Due II telegramma arrivo due giorni dopo. La formula e piu o meno sempre la stessa. II detenuto Pinco Pallino ti nomina suo difensore, in-dica il numero del procedimento e ti chiede di andare in carcere a trovarlo, per parlare della sua posizione. In questo caso il detenuto non si chiamava Pinco Pallino, ma Fabio Paolicelli, indicava il numero del procedimento e mi chiedeva di andarlo a trovare in car-cere con urgenza. Fabio Paolicelli. E chi era? II nome mi diceva qual-cosa, ma non riuscivo ad afferrare cosa. Mi infastidii mol-to perche da un po' di tempo mi ero convinto di non riu-scire piu a ricordare bene i nomi. Mi sembrava un in-quietante presagio del deterioramento delle mie facolta mentali. Una cazzata, naturalmente, perche io i nomi non me li sono mai ricordati e avevo lo stesso problema a vent'anni. Ma passati i quaranta gli stupidi pensieri si moltiplicano e fenomeni insignificanti diventano sinto-mi della vecchiaia che si avvicina. Comunque mi arrovellai per qualche minuto e poi la-sciai perdere. Avrei scoperto di li a poco se davvero co-noscevo quel tipo, andando a trovarlo in carcere. Chiamai Maria Teresa e le chiesi se avevamo ap-puntamenti per quel pomeriggio. Lei mi disse che aspettavamo il signor Abbaticchio, ma che sarebbe ar-rivato sul tardi, in chiusura. Cosi, visto che erano le quattro, che era giovedi, che di giovedi ě possibile incontrare i clienti detenuti fino alle sei del pomeriggio, e soprattutto che non avevo nes-suna voglia di mettermi a studiare i fascicoli per le udien-ze del giorno dopo, decisi di andare a conoscere il signor Fabio Paolicelli, che voleva vedermi con urgenza. Cosi, per quel pomeriggio, saremmo stati tutti soddi-sfatti. Piu o meno. Da qualche mese usavo la bicicletta. Da quando Margherita era andata via avevo fatto qualche cam-biamento. Non sapevo bene perché, ma fare qualche cambiamento mi aveva aiutato. Fra questi, comprarmi una bella bicicletta vecchio stile, nera e senza le marce, visto che per le stradě di Bari non servono a nien-te. In breve avevo smesso di usare la macchina e questo mi piaceva. Avevo cominciato andando in tribunále con la bici; poi avevo proseguito andando in carcere, che ě piú lontano, e alla fine avevo abbandonato la macchina anche per le uscite serali, visto che di regola, do-vunque andassi, ci andavo da solo. C'ě qualche rischio, a girare per Bari in bicicletta: non esistono le pisté ciclabili e gli automobilisti ti con-siderano poco piú che un impedimento molesto; ma si arriva dappertutto moko prima che con la macchina. E cosi un quarto ďora dopo, alquanto infreddolito, ero all'ingresso del carcere. 18 19 H sottufficiale ehe quel pomeriggio si occupava dei controlli era nuovo e non mi conosceva. Cosi fece tut-to molto fiscalmente. Esame dei documenti, ritiro del cellulare, verifica della nomina. Alia fine mi fece pas-sare e attraversai la solita serie di porte blindate che si aprivano e richiudevano al mio passaggio, fino alia sala avvocati. Sempre quella, accogliente come la reception di un obitorio di provincia. Se la presero piuttosto comoda e il mio nuovo clien-te arrivô almeno un quarto d'ora dopo, quando stavo pensando di dare fuoco al tavolo o a qualche sedia, per scaldarmi e attirare l'attenzione. Non appena entrô lo riconobbi, anche se erano pas-sati piu di venticinque anni dalľultima volta che l'a-vevo visto. Fabio Paolicelli detto Fabio Raybän, con l'accento sulla seconda sillaba, alia barese. Lo chiamavano cosi per via degli occhiali da sole che portava sempre, anche di sera. Ecco perché non riuscivo a ricordarmi chi fosse. Per me, per tutti, quello era sempre stato Fabio Raybän. Erano gli anni Settanta. Un lungo, livido telegiornale in bianco e nero che nei miei ricordi comincia con le immagini di Piazza Fontána subito dopo la bomba. Ave-vo sette anni ma ricordo tutto benissimo: le fotografie sui quotidiani, i servizi in televisione, persino i di-scorsi in casa fra i miei genitori e con gli amici che ve-nivano a trovarli. Un pomeriggio, forse il giorno dopo la strage, chie-si a nonno Guido perché avevano messo quella bom- ba, se fossimo in guerra, e con quale paese. Lui mi guardô e rimase in silenzio. Fu ľunica volta che non trovô parole per rispondere alle mie domande. Mi ricordo quasi tutti i f atti importanti di quegli anni. Me li ricordo in quei telegiornali in cui a poco a po-co cominciarono ad apparire facce di ragazzi, come le nostre. Io frequentavo sporadicamente e senza troppa con-vinzione i gruppi della sinistra extraparlamentare. Fabio Raybän invece era un picchiatore fascista. E forse piu che un semplice picchiatore. Di lui, e di altri come lui, si raccontavano molte cose. Si raccon-tava di rapine a mano armata fatte per il gusto del gesto ardito. Di campi paramilitari nelle zone piu sper-dute della Murgia, assieme a equivoci personaggi del-le forze armate e dei servizi segreti. Di cosiddette feste ariane in ville lussuose della periféria. Soprattutto si diceva che Raybän avesse fatto parte della squa-draccia che aveva assassinato a coltellate un ragazzo di diciotto anni comunista e poliomielitico. Dopo un lungo processo uno di quei fascisti fu con-dannato per ľomicidio e poi, molto opportunamente, si uccise in carcere. Lasciando cadere una pietra tombale sulla possibilitä di identificare gli altri responsabili. Nei giorni che seguirono a quell'assassinio Bari fu riempita dal f umo dei lacrimogeni, dalľ odor e acre del-le macchine incendiate, dal rumore dei passi di corsa su marciapiedi deserti. Biglie di metallo che spaccava-no le vetrine. Siréne e lampeggianti blu che spaccava-no la quiete grigia dei pomeriggi di fine novembre. 20 21 I fascisti erano organizzati in modo professionale. Come delinquenti professionali. I loro argomenti politici erano le spranghe di ferro, le catene e i coltelli. Quan-do non saltavano fuori le pistole. Bastava passare per via Sparano, dalle parti della chiesa di San Ferdinan-do, considerata zona nera, con il giornale, il libro, o ad-dirittura 1'abito sbagliato, per finire nel mezzo di pe-staggi bestiali. Capitö anche a me. Avevo quattordici anni e portavo sempre un eski-mo verde di cui ero molto fiero. Un pomeriggio stavo facendo una passeggiata in centro con due miei amici poco piü che bambini, come me, quando da un momento all'altro ci trovammo circondati. Era-no ragazzi di sedici, diciassette anni, ma sembravano uomini. A quell'etä due anni di differenza sono una vita. Fra di loro un tipo biondo, alto e magro, con una fac-cia alia David Bowie. Portava occhiali scuri Rayban, anche se era giä buio. Sorrideva con labbra sottili, in un modo che mi fece gelare il sangue. Uno basso e robustissimo, con un incisivo spezzato, si avvicino di piü e mi disse che ero un bastardo rosso. Dovevo togliermi subito quell'eskimo di merda, al-trimenti ci avrebbero pensato loro a darmi l'olio di ri-cino che mi meritavo. Nel terrore ottuso di quel momento trovai il modo di chiedermi cosa volesse dire quella frase. Fino ad al-lora non avevo mai sentito parlare di olio di ricino, pur-ghe fasciste e cose del genere. II mio amico Roberto si fece la pipi addosso. Non metaforicamente. Vidi la traccia del liquido che si diffondeva sui suoi jeans scoloriti mentre io, con un fi-lo di voce, chiedevo perche me lo dovevo togliere, l'eskimo. Quello mi diede un ceffone fra la guancia e l'orecchio. Molto forte. «Toglitelo, compagno di merda». Ero terrorizzato e mi veniva da piangere, e perb non me lo tolsi, l'eskimo. Cercando disperatamente di trattenere le lacrime, chiesi di nuovo perche. E quello mi diede un altro ceffone, e poi un pugno, e poi calci, e ancora pugni e schiaffi, in mezzo alia gente che pas-sava e guardava dall'altra parte. A un certo punto - io ero a terra, raggomitolato per proteggermi dai colpi - qualcuno li fece scappare via. Quello che successe dopo e piü nitido e presente, nel ricordo. Un signore mi aiuta ad alzarmi e mi chiede con un forte accento barese se voglio andare al pronto soccorso. Io dico di no, che voglio andare a casa. Ho le chiavi di casa, aggiungo, come se la cosa possa interessarlo, o ab-bia un senso. E poi me ne vado, e i miei amici non ci sono piü e non lo so quando sono scomparsi. Sulla strada piango. Non tanto per il dolore delle botte, ma per l'umiliazione e la paura. Poche cose si ricordano bene come l'umiliazione e la paura. Maledetti fascisti. E piangendo, tirando su col naso dico a voce alta che perö l'eskimo non me lo sono tolto. Questo pensiero 22 23 mi fa raddrizzare la schiena, e mi fa smettere di pian-gere. Non me lo sono tolto l'eskimo, fascisti di merda. E mi ricordo le vostre facce. Un giorno ve la faro pagare. Quando Paolicelli entro nella sala avvocati mi ritornö tutto in mente, tutto insieme. Con la violenza di una ventata improvvisa che spalanca le finestre, fa sbatte-re le porte, disperde le carte. Quello mi tese la mano e io ebbi un attimo di esita-zione prima di stringergliela. Mi domandai se l'avesse no-tato. I ricordi - cose imprecise, rumori, voci di ragazzi e ragazze, odori, grida di paura, le canzoni degli Inti II-limani, la faccia di uno di cui non ricordavo il nome e che era morto di overdose a diciassette anni, nei cessi della scuola - si affollavano nella mia testa come creature liberate all'improvviso da un sortilegio che le teneva pri-gioniere negli scantinati, o nelle soffitte della memoria. Certamente lui non si ricordava di me. Lasciai passare una manciata di secondi, per non es-sere troppo brusco, prima di chiedergli perche mi aveva nominato e quindi per quale motivo si trovava la dentro. «Mi hanno arrestato un anno e mezzo fa per traffi-co internazionale di stupefacenti. Ho fatto il processo con il rito abbreviato e mi hanno dato sedici anni, piu una multa cosi enorme che nemmeno me la ricordo». Era il tuo destino, fascista. Paghi adesso per tutto quello che non hai pagato allora. «Rientravo da una vacanza in Montenegro. Al por-to di Bari i finanzieri facevano dei controlli con i cani antidroga. Quando sono arrivati alia mia macchina i cani sembravano impazziti. Mi hanno portato in caser-ma, hanno smontato la macchina e sotto la scocca hanno trovato quaranta chili di cocaina purissima». Quaranta chili di cocaina purissima giustificavano quella pena, anche in abbreviato. E comunque la sto-ria dei controlli casuali potevano raccontarla alle loro nonne, i finanzieri. Qualcuno aveva soffiato la notizia che c'era un corriere di passaggio al posto di frontiera e, secondo copione, avevano organizzato la sceneggia-ta del controllo di routine. Per non bruciare l'infor-matore. «La droga non era mia». Le parole di Paolicelli interruppero bruscamente la sequenza dei miei pensieri. «In che senso non era sua? C'era qualcun altro in macchina con lei?». «In macchina con me c'erano mia moglie e mia fi-glia. Tornavamo da una settimana al mare. E la droga non era mia. Non so chi ce l'ha messa». Ecco, pensai. Si vergogna perche ha trasportato la droga nella stessa macchina in cui c'erano la moglie e la bambina. Tipico di voi fascisti: non siete capaci nemmeno di fare dignitosamente i criminali. «Scusi Paolicelli, ma come e possibile che qualcuno ce l'abbia messa a sua insaputa ? Voglio dire, parliamo di quaranta chili, di un imballaggio sotto la scocca che... insomma non sono esperto di queste cose, ma avrä richiesto del tempo. Ha prestato la macchina a qualcuno in Montenegro?». 24 25 «Non 1'ho prestata a nessuno, ma per tutta la vacanza e stata nel parcheggio dell'albergo. E il portiere del-l'albergo aveva le chiavi, bisognava lasciarle perche il parcheggio era pieno e a volte c'era bisogno di sposta-re una macchina, fare manovre. Qualcuno, d'accordo con il portiere, deve averci messo la droga di notte, pro-babilmente l'ultima prima della partenza, e pensava di recuperarla, o farla recuperare da qualche complice in Italia, dopo il passaggio della dogana. Lo so che sem-bra assurdo, ma la droga non era mia. Giuro che non era mia». Appunto. Era assurdo. Era una delle tante storie assurde che capita di sen-tire nelle aule di giustizia, nelle caserme, nelle carceri. La piii classica di queste storie la raccontano imman-cabilmente quelli che vengono trovati in possesso di pistole oliate, efficienti e con il colpo in canna. Dicono tutti di averla appena trovata per caso, di regola sotto un cespuglio, o sotto un albero, o in un cassonetto della spazzatura. Dicono tutti di non averne mai maneg-giata una prima e che si accingevano a portarla ai cara-binieri o alia polizia per consegnarla. Proprio a questo scopo la portavano nella cintura col colpo in canna, ag-girandosi, faccio per dire, nei paraggi di una gioielleria o della casa di un concorrente in affari illeciti. Volevo dirgli che non me ne importava niente del fat-to che avesse portato quaranta chili di droga dal Montenegro alPItalia, e che non me ne importava niente se lo aveva gia fatto altre volte, e quante. E dunque che poteva raccontarmi tranquillamente la verita, il che avrebbe anche semplificato le cose. Facevo l'avvocato penalista e mi toccava difendere quelli come lui. E fi-guriamoci se mi interessava esprimere giudizi sui miei clienti. Volevo dirgli piu o meno queste cose, ma non lo feci. AH'improvviso mi resi conto di quello che sta-va succedendo nella mia testa, e non mi piacque. Capii che volevo una confessione, da lui. Per essere certissimo che fosse colpevole e per accompagnarlo al suo destino di galeotto di lungo corso senza nessun pro-blema di coscienza professionale, deontologia, e cose simili. Capii molto chiaramente che volevo essere il suo giudice - e forse anche il suo boia - piuttosto che il suo avvocato. Volevo regolare un vecchissimo conto. E questo non andava bene. Mi dissi che dovevo pensarci, perche se mi sembrava di non saper control-lare quell'impulso, allora dovevo rinunciare alia dife-sa. O meglio: non dovevo nemmeno accettarla. «Dopo l'arresto cosa e successo?». «Dopo il ritrovamento della droga mi hanno propo-sto di collaborare. Mi hanno detto che volevano fare una... come si chiama?». «Una consegna controllata?». «Ecco, si, una consegna controllata. Mi hanno detto che mi lasciavano andare con la macchina e la droga a bor-do. Dovevo andare a fare la consegna come se non fosse successo niente. Loro mi avrebbero seguito e al mo-mento opportuno avrebbero arrestato quelli che aspet-tavano il carico. Mi hanno detto che avrei avuto uno scon-to grossissimo sulla pena, che me la sarei cavata con tre 26 27 anni al massimo. Io gli ho detto che la droga non era mia e che quindi non sapevo dove portarli. Loro allora han-no detto che mi arrestavano, e che arrestavano anche mia moglie perché era ovvio che eravamo ďaccordo. Mi ha preso il panico e ho detto che si, la droga era mia, ma che lei non ne sapeva niente. Hanno telefonato al pub-blico ministero e quello gli ha detto di arrestare solo me, dopo aver messo a verbale la mia dichiarazione. Cosi han-no verbalizzato la mia confessione e poi mi hanno arre-stato. Ma hanno lasciato andare mia moglie». Pariava con un tono cortese e un sottofondo di di-sperazione. Mi chiese una sigaretta e io dissi che non avevo si-garette perché avevo smesso da un paio ďanni. Anche lui non aveva fumato per piů di dieci anni, disse. Ave-va ripreso il giorno dopo 1'ingresso in carcere. Chi aveva nominato come difensore al momento del-l'arresto ? E perché aveva deciso di cambiarlo ? Dal modo in cui mi guardo prima di rispondere, capii che stává aspettando quella domanda. «Quando mi hanno arrestato mi hanno chiesto chi fosse il mio avvocato, perché lo dovevano avvertire. Io non ce 1'avevo un avvocato e ho detto che non sapevo chi nominare. Mia moglie era ancora li - la bambina era venuta a prendersela un'amica - e le ho detto di consigliarsi con qualcuno per trovare un buon avvocato. II giorno dopo lei ha fatto una nomina». «E chi ha nominato?». Li comincio la parte strana della faccenda, se Paoli-celli stava dicendo la verita. «Mia moglie stava uscendo di casa quando fu av-vicinata da un tizio che disse di venire da parte di amici che volevano aiutarci. Le disse di nominare un avvocato di Roma, un certo Corrado Macri, che mi avrebbe tirato fuori dai guai. Le diede un foglietto con il nome e un numero di cellulare e disse di no-minarlo subito, cosi sarebbe potuto venire a trovar-mi in carcere prima dell'interrogatorio davanti al magistrato ». «E sua moglie?». La moglie di Paolicelli, che non sapeva cosa fare e non conosceva nessun avvocato, nominö questo Macri. Lui arrivö da Roma in poche ore come se Stesse aspettando la nomina e non avesse altri impegni. Ando a trovare Paolicelli in carcere e gli disse di non preoccuparsi, che avrebbe sistemato tutto lui. Quando Paolicelli gli chiese chi lo avesse incaricato e chi fosse la persona che aveva avvicinato sua moglie, quello gli ripeté di non preoccuparsi e di pensare solo a seguire i suoi consigli, che si sarebbe trovato bene. E, per prima cosa, al momento dell'interrogatorio davanti al giudice doveva avvalersi della facolta di non rispondere, ché altri-menti rischiava di aggravare la situazione. Mi chiesi con quale sforzo di fantasia si potesse pensare di aggravarla, quella situazione, ma non lo dissi a Paolicelli. Fecero ricorso al tribunále della liberta, che con-fermö la custodia cautelare. E avrei voluto ben vedere il contrario, pensai io. Ma non dissi neanche questo. 28 29 Macri fece ricorso per cassazione, dicendo che c'era una irregolaritä formale - non specificö quäle - che gli dava buone speranze di fare annullare il provvedi-mento del tribunále della liberta. Le buone speranze si rivelarono infondate perché an-che la cassazione confermö la custodia cautelare. Macri continuava a mostrare ottimismo. Diceva a Paoli-celli, e anche alla moglie, che non dovevano preoccu-parsi e che, con un po' di pazienza, avrebbe sistema-to tutto nel modo migliore. Lo diceva - spiegö Paoli-celli - con tono allusivo. Quello di chi ha le chiavi giu-ste e che al momento opportuno le userä. Si arrivö all'udienza preliminare, Macri si racco-mandö ancora una volta che Paolicelli non facesse al-cuna dichiarazione, chiesero il giudizio abbreviato. Come era finita lo sapevo giä. «E allora cosa ha detto Macri?». «Mi ha detto di nuovo di non preoccuparmi, che avrebbe sistemato tutto lui». «Scherza ?». «No. Disse che in primo grado era scontato che fi-nisse cosi - neue settimane precedenti invece mi ave-va assicurato che nel peggiore dei casi me la sarei ca-vata con quattro, cinque anni - e che in appello le co-se si sarebbero raddrizzate. E stato proprio dopo aver letto l'atto di appello - una paginetta dove non c'era scritto praticamente niente - che mi sono incazzato». «E allora?». «Gli ho detto che stava giocando con la mia vita. Gli ho detto che lo sapevo benissimo chi lo aveva manda- to. E poi gli ho detto che mi ero rotto le palle e che avrei chiamato il magistrato e gli avrei raccontato tutto». «E che cosa voleva raccontare al magistrato?». «Non pensavo a niente di preciso. Mi ě venuto da dire quella cosa nel pieno della rabbia, per scuoterlo, per produrre un effetto. In realtä non ho idea di chi lo abbia mandato. Ma lui deve avermi creduto, deve aver pensato che davvero avessi qualcosa di impor-tante da raccontare». «E cosa ha detto?». «Ha cambiato tono, bruscamente. Ha detto che do-vevo staré molto attento a quello che facevo e soprat-tutto a quello che dicevo. Ha detto che in carcere pos-sono succedere incidenti, a quelli che non sanno come comportarsi». Mi accorsi che aveva il fiato corto. Ansimava leg-germente e dovette respirare un po' prima di rico-minciare. «Io non avevo niente da raccontare al magistrato. A parte il fatto che la droga non era mia. Cosa alla quäle non avrebbe creduto, come del resto non ci ha creduto lei». Feci per replicare. Poi mi dissi che aveva ragione, ri-masi zitto e lo lasciai continuare. «Comunque quello mi ha detto che se non avevo piü fiducia in lui non c'era ragione perché continuasse a di-fendermi. Rinunciava al mandato, ma io dovevo ri-cordarmi quello che mi aveva detto. Se avessi chiesto di parlare con il magistrato, low lo avrebbero saputo subito. E se n'e andato». 30 31 Adesso ero io a volerla la sigaretta. Ormai succede-va abbastanza di rado, piu che altro nei momenti in cui le cose diventavano poco chiare. E se Paolicelli stava dicendo la verita, quella storia era poco chiara, come minimo. «Ah, mi stavo dimenticando altre due cose». «Si?». «Non si e fatto pagare. Non ha voluto un soldo, no-nostante i viaggi, tutte le volte che e venuto, le spese. Niente. Io dicevo che volevo pagare e lui diceva di non preoccuparmi, che quando avessimo sistemato tutto - par-lava sempre di sistemare tutto - gli avrei fatto un regalo. E poi, quando ha ottenuto dal pubblico ministero il dis-sequestro della macchina, che e intestata a mia moglie, e voluto andare lui personalmente a ritirarla. Non mi sem-bra un comportamento nor male per un avvocato». No. Non era affatto un comportamento normale. Tutta quella storia dell'avvocato era strana. Troppo contorta per essere inventata. E cosi non capivo bene di fronte a cosa mi trovavo. Cercavo di pensare e lui se ne rese conto, perche non mi interruppe. Poteva dav-vero essere che la droga non fosse sua ? Poteva davve-ro essere successo che qualcuno avesse escogitato un simile sistema per trafficare cocaina a chili ? Piu ci pen-savo e piu le mie riflessioni diventavano schizofreni-che. Da un lato mi dicevo che erano congetture prive di senso, che certe cose succedono solo nei film o nei romanzi. Dall'altro l'idea che Paolicelli potesse dire la verita mi sembrava agghiacciante e terribilmente rea-listica. Guardavo la faccenda come fosse una di quel- le figurine magiche che da piccolo trovavo nelle con-fezioni dei formaggini: a seconda di come le spostavi l'immagine cambiava, il protagonista si muoveva, altri personaggi apparivano. Quella faccenda sembrava proprio una figurina magica, con personaggi foschi e va-ghi sentori putridi quando ti avvicinavi troppo per cercare di cogliere i particolari. Gli dissi che per il momento poteva bastare. Adesso dovevo guardare le carte, per farmi un'idea piü pre-cisa. Lui rispose che la copia di tutto il fascicolo ce l'a-veva sua moglie e che me l'avrebbe portata in studio entro il fine settimana. Mi chiese quanto dovessero versarmi come acconto e io risposi che prima di accettare l'incarico dovevo guardare le carte visto che fra 1'altro era coinvolto un col-lega. Lui annui e non mi chiese altro. Mi ero giä alzato e stavo recuperando Pimpermeabile quando pensai che c'era una cosa che volevo sapere, prima di andarmene. «Perche io? Voglio dire: perché ha nominato me?». Quello sorrise, con una strana espressione. Si aspet-tava quella do manda. «In carcere si parla un sacco. Si parla un sacco dei giudici, e dei pubblici ministeri. Quelli buoni, quelli stronzi, quelli bravi, pericolosi, corrotti. E si parla de-gli avvocati». Si interruppe e mi guardö. La mia faccia diceva che lo stavo seguendo. «Quelli bravi ma stronzi. Quelli onesti ma scarsi, o sottomessi ai giudici. Leccaculi. Quelli che hanno - o 32 33 dicono di avere - le scorciatoie giuste per arrivare dap-pertutto. Si dicono un sacco di cose». Altra pausa, altro sguardo. La mia faccia era la stes-sa. Lui cercava le parole. «Di lei si dice che non ha paura». «In che senso ?». «Si dice che non si tira indietro, se ě per una cosa giusta. Si dice che lei ě una persona per bene». Sentii un leggero formicolio, sul cuoio capelluto e poi lungo la schiena. «E si dice che lei ě molto bravo». Non sapevo cosa dire. Lui continuó a parlare e la sua voce si incrinó, come se avesse esaurito le forze per con-trollarsi. «Mi tiri fuori di qui. Sono innocente, glielo giuro. Ho una bambina. E la sola cosa davvero importaňte del-la mia vita. Ho fatto un sacco di cose balorde ma quel-la bambina ě la ragione della mia vita. Non la vedo da quando sono stato arrestato. Non ho voluto che venisse a trovarmi in carcere e cosi non la vedo da quella ma-ledetta mattina». Le ultime parole furono una via di mezzo fra un ran-tolo e un sussurro. Adesso avevo voglia di uscire di li. Avevo voglia di scappare e cosi gli dissi che avrei studiato le carte, non appena le avessi ricevute; che ci saremmo rivisti presto per parlarne. Poi ci stringemmo la mano e andai via. Tre Nemmeno le dovevo guardare le carte, mi dissi in-vece quella sera a casa. Io Fabio Raybän non lo potevo difendere. Tutto quel-lo che mi era passato per la testa quando l'avevo rico-nosciuto era un segnale di allarme. Una cosa che non potevo trascurare. Dovevo comportarmi da professionista serio e da uomo maturo. Probabilmente Paolicelli era colpevole ed era stato giustamente condannato. Ma proprio per questo ave-va diritto a essere difeso in modo professionale, da qual-cuno che non avesse le mie riserve mentali e vecchis-simi conti in sospeso. Dovevo rinunciare all'incarico senza nemmeno leg-gere gli atti. Sarebbe stato molto meglio per tutti. Sarebbe stato giusto. Nel giro di un paio di giorni sarei tornato in carcere e gli avrei detto che non potevo dif ender lo. Gli avrei detto la veritä, o avrei inventato una scusa. Ma una cosa era certa. Non potevo accettare quella difesa. 34 35