceva. Egli non era mica tristo di cuore . . . (pag. 62)