GLI SCRITTI SATIRICI     IN GRECO LETTERARIO     DI     TEODORO PRODROMO:    INTRODUZIONE, EDIZIONE,     TRADUZIONE E COMMENTO    a cura     di     Tommaso Migliorini            I D M  AVORUM  AVIARUMQUE   D D D  nu`n de; tiv moi sofivh" ejrikudevo" e[plet∆ o[neiar… (Theod. Prodr. Carm. hist. XXXVIII 75 H.) II     PREMESSA Gli studi storico-letterari su Bisanzio hanno compiuto enormi progressi dai tempi di Krumbacher, benemerito pioniere della bizantinistica: una storia letteraria come la sua, pur tuttora molto utile, non fornisce alcuna immagine complessiva dell’homo byzantinus, ma presenta i dati, eminentemente biografici e storici, giustapposti come elementi eterogenei. L’unico tratto che accomuna, forse, i vari autori, generi e periodi è costituito da un preconcetto di fondo: il mondo bizantino è conservatore e imitativo nei confronti di sé stesso e dell’antichità greca; scarsi sono i mutamenti politici ed economici; esigua e poco originale l’immaginazione letteraria, rifatta per lo più su archetipi classici.1 A modificare un siffatto pregiudizio hanno contribuito diversi studi della seconda metà del secolo XX, specialmente l’approccio socio-economico di Kazhdan: la vita e la cultura bizantina devono essere contestualizzate nei loro propri milieux e non considerate immutabili e monotone lungo tutto il millennio (secc. VI-XV) in cui si dispiegano. Le ricerche dello studioso russo, basate specialmente su prove archeologiche e numismatiche, hanno dimostrato che le città dell’impero bizantino soffrirono una forte depressione economica tra la fine del VII e la metà del IX secolo. In essa, pertanto, occorre contestualizzare e giustificare la produzione letteraria di quel medesimo periodo, caratterizzata dalla preponderanza di testi cronografici e religiosi e da quasi nessun’opera in versi o prosa elegante. Se poi, per converso, nei secoli XI e XII si registra una ben diversa fioritura in ambito sia artistico sia letterario, ciò andrà 1 Vd. tutto il volume di Krumbacher 18972 ; ricolmo di preconcetti, ancor più di Krumbacher stesso, è il noto giudizio negativo di Pasquali 1968 [= 1941], sp. p. 348 «la letteratura bizantina è fra le più noiose del mondo». Quest’ultimo articolo, tuttavia, vale ancora la pena di essere letto, non foss’altro perché testimone di un certo gusto estetico tuttora presente e, non da ultimo, per la vivacità espressiva e l’eleganza formale con cui è redatto. III spiegato anche con un ritorno alla prosperità dell’economia urbana e con l’evoluzione dell’economia terriera. Pur nella massima semplificazione da me operata, si intuisce che la matrice dell’approccio di Kazhdan ha risentito degli orientamenti marxisti, assorbiti nella prima fase, quella sovietica, della sua vita e attività scientifica. Una profonda differenza, però, lo distingue dallo storico iugoslavo di origine russa G. Ostrogorsky e da altri storici russi. Costoro, infatti, individuano il fattore di sviluppo della storia bizantina nella comunità rurale e in una supposta rivoluzione agraria: contadini liberi dal servaggio della gleba si sarebbero orientati a un nuovo sistema di insediamento, quello dei temi,1 che prevedeva la remunerazione del servizio militare con possedimenti terrieri inalienabili; un sistema che avrebbe costituito i fondamenti per la rinascita dell’impero nel VII sec. e la cui trasformazione nel processo di feudalizzazione a partire dall’XI sec. avrebbe condotto all’inevitabile declino e caduta.2 Kazhdan, al contrario, ravvisa il mutamento sociale nella comunità urbana e nel suo collasso e rifiorire nel giro di cinque secoli (VII-XI).3 Tali orientamenti di studio non ho mai curato nei miei studi filologici, eccezion fatta per un momento iniziale, quando, inesperta matricola, mi furono assegnati per il mio primo colloquio in Normale un paio di libri di De Ste. Croix sulla lotta di classe e la guerra del Peloponneso;4 il mio desiderio, tuttavia, era piuttosto di corroborare il greco su Tucidide. Da allora sono passati quasi dieci anni, in cui nei miei percorsi, recentemente arricchiti da quelli bizantinistici, ho sempre preposto la filologia alla storia, all’economia e alla civilizzazione in senso lato. Stranamente è stato un autore bizantino, che tra l’altro non è nemmeno uno storico, a farmi ritornare almeno in parte sulla strada da me non imboccata. Mi sono accorto, infatti, che per parlare di letteratura non ci si può limitare esclusivamente alle osservazioni grammaticali, alla Quellenforschung, alla traduzione: si tratta di parti che ritengo pur sempre valide all’interno di uno studio letterario complessivo e che qui stesso ho proposto. Dopo aver trattato quelle, però, mi sono domandato: perché Prodromo ha scritto le satire? Per chi le ha scritte? Quali erano i suoi rapporti con la corte e gli altri contemporanei? Per mettermi sulla traccia della risposta, allora, ho dovuto rispolverare quell’approccio di studi da me sempre evitato. Con ciò, non si attenda il lettore di questa mia dissertazione un’indagine accurata sulla politica agraria, sull’economia e sulla società della Bisanzio del XII sec.: non l’ho prevista, né sarei al momento capace di condurla. Ho piuttosto tentato di contestualizzare Prodromo nel suo milieu, istituendo una comparazione con i contemporanei di quello. In tal modo ritengo di aver fornito un contributo alla ricostruzione del suo stile; parola che, come suggerisce Kazhdan, indica il modo di presentare la personale Weltanschauung, piuttosto che la grammatica o la distinzione tra greco vernacolare ed erudito. La mia impresa, va pur ammesso, non pretende di essere ben riuscita: nella teoria mostra giustificati fondamenti; nella pratica deve confrontarsi con opere, come quelle satiriche, 1 Qevma era la provincia bizantina ordinata militarmente; la parola designava inizialmente solo il corpo d’armata stanziato in una determinata provincia, in seguito passò a indicare la provincia stessa; tra la fine dell’VIII sec. e gli inizi del IX tutto l’impero era ordinato in temi, di numero ed estensione variabili nel tempo; il tema d’Italia, nel nuovo ordinamento bizantino alla fine del sec. X, designava il territorio comprendente le attuali regioni di Puglia e Basilicata. 2 Vd. in particolare Ostrogorsky 1959, dove si contrasta risolutamente ogni tentativo di scovare consistenti mutamenti nella vita urbana del VII sec. e si ravvisa nella feudalizzazione dell’XI sec. l’inizio del declino della società bizantina. 3 Nomino qui solo alcuni tra gli innumerevoli titoli della fase sovietica dello studioso: la dissertazione Kazhdan 1952, storia agraria del tardo impero bizantino; l’articolo Kazhdan 1954, dimostrazione su basi archeologiche e numismatiche che il VII sec. segnò una rilevante discontinuità e rottura nella società urbana bizantina; lo studio Kazhdan 1960, sui rapporti tra città e campagna nei secc. IX e X; lo studio Kazhdan 1968, sulla cultura medio-bizantina; Kazhdan 1973; lo studio prosopografico e statistico Kazhdan 1974, sulla struttura della classe dominante bizantina nei secc. XI e XII. Per il curriculum di Kazhdan, vd. i suoi cenni autobiografici nell’Introduzione a Kazhdan 1983a [= Kazhdan 1993, nr. I]. 4 G. E. M. de Ste. Croix, The class struggle in the ancient Greek world: from the archaic age to the Arab conquests, London 1981; id., The Origins of the Peloponnesian War, London 1972. IV in cui non si citano mai nomi e fatti connessi con la realtà del tempo. Oltretutto parecchia della produzione prodromea, che si voglia o no, si può a buon diritto definire stilizzata, senza con questo bollarla con un marchio negativo. Lo stereotipo del poeta mendicante, per esempio, con il quale Prodromo si propone in più occasioni, soprattutto nelle poesie, in condizione di bisogno, va preso con le branche. Non può essere usato senza riserve come dimostrazione sicurissima dello stato sociale di Prodromo: è così diffuso in altri autori, a lui precedenti o posteriori, che a stento si riconoscerebbe chi l’ha utilizzato con coerenza. Nondimeno, esso non può essere gettato via in blocco; onde cercherò di mostrare come ho armonizzato le due tendenze opposte. Quanto, poi, concerne la pratica di far rivivere la satira lucianesca non solo nel lessico, ma anche nei contenuti, induce a dubitare persino della validità del nome “satira” da attribuire alle opere qui edite: si pensi solo alle implicazioni politiche che essa aveva nella commedia di Aristofane o a quelle morali nella Musa pedestris latina. Malgrado tutte queste premesse, ho fatto del mio meglio per ricavare i tratti dell’ambiente in cui scriveva Prodromo, per delineare il pubblico fruitore, per capire insomma la temperie in cui egli operava. Questo si prefigge di spiegare la mia introduzione all’edizione, benché essa non sia ancora divenuta il lavoro nuovo e completo che progettavo di compiere in un eventuale soggiorno a Dumbarton Oaks. Al momento mi è stata, infatti, negata la possibilità non solo di recarmi là, ma anche di continuare queste ricerche, per le quali occorrono mezzi finanziari di cui personalmente non dispongo (Muse braucht Muße) e inclinazioni caratteriali alla peregrinatio orbis che cozzano contro una giustificata esigenza di stabilitas loci. Ho dovuto, allora, accontentarmi di redigere una versione di questo studio preliminare ridotta e non ancora perfezionata da stimolanti suggerimenti provenienti da un appropriato ambiente di lavoro. Diversi ostacoli, poi, anche logistici, e varie incomprensioni in cui mi sono imbattuto non hanno certo favorito la condizione di serenità necessaria a studiare. Sono giunto nondimeno a chiudere una fase della mia attività in maniera, credo, dignitosa e presento al pubblico degli specialisti la mia edizione critica con introduzione, traduzione e commento di sette testi satirici. L’idea della presente dissertazione dottorale mi è venuta seguendo il seminario del mio primo anno di perfezionamento alla Scuola Normale Superiore di Pisa (a.a. 2004/2005) con il prof. G.W. Most, mio relatore interno di tesi; nell’analisi del Christus Patiens, affiorava occasionalmente il nome di Teodoro Prodromo come probabile autore.1 Incuriosito dall’ignoto nome, sono poi risalito all’ed. di W. Hörander, bizantinista che ho avuto la fortuna di conoscere personalmente (convegno internazionale L’educazione al governo e alla vita. La tradizione delle “norme di vita” dall’antichità al medio evo, organizzato da EHESS, Paris - Scuola Normale Superiore, Pisa; Pisa, SNS 18-19 marzo 2005). Nella stessa occasione ho incontrato anche il prof. E.V. Maltese, divenuto poi mio relatore esterno di tesi. In accordo con il prof. Most e su suggerimento dei proff. Maltese e Hörander, ho intrapreso l’edizione delle satire di Prodromo e di alcuni altri scritti ancora non ben editi, dapprima trascrivendoli, poi traducendoli, quindi collazionandone i manoscritti (parte in loco: Roma, Firenze, Venezia; parte su microfilm, procurati dalla SNS); infine mi sono concentrato sul commento dei soli testi più propriamente satirici. Il processo è ancora in fieri e non so prevedere quando avverrà il coronamento con la definitiva pubblicazione in forma di libro. La maggior parte del lavoro è stata compiuta nei tre anni di perfezionamento presso la SNS, istituzione in cui, insieme con l’Università di Pisa, ho progredito nella formazione filologica classica sin dal 1999. Ho quindi portato avanti la stesura della dissertazione presso le strutture della Eberhard-KarlsUniversität di Tübingen, in cui, grazie a un Austauschstipendium conferito da DAAD e SNS per i WS e SS 2007/2008, mi sono giovato delle ricche risorse bibliografiche locali. Ho continuato e continuo ancora la mia ricerca nell’attuale lavoro di insegnante di materie letterarie nella scuola secondaria. Arrivederci, dunque, a non so quando agli studi leggiadri a tempo pieno; a curare, migliorare e amare i quali sono stato sostenuto da diverse persone, che ora vorrei qui ringraziare. Chi fin d’ora si sente urtato da questa prolissa e non scientifica sezione, salti alla pagina successiva. Ai miei genitori, cui dedico la mia dissertazione, a mia sorella Eva, ai miei parenti tutti, nonché agli amici del mio ambiente domestico; grazie per la pazienza con cui avete sopportato la mia assenza da casa, atteso fedelmente ogni mio ritorno, accettato le molteplici lune del mio temperamento e appoggiato in svariati modi le mie decisioni. 1 Vd. Hunger 1969-70, pp. 34 sgg.; Alexiou 1974, p. 64; Hörandner 1988, Pontani 2006, p. 661; contra Tuilier 1969 e Trisoglio 1996. V Al prof. Glenn W. Most, un grazie per la pazienza con cui ha accolto il mio progetto, pure non onninamente apparso così promettente; nonché per il dispiegamento delle sue multiformi competenze, che col tempo ho cercato di elaborare e assimilare. Agli altri professori che ho incontrato all’università, specialmente ai proff. Antonio Carlini (Pisa), Wolfram Hörandner (Wien), Enrico Valdo Maltese (Torino) e Irmgard Männlein-Robert (Tübingen); grazie per le lezioni di metodo e d’umanità. A tutti, ma proprio tutti, gli amici conosciuti in Normale (convivae parcae mensae) e nell’ambiente di studio pisano, con qualche sortita fiorentina, dal 2 novembre 1999 in poi: dai miei compagni d’anno a quelli più vecchi, dai compagni più giovani ad altre persone; il mio affetto più caro, per avermi fatto parte delle loro conoscenze, del loro aiuto materiale e soprattutto della loro incomparabile amicizia. Agli amici conosciuti al P.U.S.G. dal 5 marzo 2004: il mio grazie per avermi fatto scoprire un aspetto della vita che avevo ignorato in precedenza, contribuendo alla mia serenità interiore. Agli amici conosciuti al corso di neogreco a Salonicco nell’agosto 2007: grazie per aver sempre risposto positivamente alle mie richieste di favori più o meno scientifici, nonostante la lontananza fisica. Den Tübingern Freunden, die ich entweder im Philologischen Seminar oder in St. Michael kennen gelernt habe, möchte ich hier meinen Dank dafür abstatten, dass sie mir nicht nur Deutsch beigebracht haben. A tutti i religiosi incontrati nelle mie non eroiche peregrinazioni: a padre Terenzio, Odisseo dei cappucini; ai padri e alle suore della “Congregazione di Gesù Sacerdote” (vulgo Padri Venturini) di S. Cleto a Roma; e alle suore della “Misericordia” del Kinderhaus “Carlo Steeb” in St. Michael a Tubinga; grazie per avermi ospitato, quand’ero forestiero. Ai colleghi e agli allievi del Liceo Classico-Scientifico “Don Nicola Mazza” di Verona: grazie per avermi incoraggiato a terminare la mia impresa e per avermi insegnato a trovare la felicità e la soddisfazione nelle vicende più semplici e quotidiane. VI INTRODUZIONE Status quaestionis La recente pubblicazione di un’antologia di satire tardo-bizantine ha reso molto più agevole la conoscenza panoramica di un genere risorto a Bisanzio dopo secoli di oblio dalla fine dell’Impero Romano d’Occidente. Tutt’oggi, però, non si riscontrano diffusi apprezzamenti negli studi greci, sia classici, sia bizantinistici, verso la satira bizantina, come dimostra la non abbondante messe bibliografica.1 Tra le ragioni che hanno impedito questa divulgazione va annoverata anzitutto la difficoltà di reperire, leggere e valutare i testi, editi o riediti nel XIX o XX sec. in maniera discontinua, sparsa e non sempre filologicamente adeguata; il che non ha certo contribuito ad appianare i dubbi di traduzione e interpretazione. In secondo luogo, si può aggiungere che, anche da parte di chi si è assunto, sia pur episodicamente, l’onere di recensire tali testi non è giunto un giudizio particolarmente attraente; anzi, essi vengono per così dire liquidati come prodotti segnati da vistosi procedimenti di mimesi erudita e, pertanto, poco originali.2 In questa sede cercherò di offrire un modesto contributo alla rivalutazione del redivivo genere satirico, occupandomi di uno dei suoi rappresentanti, Teodoro Prodromo; contributo che, pur nella sua inadeguatezza, resta finora il primo tentato.3 1 Romano 1999; Παπαιωάννου 2000 porta un titolo più altisonante del suo contenuto e in genere appare come un adattamento in lingua neogreca non estremamente originale dei risultati già raggiunti dagli studiosi di area anglofona, germanofona, gallofona e italofona. 2 Mi riferisco in particolare all’elenco ragionato delle opere genuine di Prodromo stilato da Hörandner 1974, pp. 37-56, sp. pp. 50-51: egli aveva già allora sottolineato la matrice prettamente lucianesca delle opere satiriche. Lo stesso filologo lamenta la non invidiabile condizione ecdotica per tutto il corpus prodromeo (p. 9) come impedimento tra i più gravi alla formazione di un’immagine complessiva. Dal 1974 in poi sono apparsi diversi contributi, sia ecdotici sia storico-letterari; i più recenti articoli su Prodromo si limitano a indagare alcune riprese classiche nella produzione poetica non satirica (Magnelli 2003a-b). Sulla mimesi a Bisanzio, vd. Romano 1998 e Spadaro 1998. 3 Romano 1999, p. 235, n. 28 «non è stato possibile inserire questi due opuscoletti [Amaranto, ovvero Degli amori senili n° 146 Hörandner e Vendita all’asta di vite di poeti e di politici n° 147 H.] in questa raccolta a causa del pessimo stato del testo disponibile (ed. a c. di Du Theil 1810, pp. 105-127 [= 146 H.]; pp. 128-150 [= 147 H.])». In realtà, anche le altre satire prodromee antologizzate da Romano si basano tutte, eccetto la Katomyomachia, su edizioni vecchie e scadenti; l’intento non critico-testuale dell’antologia, poi, non ha permesso né una revisione abbastanza sufficiente, né un’annotazione abbastanza circostanziata, né una traduzione dell’originale scevra di equivoci. Nonostante queste imperfezioni, va comunque riconosciuto allo studioso il merito indiscusso di aver reso disponibile materiale altrimenti scomodo da reperire. Del poligrafo Teodoro Prodromo, vissuto a Costantinopoli nel XII sec., i filologi bizantinisti hanno compiuto o stanno concludendo in questi ultimi anni l’edizione critica delle opere, sia pur non sotto l’egida di un comitato riunito: l’ultima apparsa è Papagiannis 1997; si attendono ancora quella dell’epistolario per opera di M. op de Coul (nn. 87-111 H.) e quella del commento al II libro degli Analytica posteriora a cura di M. Cacouros (n° 134 H.). Questo commento è una tra le poche opere ancora completamente inedite: un brevissimo estratto fu edito in Scholia in Aristotelem collegit Chr.Aug. Brandis, ed. Ac. Regia Borussica, IV, Berolini 1836, p. 246, col. sn. su trascrizione del cod. Paris. gr. 1917; ne fu progettata l’ed. completa nel CAG, successivamente abbandonata. Io ne possiedo la versione di tre soli tra i 16 mss. che lo tramandano (Bar1 e 2, Par. 655) e non ho ancora avuto tempo di trascriverla. VII Un’idea di Bisanzio Per capire in quale ambiente e temperie operasse Prodromo, prima di indagare il suo secolo non sarà inutile far scorrere, sia pur molto sommariamente, alcune diverse immagini di Bisanzio proposte negli ultimi decenni. Mi ricollego a quanto accennato nella premessa circa la concezione relativamente nuova di Bisanzio come società e cultura in movimento; concezione che tuttavia non ha mancato di finire in un eccesso opposto a quello dei tempi di Krumbacher. Alfiere della nuova tendenza è stato Beck,1 il quale si è opposto fieramente a una vulgata, semplificante sì, ma pur sempre avente un nucleo di verità: quella secondo cui la società bizantina appare come una monarchia assoluta in cui la Chiesa ortodossa, fondata eminentemente sul monachesimo, determina una fetta consistente della vita.2 Beck, per converso, sostiene: la res publica era intesa a Bisanzio come un’istituzione più antica del potere imperiale e anteposta all’imperatore stesso. Tale potere sarebbe stato difatti limitato da istituzioni di legge privata, da leghe che includevano il colonatus, il patrocinium e la provnoia, da governi autonomi locali esercitati in autonomie urbane o tramite l’autorità di vescovi locali; e ancora dal senato, dal “popolo” e dall’esercito. A tutto ciò si aggiunge che la monarchia bizantina non rispettava l’istituto dell’ereditarietà, il che contribuiva a renderla elettiva piuttosto che assoluta. Certo, è innegabile anche per Beck riconoscere nei diversi autori, facenti parte a vario titolo della burocrazia, l’idea di una teoria imperiale universalistica e quindi assolutistica; ma vi si possono distinguere altrettanti modi di definire le relazioni con l’imperatore: c’è chi si considera uno strumento nelle mani del proprio sovrano; chi si identifica con lo stato, quasi in contrapposizione con l’imperatore; chi fa intravedere la propria mentalità di gruppo o casta sociale. Quanto poi al monachesimo, Bisanzio non conobbe mai la fioritura di ordini religiosi; anzi, molti indossarono l’abito monacale solo in tarda età.3 Non si possono, dunque, immaginare un influsso e un’attività tali dei monaci bizantini quali dispiegarono i colleghi occidentali: la loro funzione principale a Bisanzio era quella di creare un ideale di vita.4 Tolta, allora, alle figure dell’imperatore e del monaco la rappresentatività dell’homo byzantinus, Beck la trasferisce a quella dell’intellettuale: imbevuto di teologia ortodossa, egli esercita l’impatto più radicale sulla politica. Mango5 si attesta, al contrario di Beck, su posizioni più tradizionali: l’imperatore non ha altri limiti se non quelli imposti dalle leggi divine, fatto che contribuisce ad accrescere l’aura sacrale intorno alla sua figura; le poche restrizioni pratiche della sua autorità sono addirittura soltanto accennate da Mango, come se fossero irrilevanti. Il principio di ereditarietà della carica, poi, è rispettato, benché i Bizantini non abbiano mai sviluppato una teoria della successione imperiale; il monachesimo, infine, è un movimento laico e non esiste educazione monastica oltre il livello di base. Due visuali totalmente agli antipodi: chi dei due ha ragione? Secondo Kazhdan,6 il più fuori strada è Beck, il quale per poco non rimuove persino il trono dal fuoco prospettico della vita sociale, per rimpiazzarlo con il vivido pensiero umano. Imperatore e religione, dunque, sono il denominatore comune lungo tutto il cosiddetto millennio bizantino; e la letteratura? 1 Beck 1978, p. 43, 46-67. 2 Cfr. e.g. Cambridge Medieval History IV 2 (J. Ensslin, p. 1 e J. Hussey, p. 184). 3 Tra gli altri, Prodromo stesso, a quanto sembra; vd. infra § Biografia. 4 Beck 1978, pp. 207-217. 5 Mango 1980, p. 32, 105, 108, 148, 219, 224. 6 Kazhdan-Franklin 1984, pp. 17-18 VIII Tanto Beck quanto Mango concordano nel rivendicare alla letteratura bizantina un valore autonomo, indipendente dai modelli classici imitati. Dölger1 asserisce, invece, che la letteratura bizantina appariva più un esercizio di abilità e tecniche formali che il risultato di un’ispirazione diretta e di un’esperienza significativa. Beck ribatte che tutto sommato la fine degli antichi generi (come la tragedia) ha innescato un processo che ne ha formati nuovi; inoltre, anche nel genere apparentemente più piatto, la cronografia, è visibile la capacità degli autori di muovere critiche appropriate al potere e non solo di intessere elogi generici. Molti letterati, poi, che provengono dai ceti più elevati della società, non per questo evitano di scavalcare i confini della moralità ufficiale e dell’ortodossia politica, come provano la reviviscenza del romanzo erotico e il discredito verso i monaci. Mango, nel solco della rivalutazione, batte l’accento sull’interrelazione tra la produzione di certa letteratura e il comparire ovvero scomparire di un corrispondente pubblico lettore, cioè il prosperare o meno della società urbana. Quanto all’imitazione dei classici, poi, Mango si ribella all’idea di considerarla monotona e pedissequa tout court: dei predecessori di Psello, per esempio, si può asserire che hanno quasi ignorato i classici, almeno a giudicare dall’assenza di palesi citazioni; Psello, invece, li ha resuscitati, forse anche con l’intento di dare risposte ai suoi problemi contemporanei, aspetto, però, non comportante che il suo schema di vita sia da considerare ellenicopagano, né d’altra parte che i suoi unici meriti risiedano nella citazione degli antichi.2 Quanto detto finora, sia pur in maniera cursoria, costituisce un presupposto essenziale per comprendere quali libertà e inibizioni, quali spunti e impulsi Prodromo ricevesse dalla società del suo tempo. Mi viene alla mente un confronto inevitabile con la satira delle commedie di Aristofane, i cui bersagli sono così ben identificabili che si parla di ojnomasti; kwmw/dei`n.3 Si potrebbe addurre come motivo di diversità il fatto che l’Atene democratica del V sec. a.C. permetteva molta più parrhsiva della Costantinopoli del XII sec.; ma ribatterei che non occorre scendere fino ai tempi di 1 Dölger 1967. 2 Così, invece, abbastanza in linea con la filologia coeva, Sternbach 1903, p. 10: «einen seltsamen Gegensatz zu den schwülstigen Enkomien auf hochgestellte Gönner bildet die rücksichtslose Derbheit, mit der Psellos seine Gegner und Neider in bissigen Pamphleten geißelt. Als würdiger Repräsentant seiner Zeit übertrifft er alle literarischen Zeitgenossen in kriechendem Servilismus und hoffärtigem Übermut. Die Ergüsse devoter Schmeichelei und ungeschlachter Satire gewinnen jedoch dadurch an Bedeutung, daß der Autor gerade in den Lobpreisen und Schimpftiraden am meisten aus dem Born der antike Literatur schöpfte und mit Reminiszenzen zu prunken pflegte». [un raro contraltare agli ampollosi encomi per eminenti patroni è rappresentato dall’irrispettosa grossolanità, con cui Psello fustiga i suoi invidiosi avversari in caustici libretti. Qual degno rappresentante del suo tempo egli supera tutti gli scrittori contemporanei in strisciante servilismo e superba baldanza. Le sue effusioni di devota adulazione e di rozza satira acquistano nondimeno significato, poiché nei suoi elogi e nelle sue tirate offensive l’autore attingeva abbondantemente alla fonte della letteratura antica e soleva dar vanto delle sue reminiscenze]. Né Mango, né Kazhdan, che lo cita, menzionano le ragioni del quasi totale oblio dei classici prima di Psello (esclusa la parentesi della rinascenza macedone, che annoverò tra i suoi più insigni rappresentanti Fozio) e della loro rinascenza medio-/tardo-bizantina (prima comnena, poi paleologa). Da filologo, mi limito a ricordare (come conseguenza però, più che come causa prima) che negli stessi secoli intorno al cambio di millennio si verifica il metacharakterismos: se un testo viene copiato, significa che viene letto. 3 Non tento nemmeno una trattazione del termine “satira”, che esula dai fini di questa mia dissertazione dottorale; faccio mie le parole di Kazhdan nella prefazione all’edizione italiana del libro Bisanzio e la sua civiltà (Kazhdan 1983a): egli prega i propri lettori di non far questione di parole e di termini, che sono soltanto delle comode etichette. Mi limito a concepire il genere satirico, molto grossolanamente, in questo senso: procedimento letterario con cui un autore esterna in forma ridicola critiche contro i costumi, la morale, la politica e in sostanza la vita nel suo insieme del suo tempo. L’intento è di far riflettere il destinatario su vari difetti altrui, affinché colui li eviti e contribuisca a migliorare gli altri che sbagliano. Tutto questo mi pare icasticamente concentrato nel motto del poeta francese neolatino del XVII sec. Jean de Santeu(i)l: castigat ridendo mores. Quanto all’ ojnomasti; kwmw/dei`n, sia rammentato soltanto che era elemento già tipico della poesia giambica di Archiloco e Ipponatte; vd. Mastromarco 1994, p. 21. IX Giovanni II o Manuele I Comneni per trovare satira politicamente censurata, e pur tuttavia più esplicita di quella di Prodromo. Basterebbe partire dai provvedimenti presi sotto e dopo Pericle -per certi versi avvicinabile più a un signore illuminato che a un esponente di spicco di una democrazia1 - contro l’ ojnomasti; kwmw/dei`n.2 In linea generale, poi, verrebbe naturale asserire che la satira politica muore già nel IV sec. a.C. e soprattutto durante l’ellenismo, non a caso èra delle monarchie; il che non significa che dopo l’Atene del V sec. a.C. non si fa avanti più nessuno a criticare il potere costituito. Si pensi, per puro esempio, nella civiltà latina a un Cremuzio Cordo: i suoi Annales furono condannati al rogo e il suo autore, dopo l’accusa mossagli da Seiano di aver elogiato i cesaricidi e mostrato simpatie repubblicane, preferì suicidarsi che resistere alla tirannide di Tiberio. Cremuzio Cordo, però, non era un giambografo, né un comico, né un autore di satire al modo di Orazio; e la sua critica politica, di cui possediamo per giunta solo frammenti, non può dirsi satira, almeno per l’assenza del ridicolo. Orazio, per converso, scrive satire e stigmatizza i vizi dei contemporanei; ma a questo si limita, ché il “suo” Augusto rimane intatto. Eppure c’è in Orazio qualcosa che a Prodromo manca: anche nell’ambito in cui circoscrive la propria satira, ossia quello dei mores, il poeta latino risulta implicato in problemi reali della sua società più del poligrafo bizantino. Lo stesso si può affermare di Luciano, il modello principe di Prodromo: la sua carica contestatrice tocca tematiche attuali nel II sec. d.C.: dilettantismo dei filosofi, assenza di veridicità della storiografia, arretratezza della vecchia religione pagana e irrazionalità di quella nuova cristiana, per menzionarne solo alcuni. Di Prodromo certo non si può dire che ritorna alla satira politica aristofanea: è già un grande passo il suo ravvivare la satira lucianea, genere non più praticato dai tempi di Luciano stesso, a parte qualche sporadico cenno in Sinesio di Cirene e qualche sussulto ai tempi di Psello. La monarchia dei Comneni, del resto, per quanto ci si sforzi di definirla non assolutistica, per quanto si mettano in luce i suoi caratteri elettivi e collegiali, non è stata la forma di governo più favorevole al rifiorire di esternazioni satiriche. Ciò, anche qui come per l’epoca imperiale romana, non comporta un’assenza assoluta dell’autonomia di pensiero e, quindi, della possibilità da parte degli autori bizantini del XII sec. di esprimere forme di dissenso verso il potere: se dissenso esiste, esso non viene comunque effettuato per mezzo della satira. Si può trovarlo, però, in una certa misura nella storiografia, come lo ha ben enucleato Magdalino; ma è qualcosa di diverso, perché privo di ovvero molto morigerato nella mordacità ridanciana, nella vis comica aristofanea e lucianea.3 D’altro canto, la condizione personale non garantisce a Prodromo un’indipendenza totale da qualsiasi patrono, tale da permettergli di lanciare impunemente i suoi strali contro chiunque. Connettere l’autosufficienza economica con la libertà di parola può apparire un aspetto che diminuisce la genuinità e la coerenza di una contestazione: chi abbraccia un’idea non dovrebbe badare a compromessi, bensì essere disposto al sacrificio personale per portarla avanti; eppure, l’esigenza di campare ha frenato parecchi autori dall’esprimersi in satira, prima e dopo Prodromo.4 A questo punto, allora, urge tratteggiarne l’esistenza. 1 Si rammentino a tal proposito le parole di Tucidide (II 65, 10): ἐγίγνετό τε λόγῳ μὲν δημοκρατία, ἔργῳ δὲ ὑπὸ τοῦ πρώτου ἀνδρὸς ἀρχή. 2 Mi riferisco ai decreti di Morichide (440/439 e 437/436) e Siracosio (415/414); vd. Mastromarco 1994, p. 23. 3 Magdalino 1983. 4 Alla mia mente affiorano, un po’ casualmente, nomi come quello di Ludovico Ariosto: autore di satire, pagò la sua infedeltà al cardinale Ippolito d’Este, che non tardò ad accantonarlo; oppure di Giuseppe Parini, che non schioccò mai la sua frusta contro Maria Teresa d’Austria con la stessa veemenza manifestata contro l’anonimo giovin signore; anzi, egli fu un protetto del rappresentante del potere imperiale austriaco in Lombardia, conte Firmian. Parini, tuttavia, non appena si rifiutò di cantare le glorie X Biografia di Prodromo Prodromo viene genericamente etichettato dagli studiosi come un poligrafo; non a caso, dato lo spaziare della sua produzione attraverso gli stili e i generi più lontani: poesia e prosa, quanto a forma; quanto a contenuti, teologia, filosofia, romanzo erotico, encomio, epinicio, epitaffio, satira, grammatica, astronomia. Una varietà tale che ha spinto Hörandner, uno tra gli editori dotati di maggior acribia, a sostenere che Prodromo non ha conseguito risultati eminenti veri e propri in alcun ambito tra gli autori dei secc. XI e XII.1 Nella composizione di epigrammi, per esempio, lo superano di gran lunga Cristoforo di Mitilene e Giovanni Mauropode; nella dovizia di dottrina antiquaria e mitografica lo sopravanza Giovanni Tzetze; nell’ambito della filosofia non regge il confronto con Michele Psello e Giovanni Italo.2 Quest’immagine inevitabilmente diminutiva del valore letterario di Prodromo, anche da parte dello studioso che più ha contribuito a farlo apprezzare, è stata contestata da Kazhdan. Il suo capitolo sulla biografia di Prodromo è una lettura avvincente, qualità non scontata nei lavori scientifici: manca di quei gravi e interminabili ragionamenti tipici dei filologi sulle questioni paleografiche, sugli argomenti lessicali, sui problemi metrici, sui dubbi di traduzione; e per giunta cita ampiamente da bibliografia in russo, ungherese e polacco, che per ragioni di lingua è stata poco consultata.3 Le fonti dello studioso russo sono le poesie storiche, qualche scritto in prosa, qualche lettera e pochi componimenti di autori sopravvissuti a Prodromo, come il suo allievo Niceta Eugeniano: tutti scritti in greco dotto; nessun accenno, invece, alle opere satiriche. Vengono chiamate in causa anche le poesie dello Ptochoprodromos4 e quelle del Manganeios-Prodromos,5 sia pur con tutte le riserve dei filologi sulla loro paternità. Il primo gruppo, infatti, presenta riferimenti a eventi posteriori al 1170, data molto lontana a quella ammessa per la morte di Prodromo (vd. subito infra); inoltre l’autore viene nominato in alcuni mss. Ilarione. Già da tempo, però, si è dimostrato che entrambi i dati sono interpolazioni.6 Nondimeno, anche togliendo queste, alcuni filologi rimangono contrari alla paternità prodromea per ragioni di lingua vernacolare, stile basso e metrica zoppicante, indegni del Prodromo delle poesie storiche. Il secondo gruppo, poi, parla di Prodromo come già morto nel 1158/59 e di eventi datati anno dei nuovi padroni, i francesi, fu presto destituito dalle cariche che precedentemente ricopriva con gli austriaci. 1 Hörandner 1974, p. 8 «man kann mit Fug behaupten, dass Theodoros Prodromos, wiewohl einer der produktivsten und vielseitigsten Schriftsteller seiner Zeit, auf keinem Gebiet wirkliche Spitzenleistungen hervorgebracht hat». 2 Cristoforo di Mitilene, sec. XI, autore di carmi vari e calendari metrici; Giovanni Mauropode, sec. XI, autore di epigrammi, canoni per i santi megalomartiri (Teodoro, Giorgio e Demetrio), lettere; Giovanni Tzetze, sec. XII, poeta, scoliaste ed epistolografo; Michele Psello, sec. XI, filosofo, teologo, storico, retore, agiografo, poeta; Giovanni Italo, sec. XI, filosofo e retore. 3 Kazhdan, Theodore Prodromos: a reappraisal, in Kazhdan-Franklin 1984, pp. 87-114. Non ripercorrerò qui tutti i dati dell’articolo, a cui rimando il lettore per ogni approfondimento. Le opere in lingua rispettivamente russa, ungherese e polacca sono Papadimitriu 1905, Rácz 1941 e Kapessowa 1957; a onor del vero già Hörandner 1974, pp. 22 ss. citava Papadimitriu. 4 Così dette perché il loro autore si dichiara spesso nei mss. Ptwcoprovdromo" (vd. p. 12, n. 1 infra); si tratta di quattro carmi di lunghezza tra i 100 e i 200 vv., editi ultimamente da Eideneier 1991. 5 Così etichettati da Papadimitriu perché il loro autore, che chiama sé stesso Prodromo, in qualche poesia chiede all’imperatore Manuele I un ajdelfa`ton (prebenda) nel monastero dei Mangani; tali poesie sono definite anche marciane, dal cod. Marc. gr. XI 22 del sec. XIII ex. che le tramanda. 6 Nella prima ed. cr. dei ptochoprodromica a cura di Hesseling-Pernot 1910. XI 1166; il che proverebbe di nuovo differenza d’autore.1 Kazhdan risolve le due aporie affermando che il Prodromo nominato è il padre del poeta; e che il vero Prodromo visse almeno fino alla fine degli anni ’60 del XII sec. Nei manganeia tuttavia, come nei ptochoprodromica, la metrica è violata e la biografia dell’autore da essi risultante non collima completamente con quella di Prodromo risultante dalle poesie storiche; due seri ostacoli alla tesi della paternità prodromea. A questo punto, quasi con uno scatto antifilologico, Kazhdan spazza via in blocco i suddetti dubbi, osservando: una stessa persona potrebbe aver impiegato i registri stilistici più diversi; i manoscritti confermano spesso il nome “Prodromo” come autore di queste opere di dubbia attribuzione.2 Due argomentazioni in linea di principio sostenibili, ma che Kazhdan fa valere solo a priori, senza ulteriori argomentazioni. Mi par corretto evincere da qui l’atteggiamento del sociologo, opposto ai filologi: cercare di aggiudicare -e di fatto poi impiegare senza tante remore- quante più opere possibili a Prodromo, nella speranza di ricavare un maggior numero di notizie biografiche rispetto a quelle possedute.3 E in effetti, dove può, Kazhdan ricorre ai due corpora spurii: per lo più col fine di rintracciare conferme di dati paralleli a quelli delle poesie storiche; ma talora anche per introdurre rovesciamenti dell’immagine vulgata da Hörandner. Ecco, allora, entrare in scena un intrigante poeta vissuto una settantina d’anni, che ha dato 1 Questa è la data più bassa accettata da Hörandner 1974, p. 22 contro Papadimitriu che proponeva il 1153. La poesia è De Manganis X 27-32 (= Papadimitriu 1898a, pp. 10-11 = Bernardinello 1972, nr. X, pp. 70-71). 2 Eideneier 1991, p. 31-33 ha però annientato il valore delle attribuzioni dei mss. per le poesie vernacolari, dimostrando, tramite una recensione dettagliata dei testimoni -i più antichi non prima del XIV sec.-, che non solo non esiste unitarietà (una volta compare persino un Ilarione); ma anche la titolatura tou` Ptwcoprodrovmou indica il genere letterario della Betteldichtung, non l’autore. 3 Non entro nel merito della delicata discussione su chi abbia ragione tra i due contendenti; mi limito a segnalare che Hörandner 1974, pp. 21-22 esclude i due corpora suddetti dal novero genuino. Dei ptochoprodromica, lo studioso austriaco, pur accettando la paternità di Prodromo almeno per certi pezzi, conferma però che non si tratta di relazioni autobiografiche, bensì di rifacimenti di un poetastro («Dichterling») che ha trasposto in greco volgare poesie originarie di Prodromo. Dei manganeia, invece, egli afferma con sicurezza che si tratta di un contemporaneo, sia pur più giovane, di Prodromo, a cui la tradizione manoscritta, poi, ha assegnato la paternità. Magdalino 1993, p. 494 respinge questa conclusione, accolta invece da Kazhdan in Kazhdan-Franklin 1984, pp. 87-93 e 102-104, ma si riserva la dimostrazione al momento in cui verrà pubblicata la definitiva edizione critica dei carmina marciana per opera di M. e E. Jeffreys (a mia scienza non ancora comparsa). Mi vengono in mente, a puro titolo comparativo, due casi della letteratura italiana del Trecento (ma gli esempi potrebbero moltiplicarsi, ricorrendo anche ad altre letterature): le opere di Dante e quelle di Boccaccio. Al primo sono attribuite da alcuni italianisti due operette intitolate Il fiore e Il detto d’amore, non da ultimo per il fatto che in esse viene nominato come personaggio identificabile con l’autore un certo Durante (cfr. e.g. Fiore, sonetto LXXXII), di cui Dante è l’ipocoristico. G. Contini, per nominare solo il più autorevole fautore della paternità dantesca, ha addotto molte prove: analogie lessicali, sintagmatiche, semantiche, associative; anche gli spunti bassi dell’opera sarebbero riconducibili alle esperienze giovanili di Dante e ricordano molto la poesia dei poeti comici toscani del Duecento. Altri italianisti, invece, hanno evidenziato gli elementi che cozzano con l’immagine ufficiale di Dante: la lingua, talvolta oscena (molto più del registro comico a noi noto dall’Inferno) e ricchissima di francesismi usati in senso parodico; la concezione filosofica di fondo, vicina al cinismo di Jean de Meung (contraria all’ideologia cristiana); gli spunti misogini (incompatibili con la figura di Beatrice e di altre elogiate donne dantesche) e la critica contro la borghesia mercantile (solo in parte riecheggiati nelle accuse contro gli usurai in If. XVII e contro i nuovi parvenus in Pd. XV nella requisitoria di Cacciaguida) e gli ordini mendicanti (contrari agli elogi di s. Francesco e s. Domenico). Un dilemma del genere non si pone per Boccaccio, invece, di cui è ammissibile lo spaziare dai registri più bassi a quelli più alti: linguistici (dall’italiano volgare al latino) e contenutistici (da passi triviali, del Ninfale fiesolano, e.g. stanza 310, e del Decameron a passi più ufficiali della Genealogia deorum gentilium). Teoricamente, insomma, la stessa persona fisica può benissimo scrivere nei generi più diversi; ma occorre scendere nel particolare di ogni autore per poter ammettere la paternità di opere a lui dubbiosamente assegnate; e per far questo bisogna esser certi della sua biografia e della sua produzione. Così, nondimeno, ossia nei casi di incertezza dei contorni bio/bibliografici, il circolo diventa vizioso. XII fondo alla sua cultura letteraria non solo per celebrare i membri della corte imperiale, nelle cui grazie eventualmente riusciva a entrare; ma anche per esprimere i propri sentimenti. Insomma, ben più di un poetastro che vomita banali clichés.1 Prodromo nacque intorno al 1100 a Costantinopoli2 da famiglia non nobile, ma nemmeno del tutto priva di mezzi;3 il padre, suo omonimo, era un uomo acculturato.4 Prodromo scriveva già intorno al 1120 per la corte di Irene Ducaina;5 dal 1131 per l’imperatore Giovanni II Comneno, fino alla morte di questi nel 1143.6 Il suo tema principale nelle poesie storiche di questo lasso di tempo è costituito dalla celebrazione delle vittorie militari. La sua carriera negli anni successivi fino alla morte, collocata da Kazhdan dopo il 1170 (ben oltre il 1153-1156/58 calcolato dagli studiosi precedenti), si distingue nelle seguenti fasi. Una prima più oscura, coincidente con i primi anni del regno di Manuele I, figlio di Giovanni II e imperatore dal 1143 al 1180: di essa non sopravvivono versi elogiativi, a riprova, secondo Kazhdan, che Prodromo non era nelle grazie dell’imperatore; sussiste, invece, una parte della corrispondenza epistolare.7 È probabile che Prodromo abbia scritto in questo periodo la Vita di S. Melezio il Giovane 1 Cfr. Kazhdan-Franklin 1984, p. 105 «was Theodore Prodromus, one of the most eminent and prominent of Byzantine writers, really no more than a hack versifier, a regurgitator of banal clichés?»; tale sottovalutazione di Prodromo, a cui Kazhdan è visceralmente avverso, non fu in realtà mai sostenuta nemmeno da Hörandner, anche se Kazhdan gliela affibbia implicitamente. Presentando infatti l’introduzione dell’ed. del bizantinista austriaco come circoscritta al solo intento di enucleare la Kaiseridee dalle poesie storiche, Kazhdan considera non inquadrata la funzione sociale di tali opere. 2 Prodr. Carm hist. LXXIX H. 36 fivlh genevteira (in una poesia completamente dedicata a Costantinopoli); Pétit 1902a, p. 459, 27-28 wJ" su; [sc. Theod. Prodr.] th;n qreyamevnhn a[nassan povlin kai; katekavlluna" kai; wjfevlhsa". La data è dimostrata da Kazhdan in Kazdhan-Franklin 1984, pp. 98-100. 3 Prodr. 151 H. In eos qui ob paupertatem Providentiae conviciantur, PG CXXXIII, col. 1297a e[gwge, w\ parovnte", ajll∆ ajpeivh ajdravsteia, gevnou" me;n ouj pantavpasi gevgona camaizhvlou; Carm. hist. XXXVIII 65 ouj mevga" ejn kteavnessi kai; o[lbio" aujto;" ejtuvcqhn. Cfr. per converso v. 68 dello stesso poemetto wJ" o[felon gavr, a[nassa, banausivdo" e[mmen∆ ajgwgh`", in cui Prodromo esprime il dispetto per l’inutilità della sua vasta erudizione e conseguentemente il rimpianto di non esser stato piuttosto cresciuto ignorante come un artigiano; il che dunque non è il suo caso. 4 Carm. hist. IV 1-2; LVId 17-18 H.; XXXVIII 71-77. 5 Così si ricava dalle poesie storiche I e LXXI H.; datazione in Kazhdan-Franklin 1984, pp. 92-98. Nella poesia vernacolare edita da Majuri 1914-1919, p. 399, 15-27 (respinta come del tutto spuria da Eideneier 1991, pp. 34-37, ma chiamata in causa come genuina da Kazhdan) il personaggio che si attribuisce il nome di Prodromo dà informazioni molto simili a quelle della poesia storica LXXI: afferma di fronte a Manuele I di aver conosciuto prima di lui solo la corte di Irene Ducaina ajp∆ aujth`" th`" brefikh`" kai; prw`th" hJlikiva"; e dopo la morte di costei, di aver servito subito Giovanni II, padre di Manuele I. La somiglianza tra i due componimenti rispettivamente del corpus in greco colto e di quello in greco vernacolare è strutturata in modo tale che la seconda sembri la continuazione della prima. Ciò indebolirebbe, almeno per questo caso, la tesi per cui i ptochoprodromica sono trascrizioni in volgare da parte di un poeta di bassa lega delle poesia prodromea in greco dotto. Tuttavia, anche così non è risolta definitivamente la questione generale della genuinità dei ptochoprodromica (vd. Hörandner 1974, p. 66). Irene Ducaina era moglie dell’imperatore Alessio I Comneno (1081-1118), madre del successore Giovanni II (1118-1143) e di Anna Comnena (sposa di Niceforo Briennio; entrambi due storici eminenti del XII sec.); nonché nonna di Manuele I (1143-1180). Della casa imperiale erano membri anche Isacco Sebastocratore Comneno, fratello di Giovanni II e di Anna Comnena, e la di lui moglie Irene Sebastocratorissa. Alla cerchia letteraria di costei Prodromo prese parte insieme con Manasse e Giovanni Tzetze (vd. infra § Committenti e destinatari etc.). Quanto alla morte di Irene Ducaina, sussistono almeno tre possibilità: 1123, post-1125 o 1133. Kazhdan ne propone una quarta, 1131, vicina alla terza, ragionando come segue: poiché il primo gruppo delle poesie storiche dedicate a Giovanni II (nn. III-VII H.) fa riferimento a eventi al più presto databili nei primi anni ’30 del XII sec., ipoteticamente intorno al 1132, la morte di Irene Ducaina va collocata nel 1131. 6 Prodr. Carm. hist. XXV-XXIX H. 7 Due lettere a Michele Italico, arcivescovo di Filippopoli, datate l’una 1144-1145 in Papadimitriu 1905, pp. 197 ss. e 296-298; l’altra 1147 in Browning 1962. Una lettera all’abate Gregorio del monastero sull’isola di Oxia spedita nel 1146, in Gautier 1973, pp. 225-227. XIII e la monodia a Stefano Scilitze, uno dei suoi maestri e amici.1 Prodromo passò questo periodo a Costantinopoli, presso la chiesa dei SS. Apostoli Pietro e Paolo;2 ma quando il suo maestro e amico Scilitze tornò gravemente malato da Trebisonda a Costantinopoli, Prodromo lo ricevette a casa sua.3 Una seconda fase, a partire dal 1149, si riconosce nelle poesie a carattere elogiativo per vittorie militari, in cui però risaltano più gli eroi della nobiltà costantinopolitana che l’imperatore stesso.4 Fino alla morte (post 1170?), Prodromo rimase presso la chiesa dei SS. Apostoli, scrivendo ancora versi d’occasione per la nobiltà bizantina; morì monaco con il nome di Nicola.5 Altri dati biografici più personali concernono la deplorazione da parte di Prodromo del proprio destino gramo, che lo ha voluto tanto intelligente e dotto quanto povero e disgraziato, più di un vile meccanico.6 Si trova, poi, la descrizione del vaiolo, che lo strappò presto dalla sua attività di scrittore e insegnante7 ; e persino un’accusa di eresia, mossa da un certo fanatico che lo accusa di praticare con troppo slancio gli autori pagani.8 Fin qui, più o meno, Kazhdan segue Hörandner. Quando si tratta, però, di definire lo status sociale del poligrafo, sopravviene la novità. Kazhdan non tiene in poco conto l’informazione della povertà, né la relega del tutto ai topoi della Betteldichtung: 1 Le opere sono i nn. 114 e 86 del catalogo di Hörandner 1974 (n. 86 H. = Petit 1902b); un altro maestro è Michele Italico, retore di spicco; dal contemporaneo Niceforo Basilace, poi, maestro di retorica anch’egli, Prodromo mutua diverse espressioni (cfr. Sat. 146 H., 323 infra cum adn. = 19, 20-22 Migliorini). Non capisco la ragione, che è forse dovuta a un recondito horror vacui di Kazhdan, che pretende di distribuire negli apparenti buchi produttivi qualcuna delle numerose opere del corpus prodromeo: perché allora non collocarvi anche gli scritti satirici, per altro, come si è detto, non nominati mai da Kazhdan? Inutile, però, datarli, proprio perché mancano di quelle stesse allusioni utili per i dati biografici. 2 Cfr. Browning 1962, p. 284, 54 (lettera di Michele Italico a Prodromo) oJ ejn Buzantivdi Provdromov" eijmi to;n paraqalavttion tou` ajpostovlou new;n katw/khkwv" con n. p. 290. 3 Petit 1902b, pp. 12-13, 209-211. 4 Rispettivamente poesie XLVIII-LI, LIV, LXIV H. per Stefano Contostefano, Manuele Anema e Costantino Camitze; poesie XXX-XXXIII H. per Manuele I. 5 Cfr. Papadopoulos-Kerameus 1898, pp. 399 ss., il quale cita il necrologio di un certo Pietro, confermante la longevità di Prodromo; per la svolta monastica, vd. la monodia in versi attribuita da Gallavotti all’allievo di Prodromo Niceta Eugeniano in Gallavotti 1935, p. 227, 197-199, nella quale si evince che Prodromo indossò l’abito monacale sul letto di morte. Non saprei stabilire se questo significa che divenne monaco solo in quell’istante o se volle farsi mettere l’abito in punto di morte, come simbolo della condizione che aveva da tempo abbracciato. Kazhdan in Kazhdan-Franklin 1984, p. 104 rimanda a Michele Italico e Niceta Eugeniano per due dimostrazioni del fatto che Prodromo non era vecchio, quando divenne monaco. Kazhdan, purtroppo, non offre a questo proposito la citazione esatta dei passi. Mi par di capire, tuttavia, che egli ricavi questi dati dai seguenti loci e da un suo ragionamento non esplicitato: nella lettera di Italico a Prodromo (Browning 1962, p. 284, 54, cit. qui sopra a n. 1) si menziona il soggiorno di quest’ultimo presso la chiesa dei SS. Apostoli già nel 1147 (anno della lettera), interpretato forse come ritiro monastico; nella monodia funebre in prosa composta da Niceta Eugeniano in onore di Prodromo si dice che questi morì anzitempo (Petit 1902a, p. 460, 14 aiJ bavskanoi kh`re" para; kairo;n ajpektovnasi to;n lalh`sai hJduvn), dato collegato con quello della monodia funebre in versi dello stesso Niceta sopraccitata. Va comunque rammentato con Gautier 1972, p. 15 che «c’était chez les Byzantins un usage courant, teinté d’affeterie, que de s’estimer vieux relativement tôt ; tout comme inversement on prolongeait exagérément la jeunesse». 6 Cfr. soprattutto Carm. hist. XXXVIII H.; ma vd. anche XV 83-85; XXIV 16-19. Kazhdan cita anche il carme vernacolare II 82-83 Eideneier; ma su queste appropriazioni di materiale non sicuramente prodromeo vd. infra nel testo. 7 Descritta con dovizia di particolari nella lettera VI della raccolta del cod. V, da leggersi ancora in PG CXXXIII, coll. 1253-1258, finché l’ed. di M. op de Coul non sarà pubblicata. Come maestro Prodromo ci è presentato soprattutto da Niceta Eugeniano nelle due monodie edite da Petit 1902a e Gallavotti 1935; ma anche Prodromo stesso si nomina tale (vd. Carm. hist. LXXI H. 1 in cui Prodromo definisce il segretario imperiale Teodoro Styppeiotes il migliore tra i suoi allievi e amici; su di lui vd. anche p. 30, n. 5 infra). 8 Carm. hist. LIX H. XIV osservazione in sé non completamente infondata, ma gravida di conseguenze.1 Prodromo, anzi, avrebbe posseduto persino una casa a Costantinopoli, un po’ di servitù e una villa in campagna, con terreni e vigna, più tardi abbandonati.2 Qui, tuttavia, il sociologo russo commette a mio parere un arbitrio, per lo meno perché non lo giustifica a sufficienza: quello di desumere un dato biografico da un poema della raccolta vernacolare (Manganeios-Prodromos), per nulla citato da Hörandner. In tal modo Kazhdan ha buon gioco ad aggiungere un tratto per così dire ignorato della vita di Prodromo e renderla socialmente più attraente. Conclude, infatti, Kazhdan: Prodromo, benché non aristocratico, era un piccolo proprietario terriero benestante, un appartenente, dunque, di quel ceto che costituiva la fetta principale dell’elettorato e del potere dei Comneni. A riprova di questa appartenenza verrebbero le notizie autobiografiche sulla prevista carriera militare, resa impossibile dalla cagionevolezza di salute e rimpiazzata con quella degli studi.3 Mi permetto di osservare che Kazhdan trae la notizia dalla stessa poesia in cui si trova la deplorazione della povertà, da lui considerata un topos; poesia in cui, per converso, nessun accenno a proprietà e servitù compare. Kazhdan corrobora poi il presunto dato con l’esternazione di invidia di Prodromo per i soldati di Giovanni II: essi capaci di combattere per il loro imperatore; egli appena in grado di starsene a casa a pregare per la loro vittoria.4 Queste esternazioni sarebbero il segno della non avverata vocazione militare di Prodromo. Perché, mi chiedo, il topos sta solo dove si parla di miseria? Perché non in questo destino militaresco vagheggiato dal padre, ma poi inesorabilmente accantonato; o nella contrapposizione dei soldati a sé stesso? Non suonano forse come topoi anche questi? Kazhdan adduce il fatto che la convenzionalità imporrebbe l’elogio di Giovanni II come vincitore in una maniera abbastanza astratta e altisonante; al contrario, vengono presentati fatti reali sul campo di battaglia, che implicano partecipazione, interesse e trepidazione dell’autore stesso, il quale esprimerebbe così la brama irrealizzabile di essere presente.5 Lo stesso inferisce Kazhdan dagli encomi militari rivolti ai nobili bizantini; e per avvalorare la sua tesi, li mette a confronto con quelli del contemporaneo Nicola Callicle. Questi allude vagamente alle vittorie di Giovanni II sui barbari,6 ma non parla affatto delle gesta eroiche dei nobili; quegli, al contrario si diffonde nelle lodi più sperticate dei componenti maschi della famiglia di Anna Comnena, sorella di Giovanni II, e di Niceforo Briennio, nonché di quella del sebastocratore Andronico, fratello di Manuele I: tutti sono presentati come valorosissimi eroi in battaglia.7 Mi sorge il dubbio, tuttavia, che la differenza tra i due autori non si debba a due opposte condizioni personali: Callicle non aveva necessità di essere protetto da un particolare ramo della famiglia dinastica; del resto egli era stato archiatra di Alessio I e professore di medicina, status sociale ben diverso da quello di poeta tout court.8 Altri indizi del rimpianto per il mancato destino nobiliare sono ravvisabili, a detta di Kazhdan, nei passi in cui Prodromo esterna il desiderio di avere una servitù a 1 Sul topos del poeta mendicante vd. Hunger 1982, p. 208 e sp. il recente Lauxtermann 2003, p. 34 sgg.; tra gli esempi più vistosi quello di Manuele File, posteriore a Prodromo di un secolo. Le formule di mendicità ricorrono in diversi scritti e sembrano tipiche della letteratura del XII sec. in tutta Europa, sia occidentale sia orientale. 2 Kazhdan non ne spiega la ragione, ma cita solo il carme vernacolare I 36 Eideneier. 3 Carm. hist. XXXVIII H. 11-40. 4 Carm. hist. XVII H. 5-10. 5 Carm. hist. XI H. 141-145, 172; XV 7, 47; XVI 16-24. 6 Nic. Call. Carm. II 21-24 e XXXI 6 Romano. 7 Cfr. n° 80 H. Epitalamium imperatoris filiis dictum, PG CXXXIII, col. 1402a (per Alessio e Giovanni, figli di Anna Comnena e Niceforo Briennio); Carm. hist. XXXIX H. 70; XLIIIa 12; XLIIIb 24; LIII 27; LIV 3; LXVI 2; nonché XLV 71-84, 177, 183. 8 Trovo conferma del mio presentimento in Mullett 1984, p. 177, sp. dove afferma «I think it unhelpful to label him a “court poet”». XV propria disposizione che badi ai suoi cavalli, gli ammannisca il pranzo e lo rivesta di seta; oppure nei passi in cui si bea della descrizione delle ricchezze dell’infante Alessio; o assapora la fortuna della sebastocratorissa Irene; o infine invidia il vecchio collega Lizice, assurto ad alti gradi, che veste sontuosamente, mangia cibi succulenti, passeggia a cavallo, mentre egli, Prodromo, non si lava, è trasandato e va a piedi.1 A me sembra che da questa carrellata esca fuori un Prodromo dalle brame represse e un po’ schizofrenico; tanto più che, come Kazhdan stesso rammenta, negli scritti teologici egli bolla il lusso come un falso bene, a cui va invece preferita l’aurea mediocritas e la libertà; la povertà nel senso di miseria tapina e reietta, invece, è definita parimenti un male, ché induce al sacrilegio e al saccheggio.2 A ben vedere, però, anche questo pensiero non contraddice quelli delle poesie storiche, proprio perché fa parte di un contesto teologico polarmente opposto a quello celebrativo d’occasione. Il fatto, poi, che si inserisca nella tradizione dei padri della Chiesa,3 potrebbe meritargli la qualifica di topos, non meno che a quelli della descrizione delle ricchezze sullodata. A questo punto, allora, come si fa a stabilire il confine tra convenzionalità, tipizzazione, topicità, mimesi da una parte e genuinità e franchezza di pensiero dall’altra? Gli sforzi di Kazhdan in tal direzione sono encomiabili: far risaltare una nuova figura di Prodromo, libera dal giudizio di convenzionalità, non è impresa da poco. L’accusa di Kazhdan a Hörandner è di aver messo in luce solo l’aspetto convenzionale della Kaiseridee, del Kaiserbild, obliterando i tratti personali dello stile, da cui possa emergere l’umanità dell’autore; ma, anche con questo nobile intento, Kazhdan non si sottrae all’errore di trattare non senza un certo arbitrio alcune opere come fonti, altre no, di ritenerne alcune piene di topoi, altre no. E nel criticare il giudizio di Hörandner non chiarisce che tutto sommato esso è fondato. Non voglio ora aprire una discussione ampiamente dibattuta, della quale non sarei nemmeno all’altezza; ma non posso tacere il fatto che nella letteratura bizantina, così come in quella greca, latina e italiana almeno fino a tutto l’Ottocento prevale la codificazione dei generi. In maniera rozza e semplificata al massimo voglio significare che un autore, mettendosi a scrivere un testo, seguiva per lo più regole precise di un codice stilistico e contenutistico dettato dall’uso dei predecessori. Ciò ha sempre comportato una certa ricorrenza di stilemi, formule, metrica, costruzioni di frasi, la cui assenza avrebbe reso meno riconoscibile il genere praticato e, quindi, avrebbe frustrato un’aspettativa del destinatario. Su questo presupposto, non si può fingere che Prodromo non sia mimetico: era un suo “dovere”; il che non nega una vena d’originalità.4 Il milieu storico, sociale e culturale Il regno di Alessio I (1081-1118), sotto il quale Prodromo molto verisimilmente nacque, segnò una svolta repressiva voluta dai conservatori ortodossi contro le licenze morali e intellettuali introdotte ai tempi di Costantino IX Monomaco (1042-1055). Alessio, 1 Cfr. rispettivamente Carm. hist. XXIV H., 56-65; XLIV, 150-155; XLV, 24-25; Epist. XIII, PG CXXXIII, col. 1286a. Il Lizice retore, citato in questa epistola prodromea senza prenome (così come nell’epist. XII, PG CXXXIII, col. 1285a e nell’epist.-orat. VII, PG CXXXIII, col. 1262b; per i testi o excerpta di queste lettere vd. anche Mercati I, pp. 321-323 = Mercati 1925, pp. 149-150) non è identificabile, secondo Gautier 1972, p. 51 e contrariamente al succitato Mercati, con il Michele Lizice medico invocato alla fine della Sat. 148 H., 193 (vd. p. 26 infra e nota ad l. l. della satira); diverso dai due precedenti è anche il Lizice contemporaneo di Psello, identificabile invece con l’Anastasio Lizice lodato da Basilio Cecaumeno (vd. Gouillard 1961, p. 385, n. 5 e Gautier 1972, p. 51, n. 2). 2 Vd. n° 151 H. In eos qui ob paupertatem Providentiae conviciantur, PG CXXXIII, coll. 1294b, 1317- 1318. 3 Penso solo a puro titolo esemplificativo al Quis dives salvetur di Clemente Alessandrino 4 Sul problema dei generi letterari nell’antichità classica, con succinta ma limpida panoramica degli studi nelle altre letterature, scelgo arbitrariamente nella bibliografia Rossi 1971 e, limitatamente a Virgilio, Conte 1984. XVI influenzato dalla madre Anna Dalassena, moglie di Isacco I Comneno (1057-1059), all’inizio parteggiò probabilmente per gli elementi più retrivi della restaurazione ortodossa, ossia per i monaci la cui mentalità viene riflessa negli scritti di Niceta Stetato, Eutimio Zigabeno e nell’agiografia di s. Cirillo Fileote, scritta da Nicola Catascepeno.1 Alessio strinse amicizia con il clero della Grande Chiesa (Hagia Sophia), che in epoca di rinascenza macedone (secc. IX-XI) era stato centro di irradiazione culturale dell’impero: l’editto di riforma del 1107 induceva il clero e l’episcopato della cattedrale a mettere in pratica l’impulso imperiale a sradicare l’anticonformismo religioso; impulso che andò avanti oltre il regno di Alessio.2 L’élite clericale della chiesa di S. Sofia fu l’autrice del Synodikon: tra 1052-1082 contro un altrimenti ignoto Geronzio di Lampe (Creta); in età comnena contro Giovanni Italo (durante la festa dell’Ortodossia del 1082, memoria della restaurazione dell’iconodulia nell’843), Nilo di Calabria ed Eustrazio di Nicea (1118). Da qui risulta chiaro che tale élite voleva evitare anzitutto l’eccesso che aveva indotto gente come Giovanni Italo a onorare a tal punto l’ellenismo da trarne la formulazione di una filosofia pagana sul modello platonicoaristotelico, sostitutiva della religione ortodossa; eccesso a cui, però, di fatto tale élite era più incline che non a quello monastico della santa ignoranza nemica dei libri. Dopo Giovanni Italo, le persone cadute vittime dell’anatema antiellenico furono anziani chierici, ritenuti colpevoli per motivi politici piuttosto che religiosi o culturali; ciò prova, secondo Magdalino, che i chierici di S. Sofia, da autentici intellettuali illuminati, cercavano un compromesso tra l’esigenza repressiva di ortodossia e il desiderio recondito di favorire la cultura: una lotta più per la sopravvivenza che per il predominio. La loro posizione, infatti, era precaria: i patroni dalle cui grazie essi dipendevano, nobili orbitanti intorno alla dinastia dei Comneni, nutrivano pur sempre un profondo rispetto per la spiritualità monacale, sprezzante della buona cultura ellenica classica.3 I monasteri, del resto, non conobbero in quel periodo una fase di declino, come del resto testimoniano anche i loro critici. La prova che la sola erudizione basata sulla lettura degli antichi, soprattutto filosofi come Platone e Aristotele, bastava a meritarsi un’accusa d’eresia ci è fornita dalla poesia storica, in cui Prodromo si difende contro il calunniatore Barys.4 Benché non vi si espliciti che costui fosse un monaco, le contraccuse mossegli da Prodromo corrispondono a quelle che Eustazio riserva ai monaci di Tessalonica: avidità, incapacità di esprimersi, ignoranza. Ciò non comporta che tutti i monaci fossero ignoranti e reazionari, e per converso tutti i chierici non monaci fossero colti e illuminati. La classe dei possidenti terrieri borghesi mostra una certa omogeneità, come provano i cognomi di alcuni monaci del XII sec., collegati ai membri del clero della cattedrale e della burocrazia civile. Persone acculturate fondavano monasteri e li dotavano delle loro biblioteche, comprendenti anche libri non religiosi: nella biblioteca della Cosmosoteira il fondatore Isacco II Sebastocratore fece mettere in bella mostra le proprie opere;5 esistevano, poi, monaci dalla vasta preparazione letteraria come Nicola Catascepeno. I monasteri stessi, infine, costituivano luoghi in cui gli intellettuali potevano sottrarsi all’incerto sistema del clientelismo di 1 Ed. Sargologos 1964. 2 La notizia però compare solo in una redazione provinciale del Synodikon dell’ortodossia, non nella tradizione del testo principale (vd. Magdalino 1993, p. 383); si tratta del documento che integrò i decreti dei sette concili ecumenici (da Nicea I, 325 a Nicea II, 787) in materia di anatemi contro le dottrine eretiche. 3 Tale pregiudizio affondava le sue radici in una consolidata tradizione agiografica; cfr. e.g. nel IV sec. Athan. Alex. Vita Antonii, PG XXVI 945 (= p. ... Bartelink, SChr 400) w|/ toivnun oJ nou`" uJgiaivnei, touvtw/ oujk ajnagkai`a ta; gravmmata. Vd. però anche la lettera ai nipoti sulla lettura dei classici stesa da Basilio di Cesarea, che costituisce il contraltare positivo. 4 Carm. hist. LIX H. 5 Magdalino 1993, p. 391. XVII corte: persone come Zonara, Glica, Tzetze, Isacco II Sebastocratore e Nicola Muzalone si fecero monaci per opportunismo, secondo Magdalino. Una tensione del genere tra due poli opposti, ossia controllo culturale e religioso della società da una parte e promozione dell’ellenismo dall’altra, entrambi per opera del medesimo clero illuminato della Grande Chiesa (Hagia Sophia), si può confrontare con la tensione omologa contemporanea in Occidente. Nel tempo in cui si diffonde l’eresia catara, a rafforzare la dottrina ufficiale di Roma viene fondata la Santa Inquisizione, per arginare il pericolo con le armi della filosofia (almeno nell’intento iniziale). Tale filosofia vede la sua espressione più sistematica nella scolastica, basata sui fondamenti di un pensatore che, seppur addomesticato, resta nondimeno pagano: Aristotele. Vengono poi aperte le università, come luoghi in cui si può coltivare la nuova filosofia, e nel contempo ci si dedica alla giurisprudenza, per stabilire le norme della vita civile. Tale parità di processi si può inscrivere non a caso nel più grande quadro degli scambi reciproci tra Occidente latino e Oriente bizantino proprio nei secc. XI e XII: prima attraverso i contatti commerciali, che si infittiscono specialmente per il tramite dei mercanti italiani (repubbliche marinare); poi con quelli diplomatici tra regnanti dell’Ovest e imperatore bizantino (Manuele I); infine con i condizionamenti artistici e culturali.1 Mi concentrerò specialmente sulle reazioni letterarie di Bisanzio all’influsso occidentale, che sembrano andare in due direzioni opposte. La prima è xenofobica, ben riconoscibile nel forte spirito ellenizzante, che va alla ricerca di un’identità nazionale collocata nel glorioso passato della Grecia classica ed ellenistica; questa viene contrapposta ai latini, trattati all’inizio più come barbari, cioè non greci, che come non ortodossi. Da essa si svilupperà soprattutto nel XIII sec., dopo il sacco di Costantinopoli (1204), un nazionalismo esasperato che farà dell’ortodossia il cavallo di battaglia preferito contro il cattolicesimo papalino nelle dispute sul Filioque e sul primato petrino. La seconda direzione, invece, è più tollerante e sembra assorbire qualche elemento a lei estraneo; la si scorge con grande fatica, a causa del profondo orgoglio bizantino consistente nel non ammettere debiti nei confronti di nessuno. Nella concezione politica e.g., che fa di Costantinopoli la “Nuova Roma”, la discendenza dall’impero romano viene presentata solo come temporale, non gerarchica; ma la realtà dei fatti implica il contrario. Nella letteratura, poi, è ancor più arduo scoprire l’influsso occidentale: esso appare indubitabile, seppur contenuto, nella rinascita del romanzo bizantino, sia in greco dotto sia in greco volgare, che molto deve ai romanzieri greci tardo-antichi, ma in parte risente del contemporaneo genere gemello in area romanza.2 A causa di ciò, Magdalino è tentato di ipotizzare che la penetrazione dell’Occidente sia nascosta anche dietro ad altri generi letterari;3 egli non si azzarda a nominarne alcuno, forse a ragione. A considerare solo la satira bizantina, infatti, risulterebbe pure a me esagerato scorgervi un impulso derivato da omologhi prodotti latini classici (Orazio, Giovenale, Persio ecc.) ovvero di area romanza, con i quali i bizantini sarebbero venuti a contatto tramite i neo-latini. Altrove, invece, ricercherei la causa generativa, e cioè nell’ellenismo, individuato sopra come prima direzione; vi ritornerò più avanti. Magdalino evidenzia piuttosto le differenze che dimostrano la refrattarietà di Bisanzio. Moltissima dell’attività culturale si concentra a Costantinopoli dove l’individuo con i suoi rapporti clientelari prevale sulla comunità: per questo non nascono le università, non si formano sistemi di pensiero organici, né nella teologia, né nella filosofia, né nella giurisprudenza, né nella medicina; non impera curiosità per la letteratura occidentale al 1 Vd. in generale Kazhdan-Epstein 1985. 2 Solo per accennare qualche nome tra i più importanti: Chrétien de Troyes, le chansons de geste, la ricerca del santo Graal, il romanzo d’Alessandro. Vd. in generale Beaton 1989 e infra, p. 22, n. 3 (cit. Mullet 1984, p. 182). 3 Magdalino 1993, pp. 407-408. XVIII modo esplicitato, invece, dagli occidentali per quella greca.1 Ciò che invece predomina nella cultura bizantina è il teatro della retorica, che sotto Manuele I in particolare viene piegato a esigenze celebrative. Massimo esponente dell’eloquenza filosofica, più che della filosofia tout court, è già nel sec. XI il poligrafo Michele Psello, di cui riconoscevano l’ondata innovativa sia egli stesso sia i contemporanei Giovanni Mauropode, Giovanni Xifilino, Cristoforo di Mitilene e Michele Attaliate. Ondata che, secondo Magdalino, non incontrò in verità ostacoli alla sua espansione nella condanna di Giovanni Italo, come invece credono altri studiosi:2 essa, se da un lato bloccò la ricerca filosofica al punto in cui si era arrestato Psello, non poté tuttavia impedire lo studio associato della filosofia con la retorica e l’applicazione di quest’ultima alla vita, secondo il metodo di Psello. L’artificio letterario e l’imitazione dei classici per descrivere la realtà della natura umana fece di lui un modello da seguire per gli autori del XII sec. e fa di lui uno scrittore tuttora apprezzato. Nella sua Chronographia e.g., che abbraccia il periodo da Basilio II (976-1025) a Michele VII Duca (1071-1078), Psello sostituisce la cronaca annalistica e la tendenza agiografica con l’esposizione di ritratti psicologici, lezione di cui si appropriarono gli storici del XII sec.: Giovanni Scilitze, dove critica le sue fonti; Niceforo Briennio e Anna Comnena, nei tratti epici delle loro Historiae; Costantino Manasse, nell’utilizzo dei versi per il suo Chronicon; Giovanni Cinnamo, nel puntualizzare il suo stato di testimone oculare dei fatti; Michele Glica, nel mescolare storia e storia naturale; Niceta Coniata, nel far risaltare nella descrizione di Manuele I la miscela di splendore e decadenza. Lo sperimentalismo pselliano, nondimeno, si fa percepibile non solo nella storiografia, ma anche nella rinascita della satira. Genere interrotto da molti secoli, rispolvera senz’ombra di dubbio Luciano di Samosata, come dimostra il Timarione, un dialogo che forse rappresenta una tra le prime prove di questo revival: sia per la forma dialogica, sia per il contenuto escatologico del viaggio nell’aldilà.3 Aggiungo, poi, altri due dialoghi del corpus lucianeo, tralasciati da Magdalino: il Caridemo ovvero sulla bellezza e il Filopatride (amante della patria) ovvero istruito; si tratta di due dialoghi privi di qualsiasi riferimento storico che si possa decrittare senza ambiguità. Il primo è ambientato in un’Atene che affetta un aspetto di passato indefinito, come pure avviene nella Sat. 146 H. Amaranto e nel dialogo filosofico 135 H. Senedemo prodromei. Il secondo, invece, si sviluppa in una Bisanzio minacciata dalle scorrerie dei Persiani (Turchi?) e degli Sciti (Bulgari?). La datazione è un enigma; il Filopatride, addirittura, per i suoi riferimenti bellici, ha guadagnato collocazioni che spaziano dall’età di Giuliano l’Apostata al sec. X o XI. Lungi dal risolvere la questione, chiamo in causa questi due dialoghi perché possiedono molti tratti in comune con il Timarione e con gli scritti satirici di Prodromo: anzitutto la forma dialogica; poi i temi filosofeggianti che ricordano Platone, Senofonte e Luciano; la critica pungente in toni satirici a certe categorie come gli indovini, millantatori di scienza, nel Filopatride, ovvero i sofisti, venditori di inutili parole pseudo-filosofiche, nel Caridemo; infine l’atticismo tipico della koiné scritta dei secc. XI e XII. Tali dialoghi, allora, che siano anteriori o contemporanei a Prodromo, restano comunque un prodotto di quel classicismo le cui 1 Si pensi alle prime traduzioni latine di padri della Chiesa greci eseguite da traduttori del nord Italia; o alla ricerca di manoscritti dello ps.-Dionigi l’Areopagita intrapresa dai monaci di Saint Denis. Nel secolo successivo, invece, sorgono le traduzioni di Roberto Grossatesta (1175-1253) e Guglielmo di Moerbeke (1215-1286). 2 Browning 1975; Clucas 1981; Lemerle 1977, pp. 246-247. 3 Tsolakes 1990, pp. 109-117 data al 1110 questo dialogo tràdito nel corpus lucianeo insieme con altri due spuri presumibilmente della stessa epoca Filopatride e Caridèmo. Vd. anche Alexiou 1977. XIX prime avvisaglie si intuiscono già nella rinascenza macedone (secc. IX-XI), ma che esplode chiaramente sotto i Comneni per espandersi fino all’età dei Paleologi. Testi satirici della stessa epoca sussistono non solo in forma dialogica: in Psello e.g. si trovano due lunghi carmi Contro il monaco Sabbaita, in 321 dodecasillabi giambici, e Contro il monaco Iacopo, canone in 160 versi;1 in Cristoforo di Mitilene 135 dodecasillabi giambici contro il monaco Andrea, maniacale collezionista di reliquie.2 Si tratta di scritti che mantengono aspetti formali già sperimentati in Luciano (e.g. la Tragodopodagra in trimetri giambi, come una breve tragedia per la lettura); nel contempo, però, innovano secondo nuovi stili bizantini (il canone e i versi ad accentuazione non quantitativa); ma adattano inoltre l’antico modello all’attuale rispettivo contesto scatenante (culto feticista delle reliquie, controversia demonologica). Di qui certo Prodromo avrà tratto uno dei suoi spunti per le due satire giambiche 140 H. Contro la vecchia lussuriosa e 141 H. Contro il vecchio dalla lunga barba che si crede per questo sapiente (vd. testo infra). Non solo Prodromo, comunque, e le satire anonime sono testimoni di questa Musa pedestris. Tzetze, il Manganeios-Prodromos, Costantino Manasse, Giovanni Nomicopulo, i fratelli Michele e Niceta Coniata, Giovanni Apocauco: tutti mostrano accenni comici.3 Si aggiungano due opere inedite fino a una trentina d’anni fa: il dialogo Anacarsi o Anania, attribuito a Niceta Eugeniano, e un pezzo attribuito a Pediadite;4 la loro fattura letteraria, però, appare inferiore a quella del Timarione, secondo Magdalino. Anche Niceforo Basilace confessa di aver redatto scritti satirici nella sua giovinezza, consegnati però da lui stesso alle fiamme, perché incompatibili con la sua successiva svolta teologica;5 decisione forse non isolata e causa di altre a noi ignote distruzioni o persino inibizioni alla composizione. Tra gli altri generi tipici della rinascenza comnena, viene spontaneo un accostamento della satira con il romanzo, studiato da qualche lustro con molta attenzione, sia con edizioni critiche sia con saggi. I punti di contatto sono ravvisabili a mio parere nelle tessere comiche, specialmente concernenti la descrizione di vecchi o di filosofi, che fanno apertamente il paio con le Satt. 140 e 141 H. (vd. rispettivi commenti infra). L’involuzione sintattica, poi, affiora in entrambi i generi, come sintomo della retorica dell’epoca; mancano, invece, nella satira le ricche, talora esorbitanti, ecfrasi artistiche di oggetti oppure le grevi introspezioni psicologiche che s’incontrano nel romanzo bizantino. Ellenismo negli scrittori del XII sec. Come si evince dalla carrellata di autori appena dispiegata, a partire da Psello fino a tutto il XII sec. l’occhio è puntato sugli scrittori dell’Atene del V e IV sec., nonché sugli atticisti dell’ecumene di età ellenistica e imperiale romana. Ciò prova, come si è già accennato, una necessità di ricollegarsi agli antichi; necessità puramente letteraria, poiché nessun bizantino ha mai rinominato Costantinopoli la Nuova Atene.6 Questo per 1 Psell. Poem. XXI e XXII Westerink; tr. it. in Romano 1999, pp. 199-227. 2 Christ. Mytil. Carm. varia CXIV Kurtz; tr. it. in Romano 1999, pp. 183-189. 3 Per citarne solo alcuni rilevato da Magdlino 1993: Tzetz. Chil. pp. 91-92; 187-188; Ep. pp. 150-152; Mang.-Prodr. Carm. IV 147 ss.; XIV; Const. Manass. Hodoepor. pp. 344-345 Horna; Io. Nomicop. Ecphrasis ed. Karpozelos; Mich. Chon. vol. II, pp. 234-237 e 239 Lampros; Nic. Chon. Hist. pp. 322, 441-442, 520 van Dieten; Io. Apoc. Notitiae et epist. pp. 124-125 Bees. 4 Vd. rispettivamente Chrestides 1984 e Manaphes 1976-77. 5 Nic. Basil. Or. A, p. 5 Garzya. 6 Atene, Tebe, Corinto e Sparta, le città cardine dell’antica Grecia, erano scadute già da un pezzo al rango di villaggi semi-barbari: un declino da imputare in parte anche alla chiusura della scuola filosofica ad Atene, per opera di Giustiniano; o ancor prima al saccheggio di Corinto, perpetrato da Alarico (395). Costantinopoli fu invece detta la “Nuova Roma”, perché di quell’impero universale e autocratico i XX puntualizzare che la rinascenza ellenizzante di età macedonica prima (secc. IX-XI), ma soprattutto comnena poi (secc. XI-XII) non era totalizzante: si concentrava sulla lingua atticizzante, sugli artifici retorici degli oratori attici, ma non sulla rianimazione della cultura greca nel suo complesso. La Weltanschauung ortodossa, insomma, la religione cristiana, che spingeva a determinare Costantinopoli persino come la Nuova Gerusalemme, non era onninamente sostituita con la filosofia pagana di Platone e Aristotele; gli aberranti che si permettevano di farlo correvano il rischio di essere prima o poi calunniati, come Psello, o addirittura venivano condannati, come Italo. Il paganesimo, in sostanza, con le sue correnti filosofiche e la sua mitografia, viene riesumato come preziosismo erudito su di un tessuto di base costituito dalla cultura ortodossa. Ciò può essere spiegato con un’esigenza di identità nazionale, in particolare in quel lasso di tempo che corre tra la battaglia di Manzikert (1071) e il sacco di Costantinopoli nella cosiddetta quarta crociata (1204). Il primo episodio bellico segna la cattura dell’imperatore Romano IV Diogene (1068-1071) e l’occupazione di gran parte dell’Asia Minore da parte dei Turchi Selgiuchidi; il secondo segna il deplorevole saccheggio della capitale da parte dei crociati e l’instaurazione di un impero latino. La compagine dell’impero bizantino, dunque, viene minacciata da nemici esterni, appartenenti a culture non elleniche, cioè barbare. Come nel secolo VII con l’invasione araba delle terre d’Egitto, Palestina e Siria; così ora l’impero bizantino perde altri territori al di là dell’Egeo, ereditati dall’antico Impero Romano d’Oriente. Si riduce, pertanto, casualmente a un’estensione non troppo dissimile da quella della sfera di colonizzazione greca in età classica; ma anche non troppo dissimile da quella dell’area dei parlanti neogreco delineatasi nettamente sotto la turcocrazia e rimasta pressoché immutata fino alla mikrasiatikhv katastrofhv del 1922.1 Di pari passo con il senso d’identità culturale va crescendo quello d’identità personale: l’autore comincia a parlare di sé e non solo degli altri, siano essi personaggi e fatti di storia o santi. Psello dimostra questa nuova tendenza sia nelle opere in cui comunica in prima persona, sia nella Chronographia, dove prevede una sezione dedicata alla narrazione della propria carriera.2 Con spunti autobiografici che rendono più credibile il racconto storico scrivono parimenti Anna Comnena la sua Alexias nella prima metà del XII sec.; e Niceta Coniata le sue Historiae a cavallo tra XII e XIII sec. Eustazio di Tessalonica dà un saggio della propria compartecipazione ai fatti nella narrazione del sacco della città di cui è arcivescovo, perpetrato dai Normanni nel 1185. Costantino Manasse espone le sue impressioni del viaggio compiuto insieme con l’ambasceria inviata dall’imperatore Manuele I nel 1160 in Siria, al fine di procacciare al sovrano rimasto vedovo di Bertha von Sulzbach una nuova moglie tra le parenti dei crociati reggenti in Terra Santa, Maria di Antiochia. Tzetze interviene spesso in prima persona sia nelle lettere sia nei vari commenti da lui prodotti e se la prende con falsi santerelli, chierici accondiscendenti, vescovi non casti, alunni ingrati, patroni micragnosi e ignoranti; persino l’imperatore è chiamato in causa, molti sedicenti intellettuali vengono liquidati come bouvbaloi e gli autori classici stessi fanno la figura Bizantini si ritenevano continuatori; ÔRwmai`oi usavano chiamarsi e l’appellativo di Graikoiv/Graeci che veniva loro affibbiato dagli occidentali non era motivo di vanto. Bizantini, infine, si denominavano con termine arcaizzante esclusivamente gli abitanti di Costantinopoli, altrimenti detti Kwnstantinoupoli`tai. Fu solo con gli studiosi francesi del XVII sec. (Ducange et alii) che l’etnonimo byzantins passò a designare gli abitanti dell’impero bizantino come noi contemporanei lo intendiamo. Vd. Browning 1980, p. 8; Magdalino, Hellenism in Magdalino 1991. 1 Beaton 1989, p. 7. 2 Psell. Chron. I, pp. 127-130, 134-140; II, pp. 65-70, 75-79, 91-110, 129 sgg., 138, 141-142, 143-144, 150, 154 sgg., 158-160, 172 sgg. Renauld. XXI di pazzi scolaretti.1 Niceforo Blemmide, infine, nato negli ultimi decenni del sec. XII a Costantinopoli, redige un’autobiografia durante il periodo dell’impero di Nicea: si tratta di un procedimento che in parte rientra nel canone delle notizie autobiografiche premesse dai fondatori di comunità monastiche, quale in effetti fu Blemmide, ai typiká per l’edificazione morale dei monaci; nondimeno, il tono idiosincratico, l’ossessione del proprio genio e l’agiografia di sé stesso, come la si trova anche in Neofito il Recluso (Neophytus Inclusus), rivelano in Blemmide uno sfogo individualistico conseguente con la situazione storica dell’ultimo scorcio del XII sec.: la perdita dell’autonomia politica sotto la pressione dei latini e dei turchi. Con quanto si è appena detto, dunque, non risulta fuori luogo affermare che la pressione dei latini ai confini di Bisanzio, prima per il commercio relativamente pacifico, poi per la conquista bellica, ha indotto i bizantini a contrapporre ai barbari invasori l’identità ellenica, a quelli abbastanza estranea, soprattutto per ragioni linguistiche.2 Per parte mia, però, mi chiedo se codesto “occidentalismo” si possa ravvisare anche nella rinascita della satira: cosa spinge, insomma, a rivitalizzarla? Il solo bisogno di identità ellenica? Ma la satira, a dire il vero, non era proprio il più greco dei generi, se ci atteniamo al giudizio di Quintiliano. Oppure il contatto con qualche satira latina classica ovvero dei neolatini? A mio parere, nondimeno, non c’è influenza alcuna nella satira bizantina da parte della satira latina: un diffuso desiderio dei bizantini di risalire alle radici romane sussiste senza dubbio, specialmente negli storici del XII sec.; ma si tratta di una ricerca per mezzo della quale si vuol confrontare l’assetto costituzionale di Bisanzio con quello di Roma, noto dalla lettura di Dionigi di Alicarnasso, Plutarco e Dione Cassio, piuttosto che di un’appropriazione della letteratura latina.3 Se mai qualcosa di quest’ultima appaia percepibile nella satira prodromea, credo che debba essere imputato a Luciano, il quale invece aveva diretta conoscenza di quel mondo letterario; ma a dire il vero non saprei enumerare i caratteri propriamente latini nemmeno in Luciano stesso. Io sono convinto, invece, che il riaffiorare della satira a partire dall’XI sec., cioè dall’età di Psello, non possa vantare impulsi dall’Occidente: persino il romanzo bizantino, di cui pure si riconosce una parentela con quello di area neolatina (vd. supra p. 18 «contemporaneo genere gemello in area romanza»), viene da 1 Tzetz. Chil. schol. ad III 61; una panoramica sul piglio mordace di Tzetze in Jeffreys 1974, pp. 149-161. 2 Sulla crescente abitudine da parte degli scrittori bizantini del XII sec. di chiamarsi e{llhne" (accanto a o anziché rJwmai`oi) e sulla conseguente accentuazione del divario con i bavrbaroi, vd. Lechner 1955, pp. 56 sgg. 3 Cfr. Magdalino 1991, p. 343. Zònara fu uno degli storici del XII sec. più attenti a Roma: nel proemio della sua ∆Epitomh; iJstorivwn egli programma una descrizione dell’evoluzione della costituzione romana; alla fine del l. IX si dichiara impossibilitato ad attingere alle fonti più antiche sull’età dei consoli e dei dittatori e inevitabilmente costretto ad accontentarsi dell’età imperiale; avrà comunque un occhio di riguardo per la spiegazione del passaggio della costituzione romana da aristocratico-repubblicana ad autocratica. L’impossibilità di Zònara testimonia che già a suo tempo si faticava a reperire la prima parte dell’enorme opera di Dione Cassio (ottanta libri): la tradizione diretta ci ha salvato quasi per intero i ll. XXXV-LX (dalla guerra di Lucullo contro Mitridate VI re del Ponto fino alla morte di Claudio nel 54 d.C.); l’epitome di Xifilino, così come ci è pervenuta oggi, copre i ll. XXXV-LXXX (cioè l’ultimo, fino ad Alessandro Severo); Zònara stesso ricavò estratti dai primi venti libri. In ogni caso l’interesse di Zònara per l’età repubblicana romana come buon esempio di costituzione mista e collegiale e, per converso, la sua completa omissione nel Breviarium Chronicum di Costantino Manasse potrebbero essere spia di due diversi destinatari delle rispettive opere: Zònara, che scriveva quando si era ormai ritirato nel monastero di Hagia Glykeria (nelle Isole dei Principi) e staccato quindi dalla corte, poteva permettersi una certa libertà di espressione, criticando l’eccessivo autoritarismo imperiale; Manasse, invece, non toccò l’argomento, forse perché scriveva su incarico di appartenenti alla famiglia imperiale. XXII alcuni spiegato solo con e per il mondo greco di Bisanzio.1 Si tratta più semplicemente di una nuova tendenza che scaturisce dalle letture calcenteriche che alcuni autori si prefiggevano nella propria vita: un po’ per sfuggire a un mondo che per molteplici ragioni non li soddisfaceva; un po’ per gusto personale. Questa vasta dottrina chiaramente alimentava il desiderio di sperimentarla in creazioni personali che mettessero in luce contemporaneamente genio individuale e nozioni acquisite con la lettura. Mi pare doveroso qui riconoscere a Magdalino il merito di aver indagato in maniera circostanziata le ragioni oggettive, storiche del rinato classicismo, da me riportate sopra (§ Ellenismo degli scrittori del XII sec.); nondimeno accordo ancora una certa credibilità alla teoria di stampo più estetico, ma non per questo meno valida, del genio e del gusto personale. Kazhdan afferma con disarmante candore: «quale fu la causa di questo radicale cambiamento, confesso semplicemente che non lo so».2 Mullett, per parte sua, impiega un intero articolo al fine di dedurre che con la teoria delle committenze e dei salotti letterari non si può spiegare la nascita di tutta la letteratura bizantina del XII sec.: qualcosa è sorto anche per ragioni così personali che a noi sfuggono, ma che confermano in certo qual modo un grado di originalità anche per una letteratura altamente mimetica come questa.3 Rivendicazione affatto legittima, anche perché altrimenti, ogni volta che si taccia la letteratura bizantina di non originalità e non spontaneità, la si contrappone implicitamente a una letteratura senz’altro originale e spontanea, la quale sarebbe da riconoscere nella letteratura greca arcaica e classica, preferita di gran lunga già a quella latina sin dai tempi della filologia tedesca del XIX sec.4 1 Vd. Mullett 1984, p. 182 «noble ladies with Western connexions might have commissioned the twelfthcentury romances for reasons of their own, but only the asteiotes of a group alive to rhetorical kompsa would have fully appreciated the contemporary allusions and parodies contained in them… as Alexander Kazhdan [sc. Kazhdan-Constable 1982, p. 103 e 112-113] has shown, there may be no need to seek outside Byzantium at this time for the origins of a taste for romance». Della stessa opinione era già Beck 1975, p. 55, riguardo a romanzi bizantini in greco vernacolare del XIV sec. (Callimaco, Beltandro, Libistro): «man hat behauptet, diese neue Romanliteratur verdanke ihren Ursprung nicht mehr der sklerotischen Hauptstadt, sondern verriete ein wachsendes Selbstbewußtsein des einfachen Volkes: erste Frucht aus den lang vernachlässigten Provinzen, die nun unter heilsamem fränkischem Einfluß sich auch literarisch zu artikulieren begännen. Dies ist offensichtlich falsch. Konstantinopel ist noch nicht tot, und die Gebildeten dort waren noch fähig umzudenken». 2 Kazhdan 1983, p. XII; allude alla rinascita della società urbana nell’impero bizantino nei secc. XI e XII; ma anche al mutato panorama letterario. 3 Mullett 1984. 4 Vd. Most 1997, p. 44 con la citazione del fr. 46 KFSA 2.153 di F. Schlegel «und doch ist echter Sinn für die Römer noch ungleich seltner als der für die Griechen». Senza voler entrare nel merito di una discussione che esula dai confini di questa introduzione, sia solo accennato al fatto che esempi di tale presunta originalità, intesa come frutto esclusivo dello Sturm und Drang, ossia del genio primitivo e impetuoso dell’autore, e pertanto debitrice di nulla a nessuno, possono essere spiegati benissimo anche con il ricorso al mecenatismo e alla committenza da una parte, nonché con gli influssi di altri prodotti preesistenti dall’altra: uno per tutti Omero ovvero i rapsodi legati agli aristocratici micenei, in parte rielaboratori di saghe epiche del Vicino e Medio Oriente. Mi astengo dal citare bibliografia al riguardo, eccezion fatta per Schrott 2008, non foss’altro per il gran clamore che ha destato tra i grecisti con la sua tesi innovativa: Troia era una città della Cilicia (Karatepe); Omero non proveniva né dalla Grecia, né dalla costa ionica dell’Asia Minore, bensì da una regione compresa tra Cilicia, Cipro e Siria settentrionale. Solo qui nel VII sec. a.C. sono testimoniati, a detta sua, quei contatti tra culture semitiche e tradizione hurrito-hittitica e greca, la cui mescolanza si può ben riconoscere nella trama dell’Iliade. Rispetto ai poemi omerici e alla poesia greca in genere la natura mimetica della poesia latina viene analizzata fra gli altri da Conte 1985. Essenziale, poi, ciò che scrive Magdalino 1983, p. 328 sui topoi e la mimesis: «certainly, everything seen in the “distorting mirror” [concetto introdotto da Mango 1975] of Byzantine literature must be treated with caution, but the solution is not to ignore everything that smacks of commonplace, as if the imitation of ancient models and the use of cliché were proof that an author has nothing to say. Topoi might actually XXIII Ellenismo in Prodromo A proposito di contrapposizione tra genio creativo e imitazione dei classici, vorrei proporre il confronto tra Prodromo e due autori della letteratura italiana.1 Di primo acchito, parrebbe mancare ogni comunanza, specialmente se si pensa alla fortuna goduta dai secondi; in realtà, credo di poter scorgere qualche elemento utile in soccorso della tesi secondo cui imitazione non significa necessariamente pedanteria. Cominciamo con Petrarca: sono ben conscio del suo peso letterario, che non voglio certo sminuire, in qualità di anticipatore dell’umanesimo e di una nuova visione del mondo antropocentrica; nonché riconosco il diverso milieu. Nondimeno, oserei mettere in parallelo tra Prodromo e Petrarca esigenze e pulsioni simili: pascersi della letteratura antica -Prodromo di quella greca, Petrarca di quella latina- e, dove possibile, di quella greca tradotta in latino; trovare nel mondo classico passato e ormai concluso un rifugio dall’insoddisfacente mondo presente; sperimentare i generi e gli stili letti, studiati, glossati e commentati all’interno di opere della propria penna; adottare due lingue diverse, una morta e una viva, per sovvenire alla “schizofrenia” interiore di uomini viventi fisicamente in un periodo, ma spiritualmente in un fittizio passato.2 C’è, poi, un altro elemento che, a mio parere, accomuna i due scrittori, pur così distanti: nessuno dubiterebbe certo di assegnare la palma della vittoria a Petrarca e non a Prodromo in un certame letterario, forse proprio per quel pre-umanesimo a cui alludevo sopra, ben ravvisabile nella spiccata vena psicologica della narrazione dell’interiorità. Si badi, tuttavia, che solo a certi contemporanei risulta segno di originalità e di bellezza estetica questo pre-umanesimo, cioè la combinazione di riscoperta dei classici e di riflessioni psicologiche sul proprio io. Altri, invece, lo sprezzano come segno di pedanteria; e già alcuni contemporanei di Petrarca gli rimproveravano di essere più retore che filosofo nella sua attività di scrittore; tendenza alla retorica che già abbiamo rilevato negli autori bizantini a partire da Psello. Vengo ora al caso di Leopardi, vissuto molto più tardi, ma rientrante nella medesima direzione: lettore onnivoro dei classici fin dalla fanciullezza, compose opere in prosa e poesia a imitazione dei generi che assimilava. Compose un po’ in greco, un po’ in latino e prevalentemente in italiano; ma un italiano culto, non certo alla portata di tutti, ipotattico, latineggiante, arcaizzante.3 Molti suoi personaggi sono tolti di peso dall’antichità: Saffo, Simonide, Bruto Minore, Plotino, Porfirio, le rane e i topi dei suoi Paralipomeni, a tacere di tutto l’apparato mitografico che affiora qua e là. I temi che Leopardi fa esprimere ai suoi personaggi, specialmente filosofici, corrispondono in parte a quelli antichi, in parte alle nuove elaborazioni personali del poeta intorno al suo pessimismo (soggettivo, storico e cosmico). Eppure non tutti i critici sarebbero unanimi serve to underline the importance of what was said, by giving it the stamp of universal truth and finding a place for it in the hierarchy of political, religious, and literary orthodoxy». 1 Tale confronto mi è ispirato dalla mia sensibilità: non pretendo che sia accettato o compreso; ma rammento che anche Beck 1975, pp. 47-48, e.g., adduce due esempi dalla letteratura tedesca, per spiegare il concetto di letteratura in greco vernacolare e sua diffusione per nulla esclusiva negli ambiti illetterati. 2 Se avessimo un autografo di Prodromo, potremmo spingere la similitudine anche a fatti grafici. Petrarca, che pure si adoperava a riattivare un latino classico (Cicerone, Livio, Seneca) contro quello medievale e volgareggiante che ancora Dante adottava, non aveva, tra gli altri aspetti grafici, ancora ripristinato il dittongo: segno evidente dell’influsso della pronuncia monoftongata volgare (vd., tra la sterminata bibliografia petrarchesca, Feo 2007). Parimenti troviamo nei mss. prodromei, quasi sicuramente come eredità dell’uso dell’autore e dei suoi contemporanei, particolarità grafiche che derivano dall’evoluzione del greco verso uno stadio sempre più vernacolare. Vd. a tal proposito infra il § Constitutio textus. Sulla diglossia di Prodromo vd. § Biografia: anche se i corpora vernacolari non gli appartengono nella forma a noi pervenuta, essi hanno pur sempre un nucleo di partenza prodromeo; inoltre le opere in greco atticista rivelano inevitabilmente lessico e costruzioni tipici della lingua medio- e tardo-bizantina. 3 Uno tra i suoi modelli preferiti tra i prosatori italiani era Daniello Bartoli; cfr. Serianni 1993, p. 552. XXIV nel riconoscere a Leopardi dignità di autore originale, proprio per il suo onnipresente classicismo (o, se si vuole, “passatismo”); il che lo rende almeno nella forma, se non nei contenuti, più vicino a un poeta del secolo XVIII, che non a un romantico. I due confronti possono apparire forzati; tuttavia, mutatis mutandis, oserei dire che anche il classicismo di Prodromo, come già quello di Petrarca e Leopardi, non è mera pedanteria. Per giunta, se a un certo punto della sua vita il nostro autore bizantino ha avvertito l’impulso a rispolverare il genere della satira per colpire un determinato bersaglio, qualcosa di personale e originale deve pur essergli capitato: egli non può essersi dedicato soltanto a un esercizio retorico scrio scrio. L’inclinazione a quell’individualismo affiorante persino nella Chronographia di Psello è dimostrabile pure negli scritti di Prodromo: se egli se la prende con i millantatori, maestrucoli, filosofastri o cerusici che essi siano, significa che si ritiene minacciato nella propria posizione, sia umana sia professionale. La polemica sullo stato degli studi, in particolare, appare la più produttiva nelle sue satire: un vero punctum dolens per un didavskalo" come Prodromo. Persone di bassa levatura e infimo livello sociale (contadini, macellai, ciabattini), privi di una qualsiasi base culturale acquisita con tempo e fatica, entrano improvvisamente in scena come apparenti maestri di nozioni filosofiche, grammaticali, mediche; occupano perciò posti di rilievo nella società, percepiscono un onorario dai patroni, di cui riescono a conquistare la fiducia con spudorata adulazione; e campano a scapito della povera gente. Di conseguenza, poi, persone realmente istruite, intelligenti e sapienti come Prodromo, ma forse non altrettanto adulatrici, vengono lasciate ai margini e muoiono di fame (non diversamente da quanto avviene oggi). Ciò si evince dall’invettiva della Sat. 144 H. Lo stolto ovvero il sedicente maestro di scuola, portata avanti in forma di monologo contro un avversario che pretende di fare il maestro di scuola (grammatikov"), ma che in realtà non vuol dar prova della propria perizia davanti a un esperto come Prodromo. Non si dice espressamente che costui ha patroni e che da essi riscuote un onorario; ma la deduzione mi pare sensata, considerato il sistema clientelare dell’epoca e visto il lamento di Prodromo levato nelle poesie storiche menzionate sopra, rivolte ai mancati mecenati. Prodromo struttura tutta la sua tirata sottoponendo idealmente il maestro millantatore impreparato a prove di dottrina, per dimostrargli che nella vita la competenza in qualsiasi attività si raggiunge con il sudore della fronte. Il suo avversario, però, non conosce la risposta alle domande più in voga nella ratio studiorum coeva: la discussione etimologica sul nome di Senofonte (come in Et. Gud.); l’eterna disputa se sia superiore Omero o Esiodo; l’accenno alla condanna platonica dell’epica omerica; la stroncatura di Esiodo, poeta pseudo-didattico, inutile persino alla gente di mare e di campagna a cui si rivolge, che, essendo ignara di metrica, non può trar profitto dai suoi versi. Prodromo, poi, compara il sedicente maestro con gli attori di teatro, chiamati in causa come esempio generico di persone che faticano per raggiungere la bravura (piuttosto che come testimonianza dettagliata sul teatro a Bisanzio, per cui vd. adn. ad Sat. 144 H., 124). Infine preconizza al suo avversario un meritato insuccesso con eventuali allievi, i cui genitori si accorgerebbero della sua ignoranza e lo lascerebbero senza clientela. Da qui si può desumere che il bersaglio di Prodromo è forse stato un suo concorrente nell’insegnamento, anche se la dimostrazione sicura non si può fornire. Nella Sat. 147 H. Vendita all’asta di vite di poeti e politici, strutturata come il prosieguo del dialogo lucianesco Vendita all’asta di vite di filosofi [27 Mcl.], vengono messi all’incanto, come se fossero schiavi reietti, gli autori di spicco del canone di letture scolastiche: un argomento in parte riconducibile a quello della satira precedente. Omero, Ippocrate, Euripide, Aristofane, il giurista romano Pomponio, Demostene: ognuno di essi decanta le proprie peculiarità per rendersi appetibile all’eventuale XXV acquirente di turno. Si tratta tuttavia di peculiarità meramente letterarie, inutili a qualsiasi applicazione pratica; cosicché vengono derise le rispettive categorie sociali che ciascuno di loro incarna: il poeta, il medico, il drammaturgo, il giurisperito, il retore. Sembra un controsenso che Prodromo demistifichi proprio i classici: con la loro lettura egli si è formato e in loro egli dovrebbe riporre la fiducia, come in una via di scampo dalla società comune, secondo quanto si è osservato prima riguardo al classicismo del XII sec. In realtà non credo che qui Prodromo biasimi tanto i classici in sé; quanto piuttosto il modo in cui essi vengono insegnati dai fasulli maestri suoi contemporanei e avversari. Nella satira ciò non è dichiarato apertis verbis, come al solito; ma mi risulta un’ipotesi plausibile. Di Omero, per esempio, si mette in rilievo la teoria dei metri, echeggiata anche da Tzetze: un argomento in voga presso i dotti del tempo, che forse faceva perdere il gusto per la bellezza della sua poesia in sé; di Ippocrate, si denuncia l’utilizzo spasmodico da parte dei medici dei suoi insegnamenti, indipendentemente dal fatto che si adattino o meno al caso specifico da curare; di Euripide sono enucleate le espressioni più retoricizzate della sua tragedia; di Aristofane si mettono in luce le volgarità; di Pomponio, che si può ben inscrivere nella ricerca della romanità sopraccitata (vd. p. 22, n. 1 «l’interesse di Zònara per l’età repubblicana romana») e che rappresenta la fonte romana del diritto giustinianeo, si denuncia la contorta formulazione delle leggi atta più a ottenebrare che a districare la giustizia; di Demostene, si sottolineano le accuse di corruzione. Tutto ciò potrebbe rispecchiare un modo distorto di insegnare i classici che a Prodromo ripugna. La Sat. 148 H. Boia o medico, che ritorna alla forma monologica della Sat. 144, è rivolta contro i medici in generale, gonfi di dottrina ippocratico-galenica, ma per nulla in grado di curare l’ascesso dentale, di cui Prodromo stesso parrebbe soffrire; anzi, spesso i medici si trasformano in carnefici dei propri pazienti. Essi affettano un interminabile dissenso intorno al malato, proponendo chi un rimedio, chi il contrario, e di fatto non applicandone nessuno, finché il malcapitato crepa. Il mal di denti di Prodromo viene descritto con dovizia di particolari; al di là tuttavia del fatto che esso sia vero o meno (ma potrebbe anche esserlo, vista la cagionevolezza del personaggio), qui interessa sottolineare l’attacco alla lobby dei cerusici, che trova in parte riscontro nella narrazione di Anna Comnena: i consigli curativi dell’archiatra di Alessio I, Nicola Callicle, vengono messi in minoranza dal voto contrario degli altri colleghi, i quali infine conducono l’imperatore alla morte.1 Callicle e Michele Lizice, tra l’altro, vengono invocati alla fine della satira, come esempi di medici affidabili (vd. p. 16, n. 1 supra «il Michele Lizice medico»). La Sat. 149 H. Simpatizzante di Platone o cuoiaio riprende in parte temi della Sat. 141 H. Contro il vecchio dalla lunga barba che per questo si crede sapiente e attacca i filosofi parvenus, i saggi dell’ultim’ora che fino a poco tempo prima erano villici o marinai. L’introduzione è un elogio sperticato di Platone, filosofo divino come lo appellavano i neoplatonici; lode che rientra nella tendenza neoplatonizzante della rinascenza comnena. Si procede poi con l’invettiva vera e propria, in cui si accusa il filosofo millantatore di non saper nemmeno leggere spiriti e accenti, perché fino al giorno prima non si era mai occupato di filosofia. Il paragone che tale millantatore istituisce tra sé e Diogene il Cinico, per giustificare il cambio da un’attività banausica a una intellettuale, viene presto smascherato da Prodromo: Diogene era già filosofo per natura, anche quando lavorava come cambiavalute, e comunque scelse per sé una filosofia popolare; il cuoiaio filo platonico, invece, è passato immantinente dalle stalle alle stelle. L’invettiva si chiude con l’augurio che qualcuno addirittura prenda a pugni il millantatore. 1 Ann. Comn. Alex. XV 11 Reinsch. XXVI Nella Sat. 146 H. Amaranto l’argomento di fondo è nuovamente il medesimo: contro i falsi filosofi incoerenti, che predicano vita ascetica da bravi saggi cinicoplatonici e poi, sul limitar di Dite, si lasciano corrompere da giovani fanciulle, buttano all’aria tutta la filosofia e convolano a nozze mature. In aggiunta a ciò, nondimeno, questo dialogo presenta una cornice particolare intorno alla narrazione centrale. Vi si propone una controversia tra atomisti, democritei ed epicurei: un tema che né trae lo spunto da dispute contemporanee a Prodromo; né deriva da Luciano, dove gli epicurei sono contrapposti piuttosto agli stoici. Forse ciò vuol essere segno di originalità; forse nasconde dietro di sé una critica a correnti filosofiche o teologiche del tempo per noi non più ricostruibili. Ma se mai così fosse, sfiderei chiunque a tentarne l’identificazione. E qui viene confermata la mia impressione sull’assenza di ogni esplicitazione, ovvero di attualità, nelle satire prodromee. Allo stesso modo, tuttavia, anche le poesie storiche XXXVIII e LXXIX H. testimoniano la conoscenza delle teorie fisiche presocratriche, tra cui quelle atomistiche; in esse, poi, Prodromo batte l’accento sul solito tema che gli sta a cuore, cioè punta il dito contro una società ostile agli studi, che favorisce gli artigiani piuttosto che i letterati. Nell’apologia inclusa nella poesia storica LIX (vd. p. 14, n. 7 supra), Prodromo, con il pretesto di asseverare completa indipendenza ideologica dalla filosofia antica, finisce per dare ancora una volta dimostrazione della dimestichezza che ha con essa. Poesie e satira giustapposte, allora, confermano a vicenda la formazione di Prodromo: come altri suoi contemporanei, egli deriva siffatte competenze filosofiche dai commentari aristotelici tardo-antichi. Chiaramente, com’è giusto che sia, Prodromo non dispiega qui tutti i particolari di tali teorie: nella poesia gli interessa solo enumerarle come parti di quell’infinita dottrina da lui conquistata con pena eppure inutile a rendergli il dovuto compenso economico; nella satira, invece, serve alla caratterizzazione dei suoi personaggi. Per apprezzare il lato più propriamente filosofico di Prodromo bisogna ricorrere a poche e brevi opere: si tratta del commento al libro II degli Analytica II, del dialogo Senedèmo e del breve scritto in prosa Sul grande e sul piccolo.1 I temi sono differenti; sulla base delle righe di Brandis, si evince che Prodromo intende il proprio commento ad Aristotele molto modestamente come una gumnasiva ti" kai; pei`ra th`" peri; tou`to to; pra`gma hJmetevra" ijscuvo"; aggiunge poi che, siccome gli uomini sono per natura più inclini ai discorsi brevi che a quelli prolissi, specialmente quando siano già stati sfiniti in precedenza da uno sciame di libri, il suo commento sarà breve e antologico; riaffiora qui ancora una volta il Leitmotiv dello studio matto e disperatissimo che ha caratterizzato invano la vita del nostro autore. Nel dialogo Senedèmo, poi, secondo una struttura formale, il dialogo per l’appunto, già impiegata nelle Satt. 146 e 147 H., i protagonisti discutono intorno all’Isagoge di Porfirio. L’opera del filosofo neoplatonico era stata trattata nella tradizione filosofica tardo-antica, e parimenti la tratta Prodromo, quale introduzione alle Categorie di Aristotele: la logica dello Stagirita viene incorporata nel sistema neoplatonico, soprattutto la dottrina delle categorie d’essere interpretate in termini di entità (o universali, secondo una terminologia post-porfiriana). Il dialogo di Prodromo mira a rivaleggiare con i maggiori parenti platonici: il tessuto filosofico è certo più fitto di quello della Sat. 146 H.; nondimeno esso lascia spazio a brevi digressioni comico-satiriche che riprendono motivi tipici delle satire, come la descrizione di un vecchio filosofo millantatore, barbuto e pallido. È chiaro, comunque, che Platone resta solo un modello formale di filosofia dialogata; il contenuto, però, non solo è diverso per i temi, ma anche per 1 Sul commento inedito vd. p. 6, n. 3 supra; del dialogo Senedèmo (n° 135 H., ed. Cramer III, pp. 204- 215) ho già approntato un’edizione migliore di quella esistente, collazionando tutti i mss. segnalati da Hörandner; del brevissimo trattatello Sul grande e sul piccolo (n° 136 H., ed. Tannery 1887), infine, possiedo il mcf. di pochi testimoni soltanto. XXVII l’originalità. Platone, infatti, elabora pensieri personali; Prodromo, invece, non fa altro che trasporre in dialogo concetti filosofici altrui. Aristotele, infine, è l’oggetto del breve scritto in prosa Sul grande e sul piccolo. Prodromo comincia con un preambolo retorico, tipico dello stile del suo tempo, con il quale dedica il trattatello a Michele Italico (vd. supra, p. 12, n. 6), elogiato qual novello Demostene, Platone ed Elio Aristide nello stesso tempo. Prodromo passa poi a confutare un brano delle Categorie in cui il grande e il piccolo, il molto e il poco sono inseriti nella categoria del prov" ti (relazione), anziché in quella del posovn (quantità) e non sono considerati come termini rispettivamente contrari tra loro. Con sei ejpiceirhvmata (dimostrazioni logiche) Prodromo tenta di proporre un’alternativa alle due tesi aristoteliche: tali ragionamenti filosofici, benché a giudizio di Tannery non siano tra i più sopraffini, paiono nondimeno degni di essere fatti conoscere al pubblico degli studiosi; e personalmente suggerirei insieme con il commento ad Anal. post. II. Per concludere: resta almeno in parte confermato il giudizio di Hörandner sulla mancata precellenza di Prodromo in tutti gli ambiti in cui si è cimentato, specialmente in quello filosofico; innegabile invece è la predilezione per una retorica di stampo pselliano in cui lo sforzo è applicato per ottenere una resa formale abbastanza curata piuttosto che l’originalità dei contenuti. Si potrebbe pertanto escogitare per Prodromo l’etichetta di “retore di terza sofistica”: se la prima è quella gorgiana e la seconda è quella inaugurata da Luciano, la terza è senz’altro quella dei bizantini classicheggianti, soprattutto di età comnena, che assorbono ed elaborano dai loro predecessori la bravura nel saper parlare, talvolta anche de nihilo. Committenti e destinatari della letteratura bizantina del XII sec. Negli ultimi decenni diversi studi sulla letteratura greca e latina si sono concentrati intorno a questioni in precedenza neglette, ma parimenti indispensabili all’esegesi, affinché essa non rimanesse attestata a un puro livello critico-testuale e grammaticale; in particolare, la questione per cui un’opera letteraria va descritta anche nei suoi rapporti con il pubblico a cui è rivolta, spesso nella forma di una performance pubblica, e con la committenza di un mecenate che l’ha richiesta.1 La letteratura bizantina, per parte sua, sta godendo solo negli ultimi decenni di analisi simili; ma ancora duro a morire è il vecchio pregiudizio che la vuole nel suo insieme tranquillamente definibile come letteratura elitaria priva di pubblico.2 Nel pregiudizio dimorano due imprecisioni: l’idea di fondo di Bisanzio come un unico calderone;3 e l’idea per cui la letteratura bizantina deve essere stata eminentemente destinata alla lettura personale e silenziosa. Certo, il confronto con la letteratura greca arcaica e classica e, in parte, con quella latina fino alla prima età imperiale mette in evidenza nella letteratura bizantina, presa nel suo insieme, la mancanza di alcuni generi 1 I problemi riguardanti un’opera letteraria, in questo caso del mondo classico antico, che qui mi interessa evidenziare sono: committenza VS libera iniziativa dell’autore (e quindi sua dipendenza o meno da mecenati, sua originalità o meno ecc.); composizione scritta VS performance orale (e quindi rifinitura del lavoro, improvvisazione ecc.). In sé implicano una discussione molto; mi limito a rimandare a pochissimi ed essenziali titoli: in Italia Gentili 1984; Conte 1991; Citroni 1995; La Penna, in particolare, si è orientato a rilevare il dramma dei poeti di età augustea, costretti a celebrare o, per lo meno, a non criticare apertamente con le proprie opere una politica che essi non condividevano nell’intimo (La Penna 1963, 1977, 1979, 2005); di qui un’indiretta svalutazione del prodotto letterario che perderebbe in genio e autonomia personale (due qualità essenziali nel giudizio di un’opera d’arte secondo l’impostazione estetico-marxista dello studioso). Vd. anche Gold 1982. 2 Così in passato studiosi di vaglia quali Lemerle 1960, p. 95 «littérature sans public et sans problèmes»; Jenkins 1963, p. 40 «no secular literature was written for a wide public, since no such public existed»; oggi il pregiudizio resiste specialmente tra i classicisti. 3 Ho tentato di comunicare il superamento di tale pregiudizio nel § Un’idea di Bisanzio. XXVIII espressamente drammatici: tragedia e commedia; ma anche più semplicemente recitativi, cioè eseguiti davanti a un uditorio, come epica, lirica, oratoria e storiografia. Nondimeno anche per la letteratura bizantina esiste ed è dimostrabile l’aspetto performativo: senz’altro è diverso, se comparato con quello del mondo classico; ma per essere apprezzato correttamente va anche contestualizzato, non solo confrontato. Mi limiterò ad alcuni esempi posteriori al Mille e situati a Costantinopoli, centro di irradiazione politica e culturale. Alcuni opusculi di Psello, sia in versi sia in prosa, sono dall’autore stesso definiti come improvvisati; Sternbach guarda a ciò con un certo dispetto come a una mera millanteria, quasi non fosse palese a tutti che la forma è curata a tavolino.1 Un epigramma ecfrastico di un certo Leone, vissuto nella seconda metà del XII sec., porta nel titolo la stessa indicazione di improvvisazione.2 Diversi epigrammi di Manuele File portano nel titolo l’indicazione aujqwrovn, cioè epigramma recitato sul momento, sull’immediato.3 Ora, il prodotto letterario così come è pervenuto a noi, rifinito ed elaborato, talora anche piuttosto lungo, può dare l’impressione di non essere frutto di una recitazione all’impronta. Le fasi, tuttavia, possono esser state due, similmente ai casi della poesia omerica, delle narrazioni erodotoee e delle orazioni di età greca classica: orale e scritta. La sostanziale differenza, specialmente con la poesia omerica, può tuttavia consistere in ciò: la composizione estemporanea di tali opere bizantine avrà costituito una fase comunque molto provvisoria, più breve e forse non profondamente influente sulla definitiva redazione scritta; e forse sarà esistito già nel momento orale un brogliaccio.4 A seconda del prodotto composto in maniera estemporanea, è possibile definire il luogo della performance: un epigramma di File introduttivo alla lettura di una pericope evangelica sarà stato recitato in un contesto religioso, davanti a un patriarca, a un vescovo, a un ecclesiastico; un’orazione di Psello, invece, sarà stata eseguita in contesto curiale, davanti a un funzionario, oppure in un più generico qevatron logikovn. Proprio quest’ultimo termine costituisce il punto nodale che aiuta a comprendere l’entità del pubblico destinatario delle satire di Prodromo. Per altre sue opere possiamo postulare con maggiore agilità una fase recitativa in presenza di un uditorio: le poesie storiche, e.g., tanto più per il fatto d’essere opere d’occasione (epitaffi, celebrazioni di 1 Sternbach 1903, p. 13 e n. 3; la poesia improvvisata è la XXI Westerink (In monachum Sabbaitam; il v. 8 suona oJ tw`n ijavmbwn ejscedivastai lovgo"); aggiungi anche Psell. Or. hag. IV 734 Fisher (Ὁ μὲν οὖν σχεδιασθεὶς οὗτος λόγος apre il paragrafo conclusivo dell’orazione). 2 L’inscriptio dell’epigramma (Lampsidis 1970, p. 394; l’epigramma per intero in Lampsidis 1997, dove l’inscriptio, già anticipata insieme con incipit e desinit del carme in Lampsidis 1970, è così stampata dalla fonte, Mon. gr. 525: Στίχοι  τοῦ  αὐτοῦ  Λέοντος  γεγονότες  αὐθωροὶ  κατὰ  πρόσταξιν  τοῦ  πανσεβάστου ἐκείνου λόγῳ δοκιμῆς, ὅτε προσεκύνησεν ἐκεῖνον ἐπὶ τῷ δουλεύειν, ἐν λίθῳ  φερούσῃ τὴν τῶν μουσῶν στήλωσιν λαξευτικῶς [sequitur ὡς in Lampsidis 1970] καὶ τὴν τῆς  Καλλιόπης  γύμνωσιν,  θαυμαστὴν  οὖσαν  τῇ  τοῦ  τεχνίτου  λαξεύσει.  È la descrizione di un’opera d’arte di cui Lampsides non sa dire con certezza se sia stata realmente vista o piuttosto inventata da Leone (sulla sua incerta identità, vd. Lampsidis 1970, p. 395 e n. 1 e Lampsides 1997, p. 107). Circa aujqwroiv Lampsides 1997, p. 107 non offre altro che la traduzione «improvisierte Verse». 3 Man. Phil. Epigr. Escor. (sez. I) CCXIV 224; Flor. (sez. II) CCX; Paris. (sez. III) XIII, XXIX, LXXI, CXI, CXVII, CLXVIII, CLXXIV, CXCIII, CXCVIII, CXCIX, CCIII, CCXXII, CCXXIV, CCXXV, CCXXVI; App. (sez. V) VII nr. 43; ed. Miller I-II. 4 Non saprei al momento fornire prove delle mie affermazioni; a lume di naso mi verrebbe da ammettere che la capacità di memoria nel periodo precedente all’invenzione dei supporti elettronici fosse superiore rispetto ad ora: l’assenza di ausili sostitutivi del cervello umano imponeva allo stesso un esercizio esorbitante, che lo sottraeva al pericolo di impigrirsi e rattrappirsi. Di conseguenza ammetterei anche per i professionisti della parola bizantini una certa abilità d’improvvisazione, anche se forse non comparabile con quella degli aedi omerici. Beck 1975, p. 49, e.g., riconosce proprio in oralità da una parte e scrittura dall’altra la principale spaccatura tra letteratura vernacolare e letteratura dotta bizantine, piuttosto che nei rispettivi registri linguistici: «die gelehrte Literatur kennt sie [sc. die Mündlichkeit] nicht, der geschriebene Text entspricht bis zu einem gewissen Grad dem Original». XXIX vittorie militari ecc.); ma anche i tetrastici sull’Antico e il Nuovo Testamento veicolano l’immagine di consessi curiali e religiosi in qualità di destinatari; parimenti dicasi dei trecento e più dodecasillabi giambici della Catomiomachia, scritti in forma di parodia di una tragedia (pur non avendone tutte le caratteristiche classiche, l’opuscolo si presta non solo alla recitazione di un unico parlante, ma persino alla divisione in parti); pure il romanzo Rodante e Dosicle avrà goduto dello stesso trattamento, se dobbiamo inferire dalle parole di Eustazio Macrembolite, contemporaneo di Prodromo, una messinscena drammatica;1 le lettere, poi, se non espressamente quelle dell’epistolario di Prodromo, almeno alcune di uno dei suoi destinatari, Michele Italico (vd. infra), venivano recitate pubblicamente nei qevatra logikav; delle satire, infine, non possiamo dimostrare la fase recitativa, ma d’altra parte nemmeno escluderla. È possibile testimoniare la pratica di lettura a voce alta di testi altrui sin dai tempi di Libanio, Sinesio di Cirene e Procopio di Gaza;2 dopo il Mille con Psello, Niceforo Gregora, Giovanni VI Cantacuzeno, Manuele II Paleologo, Demetrio Cidone e Giovanni Cortasmeno.3 Esistevano, dunque, riunioni durante le quali si porgeva, come in un’anteprima, un pezzo scritto all’attenzione di un uditorio scelto e letterariamente colto. Probante per il XII sec. la testimonianza di Michele Italico, uno dei maestri di Prodromo: nella lettera XVII a Niceforo Briennio, storico e marito di Anna Comnena, egli menziona l’occasione in cui una lettera del destinatario fu letta in un qevatron logikovn.4 In un’orazione, poi, Italico nomina apertamente l’imperatrice Irene Ducaina come arbitro della lettura pubblica; e alla fine della stessa orazione, Italico giustifica la sua introduzione di argomenti filosofici nella discussione con la preparazione acconcia posseduta dall’uditorio (kuvklo").5 Nella monodia dello stesso per Andronico Comneno veniamo a conoscenza di altri partecipanti alla cerchia.6 Questi passi da un lato testimoniano l’esistenza di un circolo, del suo patrono e della sua attività (lettura a voce alta di lettere e improvvisazione di discorsi); dall’altro non offrono dati chiari sui componenti, eccetto Anna Comnena, Niceforo Briennio, 1 Vd. la ripetizione del termine dra`ma in contesti che fanno pensare proprio a un’azione teatrale: Eust. Macr. Hysm. et Hysm. (II 6, 2 e 8, 5; V 10, 17; VI 16, 20; VII 3, 9; VIII 11, 9 e 14, 2; IX 10, 6; XI 12, 5; 22, 7 e 23, 9 Marcovich). In particolare da quest’ultimo passo XI 23, 9 Mullett, seguendo un suggerimento di Alexiou e prima ancora di Hunger, desume una sicura performance teatrale del romanzo. Qualcosa di simile avviene nei romanzi greci di età tardo-antica, quando il teatro, inteso in senso classico, non esisteva più da lunga pezza e si era ormai contratto a mimo e pantomimo o, addirittura, a occasionali interludi tra una manifestazione sportiva e l’altra: Heliod. VII 6-8; Charit. III 4, 7 sgg.; V 3, 4 e 8, 2. Vd. Hunger 1968, pp. 73-74. Sul teatro in età bizantina, vd. adn. ad Sat. 144 H., 124. 2 In un lasso di tempo che va dal IV sec. (Libanio) al V-VI (Procopio di Gaza). Per Sinesio, cfr. ep. CI Hercher ταύτην [sc. ejpistolhvn] ἀνέγνων ἡδέως τε ἅμα καὶ ἀγαμένως· ὠφείλετο γὰρ τὸ μὲν τῇ διαθέσει τῆς ψυχῆς, τὸ δὲ τῷ κάλλει τῆς γλώττης. καὶ δῆτα παρεσκεύασά σοι θέατρον ἐπὶ Λιβύης Ἑλληνικόν, ἀπαγγείλας ἥκειν ἀκροασομένους ἐλλογίμων γραμμάτων. 3 Vd. in generale Hunger 1965, p. 341. 4 Mich. Ital. Epist. XVII Gautier εἰς γὰρ λογικὸν θέατρον δοθεῖσα ἡ ἐπιστολὴ καὶ ἀνελιχθεῖσα φθόγγον ἀφῆκε καὶ μέλος, ὦ λόγοι καὶ Μοῦσα καὶ ῥητορεία κομψή, οὐκ οἶδα ὁπόσον καὶ οἷον, ὡς ᾖσεν, ὡς ὤνησεν, ὡς ἔνθους ὑφ’ ἡδονῆς ἀπειργάσατο. Εἰ δὲ μὴ κατεῖχε τὸ σῶφρον τοῦ μέλους καὶ τὸ στάσιμον τοῦ ῥυθμοῦ καὶ τὸ εὐπρεπὲς τῆς λέξεως κορυβάντων ἂν ἐνεπλήσθημεν καὶ ὁ τοῦ γράμματος κῆρυξ καὶ οἱ τῶν κηρυγμάτων ἀκροαταί. 5 Vd. Mich. Ital. Orat. XV, p. 147 Gautier (Λόγος αὐτοσχεδίως ῥηθεὶς εἰς τὴν βασιλίδα κυρὰν Εἰρήνην τὴν Δούκαιναν, ὅτε ἐπέτρεψεν αὐτῷ ἀποστοματίσαι λόγον) Ἐπεὶ καὶ τέττιγες ᾄδουσι λιγυρώτερον ἡλίῳ παραθαλπόμενοι καὶ χελιδόνες μουσικώτεραι γίνονται καὶ λαλίστεραι ἐφεστηκότος τοῦ ἔαρος, πῶς οὖν οὐκ εἰκότως θερμότερος γενοίμην εἰς λόγων γονάς, σοῦ μοι τήμερον ἀγωνοθετούσης, τῆς ἐμῆς δεσποίνης, τῆς ἐμῆς βασιλίδος, τῆς κηδεμόνος, τῆς μεγάλης προστάτιδος; e p. 151 Gautier εἰ δὲ καὶ μεταξὺ ῥητορεύοντες ἐφιλοσοφήσαμεν, ἀλλὰ πῶς ἂν ἑτέρως ἐπεξῆλθον τὸν λόγον, φιλοσόφου τοῦ ἀκροατηρίου τυγχάνοντος τῆς μεγάλης βασιλίδος, τῶν ἄλλων βασιλίδων, τοῦ καίσαρος, ὅπου γε οὐδ’ ὁ περὶ τὴν βασιλίδα κύκλος παντάπασιν ἀφιλόσοφος. 6 Mich. Ital. Orat. XI Gautier. XXX Andronico, Michele Italico e forse Giorgio Tornice.1 Sono anche testimoniati altri tipi di circoli privi di patrono: uno da Nicola Catafloro, maestro di Gregorio Antioco, che descrive un suvllogo" di una dozzina di sofisti, i quali eseguono pezzi letterari a imitazione degli antichi autori e nel contempo saltano e danzano, conseguendo tanta fama da essere invitati a esibirsi durante occasioni per lo più conviviali. Un altro è quello delle conventicole di donne le quali, sedute a cucire intorno a un padre spirituale, ascoltano le vite dei santi; un altro ancora è costituito dai kuvkloi o coroiv in cui, presente l’imperatore, vengono recitati discorsi; ci sono infine le congrèghe, per la verità in fase di estinzione nel XII sec., che attendono alla lettura a voce alta di nuovi inni e sermoni.2 Si tratta, in ogni caso, di circoli alquanto diversi dai qevatra logikav: tutto sommato questi ultimi rientravano, insieme con i tornei e le giostre, in quel programma di dispiego della magnificenza cortigiana. La difficoltà interpretativa, tuttavia, consiste nel capire se i partecipanti a tali qevatra componevano le proprie opere espressamente per un imperatore o se essi erano relativamente indipendenti e liberi. Secondo la Mullett, infatti, eccetto Prodromo non si trovano autori che siano allo stesso tempo scrittori ufficiali della corte e però solo parzialmente finanziati da essa come “poeti laureati”. Le opere del XII sec. sembrano esser nate in conseguenza di una commissione occasionale pagata a cottimo, piuttosto che di un obbligo ingenerato dalla condizione di cliente a vita. Lo dimostrerebbe il caso di Nicola Callicle: egli viveva del suo lavoro di archiatra, non di poeta, malgrado avesse composto carmi probabilmente commissionati dall’ambiente di corte. Altre opere, frutto di dediche e commissioni imperiali, sono la Panoplia di Eutimio Zigabeno, l’Alfabeto di Stefano Fisopalamite, il poema astrologico di Giovanni Camatero e i proverbi di Michele Glica. Questi circoli fluttuanti, allora, se non risultano legati a un imperatore in particolare, non sono nemmeno dipendenti dal patriarcato: pur essendo questo il luogo di una distinta produzione retorica e pur essendo molti destinatari parte di un pubblico ecclesiastico, è arduo credere che Michele Italico e Tzetze scrivessero solo per gli ecclesiastici come a un pubblico di un circolo letterario; tanto più che Tzetze adotta toni alquanto pungenti contro i monaci (vd. p. 21, n. 3 supra «Jeffreys 1974»). L’impressione è che i gruppi di lettura a cui Italico e Tzetze alludono siano più semplicemente classi di scuola in contesti di insegnamento della grammatica e della schedografia.3 Un’ulteriore tentativo di tracciare i lineamenti di questi circoli letterari ha spinto Chalandon a parlare addirittura di salotti diretti da nobildonne, spesso provenienti dalla famiglia imperiale e per giunta vedove; ipotesi che la Mullett sospetta possa indurre in anacronismi di gusto ottocentesco.4 Tali nobildonne sarebbero l’ex-regina Maria di Abasgia (moglie di Michele VII Duca, imperatore 1067-1078); Anna Dalassena (moglie di Giovanni Comneno, fratello di Isacco I, imperatore 1057-1059, e madre dell’imperatore Alessio I Comneno, 1081-1118); Irene Ducaina (moglie di Alessio I); Anna Comnena e Irene Sebastocratorissa (moglie di Andronico Sebastocratore II Comneno, secondo figlio di Giovanni II Comneno, il quale fu imperatore tra 1118 e 1143). Benché per tutte si possano addurre prove di opere a loro dedicate o da loro commissionate, mancano tuttavia per le prime due dimostrazioni patenti di qevatra da 1 Vd. l’orazione funebre per Anna Comnena di Giorgio Tornice n. XIV Darrouzès, in cui si allude, sia pur in maniera molto evasiva, ad Anna e Niceforo in connessione con Irene Ducaina come fautori delle Muse. 2 Vd. Mullett 1984, p. 176 e Magdalino 1993, p. 336. 3 Mich. Ital. Ep. XVIII Gautier invita un amico a un immaginario banchetto letterario, le cui pietanze sono per lo più gli autori canonici di scuola: storici come Erodoto e Tucidide, oratori come Isocrate e Demostene; filosofi come Platone e Aristotele; ma anche poeti come Pindaro e Saffo. Tzetze in Schol. rec. in Ar. Ran. 897a Koster (recensione del cod. Ambrosianus gr. C 222 inf.; vd. Wilson 1975, p. 6) fa riferimento a un seminario superiore di lettori esperti di classici aventi il libro alla mano. 4 Chalandon I-II. XXXI loro diretti; per la terza, invece, sappiamo che ella fondò il convento della Kecaritwmevnh a Costantinopoli, dove può aver promosso quel qevatron di cui parlano i contemporanei.1 Per Anna Comnena, malgrado sia indubitabile l’interesse per le belle lettere e persino l’aver favorito il lavoro di alcuni commentatori di Aristotele, non si può accertare l’esistenza di un “salotto” diverso da quello della madre Irene Ducaina. La Sebastocratorissa Irene, infine, ha ricevuto dediche e impartito commissioni; nondimeno, non è questa la dimostrazione, secondo la Mullett, di una cerchia riunita sotto la sua egida. I medesimi autori, infatti, hanno composto opere di altro tenore (satirico, parodico, novellistico), che non possono esser nate dietro impulso di Irene, come invece lo furono la Theogonia di Tzetze e la Grammatica di Prodromo.2 Non capisco la remora della Mullett, che cerca un unico motivo ispiratore per tutte le opere di uno stesso autore e alla fine non lo trova: sia perché gli autori bizantini del XII sec. paiono aver accettato commissioni provenienti da diverse parti; sia perché essi scrissero anche indipendentemente da un incarico, ovvero scrissero di libera iniziativa, sotto la spinta di sentimenti veramente provati e per un pubblico che condivideva la loro stessa formazione letteraria.3 In questa categoria, per l’appunto, è sensato inscrivere le satire di Teodoro Prodromo: per la credibilità delle accuse mosse e per il repertorio erudito che esse implicano. Si potrebbe affermare che Prodromo, uno dei professionisti della parola del suo tempo, scrive per la “corporazione” dei colleghi; una corporazione che, nondimeno, non pare aver attecchito nella società sì da ottenerne il pieno riconoscimento pecuniario atteso (come invece era accaduto con la sofistica del V s. a.C.). A riprova di ciò starebbero proprio il doppio lavoro di Nicola Callicle e le rimostranze di Prodromo contro i nuovi parvenus della cultura e contro il suo conseguente stato di miseria.4 Più oltre non spingerei le ipotesi sul pubblico delle satire di Prodromo: non potrei determinare con precisione se la sua cerchia fosse un qevatron logikovn di ampie dimensioni, con esponenti imperiali al suo interno; ovvero una più ristretta seduta di scuola, quale farebbero pensare le dotte citazioni e l’argomento delicato (critica velata alla politica della corte volta a circondarsi di incapaci); né potrei stabilire se tali satire venissero lette a voce alta da un solo parlante o, dove dialogiche, da più interpreti. Senz’altro escluderei categoricamente che esse siano un prodotto autoreferenziale di 1 Tra i suoi corrispondenti Niceforo Briennio, a cui ella commissionò la ”Ulh iJstoriva"; Nicola Catascepeno, autore della vita di S. Cirillo Fileote; Teofilatto di Ochrida; Nicola Callicle; Manuele Straboromano; nonché il nostro Teodoro Prodromo. 2 Teodoro Prodromo scrisse per lei quattro poesie d’occasione (Carm hist. XLIV-XLVII H.), un poema astronomico (n° 137 H.) e una grammatica (n° 138 H.); il Manganeios-Prodromos compose per lei alcune poesie; Tzetze fu da lei incaricato di stendere le opere Hesiodus atque Homerus e Theogonia; Costantino Manasse scrisse per lei encomi e le dedicò il Breviarium Chronicum; il monaco Giacomo scrisse per lei quarantacinque lettere di consigli spirituali. 3 D’altra parte la dedica di un’opera a qualcuno non rispecchia sempre e comunque un rapporto clientepatrono: il breve trattatello Sul grande e sul piccolo di Prodromo è dedicato al maestro e amico, ma non mecenate, Michele Italico. L’analisi del fenomeno, pertanto, sembrerebbe dover cambiare prospettiva: cercare di raggruppare non scrittori intorno a un unico patrono, per individuare una cerchia letteraria; bensì patroni intorno agli scrittori. Alcuni esempi: Nicola Callicle scrisse per Irene Ducaina, per Irene Sebastocratorissa, per Giovanni Arbanite e sua moglie Anna, per la moglie di Gregorio Camatero, per la vedova di Ruggero Sebastos, per il marito di Doceiana (carme XXII Romano), per l’imperatore Giovanni II Comneno. Teodoro Prodromo scrisse per Irene Ducena, per la corte di Giovanni II Comneno, per la famiglia di Anna Comnena, per Niceforo Katakalon Euforbeno, per i Contostefani, per Alessio Aristeno, per Teodoro Styppeiotes suo ex-allievo, per Zoe Botaneiatissa, per Costantino Alopo, per Andronico Camatero, per Isacco Sebastocratore, per Irene Sebastocratorissa (solo quattro poesie). Giovanni Tzetze scrisse per Bertha von Sulzbach, prima moglie dell’imperatore Manuele I Comneno, e alla morte di lei per Costantino Cotertze, come si apprende dalla doppia dedica delle Iliadis Allegoriae. 4 Sui topoi della Betteldichtung vd. p. 14, n. 8 supra («Lauxtermann 2003»); sui rapporti tra poesie storiche e satire, vd. il § Ellenismo in Prodromo supra. XXXII solitario esercizio retorico: si tratta di un concetto che ho sentito pronunciare da alcuni studiosi, ma che a mio parere è un idolum scholae. Nemmeno i progymnasmata di età tardo-antica, con tutta la loro casistica giudiziaria fittizia; nemmeno il gigantesco corpus epistolografico e retorico di Libanio, ovvero parte di quello omiletico del Crisostomo; o, infine, nemmeno le poesie latine e greche di Leopardi fanciullo possono essere trattati come opera meramente autoreferenziale; un destinatario minimo acquisito per tutti questi esempi esiste: scuola, assemblea dei fedeli, famiglia, cerchia dei colleghi e/o degli amici; ciò che fa la differenza tra essi è il numero di consistenza. A determinare quest’ultimo può essere talora d’aiuto lo stato della tradizione testuale: tanti mss., vasta diffusione; o viceversa. Il sospetto, tuttavia, che nello stemma codicum di ogni opera classica e bizantina almeno un esemplare sia andato perduto menoma la verisimiglianza delle nostre conclusioni; tanto più se la ricerca è circoscritta a un solo secolo (qui il XII) e a un’opera che non è né il Vangelo, né Omero. Il caso delle satire di Prodromo, per l’appunto, è uno di essi: se mai sono esistiti esemplari del XII sec. oltre all’indispensabile autografo/idiografo, essi sono andati irrimediabilmente perduti. La Satira 140 H. Contro la vecchia lussuriosa, poi, appare come la più copiata in assoluto, ma dal XIII sec. in poi; delle altre, infine, alcune sopravvivono addirittura solo in V (vd. infra, § I codici). Le satire, insomma, pur con tutte le attenuanti sopraesposte, restano pur sempre produzione elitaria, ossia per pochi destinatari, per giunta nemmeno nominabili.1 Altri sono i generi che gettano maggior luce sull’identità dei destinatari: persino quelli dal codice stilistico molto marcato, formale, addirittura protocollare, rivelano legami personali utili a ricostruire i circoli di fruizione. Così è per le orazioni funebri, le monodie, i basilikoi; lovgoi, le lezioni inaugurali, gli epistolari. Questi ultimi, in particolare, dietro la diversità negli appellativi impiegati per i destinatari, nella lunghezza delle lettere, nello stile espressivo, nell’argomento trattato potrebbero nascondere altrettanti indizi per definire i livelli di confidenza tra mittente e destinatario. Le lettere di Prodromo stesso rientrano nella categoria. Infine, per dare un’idea generale dell’estrazione sociale dei componenti di questa res publica litterarum, non sarà vano comunicare il conteggio comunicato da E. e M. Jeffreys.2 Il rango viene ricavato dalla fase conclusiva della carriera, il che inevitabilmente induce a formare un’immagine un po’ distorta: verso la fine della vita si raggiunge per lo più il livello sociale più alto. Su 122 autori del XII sec., per un totale di 198 opere, 2/3 sono ecclesiastici (di cui 1/3 vescovi, 1/2 vescovi + patriarchi); seguono i maestri (di ogni livello) e subito dopo i funzionari civili; quindi i funzionari ecclesiastici e infine i membri della famiglia reale. Gli autori indipendenti e quelli prezzolati sono una sparuta minoranza, quasi allo stesso livello di soldati, dottori e segretari. La preminenza dei religiosi è ovvia: alla fine di una carriera non di rado si vestiva l’abito 1 Secondo Beck 1975, pp. 47 è più facile identificare autore, sue ambizioni e pubblico (eminentemente di lettori) nella letteratura bizantina in greco dotto piuttosto che in quella in greco vernacolare. Inoltre non si può far corrispondere letteratura vernacolare al concetto di solo pubblico popolare ignorante: persino i canti popolari devono aver cominciato a diffondersi nelle sale dei magnati prima che tra la torma dei loro servitori. Non è, infatti, sempre e solo il registro stilistico, ovvero la lingua usata, che demarca il confine tra pubblico della letteratura in greco dotto e quello della letteratura in greco vernacolare. Se della prima si può esser quasi sicuri che non era capita dall’uomo bizantino mediamente istruito, circa la seconda invece non si può certo escludere l’erudito dalle file di autori e pubblico (Beck 1975, p. 55). Scrive infine Beck 1975, p. 64, confrontando la satira in greco dotto e quella in greco vernacolare della tarda età bizantina-prima età neogreca (secc. XIV-XV): «auch Satire kennt die frühere byzantinische Literatur zur Genüge. Aber zumeist war es eine Satire von Gelehrten, von Literaten und Höflingen gegen Gelehrte, Literaten und Höflinge». 2 Riportato da Mullett 1984, pp. 185-186, ma non pubblicato negli atti del convegno per cui la studiosa scrisse il proprio contributo. XXXIII monacale o, se già indossato in precedenza, si era assegnati a una sede di prestigio.1 Lo stesso conteggio eseguito sui destinatari (riconoscibili e nominati) rivela alcuni ribaltamenti: la categoria più rappresentata è quella dei funzionari civili.2 Seguono i patriarchi e i membri della casa reale (esclusi gli imperatori); a grande distanza vengono i vescovi e i monaci; i funzionari ecclesiastici rappresentano un numero identico agli autori; mentre soldati, dottori, basso clero e grammatikoiv sono molto più numerosi che i corrispondenti autori. Anche qui alcuni numeri esigui possono essere distorti da due fatti: i monaci forse non avevano interesse a commissionare opere o a ricevere lettere; le opere di monaci sono forse sopravvissute per motivi devozionali, che non incontrano quelli personali di uno scambio epistolare, andato quindi perduto. Comunque sia, l’esame ricavato da questo duplice campione dimostra che gli stessi ceti sociali sono rappresentati da entrambe le parti, a riprova dell’omogeneità della res publica litterarum. I codici Uno stemma codicum unitario di tutte le opere di Prodromo non mi è stato possibile ricostruire, poiché nessun manoscritto contiene sempre l’intero corpus a lui ascritto come autentico; in altri termini, non esiste ora un codice che rappresenti un’edizione complessiva delle opere di Prodromo. Il codice più ricco e più antico in assoluto è V, che nondimeno palesa alcune, ancorché poche, lacune nel corpus.3 Gli editori più recenti delle opere più ampie hanno tentato di circoscrivere certe famiglie, sulla base di segni probanti di parentela, come gli errori unificanti e separanti.4 In riferimento alle sette satire qui edite, tràdite tutte per lo meno da V, si può profilare la seguente descrizione: -tradizione a codex unicus: 146, 147, 148, 149 H.: V (v e o sono suoi patenti apografi di età moderna); -tradizione a due codici indipendenti (?): 144 H. [aggiungo anche il testo 145, che non è satira, ma trattatello sul colore verde]: V, Bar1 e Matr2 [Matr1 per 145]; ciascuno dei due Matritenses sembra apografo di uno dei due precedenti, più probabilmente Bar1, come dimostra e.g. la lezione di 144 H., 133 ajreth`" prokataballovmeno" V [Pod. (Rom.)]: ajreth`"ª...ºta ballovmeno" Bar1, Bar2 (Cr.): ajreth`" kataballovmeno" Matr2 (Ir.); -tradizione a più codici indipendenti (?): 140 e 141 H. L’ordine di edizione dei sette testi è per raggruppamenti: 140-141 (testi poetici); 144- 148-149 (testi in prosa monologici); 146-147 (testi in prosa dialogici). Rimando al § Conspectus siglorum che precede l’edizione vera e propria dei testi per le notizie tecniche essenziali sui codici e i loro contenuti; mi riservo nondimeno di 1 Per il primo caso vd. Prodromo stesso (cfr. supra § Biografia); per il secondo Michele Italico, nominato arcivescovo di Filippopoli (cfr. Browning 1962). Entrambi furono insegnanti in una fase iniziale e centrale della loro esistenza; ma senz’altro non rappresentarono la regola di una professione letteraria con la quale sola si poteva campare (cfr. Weiss 1973, p. 7). 2 Il motivo, a mio parere, va ricollegato al pensiero di Magdalino 1993, p. 389: gli ecclesiastici scriventi mostrano maggiore affinità con le persone esterne piuttosto che interne al loro ambito d’azione, purché condividano con loro il codice imparato a scuola e messo alla prova nel qevatron logikovn della performance retorica. Tzetze ed Eustazio di Tessalonica sono esempi lampanti di religiosi mordaci nei confronti dei monaci che sono rispettivamente loro confratelli ovvero sottoposti (vd. p. 21, n. 3). 3 Un’idea complessiva del corpus prodromeo e dei mss. che lo tramandano si può ricavare dall’elenco dettagliatissimo di Hörandner 1974, pp. 37-56. 4 Hörandner 1974, pp. 166-174 e Papagiannis 1997, pp. 76-163. XXXIV fornire una descrizione completa degli stessi in un secondo momento, in vista dell’eventuale pubblicazione del mio lavoro. Constitutio textus Le varianti dei codici diversi da V non apportano significativi miglioramenti; nel caso di 140 e 141, addirittura, i codici, grosso modo contemporanei a V, testimoniano una tale disomogeneità grafica, che a volte l’editore preferirebbe non esservisi mai imbattuto. Ho deciso, nondimeno, di garantire un posto anche a tali varianti, benché i manoscritti prodromei non siano mai autografi. Spesso il consensus codicum ha assolto per me la funzione di prova della genuinità di una lezione tràdita; ma dove esso mancava, o per il contrario dissenso, o per l’assenza di altri testimoni, ritengo di aver trovato la corretta giustificazione volta per volta in paralleli raccolti da altri autori tardo-bizantini. Lo spicilegium da me effettuato, dunque, potrebbe servire a editori futuri. Ho voluto l’apparato critico misto, a seconda della chiarezza del testo. Oltre alle varianti che ho reputato di riconoscere come autoriali, vi si troveranno le congetture e le emendazioni più rilevanti, nonché la condizione della tradizione; i dati vengono presentati dal generale al particolare; i manoscritti sono enumerati nell’ordine fornito da Hörandner. Per quanto riguarda, poi, i testi in dodecasillabi 140 e 141 H., rappresentati dal più alto numero di mss., ho voluto mettere in apparato tutte le varianti rinvenute, anche quelle irrilevanti per la costituzione del testo e provenienti da codici recentiores atque deteriores; in tal modo credo di aver non tanto istituito confusione, quanto piuttosto descritto panoramicamente lo stato della tradizione, a livello informativo. Nello stabilire il testo mi sono ispirato a criteri conservativi, impegnandomi a capire e giustificare con paralleli la lezione tràdita, salvo nei casi in cui s’imponesse di necessità un’emendazione: un atteggiamento a me parso doveroso, di fronte a un usus scrittorio che non si lascia ridurre univocamente ai canoni dei modelli attici e atticisti di riferimento. Per quanto concerne, poi, gli orthographica, capitolo abbastanza delicato in presenza di manoscritti che non sono né autografi, né sorvegliati dall’autore, né provenienti dalla cerchia dei suoi collaboratori, occorre qualche osservazione preliminare. Per orthographica intendo qui tutto ciò che è riconducibile alla grande categoria “grammatica”: non solo, quindi, le varianti fonetiche, bensì anche quelle morfologiche e sintattiche; varianti, poi, vengono definite nei confronti dei testi dei classici, dai quali Prodromo traeva la sua ispirazione stilistico-linguistica. Tali particolarità non furono trattate nella storia dell’ecdotica fin da subito con il dovuto rispetto conservativo.1 I filologi, infatti, che a partire dall’Ottocento 1 Vd. Maltese 1995, pp. 91-121 il quale lamenta la mancanza di un criterio concordemente adottato da tutti gli editori di testi bizantini, volto a rispettare l’ortografia d’autore soprattutto in casi di autografi certi; criterio, invece, acquisito da tempo più lungo in altre branche dell’ecdotica, e.g. dei testi in volgare italiano o in latino medievale. Chi tra gli italianisti oserebbe scrivere il petrarchesco «pace non trovo et non ò da far guerra» secondo la grafia italiana contemporanea «pace non trovo e non ho da far guerra»? Tanto più in presenza del ms. Vat. Lat. 3195, in parte autografo, in parte idiografo di Petrarca (cioè di mano sia di Petrarca, sia di Giovanni Malpaghini da Ravenna, attentamente sorvegliato dal primo). Oppure quale editore ripristinerebbe nel latino di Petrarca (nonché di Dante, che pure non ci lasciò autografi) i dittonghi ae, per prendere un esempio a caso? È invece coerente scrivere e, ossia la vocale anzitutto corrispondente alla pronuncia fonetica del tempo, ormai in voga dalla latinità tardo-antica, poi direttamente derivante dal modello dei mss., sp. coevi, allora a disposizione. Solo con gli umanisti, inventori della littera antiqua, e in particolare con Poggio Bracciolini, piuttosto che con Coluccio Salutati, si riabilitò la grafia ae, passando attraverso la fase intermedia di ę lievemente cedigliato in basso o dotato di appendice sinistra in forma di sola pancia della a, per giungere all’ ae ben distinto dei tempi di Cicerone. Questo ripristino si deve al fatto che gli umanisti preferivano leggere manoscritti in grafia larga e chiara, ossia in carolina, specialmente italiana del XII sec., piuttosto che nell’involuta e arzigogolata gotica o nella semigotica e.g. di Petrarca, meno astrusa della predetta ma mantenente la tipica fusione dei XXXV cominciavano a pubblicare i testi bizantini erano o filologi classici tout court, come Bekker; oppure provenivano da formazioni classiche, come il pioniere della bizantinistica Krumbacher. Prescindo dal giudicare le loro condizioni di collazione meno affinate di quelle odierne: essi accedevano non di rado solo agli esemplari manoscritti a loro più prossimi nello spazio, senza cura per la loro bontà testimoniale; oppure eliminavano pregiudizialmente testimoni recenziori senza nemmeno uno sguardo. Ma a parte questo, anche nei casi più fortunati di collazione di tutti i testimoni (o perché pochi o perché tutti raggiungibili o per simili ragioni), codesti filologi non potevano fare a meno di tener conto della lezione degli autori classici: perché erano quelli su cui gli studi erano più affermati; e perché costituivano il modello diretto degli autori bizantini che essi andavano pubblicando. Ciò ha comportato in molti casi una predilezione per un trattamento normalizzante del testo: “aberrazioni” ortografiche, anche per così dire lievi, sono state ricondotte alla forma di parole già note tràdita dai cosiddetti boni codices di autori classici o raccomandata dai grammatici tardo-antichi;1 oppure parole nuove non sono state subito riconosciute e perciò stesso sostituite con quelle già tesaurizzate. Chiaramente non tutti i bizantinisti, di professione oppure occasionali, si sono comportati così; ma la tendenza manifestatasi agli inizi si è rivelata dura a morire e appare oggi tanto più inconcepibile in presenza di autografi.2 Pur, dunque, nella duplice consapevolezza che sussistono oscillazioni ortografiche da autore ad autore, da secolo a secolo, e che di Prodromo non si possiedono né autografi, né idiografi e, pertanto, il suo usus non è altrettanto ricostruibile come quello di Eustazio, tuttavia ho deciso di elencare e talora mantenere le particolarità ortografiche dei manoscritti prodromei, come hanno fatto nelle loro pregevoli edizioni prodromee Hörandner e Papagiannis, nonché Reinsch per Anna Comnena.3 Ciò serve a testimoniare meglio il mutamento della lingua greca in un’epoca tratti contigui; si aggiungano come ulteriori motivi ispiratori di questa nuova grafia il ritrovamento di codici antichi (anteriori alla traslitterazione in minuscola carolina) e l’attenta osservazione di certe epigrafi romane. Vd. in proposito brevemente Petrucci 1992, p. 171 sgg. con bibliografia cit., sp. Ullman 1960, p. 12 (e tav. 7, Vat. Ottob. lat. 349, f. 161r, sec. XIV, non autografo, ln. 11 illa quę dixi; tav. 8, Laur. Marc. 284, f. 77v, Salutati, ln. 8 hec ego publice sup(er)sedi; tav. 13, Laur. Strozz. 96, f. 22, Poggio 1402-1403, ln. 5 malor(um) quæ videntur turpia). Sull’opportunità di formarsi una coscienza del senso storico della lingua e dell’usus scribendi degli autori medio- e tardo-bizantini, vd. anche Romano 1974, p. 41 che rimanda a Dölger 1961, pp. 22 sgg. [= Dölger 1955] e, anche se diversamente orientato, a Westerink 1973, pp. 9-16. Importanti al riguardo anche gli studi di Noret 1985, 1987, 1995, 1998 e, da ultimo, Liverani 1999 e 2000. 1 In verità il panorama dell’ortografia greca classica presenta di per sé sistemi tra loro antitetici, come si evince dagli studi di Laum 1928 e di Mazzucchi 1997. 2 Nell’introduzione all’edizione van der Valk I, l’editore elenca minuziosamente caratteristiche e incoerenze grafiche di Eustazio, contemporaneo di Prodromo; a testo, tuttavia, standardizza la grafia giusta l’uso vigente per gli autori greci classici. Si tratta, credo, di un comportamento di compromesso: van der Valk è stato il primo editore contemporaneo di Eustazio dai tempi di Stallbaum e non ha avuto dietro a sé predecessori sicuri e chiari in rebus orthographicis byzantinis; inoltre nella sua decisione avrà forse giocato un ruolo anche la constatazione del fatto che Eustazio (e in genere molti altri commentatori, a lui sia precedenti sia contemporanei, sia successivi) rifonde materiale pre-bizantino. Ciò vale tanto più nell’edizione di scoli appartenenti a una stessa opera (e.g. Omero, Aristofane), ma derivanti da autori tra loro lontanissimi nel tempo: pubblicare nella stessa riga o pagina uno scolio omerico di Aristarco con un sistema accentuativo e uno di Nicola-Nettario con un altro risulterebbe assai sconcertante per il lettore; onde il conguaglio sullo standard diventa quasi obbligatorio. Così infatti si comportano Koster-Massa Positano-Wilson-Holwerda in Scholia recentiora in Aristophanem di Tzetze, contemporaneo di Prodromo; nonché Erbse I e Pontani 2007 con gli scoli omerici. 3 Reinsch 2001, pp. 34*-57*. Alcuni bizantinisti, ancora negli anni Settanta del XX sec., erano convinti che la copiatura delle opere scritte in greco dotto fosse stata trattata con molto rispetto per la grafia classicizzante; mentre le opere medievali in greco vernacolare, sorte a partire dal XII sec. e a noi pervenute in forma frammentaria, rivelerebbero una certa “anarchia”, non solo grafica, ma anche contenutistica; così Beck 1975, p. 48. XXXVI in cui la diglossia degli scrittori è un fatto sicuro: la reviviscenza da parte loro di un idioma quasi totalmente libresco si configura come un atto artificiale contrario alla pratica quotidiana di un’altra lingua. La fonte della lingua morta consta dei soli autori antichi e tardo-antichi letti nei codici; nessuno più dei contemporanei, invece, parla e scrive spontaneamente così.1 Ciò che non si rinviene nei codici e nelle grammatiche, dunque, non è recuperabile altrove. Si aggiunga, poi, l’effetto della lingua greco-volgare realmente parlata: essa, come tutte le lingue madri, affiora inevitabilmente alla mente di tali autori arcaizzanti; e, ponendosi come semplificazione della lingua letteraria, da cui pure deriva, contamina le conoscenze grammaticali di quella antica.2 Alla luce di codesta controtendenza, allora, le percezioni che più si notano indebolite sono: dell’aspirazione; della doppia consonante; della dicronia delle vocali a, i, u e della diversa lunghezza delle coppie e/o, h/w; dell’utilità dell’accento circonflesso (conseguente alla precedente) e dell’accento in genere. Chiaramente, nelle opere di Prodromo, il cui ms. più antico data a un secolo dopo il floruit dell’autore, è ancora visibile una fase transitoria, in cui la perdita di tali sensibilità non è definitiva (come lo è, invece, nel greco moderno); convive invece con le conoscenze del modello linguistico precedente, con scambi continui dall’uno all’altro registro linguistico. 1) Punteggiatura Non sarà inopportuno rammentare che nei codici bizantini la punteggiatura ha un valore diverso da quello della punteggiatura nelle lingue moderne, specialmente europee. Anzitutto i segni, derivanti in parte dalla teoria grammaticale ellenistica e tardo-antica e applicati dagli scriventi bizantini sia a testi preesistenti (e.g. Platone) da loro copiati, sia a quelli propri di bel nuovo stesi, servivano a indicare non già pause logiche del discorso, bensì inflessioni di voce ascendente o discendente da tenere nella lettura, ovvero transizioni da un kw`lon all’altro della medesima proposizione; ciò spiega la posizione per noi anomala di alcuni segni tra soggetto e verbo, articolo e sostantivo e simili.3 Si aggiunga che tra i vari segni bizantini, nessuno ha un uso esattamente identico a un nostro segno delle lingue moderne europee; anzi graficamente qualcuno può apparire decettivo (e.g. il punto in basso non corrisponde al moderno punto fermo).4 Persino là dove c’è somiglianza di un segno greco con un segno moderno, si riscontra pure un altro valore nel segno greco, oppure uno stesso valore è rivestito da due simili segni greci (e.g. l’ uJpostigmhv, ora in basso ora in alto, può indicare l’inizio della principale, segnalare gli elementi costitutivi di un periodo ipotetico, chiudere una parentetica).5 Ora, senza voler ripetere le indagini degli studiosi finora citati, sia sufficiente qui por mente al fatto che, in presenza di un autografo bizantino, quale potrebbe essere 1 E questo era motivo di grande scandalo per Pasquali 1968, p. 349 sgg., che contrapponeva genericamente ai greci medievali atticizzanti, abominatori del vernacolo, il genio di Dante e Petrarca, teorizzatori e utilizzatori della nuova lingua volgare contemporaneamente a quella latina, in cui del resto non avrebbero dato la miglior prova di originalità. Pasquali, nondimeno, riconosce ai soli autori di età comnena l’interesse per il vernacolo, che colloca però su un piano inferiore rispetto a quello dei trecentisti italiani, perché a suo parere dovuto all’influenza dei generi romanzi occidentali. Chiaramente Pasquali abbozza la sua teoria, senza fondarla con certissime prove; e questo è un segno di quel pregiudizio restio a modificarsi, non privo di un certo compiacimento nazionalistico e di qualche venatura romantica, per cui nella letteratura popolare e volgare, non in quella latina, riposerebbe la grandezza culturale dell’Europa occidentale medievale. 2 Vd. Hunger 1978. 3 Vd. Perria 1991, p. 206. 4 Vd. Mazzucchi 1997, p. 131 e n. 10. 5 Vd. Gaffuri 1994, p. 99 sgg. e Mazzucchi 1997, pp. 133-134. XXXVII Eustazio,1 la segnalazione della sua punteggiatura assume la medesima rilevanza storica e onestà ecdotica del rispetto degli orthographica; tale segnalazione non può essere pertanto pretermessa con una tacita normalizzazione. D’altra parte persino per il bizantinista, che pure ha una formazione di base nella sua lingua madre moderna e nel greco classico (come del resto gli autori che studia), vedo scarsamente intellegibile un testo che conservi pedissequamente il sistema d’interpunzione dell’autore bizantino: si tratterebbe sì di un totale rispetto filologico, ma nel contempo anche di una non esigua fonte di confusione.2 Né mi sembra sicuramente applicabile un sistema interpuntivo nuovo, quale lo propone Mazzucchi,3 diverso da quello tuttora in voga, il quale, derivando da abitudini comparse nelle stampe e influenzate via via da caratteristiche che gli editori di volta in volta desumevano, più o meno inconsciamente, dalla propria lingua nazionale, sarebbe antistorico; saremmo, nondimeno, a mio avviso di fronte a una ricostruzione che, per quanto giustificata nei rimandi all’antico, tornerebbe ostica nei confronti del sistema consolidato.4 Nel nostro caso prodromeo, ossia di un manoscritto né autografo, né idiografo, sarà bene attenersi alla tradizione classica nella punteggiatura, ancor più che nella grafia, proprio per ragioni di chiarezza nella lettura: il testo mi pare da sé poco piano, per la sua involuzione sintattica, onde una limpidezza interpuntiva non può far altro che giovare. Nondimeno per offrire un saggio della punteggiatura di V, il ms. che per la sua antichità meglio potrebbe riprodurre la punteggiatura dell’autore, riporterò le prime linee del testo 144, secondo quel sistema, in calce al testo da me edito e interpunto.5 Si trovano virgole, punti in basso, punti in alto, dicola (ossia il segno :, specialmente dopo le personarum notae nei dialoghi); talora anche punto e virgola (e.g. V, f. 59v , ln. 21 = Sat. 146 H., 26 ajntirrhvsei", ma con il valore non di punto interrogativo, bensì di punto in alto;6 in V, f. 100v, ln. 17b = Sat. 141 H., 48 kosmivou" invece il ; vale per quel che lo conosciamo noi contemporanei). Ho ridotto tutto a un uso simile a quello dell’italiano, per un semplice motivo di chiarezza, soprattutto nei casi in cui l’originale eccede; e sono certo di non esser venuto meno alla mia coerenza conservativa.7 2) Accenti 1 Cfr. Liverani 2001. 2 Mazzucchi 1997, p. 140 propone proprio tale rispetto totale nei casi di autografi bizantini, richiamandosi a due studi di Maltese 1993 e 1995; questi, tuttavia, concernono gli orthographica, esclusa la punteggiatura. 3 Mazzucchi 1997, pp. 137-138. 4 Corrisponderebbe all’imposizione della lettura del greco antico secondo la pronunzia erasmiana ai greci odierni, che, forse anche per ragioni di nazionalismo, appaiono assai affezionati alla loro improbabile pronunzia bizantina; e lo stesso dicasi per quegli italiani che per tradizione si ostinano a leggere Virgilio senza restituta. 5 Mazzucchi 1997, pp. 140-143 mostra il caso di un ms. demostenico (Par. gr. 2934) che conserva, a distanza di mille anni, buona parte della punteggiatura di un papiro del I sec. d.C. (POxy. IX 1182), il quale, a sua volta, potrebbe rispecchiare anche nell’interpunzione l’assetto dell’ed. ellenistica di Demostene. 6 Su quest’uso anomalo del … vd. Liverani 2001, pp. 192-196. 7 Mazzucchi 1997, pp. 130-132 invece si oppone all’uso delle punteggiature nazionali dei rispettivi editori. XXXVIII Ho normalizzato sul modello classico, purché ben attestato anche in altri autori tardobizantini, grafie come:1 Sat. 144 H., 99 a[ra V: a\ra cum Bar1-2 ac Matr2 scripsi (per evitare la confusione tra le due particelle di diverso significato); Sat. 144 H., 131 ajnafuvnai (omnes): ajnafu`nai cum Pod.(-Rom.) scripsi (con u breve si ritrova in Prodr. Tetr. in VT et NT Ex. XLVb 1 (cum app.) e 3Reg. CLXXIV b 1; ma in entrambi i casi poetici la sillaba breve è giustificata metri causa); Sat. 148 H., 67 h] ta;" ejx ∆Oluvmpou Mouvsa": h|/ ktl. Pod.(-Rom.) (vd. n. ad l.); Sat. 149 H., 71 h] gavr V (Pod.-Rom.): h\ gavr scripsi; Sat. 146 H., 81 qugatridhvn V: qugatridh`n scripsi; Sat. 141 H., 23 kuvna H, N, V, P, Atho1: ku`na Vin1, Mon (svista dei recentiores). -Ho conservato, invece, l’accento tràdito deviante: Sat. 140 H., 28 parossitono Kamarivna (atteso proparossitono Kamavrina), perché accettato anche in edd. di altri autori (vd. n. ad l.); Sat. 146 H., 313 neavnin (atteso nea`nin), perché giustificato dalla sede metrica breve (vd. n. ad l.). -Ho conservato l’alternanza: Sat. 146 H., 44 rJovan VS 220 rJoai`", segno di confusione nell’attribuzione delle rispettive caratteristiche accentuative di due allografi concorrenti (rJova VS rJoiav); -Accentazione delle enclitiche. Ho seguito le moderne regole, perché quelle dei codd. (V soprattutto) rispondono a criteri non sempre coerenti e oggi talora fuorvianti;2 fornisco qui alcuni esempi: Sat. 144 H., 9 ∆Apovllwni potev (omnes): ∆Apovllwniv pote scripsi (cum Pod.-Rom.); Sat. 144 H., 22 oi|o" tev eijmiv (V, Bar1, Cr. qui vero accentum supra eijmi omisit): oi|ov" tev eijmi cum Bar2, Matr2, Ir. scripsi; Sat. 144 H., 57 ei\nai moi (omnes) : ei\naiv moi scripsi (cum Cr., Pod.-Rom.); Sat. 144 H., 67 miva e[sti pou (V): miva ejstiv pou possis (partim cum Pod.-Rom., vd. app. ad l.); Sat. 144 H., 95 kataneu`on sou (omnes): kataneu`ovn sou scripsi (Pod.-Rom. secutus); Sat. 144 H., 97 a[llouv tou (codd., Cr. et Ir.): a[llou tou scripsi (Pod.-Rom. secutus) ; Sat. 148 H., 7 Kw`o" fhsiv (V): Kw`ov" fhsi scripsi (Pod., Rom. secutus); Sat. 148 H., 39 skapanei`" eijsiv (V): skapanei`" eijsi scripsi (Pod., Rom. secutus); Sat. 148 H., 73 oJpoi`oi tinev" (V): oJpoi`oiv tine" scripsi (cum Pod.-Rom.); Sat. 149 H., 56 kai; soiv (V, che propriamente scrive kaiv soi;; Pod.-Rom.): kaiv soi possis (secondo le grammatiche, soi è sia enclitico, sia ortotonico; il secondo compare solitamente quando la persona dev’essere posta in rilievo, ovvero dopo preposizioni; probabilmente qui Prodromo avrà istituito un po’ di confusione, che mantengo); Sat. 146 H., 280 Filivan pw`" (V): Filivan pw" scripsi; (l’accentuazione tràdita potrebbe indurre alla confusione del pw" indefinito, richiesto dal contesto, con il pw`" interrogativo; cfr. infatti Sat. 144 H., 158 ei[ pw" [omnes]); 1 Prima dei : riporto la grafia da correggere; dopo i : quella da me direttamente emendata o rinvenuta in altri mss. ovvero edd. e da me riprodotta a testo. 2 Per moderne regole intendo quelle prescritte da Schwyzer I, p. 388 sgg.; diverse regole in Barrett 1964, pp. 424-427. Papagiannis 1997 e Reinsch 2001 cercano di rispettare l’uso tràdito dai mss. e considerato risalire agli autori stessi, anche in presenza di codici non autografi; sul loro criterio ecdotico, insieme con quello degli editori di scoli, vd. p. 36, n. 1. XXXIX Sat. 147 H., 409 patrw/`o" e[stin (V, ubi compendium pro ejsti apparet): patrw/`ov" ejstin cum Du Th. scripsi (cfr. 144 H., 67) Sat. 147 H., 423 ajnqrwvpoi" e[sti (V; e[sti sine compendio): ajnqrwvpoi" ejstiv cum Du Th. scripsi. Ti" dopo parola ossitona non accentato e.g.: 144 H., 113 (V, f. 52v, l. 7) eij mhv ti" (secondo Reinsch 2001, p. 41* nei mss. medio- e tardo-bizantini di Anna Comnena il pronome indefinito ti"/ti diventa ortotonico dopo sostantivo ossitono, eccetto pochi casi, onde il nostro rientra nell’eccezione). Regolari secondo le regole succitate:1 Sat. 144 H., 52 ajrnhtevon soi (omnes); Sat. 144 H., 92 bouvlei sou (omnes, exceptis Pod.-Rom., qui soi praebent); Sat. 144 H., 102 ajdelfav soi (omnes); Sat. 144 H., 116 e[sfaltaiv soi (V, f. 52v, l. 10); Sat. 144 H., 117: ei[ moi (omnes); Sat. 144 H., 118: a[n soi (omnes); Sat. 144 H., 121 povnwn soi (omnes, exceptis Pod.-Rom., qui povnwn kaiv perperam scribunt); Sat. 144 H., 124 h] puvqou moi (omnes, exc. Pod.-Rom., qui ejpuvqou moi perperam scribunt); Sat. 144 H., 129 gou`n tina (omnes); Sat. 144 H., 131: e[dei se (omnes); Sat.144 H., 140 ejxistamevnou" soi (omnes); Sat. 148 H., 10 ai[sqhmav ti (V); Sat. 148 H., 86 oi|av ti" (V); Sat. 148 H., 92 lamprovtatovn mou (V); Sat. 149 H., 56 ejxenantivon soi (V) Sat. 149 H., 64 ejbavlou potev (V) ecc. Strana la seguente accentazione: Sat. 144 H., 111 dwrw`n men (sic omnes, Matr2 exc.): dwvrwn mevn cum Pod. (Rom.) scripsi; dw`ra nel senso di spanna (unità di misura), come nel verso esiodeo, non esige accentazioni devianti. In V mevn compare generalmente ortotonico, scritto per compendio o per esteso; qui è invece senza accento. Dwrwn è scritto per esteso e sopra il 2° w porta un visibile archetto, qui non confondibile con il compendio per -wn. La ragione potrebbe essere un originario dwvrw`n men, non necessariamente da attribuire a Prodromo.2 Gli altri mss., che sono posteriori a V, hanno pedissequamente copiato la propria rispettiva fonte: Bar1 scrive come V (anche se non posso accertare che questo sia il suo antigrafo); Bar2 come Bar1, di cui è copia; Matr2, che forse ha copiato da uno dei due Barr (vd. supra § I codici), ha in parte corretto (dwrw`n mevn); Ir. e Cr. hanno ciecamente riprodotto dwrw`n men (l’uno da Matr2, l’altro dai Barr). 3) Grafie separate ovvero unite Sat. 144 H., 101 o{ti codd., Ir., Cr., quod recepi: o{ ti Pod., Rom.; Sat. 149 H., 56 ejxenantivon, quod scripsi: ejx ejnantivou Pod. (Rom.); Sat. 146 H., 137 ejsuvsteron; Sat. 147 H., 375 ejsau`qi" (perperam Du Th. separatim scripsit); Sat. 147 H., 425 o{ti V: o{ ti Th., quod recepi; 1 Si noti che molti esempi sono forme enclitiche dei pron. person.; secondo Reinsch 2001, p. 40* nei mss. medio- e tardo-bizantini di Anna Comnena le “regole” appaiono un po’ diverse. 2 Papagiannis 1997, p. 214 testimonia ricorrenze sporadiche di gar e men trattati come enclitiche, ma da lui corrette in ortotoniche, perché considerate particolarità grafiche dello scriba, non di Prodromo. XL Compare in un editore un ipercorrettismo: Sat. 144 H., 27 oJpwstiou`n (omnes, quod recte recepi): o{pw" ti ou\n Ir., perperam. Circa il mh; dev di V, riporto solo alcuni esempi a caso, ricordando che personalmente ho preferito la grafia unita, malgrado alcuni editori di altri testi medio- e tardo-bizantini optino per la grafia separata:1 Sat. 144 H., 15, 27; 38, 71, 86 (separatim edd. quoque Ir. ac Cr.); Sat. 147 H., 55, 163 e 421 Sat. 147 H., 85 et sg. oJ tev V: oJtev bis scripsi; Sat. 144 H., 94 ou[menoun (sic, his cum spiritibus et accentibus V, Bar1, Matr2; ou{menoun sic Bar2): ouj me;n ou\n scripsi; Sat. 147 H., 34 oujmenoun (sic, hoc cum sp. sed sine accen., fort. pariter ac posterior toigarou`n): ouj me;n ou\n scripsi; 4) Spiriti e altri segni ortografici In genere nei mss. sono rispettati gli usi che noi conosciamo dagli autori classici; devianze appaiono:2 Sat. 141 H., 1 ajdra`" N, Atho1, Vin1, Mon: aJdra`" P, V quod recepi; Sat. 141 H., 31 ajdrovthta Atho1, Vin1, Mon: aJdrovthta N (sic, aliter ac in primo versu), P, V quod recepi; Sat. 149 H., 99; Sat. 146 H., 90; Sat. 147 H., 354, 422 a{tta V: a[tta cum Th. vel Pod.Rom. scripsi;3 Sat. 147 H., 350 ajlwvnhton: aJlwvnhton cum Th. scripsi; Sat. 147 H., 424 aujtovn: auJtovn scripsi (dove il mantenimento della grafia tràdita avrebbe creato confusione con la parola di diverso significato e devianza dal testo di Demostene). Sat. 144 H., 111 a{maxa ha lo spirito aspro nei mss. (tutti) e in Cr.; dolce in Ir. (e Pod.-Rom.), il quale o ha sbagliato o ha pensato alla psilosi ionica del verso esiodeo. Trema Sopra i e u che non siano parte di dittonghi compaiono regolarmente i due puntini con funzione di risalto della vocale, tralasciati nelle moderne edd.; con funzione di dieresi sopra i che sia parte di dittongo in:4 metri causa Sat. 140 H., 3 rJei>kev (vale anche se ho scritto rJoi>kev ?); Sat. 140 H., 36 ajrcai>khv; Sat. 148 H., 169 a[i>di proiv>aya" (qui per indicare il dittongo improprio); 1 Anche qui tuttavia non tutti gli edd. di altri testi tardo-bizantini sono concordi: e.g. Munitiz 2006 stampa mh; dev separato. Esistono casi non tradizionali, ossia risalenti al periodo che va dal X sec. in poi, di dev enclitico; vd. Noret 1985, Papagiannis 1997, p. 214 (con esempi dal nostro stesso V, ma relativamente ai Tetrasticha prodromei) e Reinsch 2001, p. 47*. Cfr. anche Gregorio Antioco in Bachmann-Dölger 1940, p. 365, 8 dove a testo gli editori scrivono mhdev, ma in apparato annotano «mh; dev; ita omnibus locis», s’intende del ms. Escor. Y II 10 (saecc. XIII/XIV). 2 Vd. a proposito l’elenco di casi tratti dal Marc. gr. XI 22 (sec. XIII ex., contenente, tra l’altro, i carmi pseudo-prodromei detti manganeia) in van Dieten 1973, pp. X-XIV. 3 In Sat. 149 H., 99 ojlivga a{tta, 146 H., 86 skhnika; a{tta, 147 H., 422 ajndrei`a a[tta secondo la lezione di V si noti anche l’assenza di elisione. 4 Vd. Papagiannis 1997, p. 211. Il trema compare anche sui segni tachigrafici per le desinenze -i" e -e". XLI in prosa Sat. 144 H., 136 rJoi>vnh/. Coronide Non è uno spirito, ma si può far rientrare nella categoria, per somiglianza grafica; generalmente non è segnata in V; io l’ho ripristinata ovunque: Sat. 144 H., 59/60/65 tautou`/tautovn/tautivzoimi (omiserunt et Bar1-2, Matr2; cfr. to; aujtov cum spir. l. 62); cfr. anche n° 145 H. (breve testo in prosa Sul colore verde), 8/125 tautovn (omm. et Bar1-2, Matr2); n° 135 H. (dialogo filosofico Senedèmo), 159/209/251 tautovn (omm. et Bar1-2 et Cr.); È segnata invece in V: Sat. 144 H., 77 tajnqrwvpw/ (per compendium tajnw—v/ Matr2): t∆ ajnqrwvpw/ Bar1-2 et Ir.- Cr.-Pod.-Rom. (questa seconda grafia è senz’altro scorretta, forse derivando da interpretazione della coronide come apostrofo -ma allora lo spirito di a iniziale mancherebbe- ovvero come spirito di a -ma allora l’apostrofo mancherebbe-); Sat. 148 H., 8 tajnqrwvpw/ V: t∆ ajnqrwvpw/ Pod.-Rom. (c. s.). Sat. 149 H., 110 toujnantivon; Sat. 147 H., 94 tajndriv; Sat. 147 H., 411 toujnantivon; Sat. 147 H., 442 toujpivklhn; cfr. anche n° 135 H., 7 tajndrov" (t∆ aj– iterum perperam praebent Bar1-2, Cr.) e 33 tajnqrwvpw/ (sic cum crasi et coronide Bar1-2, Cr.). ecc. Iota sottoscritto Per lo più manca, specialmente in V; l’ho integrato.1 Sat. 144 H., 18/23 a\smaÉa[sai" (omnes): a/\smaÉa[/sai" scripsi; Sat. 144 H., 71 siwpa`" (omnes): siwpa/`" scripsi; Sat. 144 H., 104 th` rJaywdiva (V, Bar1-2; th` rJa/yw/diva sic Matr2): th/` rJayw/diva/ scripsi; Sat. 149 H., 99 katepavsomai V: katepav/somai scripsi; Sat. 149 H., 103 tragwdivan V: tragw/divan scripsi; ecc. Compare invece in Sat. 144 H., 34 sfeterivzh/ V ecc. 5) Omofonia di dittonghi e vocali secondo la pronuncia itacista Ho emendato parole di senso compiuto non pertinenti al contesto ovvero voces nihili e semplici grafie aberranti non altrove attestate o accettate dagli editori di altri autori, dovute all’omofonia di nella pronuncia bizantina di e ed ai = /e/; h, i, oi, u = /i/ (dove non ho indicato il ms., significa consensus codicum ovvero codex unicus ossia V): Sat. 140 H., 3 rJei>kev: rJoi>kev scripsi; 1 Sull’abuso di i sottoscritto (oJra/`n, ka/[n, ecc., in uso in molte edd. fino a tutto l’Ottocento), vd. Keller 1890, introd. (a proposito di un ms. senofonteo del XIV sec.) XLII (questo caso vale anche se c’è il trema, ossia se il dittongo è pronunciato con gli elementi costitutivi separati?) Sat. 140 H., 4 ajselgiv" B, S, l: ajselghv" cum cett. scripsi; Sat. 140 H., 10 wjkeavnion V2 , W: wjkeavneion cum cett. scripsi (vd. Sat. 146 H., 100 sardwvneion infra); Sat. 140 H., 96 hJm- H (vix legi potest), V, W2 (in interl.), N, Atho1: uJm- B, l, S, L, Miller quod recepi; Sat. 141 H., 19 iJkevtou H, Boiss. quod recepi: oijkevtou N, V, P, Atho1, Vin1, Mon; Sat. 141 H., 28 uJpeivnhn P: uJphvnhn H, N, V, Atho1, Vin1, Mon quod recepi; Sat. 141 H., 51 ajrcibiavdh" H, N, P (Boiss.), Atho1 quod recepi: ajlkubiavdh" V: ajlikibiavdh" Vin1, Mon, Rom.; 58 ajrcibiavdh/ H, N, P (Boiss.), Atho1 quod recepi: ajlkubiavdh/ V: ajlikibiavdh/ Vin1, Mon, Rom.; Sat. 141 H., 72 perigravfei" H, N, V, Atho1, Vin1, Mon, Rom. quod recepi: perigravfoi" P (Boiss.); Sat. 141 H., 81a levgoiV, Atho1pc quod recepi : levgei H, N, Atho11 manu , Vin1, Mon; Sat. 141 H., 2 kaqei`tai N, V, P, Vin1, Mon: kaqhvtai Atho1, perperam; Sat. 141 H., 42 makra;" kaqei`nto kai; geneiavda" H, V, Atho1, Vin1, Mon: makra`" kaqei`nto kai; geneiavdo" N: makra`" kaqh`nto kai; geneiavdo" P, perperam (ad verbum kaqivhmi, non kavqhmai sensus respicit) Sat. 141 H., 44 kinavbra" V, Vin12 : kunauvra" N, perperam Sat. 141 H., 45 ajpeikavzonto" H, N, V, P, Atho1: ajpi- Atho1, perperam Sat. 141 H., 60 deivxaimi t. o{. gevnun H, N, V, P, Atho1: deivxai moi t. o{. gevnhn Vin1, Mon, perperam Sat. 141 H., 63 e[lqoi V, Vin1, Mon: e[lqh/ N, P, Atho1 Sat. 141 H., 90 ajph/wvrhto V, P, Atho1, Vin1, Mon: ajph/wvroito N Sat. 146 H., 59 e Sat. 147 H., 198 e 440 hJm-: uJm- scripsi;1 Sat. 146 H., 85 luvmh": lhvmh" scripsi; Sat. 146 H., 305 uJm-: hJm- scripsi; Sat. 146 H., 73 kruomuvxhn: krio- scripsi; (l’emendamento è doveroso in considerazione non solo dell’aggettivo hapax kriovmuxo" Gal. Meth. med. VI 137 = X 406 Kühn in una citazione da Cercida, fr. 15 CA, ma anche di altre due occorrenze prodromee di kriomuvxh" scritto con i: nella Sat. 149 H., 116 (e in questo caso V presenta senz’ombra di dubbio la lezione kri-; nonché nella lettera n° 100 H. a Michele Italico, edita da Papadimitriu 1905, p. 297, 25-26; vd. inoltre Nic. Eug. (?) Anach. p. 253, 828 Chrestides; Greg. Cypr. Contra Synes. p. 370, 3 Pérez Martin. Se la grafia aberrante fosse comparsa ovunque, avrei sospettato invece una paretimologia autoriale da kruvo"); Ho conservato l’alternanza grafica dove non comprometta l’intelligibilità della parola e sia possibilmente già attestata, anche in altre parole, nella tradizione manoscritta (ed editoriale) dei testi greci in genere: Sat. 140 H., 26 yimmivqion (atteso yimuvqion); Sat. 146 H., 100 sardwvneion (atteso sardwvnion); Sat. 146 H., 269 sisamou`nto" (atteso shsamou`nto");2 Sat. 147 H., 320 dikaspoleivwn e 357 dikaspolei`a (neut. pl., attese le forme da dikaspoliva, omofono femm. della prima decl.); Sat. 147 H., 376 fulokrinou`nti (etimologicamente giusto, ma nei mss. bizantini, anche di autori classici, molto spesso scritto fil- per risemantizzazione paretimologica); Sat. 147 H., 419 leipotaxivou (atteso lipo-). 1 Lo scambio h/u è uno dei più frequenti nella tradizione manoscritta greca in generale (vd. Dover ad Ar. Nub. 195). 2 La grafia di V sisamou`nto" è uno dei pochi casi di itacismo del ms., a dispetto della sua confezione bizantina; Gaulm., seguito da Du Th., lo aveva corretto secondo la grafia classica qui e nel romanzo Rhod. et Dosicl. 9, 422, verso in cui invece Marcovich 1992 mantiene la grafia tràdita h[ ti plakou`nto" h] sisamou`nto" mevro". Alla sua scelta mi adeguo, essendo tale grafia accolta da diversi editori di testi bizantini. XLIII Come conseguenza in parte dello stesso fenomeno di pronuncia, in parte di quello di perdita della sensibilità del valore temporale e aspettivo, ho conservato congiuntivi aoristi a fianco di indicativi futuri: Sat. 144 H., 143 sgg. eijsevlqh/"Éprokaqivsei"Écalavsei"Écalavsh/"Éajnoivxei" (sic V); in questo caso, comunque, dal punto di vista fonetico potrebbe trattarsi in tutti i casi di futuri; Sat. 146 H., 215 sgg. ajnevxetai/ejnevgkh//ajpomuvxei; in questo caso, invece, non si può invocare la confusione fonetica a motivare l’alternanza; Sat. 147 H., 137 sgg. katavxeiÉuJpodeivxetaiÉajnagavgh/. Sat. 147 H., 238 sgg. ajmelhvsh/"/melhvsei/kaqhvsh/"/a{yeai/yucrorrhmonhvsh/"/ ajperantologhvsh/"; quanto ad a{yeai, ind. fut. med., si sarebbe atteso a{yh/ o tuttalpiù l’attico a{yei, la cui desinenza antica ricorre usualmente solo in oi[ei (opinaris), bouvlei (vis) e o[yei (videbis); in Omero esiste anche l’ind. pres. fevreai e il cong. pres. fevrhai; in Hdt. VII 135 ejpivsteai; in Cert. Hom. et Hes. 37 m∆ e[reai genehvn (vd. Chantraine 1945, p. 351 sg.); dato dunque il parallelo di Erodoto e trovandosi il verbo nel brano pronunciato da Ippocrate, potrebbe trattarsi di uno ionismo. Similmente dicasi per la compresenza di ottativi presenti, futuri e aoristi: Sat. 144 H., 42 sg.: ajnalhvyaito/diavqoito/rJavyoi; Sat. 147 H., 395 sgg. ceirotonhvsei/kataprovhtai/didoivh. Queste compresenze, alquanto urtanti all’orecchio di un filologo classicista, si possono ben giustificare con paralleli già tardo-antichi: Psaltes 1913, p. 217 § 334 testimonia che nel greco dei cronisti bizantini compare, sia pur abbastanza raramente, il congiuntivo aoristo al posto del futuro, uso già rinvenibile nei papiri, nei LXX e nei padri della Chiesa. Cito alcuni esempi interessanti: Theoph. Cont. 363, 8 Bekker ajpokruvyw touvtou" ejn ajpokruvfw/ kai; o{sa... levgwntai, gravywsi; Const. Porph. De adm. 134, 18 (= 29, 181 Moravcsik CFHB) ei[per poihvsei", o{per soi ei[pw; 334, 14 (= De cerimon. II 137, 26 Vogt, che però stampa nikhvsh/, congiuntivo aor. foneticamente identico, senza alcuna nota al riguardo) eij de; ejn mevrei nikhvsei, hJ diavkrisi" ejnevgkh/ tou` topothroumevnou; Prodrom. V 166 (Legrand 1880, p. 106 ajlla; pantana krataio;" Cristov" mou brotoswvsth"/ toutw`n tanu`n me; rJuvshtai (v.l. rJuvsoitai)  th/` sh/` ploutodosiva// ejkei`qen kata; cavrin de; lutrwvshtaiv me pavlin; rJuvshtai = rJuvsetai. 1 L’intercambiabilità del congiuntivo aoristo con l’atteso futuro evidentemente prepara la strada a quel costrutto che prende poi piede nel greco volgare e resta in vigore fino all’abolizione della kaqareuvousa: perifrasi qa (ma non di rado, specialmente nella letteratura medio-greca, anche nav) + congiuntivo aor. (per l’azione puntuale; nella dhmotikhv con qa + tema dell’aor. ma desinenze dell’ind. presente); pertanto congiuntivi aoristi come eijsevlqh/, che non sono certo spiegabili come scambi fonetici con forme di futuro (atteso se mai oi[sei), possono essere interpretati come conati vernacolari per futuri perifrastici. 6) Scambio di w con o 1 Quanto all’esempio di Const. Manass. Brev. Chron. 296-297 Bekker CSHB a[n tou`tov moi fulavxhsqe, feuvxhsqe kevntron kai; platusmo;n kerdavnhsqe la vecchia ed. Bekker da cui Psaltes lo riportava comporta un testo diverso da quello stampato dal più recente ed. Lampsidis 1996: a[n tou`tou moi fulavxhsqe, feuvxesqe kevntron povtmou/ kai; kerdanei`te platusmo;n zwh`" ajkataluvtou. Sulla base del dettagliato apparato di quest’ultimo si può nondimeno salvare l’osservazione del fenomeno da parte di Psaltes almeno come aspetto della tradizione generale coeva e successiva all’autore, giacché a lui solo non si possono attribuire molte delle varianti che hanno un’origine prettamente fonetica (si noti sp. il cgtv. aor. 1 med. feuvxhsqe del resto già tardo-antico, anziché cgtv. aor. 2 fuvghte; in età classica non ricorre il medio fuvghsqe). XLIV Sat. 140 H., 11 aJlmurotevra S: aJlmurwtevra cum cett. scripsi; Sat. 140 H., 18 a[qlio" H, N, V, P (Boiss., Rom.), Atho1 quod recepi: ajqlivw" Vin1, Mon Sat. 141 H., 50 aijscivwn H, N, V, P, Vin1, Mon: aijsciovn Atho1, perperam Sat. 141 H., 94 aJplw`" N, V, P, Atho1, Vin1: aJplo" (sic sine accentu) Mon, perperam Sat. 148 H., 93 dhmwtikotevran V (Pod., Rom.): dhmotikwtevran scripsi; 7) Geminazione e scempiamento delle consonanti La perdita della sensibilità fonetica delle geminate si ripercuote sulla grafia con due fenomeni che ho voluto lasciare intatti, perché palese espressione di incertezza grafica in presenza di uniformità fonetica (si noti che la liquida è particolarmente interessata dall’oscillazione); in alcuni di questi casi viene a suffragio anche un’altrove attestata tradizione, verificata sui lessici o sulle edizioni critiche di altri autori: -l’ “errore” di dimenticare una consonante doppia, dove è attesa secondo la grafia classica: Sat. 141 H., 1 et 4 ijatataiavx N, P, V, Atho1 (pro expectato ijattataiavx): ijatattaiavx Vin1, Mon Sat. 141 H., 14 yalivsi V, Atho1, Vin1, Mon quod recepi: yallivsi H, N, P; Sat. 141 H., 43 ajstragavlwn H, N, V, Atho1, Vin1, Mon quod recepi: ajstragavllwn P; Sat. 146 H., 41 murrivnhn e 277 murrivnh/ (come atteso) VS 213 murivnai" (non atteso); 75 diaragw` (atteso diarr.). Sat. 147 H., 64 ∆Enosivgaio" (atteso ∆Enno-);1 Sat. 147 H., 86 ejpirayw/dei` (atteso ejpivrr-; cfr. 241 yucrorrhmonhvsh/" tràdito come atteso con doppio r); Sat. 147 H., 104 e 115 ajrayw/d- (atteso ajrr-, come e.g. in un agg. sul modello di a[rrhkto"); -l’ipercorrettismo di introdurre una consonante doppia dove non è attesa secondo la grafia classica: Sat. 140 H., 26 yimmivqion (atteso yimuvqion); Sat. 140 H., 31 rJussw`sa (atteso rJusw`sa); Sat. 140 H., 53 ∆Erinnuvwn (atteso ∆Erinuvwn); Sat. 149 H., 74 sminnuvhn (atteso sminuvhn); Sat. 146 H, 193 peridevrraion (atteso peridevraion).2 In Sat. 148 H., 94 e[ktilon V: e[ktillon Pod. (Rom.) è refuso degli edd. 8) Metaplasmi In tale categoria si possono annoverare: Sat. 144 H., 58 e Sat. 146 H., 139 taujtovn per taujtov;3 1 La grafia ejnosivgaio" di Prodromo con n scempia compare a testo e.g. nelle edd. -scansionate da TLG on-line- di Herodian. Partit. 209; Ann. Corn. Theol. gr. comp. 42; Porph. Quaest. hom. XI 515, 11; Eustat. In Odyss. I 320; e negli scoli omerici. 2 La grafia con due r fornita da V e riprodotta da edd., v e o si oppone a quella con un solo r che trovo nelle tre sole occorrenze in Luciano (al plurale Pisc. [28 Mcl.] 12 e dial. mer. [80 Mcl.] 7, 1; al singolare Lex. [46 Mcl.] 10, per il quale unicamente l’ed. Mcl. registra una variante grafica, peridevreon, in cui la e è foneticamente equivalente al dittongo ai). 3 Sul neutro di aggettivi e pronomi indefiniti uscente in -on anziché in -o già Hude II, p. 306 rimandava a Meisterhans 1900, p. 155 per toiou`ton. XLV Sat. 146 H., 127 govnaton (atteso govnu)1 e 228 blefavra" (atteso blevfara, come in Sat. 149 H., 34);2 Sat. 146 H., 72, 134, 140, 153, 204, 247 genitivo -klevo" (atteso -klevou") dei nomi in -klh`"; Ho tuttavia emendato: Sat. 148 H., 69 palimfua` V: palimfuh` scripsi: la vocale -a` al posto dell’atteso -h` del neut. plur. può essere un lapsus; con l’accento acuto di Podestà- Romano, che però è un loro errore, il metaplasmo sarebbe più sensato, ma pur sempre non testimoniato nelle 16 occorrenze dell’agg. fornite da TLG on- line). 9) Indicativi presenti formati su temi aoristici Sat. 146 H., 21 o[flw (morfologicamente < ojfliskavnw, ma semanticamente corrispondente a ojfeivlw). Cfr. anche la forma alternativa Sat. 140 H., 76 h\" (per h\sqa). 10) Cambio di coniugazione dei verbi contratti Sat. 140 H., 31 rJussw`sa < -savw (anziché < -sovw); Sat. 146 H., 54 katecalavzwsa" < -zovw (anziché < -zavw); Cfr. anche Sat. 147 H., 356 melagcolw`nta" < atteso -lavw (ma in interlineo incertezza del copista che scrive -ou`nta" da < -evw, attestato in ionico nel medico Aret. CD I, 3, 7 melagcolevousi; qui però parla il romano Pomponio e lo ionismo non pare giustificato). 11) Altre grafie dovute a pronunzia bizantina delle lettere Sat. 140 H., 78 ajggistrivdo" N: ajgkistrivdo" scripsi cum cett. (il nesso -gk- si pronuncia ancor oggi /ng/ in neogreco; è plausibile pertanto che già in età tardo-antica la confusione tra grafie -gg- e -gk- ormai divenute omofone fosse corrente, come capita per qrigkov" VS qriggov", sostantivo che compare nella seconda forma, senza v.l., in Sat. 148 H., 79 oJ tw`n ojdovntwn qriggov"); Sat. 141 H., 44 kinavbra" V, Vin12 : kinauvra" H, N (ku-), P (littera b, vero, evanidissima supra u conspicitur), Atho1 (utputo, quamquam inter kin- et -ra" atramenti macula syllabam tetigit), Vin11 , Mon Sat. 141 H., 84 blautivou H, V, P: blativou N, Atho1: blattivou Vin1: blakttivou Mon (sed littera ante primam t parum perspicua apparet) 12) Errori probabilmente dovuti a cattiva decifrazione dell’antigrafo o a lapsus calami nella trascrizione In questi casi l’emendamento, già proposto dagli edd. a me precedenti, mi è parso l’unica soluzione percorribile; Sat. 148 H., 79 ejpeishvrhke V: ejpeisevfrhke Pod. (Rom.) (vd. n. ad l.) Sat. 148 H., 92 loipovn V: loipouv" Pod. (Rom.) Sat. 148 H., 112 sabizivw/ V: sabazivw/ Pod. (Rom.) 1 Vd. anche il dialogo filosofico 135 H. Senedèmo p. 207, r. 3 Cramer th`" [sc. uJphvnh"] d∆ a[cri kai; ejpi; govnaton [gonavtwn Cramer, metaplasmo non recognito] kaqeimevnh". LBG s. v. govnaton riporta una sola occorrenza prodromea, quella di Rhod. et Dosicl. 4, 389 (delle altre quattro, la più antica risale a un’opera del X s., Cost. Porph. cerem. II p. 29, 6 Vogt e p. 35, 19 Vogt; una del XII s. è Ioh. Camat. p. 187 Weigl); sec. Lampe 1961 s. v. ne esiste già un’occorrenza in un testo apocalittico apocrifo, Apoc. Paul. 34, p. 58 Tischendorf. Al gen. pl. (caso peraltro identico a quello della declinazione classica) è nello scritto retorico-filosofico prodromeo 145 H. All’imperatore ovvero in favore del colore verde p. 220, 10 Cramer leuko;n de; kaqei`tai mevcri kai; kata; gonavtwn to; gevneion [kata; V, Barocc. 165 e 187, om. Cramer]. 2 Il metaplasmo per ta; blevfara è attestato da LBG s. v. limitatamente al nostro passo; TLG on-line non offre occorrenze (blefarw`n da un ta; blefara; ossitono), onde potrebbe anche giustificarsi la normalizzazione. XLVI Sat. 148 H., 112 klavrion V: klarivou Pod. (Rom.) Quanto a Sat. 148 H., 99 dokou`n V, quod recepi: dokw`n Pod. (Rom.), forse si può giustificare la grafia di V (vd. n. ad l.). 13) Grafie varie Ho conservato le seguenti grafie: Sat. 147 H., 23 toutoiv> (per toutiv); Sat. 147 H., 34, 217 e 298 saut- VS 200 seaut-; La grafia Sat. 146 H., 144 oujqevn (per oujdevn) non mi risulta comparire altrove nei mss. prodromei, onde ho preferito normalizzarla, in quanto isolata, benché rappresenti una grafia frequente e.g. in Aristotele, autore molto presente alla mente di Prodromo. 14) Soggetto neutro plurale con verbo plurale Non si tratta di una novità, perché è fenomeno già noto al greco classico, almeno quando il sogg. nt. plur. indichi pluralità di persone ovvero si riferisca ad oggetti particolarmente distinti; non sembra essere tuttavia questo il caso dei passi prodromei, molto più generici e accostabili a paralleli che ho trovato leggendo per caso Plutarco (Lys. X 3 tv= d' u(sterai¿# pa/lin e)gi¿nonto tau=ta kaiì tv= tri¿tv me/xri teta/rthj) e Galeno (passim); Sat. 140 H., 93 ta; stivgmata kravzousin; Sat. 147 H., 264 sunapeilhvfqwn kai; tau`ta (sunapeilhvfqw Th. è dunque emendamento rinunciabile; cfr. tuttavia Plat. Resp. 607b tau`ta dhv, e[fhn, ajpoleloghvsqw hJmi`n). 15) Abbreviature tachigrafiche del ms. incoerenti con la sintassi del contesto Sat. 149 H., 102: pa`sa" eij" crh`sin (sic V, f. 55v, l. 2) pro pa`san eij" crh`sin, quod scripsi cum Pod.(Rom.); la desinenza di pa`sa", resa con il compendio sicuramente da sciogliersi in -a" (৺ una sorta di 9 coricato e con il prolungamento del tratto in direzione in alto a dx), anziché in -an (una sorta di 6 molto piegato verso dx e che qui compare subito dopo nella desinenza di tragwdivan); del resto la nota tachigrafica in fine di crh`sin è inequivocabile per -in (archetto rivolto verso il basso sovrastato da due puntini) e suffragata dall’accento circonflesso su crh`-, a fugare un qualsiasi sospetto per crhvsei". La traduzione Vuol essere un ausilio all’intelligenza del testo, la quale non è sempre immediata; dove i registri stilistici dell’originale appaiono diversi, soprattutto nel testo 147 H., ho avuto la velleità di riprodurli, in quanto importanti nella caratterizzazione dei personaggi; un modo di tradurre oggi per lo più abbandonato con disprezzo, ma molto in voga nel passato (si pensi alla traduzione italiana di Aristofane a cura di Ettore Romagnoli). Mi auguro di non destare nel lettore, soprattutto non italiano, un sentimento di eccessivo straniamento. XLVII XLVIII CONSPECTUS SIGLORUM Litteris numerisque iisdem ac editionis Hörandner utor; alia sigla plurisyllabica meo marte commentus sum; litteris crassis Vaticani notantur; rubricatis dubia (interdum ex erratis quoque Hör.); punctis quae Hör. vel catalogus aliqui describere oblitus est; cancellis quadratis deperditi codices notantur. Ubi mihi copia fuit, catalogos codicum inspexi, plerumque in B. A. V. et Bibl. Medicea-Laurentiana. Stellula (*) notantur codices quos ipse in B. A. V. et B. M. L. vidi; cochlea (@ ) quos in pellicula, quae “microfilm” vocatur, inspexi; eos, qui sine ullo signo elenchantur, nondum vidi. In apparatu instruendo codices hoc ordine notantur: primum qui lectionem in textu acceptam praebent; deinde ceteros; praeterea in codicibus enumerandis ordinem eundem quem Hör. secutus sum. SIGLUM SIGNATUM ANNUS MATERIES MENSURA FOLIA OPERA (iuxta Hörandner laterculum) B Bodl. Roe 181 a. 1349 chart. in folio 475 140 (449r-450v), 156 (450v) H@ Heidelb. Pal. 432 s. XIV chart. or. (olim bombyc.) in IV° 93 140 (37r-v), 141 (93v evanidiss.), 155 (90r-v), 156 (36...), 158 (90v), 160 (90v) P@ Paris. 28313 s. XIII chart. or. (olim bombyc.) P. 164 140 (160r-v vv. 1-76; 152r vv. 77-102), 141 (159r-160r), 142 (122r- v), 156 (122r), 157 (non inveni), 158 (146r-v) V* @ Vat. 3054 s. XIII chart. 250 X 167 IX, 209 140 (99r-100r), 141 (100r-101r), 142 (117v-118r), 143 (97v-99r), 144 (50v- 53v), 145 (40v-43r), 146 (59v-64r), 147 (64r-69v), 148 (56r-59v), 149 (53v-56r), 150 (48v-50v), 151 (43r-45v), 153 (94v-97v), 155 (109r-v), 156 (117v), 157 (121r-v), 158 (121v), 160 (104r), 1 Coxe I, qui folii numerum carminis 140 non indicat, carminis vero 156 ne mentionem quidem facit (v. ergo HÖRANDNER 1974, p. 150); scriba fuit Constantinus Sapiens; codex olim in ecclesia S. Trinitatis apud insulam Chalcen. 2 V. Stevenson 1885, qui tamen codicem a B. A.V. absentem (olim Vat. Pal. gr. 43) non ipse descripsit, sed aliis operibus fretus, folia sine recto et verso indicavit necnon, collato elencho in ed. Hörandner 1974, p. 151, aliquid passim oblitus est, unum tantum addens (i. e. 156 H.). 3 Vd. Omont III (cuius catalogus summarius est plus quam titulus ostendat; de hoc cod. et praesertim de Prodr., adnotat v. d. «Theodori Prodromi carmina varia (158)», quod significat huius auctoris carmina a folio illo usque vel ad finem codicis contineri. Codicum mensuras 4 dat generaliter Omont: P. pétit format, au dessous de 27 cm de hauteur; M. moyen 27-37 cm; G. grand 37-50 cm; A. Atlas au dessus de 50 cm de hauteur). Carminis 157 H. in hoc codice vestigium nullum inveni, quamquam Hörandner 1974, p. 54 et 144 ei id tribuat (v. similiter carmen 158 in cod. S). 4 Vd. Mercati-Franchi De’ Cavalieri 1923. XLIX 161 (103v-104r), 162 (103v) W* Vat. 3065 ss. XIII-XIV chart. 276 X 182 II, 237 113 (67v-69v); 140 (54v-55v), 151 (65r-67r) X* Vat. 3076 ss. XIII-XIV chart. 175 X 125 VII, 228 154 (Ir-v), 156 (IIr), 158 (IIr) L* Vat. 9047 s. XIII-XIV chart. or. 255 X 175 142 140 (139v, vv. 28-80; 139r, vv. 81-102) S* Vat. 11268 s. XIV membr. 112 X 75 (sic ego) 105-110 X 83 (iuxta Gonnelli) II, 296, I 140 (278r-279v), 156 (148r-v), 158 (. . .), 178 (145v) F* Vat. 18819 s. XIII chart. 260 X 190 140 (109r-v) N@ Neap. II D 410 s. XIV chart. or. (olim bombyc.) 235 X 165 I, 242, I 140 (96v-97v), 141 (95v-96v), 142 (98v), 153 (98v-99r, vv. 1-23 tantum), 155 (91r), 158 (91r-v), 160 (91v) l Lond. Add. 1001411 s. XV (Madden) chart. quarto 140 (221v-222r) 5 Vd. ibid. 6 Vd. ibid. 7 Vd. Schreiner 1988, p. 97; de manu celeri ac parum perspicua, vd. Perosa 1951, p. 21 et 28, qui breviata plura necnon interdum relicta scribae veloci privatoque tribuit (p. 21 «il codice è scritto male, con frequentissime abbreviazioni, spesso appena accennate, senza lineatura, ma con una parvenza di inquadratura pari a quella del cod. A; di lettura penosa, insomma una copia ad uso di studio»; p. 28 de scoliis Hesiodeis «concludendo, il Cod. Vat. gr. 904, nonostante le discordanze che abbiamo notato e nonostante la manifesta influenza in qualche punto del gruppo LRO, può considerarsi un buon ms., discendente da un archetipo assai simile a quello di A, conservandoci talvolta un testo più completo e di conseguenza fededegno per ricostruire le parti lacunose di A»). Traiectio versuum carminis 140 debetur restauratori, qui folium inaccurate inverso ordine conglutinavit; perierunt vero vv. 1-27. 8 Cum adhuc perfecta descriptione careat in voluminum serie Codices Vaticani manu scripti recensiti, codici breviter institi, inventario Amati usus, cuius auxilio contenta enumero in fine huius conspectus (sed v. iam quae breviter dixerunt Quercius-Fogginus 1777, pp. XXV-XXVI [= PG 92, coll. 1183-1184, qui locus laudatur a Miller II, pp. XI-XII] et Gonnelli 1998, p. 33 adn. 21; Pisidiana tantum contenta PERTUSI 1959, p. 51 cum adn. 1 perstrinxit. Carminis 158 de horto in hoc codice mentionem facit Hörandner 1974, p. 146 (sed non p. 54 neque 163); adhuc non inveni (similiter vd. de carmine 157 in cod. P). Carminis 178 iuxta conceptionem servatur paene eandem quam Miller I, p. 438 n. CCXLIII a cod. Laur. Plut. 32.19 (invidet nobis numerum Millerus, qui vero ad Bandini II, col. 147 sqq. respicit) edidit. Codex S vero longius carmen in varia epigrammata partitum praebet (ff. 137r-146r), cui titulus hic rubro atramento inscribitur «tou` Prosou;c eij" th;n oJsivan Marivan th;n Aijguptivan» (cfr. iam Amati ad Vat. gr. 1126, f. 137 tou` prosou;c eij" Marivan th;n Aijguptivan, ubi verba th;n oJsivan omittuntur); quod edidit Treu 1893, pp. 36-47 (de Prosucho auctore Prodromi aequali, qui Aulicalami aenigmata iambicis epigrammatibus solvit, necnon longiorem alterum hymnum epigrammataque aliqua reliquit, vd. Treu cit. et Krumbacher 18972 , p. 761 sq. 9 V. Canart 1970; manus simillimma illi codicis V ; restauratus; mensurae 230 X 155 ante restaurationem. 10 Vd. Formentin 1995. L o* Vat. Ottob. 46612 s. XVII/XVIII13 chart. 275 X 190 I, 97, I 113 (31v-35v), 144 (38v-42r), 145 (23r-27r), 146 (49v-56r), 147 (56r-65r), 148 (45r-49v), 149 (42r-45r), 150 (35v-38v), 151 (27v-31v) v* Vat. 236314 s. XVII/XVIII15 chart. 265 X 200 94 113 (28v-32r), 144 (35r-39r), 145 (20v-24v), 146 (47r-54r), 147 (54v-64r), 148 (42r-47r), 149 (39r-42r), 150 (32r-35r), 151 (24v-28r) Atho1 Athous 4285 (Ib. 165)16 s. XV chart. 4° 233 140 (225r), 141 (224v) Mon@ Monac. 28117 s. XVI chart. in quarto 166 140 (163v-165v), 141 (161r-) Nea Neap. II D 2218 s. XIV chart. 160 X 115 III, 315 140 (315v), 158 (315r) Vat1* Vat. 20719 s. XIII chart. 290 X 221 VII, 363 140 (2r), 155 (1v), 158 (1v) 11 Vd. Madden 1843; hic codex, descriptus ex cod. B (v. HÖRANDNER 1974, p. 154), continet etiam Aristotelis Categorias, de interpretationem librum, Analyticorum priorum libros 2, Analyticorum posteriorum libros 2, Topicurum libros III et VII cum scholiis. 12 V. Feron-Battaglini 1893; in mg. f. 1r adnotatur «descriptus ex Cod. Vat. 305». 13 S. XVII indicant Feron-Battaglini 1893, p. 259; ego s. XVII/XVIII malim, cum in inventario AMATI de opusculo n° 151 H. in cod. o contento dicatur «ajpovgrafon tou` Kwvdiko" Ouatikavnou ejpi; ∆Aleavndrou Laurentivou Zakkagna`», i. e. Laurentii Zaccagni, qui B. A. V. primus custos annis 1698-1712 fuit (Bignami Odier 1973, p. 333). Hunc et sequentem codicem scriptores Bibliothecae fortasse traditionis causa vel in usum Petri Lazzari S. I. descripserunt, qui, utcumque sit, Romae, a. 1754 ex codice V collatis aliquibus recentibus epistulas edidit (Lazzari I). Qui codices vero nonnisi alter v, alter o esse possunt, si Lazzari explicationi credere debemus PG CXXXIII, coll. 1091-1092 «codex bibliothecae nostrae [sc. Collegii Romani] qui has epistolas continet est chartaceus non ita antiquae scripturae, imo recentioris, sed probae plerumque et praeter epistolas alia quaedam continet eiusdem quae hic commemorabimus, omissis iis quae iam sunt edita vel Fabricius recenset» [sequitur elenchus in quo opera aliquot Prodromi enumerantur ordine eodem ac illi codicis o, qui ordo idem est ac illi operum in V contentorum]; coll. 1097-1098 «ut graeca darem correctiora ad Vat. cod. CCCV, quem superius descripsi, confugi: attulit etiam opem aliquam in nonnullis quae continebat eiusdem Vaticanae Bibliothecae codex Othobonianus», i. e. o procul dubio). 14 Codex manu mensuris contentu simillimus est ac illi antecedenti; caret etiam nunc descriptio in voluminum serie Codices Vaticani manu scripti recensiti, ut Amati inventarius adeundus vel codex inspiciendus lectori sit, quod ipse obiter feci 08.03.2006: folium custodiae ferculo integumenti interioris conglutinatum est scriptumque habet manu s. XVII/XVIII «codex chartaceus chartarum 94 in quibus gemina q(uaedam) numerantis errore. Huic nostro simillimus Vaticanus ex alio n° 305 descriptus qui tamen alia quaedam habet» [respicit ad o]. Post quae verba folium vacuum est. Hic codex e cod. V descriptus est, ut a laterculo patet, in quo sua cuique opusculo pagina illius codicis V (interdum et W) addicta est (dummodo opusculum in eo contineatur!). Ex nonnullis mendis efficitur arta cognatio inter o et v: dialidorouvmeno", crhsavmeno" etc. Sunt ambo codices paene inutiles, nisi lectiones aliquas inspicere velis, quomodo e cod. V scribae s. XVII/XVIII prompserint et adulteraverint. 15 Saec. XVII indicat Hörandner 1974, p. 146, sed collato priori codice saec. XVII/XVIII dixerim. 16 Vd. Lambros II, p. 44 17 Vd. Hardt III, p. 168, qui describit «chartaceus, charta solida et laevigata, titulis et initalibus rubris, charactere minuto et nitido, manu diversa, in quarto, constans foliis 166, saec. XVI, optime conservatus et inscriptus». Codex continet Manuelis Philae carmina. 18 V. Formentin 1995; carminis 140 supersunt versus tantum 1-2, 4-5, 7, 9-10, 19, 55-58; f. 315v adsunt et vv. 7, quorum initium mutilum ...on eijmi; sullabh;n fevrw mivan, exitus vero th` karav bhttw (sed vd. ed. carminis 140 H. meam). 19 V. Mercati-Franchi De’ Cavalieri 1923; carmen 140 pessime servatum, cuius primi versus melius servati exstant in 1v quoque; carmen 155 non bene servatum; carmen 158 non bene servatum. LI Vin1@ Vind. phil. 30620 s. XIV chart. 195/7 X 135/8 II, 21 140 (18v-20v), 141 (16r-18v) Bar1 Bodl. Barocc. 16521 s. XV bombyc. in folio 170 135 (68r-73v), 136 (73v-77r), 144 (79v-82v), 145 (77r-79v) Bar2 Bodl. Barocc. 18722 s. XVIin chart. in folio 254 135 (245r-248v), 136 (248v-250v), 144 (252v-254v), 145 (250v-252v) Matr1 Matr. 4630 (olim N 109)23 a. 1464 chart. 198 X 145 VI, 84 145 (79r-84v) Matr2 Matr. 4639 (olim N 99)24 a. 1455 ca. chart. 207 X 145 V, 108 144 (83r-88v) TEXTUS 140: B (coll. 05.2006 ex impressis foliis), H (carmen male servatur; coll. 05.2006 ex impressis foliis), P (2 columnis; coll. 05.2006 ex impressis foliis; hoc ipso cod. in Nicephori Chumni epistolis edendis usus, Thorlacii lectiones aliquas vitiosas correxit Boissonade, An. nova, p. 91 adn. 1), V (2 coll.; coll. 05.2006 ex impressis foliis), W (2 coll., manu simillima illi codicis V; coll. 12.2005, 03.2006), L (vv. 28-102 tantum habet; scriptura simillima illi codicis V; folio conglutinato litterae desinentes parum tectae vel erasae sunt; coll. 12.2005), S (1 col., manu dissimillima ac illa codicum V, W, sub nomine Philae; coll. 12.2005, 03.2006; recontulit Vitus Lorusso 06.2006; lectiones aliquas cum B consonantes praebet, exceptis vv. 37, 67, 98), F (manu simillima illi codicis V), N, l (apographus est codicis B; vd. Hörandner 1974, p. 154) Atho1 (textus non omnis bene servatus; a v. 53 usque ad carminis finem in codicis mg. scriptus apparet), Mon (coll. 05.2006 ex impressis foliis; apographus est codicis Vin1), Nea (textus in folio tiniis exeso pessime servatur; coll. 05.2006 ex impressis foliis), Vat1 (textus partem, i. e. vv. 1-19 sed non omnes, f. 1v servat longioremque, i. e. vv. fere omnes, f. 2r, in utrisque mutilos et pessumdatos, sed in altero folio melius servatos et passim a m2 correctos; e quo praesertim verba excerpsi quorum mea intererat quaeque intelligere valebam; coll. 12.2005), 20 Hunger I. In. ff. 20v-21r carmina duo continentur eadem quae in Mon.: 1) prov" tina pevmyanta stafuvla" pro;" fivlon aujtou`; 2) prov" tina pevmyanta fivlon aujtou` su`ka. 21 Coxe I, coll. 279-280; haec prodromea opera anonyma traduntur; inter alia continet etiam 134 (ff. 25r-68r; editionem paraturus Kakouros) et M. T. Ciceronis In senectutem librum per Max. Planudem [sic Coxe; sed ego Theodori Gazae huius dialogi ciceroniani versionem novi] graece versum (ff. 119r-136r; ed. ... ... ... ... ...); f. 21v vacuum est. 22 Coxe I, coll. 314-316. Cum hic codex apographus praecedentis sit, ut iam vidit Cramer III, p. ii, praeter alia opera eadem eodemque ordine ac illa tradit: a f. 201r usque ad finem insunt Anonymi librum de fabrica et usu quadrantis; Gemini elementa astronomiae; 134, 135, 136, 145, 144 H.; prodromeis autem operibus auctor tribuitur Geminus. 23 Vd. De Andrés 1987, sub nomine Gemini; vd. Fabricius-Harles IV, p. 34. 24 Vd. De Andrés 1987; codex miscellaneus. LII Vin1 (coll. 08.05.2006 ex impressis foliis; lectiones multas cum coaevo H praebet consonantes). 141: H (camen collatum 31.05.2006 ex impressis foliis; evanidissimos in 3 coll. exscriptos vv. 1-87 tantum servat), N (coll. 05.06.2006; lectiones aliquas praebet consonantes cum P, exceptis vv. 65, 82, 90, 95), P (coll. 03.06.2006), V (coll. 02.06.2006), Atho1 (coll. 08.06.2006), Vin1 (coll. 03.06.2006), Mon (vv. 1-47 a Guidone D’Alessandro, Monachii die Ven. 13.07.2007 versante, collati; vv. 48-102 a me in imagine lucis ope depicta 03.06.2006 collati). Ex ordine carminum 140 et 141 in codicibus exhibito effici nequit a quo quisque codice pendeat; i.e. in P praecedit carmen 141 alterum 140, sicut in N, Vin1 et Mon ; sed in P folia confuse resarta restaurataque ita apparent, ut pristinus ordo turbatus sit; N non certe antigraphus codicis Vin1 demonstrari potest, cum eorum contenta, quae dissimillima sunt, prohibeant quin necessitudines inlustrentur. LIII LIV TESTO TRADUZIONE NOTE 1 2 Theodori Prodromi textus I (140 H.) Kata; filopovrnou graov" V, f. 99r 5 10 15 20 25 30 35 40 45 50 55 «W miara; grau`", kako;n ajnqrwvpoi" mevga. «W miara; grau`" Qoukrivtou palaitevra, rJuti;" rJoi>kh; kai; kronikh; sapriva. «W grau`" ajselgh;", w\ bevbhle presbuvti", maclw`sa kai; kaprw`sa kai; gauroumevnh. «W grau`" soba;", provbakce, maina;" ajgriva. «W miara; grau`", tri;" to; Ægrau`"Æ kai; tetravki", pentakovrwne prevsba, sapra; presbuvti". ∆Atlantiko;n pevlago", Aijgai`on bavqo", Povnte, Propontiv", jWkeavneion stovma, qavlassa tauvth" pavmpan aJlmurwtevra, eij" h}n ejkubivsthsen oJlkav" muriva, eij" h}n ejnauavghsan au[tandra skavfh. «W tevlma phlou` kai; baquvth" ijluvo", th`" ejgcevluo" oi\ke kai; tou` batravcou, th`" fuvsew" movlusma kai; tw`n ejn fuvsei. «W brou`ce kai; cavlaza kai; skni;y kai; skovto", kai; sunovlw" o[leqre tou` brotw`n bivou. || «W grau`" polia; mevcri kai; tw`n ojfruvwn, ka]n ejmparoinh`/" th`/ talaipwvrw/ fuvsei, bafai`" katacrivousa puknai`" ta;" trivca". «W grau`" ojdovnto" panto;" ejsterhmevnh, movnoi" paratrwvgousa gomfivoi" duvo, ou}" eu\ ge poiw`n oujk ajfei`len oJ crovno", wJ" mh; nomisqh`/" ajrtigevnnhton brevfo". «W grai?" wjcra;, ka]n plana/`" yimmiqivw/. «W stafi;" ijscnhv, ka[n dokh/`" o[mfax e[ti. «W Kamarivna, ka]n murivzh/ plousivw". «W bursovdermon, ka]n to; devrma leptuvnh/": lhmw`sa, ka]n oJ kovclo" ajmfi; ta;" kovra": rJussw`sa, ka]n to; fu`ko" ajmfi; ta;" gnavqou": podagriw`sa, ka]n sofivzh/ th;n novson, luvgisma th;n podavgran ejxeirgasmevnh: kurtoumevnh dev, ka]n dokh//`" ojrqoumevnh. «W grau`", pavlin grau`" kai; pavlin grau`" kai; pavlin: ai\sco" palaiovn, ajrcai>kh; kakiva. Tiv tau`ta poiei`": au\qi" eij" povqou" rJevpei", ejrwtolhptei`", ajfrodivsia pnevei"… Kai; mh;n e[dei se tou`to sunidei`n tevw", wJJ" pavnta kala; tw/` proshvkonti crovnw/. Crovnw/ truga/`" to;n bovtrun ejk th`" ajmpevlou, crovnw/ drepavnhn eij" to;n a[stacun fevrei": to; bavlsamon, to; krivnon, hJ clovh crovnw/. Oi\no" neavzwn kai; sfrigw`n ajnazevei kai; rJhgnuvei to;n pivqon ejx ajtaxiva": nevo" ga;r w]n pevponqe kai; ta; tw`n nevwn: ajll∆ eij" to; gh`ra" kai; to;n e[scaton crovnon kaqivstatai me;n eij" eJauto;n swfrovnw", sustevlletai de; kai; fronei` kaqw;;" gevrwn. Su; de; proba`sa ta;" o{la" hJlikiva", th;n de; trivca fqavsasa th;n geraitavthn, ejlqou`sa d∆ ejggu;" th`" qanasivmou puvlh", kai; th`" boh`" kluvousa tw`n jErinnuvwn kai; th`" uJlakh`" tou` kuno;" tou` Kerbevrou, e[ti scolavzei" oi|" neavnide" kovrai, kai; ta;" pareia;" tw/` fuvkei pericrivei". Papai` tavlaina th`" filafrodisiva". Papai` paraplh;x th`" ejrwtolhyiva". V, f. 99v 3 60 65 70 75 80 85 90 95 100 Qnhvskwn oJ tevttix mousikwvteron levgei kai; su; pro;" aujtai`" ejkpnoai`" tai`" ejscavtai" stolh;n stolivzh/ th;n eJtairikwtevran: crusai`" de; kosmei`" sfendovnai" tou;" daktuvlou", wJ" a]n lavbh/" qhvrama tw`n tina;" nevwn ijdovnta" eij" to;n kovsmon, oujk eij" to;n crovnon. Kai; tiv" tosou`ton ajfronevstato" nevo" wJ" karterh`sai kanqavrw/ proseggivsai, ka]n eij muvroi" pavttoito pa`n to; sarkivon… ‘H tiv" favgoi mevliti summigh` kovpron, || h] crusopavstw/ suzugh`/ delfakivw/, eij mh; blabeivh to;n te nou`n kai; ta;" frevna"… Oujk ejxameivbein oi\de tevcnh th;n fuvsin, ka]n pavnta kinevseien, wJ" lovgo", kavlwn kai; pavnta" ejxeuvroito mhcanh`" trovpou": oujde; grao;" provswpon ajsbovlh" gevmon fronw`n ti" wjnhvsaito ka]n triwbovlou. Pavlai pot∆ h\" crhvsimo" i[sw" eij" e[ron, pavlai pot∆ h\" e[rwto" ajnqrwvpoi" devlo" kruvpton to; kevntron th`" kakh`" ajgkistrivdo". Nu`n pornobovskei, nu`n proagwgo;" givnou: oujde;n ga;r a[llo tw/` crovnw/ tw//` sw/` prevpei, h] ma`llon eijpei`n tw//` bivw/ kai; tw//` trovpw/. ∆All∆ ouj qevlei"… Kai; brw`ma toi`" luvkoi" givnou. Fqavrhqi kakw`" tw`n kakw`n hJ kakivwn, e[rr∆ ej" kovraka", e[rre pro;" to;n Plouteva. Mh; mevlle Klwqwv, kovyon ojye; to;n mivton. ÔO nekropompo;" th;n talaivpwron devcou: ÔO nekroporqmeu;" naustovlei th;n presbuvtin. Mh; mevlle JRadavmanqu, mhd∆ oJ Krh;" Mivnw". deu`te krinou`nte" th;n palaia;n maclavda oujk ajporei`te martuvrwn kathgovrwn: aujtai; klivnai bow`sin, aujtai; lucnivai. ”Omw" ajpevstw kai; klivnh kai; lucniva: ta; stivgmata kravzousin ajnti; Stentovrwn kai; marturou`si to;n bivon th`" pempevlou. Tiv gou`n pavqoi kai; tivno" eujquvnh" tuvcoi… Pollai; par∆ uJmi`n tw`n basavnwn ijdevai, polloi; kolasmw`n kai; diavforoi trovpoi: ei|" de; prevpei mavlista tauvth/ th/` krivsei: tw/` ga;r palaiw/` kai; gevronti Kerbevrw/ hJ grau`" doqhvtw kai; dovtw ta;" eujquvna": kaivtoi pro;" ou{tw" ojstrakwqe;n sarkivon ejxasqenhvsei kai; to; Kerbevrou stovma. V, f. 100r Test.: B, H, P, V, W, L, S, F, N, l, Nea, Vat1, Atho1, Vin1, Mon. Edd.: Thorlacius III, pp. 65-68 (nescio ex quo codice, sed certe ex uno inter B, l, S, quippe qui eorum lectiones prebeat, e.g. v. 22 pavmpan pro pantov"; v. 44 a{ma xevei -sed typothetae lapsu legendum zevei- pro ajnazevei; v. 51 th;n d∆ ejscavthn f. t. ghraitavthn pro th;n de; trivca f. t. ghraitavthn;); Miller II, pp. 306-311 (ex P et ex apographo codicis S a Matranga Milleri gratia confecto, sed multis cum mendis; cf. MILLER II, p. XII «qui quidem vir doctus in legendis codicibus greci non sat exercitatus erat et anecdota indiligentissime edidit. De ejus imperitia certiorem me feci, dum Romae commorarer»). Vers.: ital. Romano 1999, pp. 286-289 (textus graecus e regione, e Millero plerumque expressus). In apparatu: (M.) omnia errata praeter quae ad res orthographicas pertinent significat; (O.) orthographica errata significat. tit. k. f. g. B, l: tou` aujtou` k. f. g. P, V (in mg. dx numerus n–a– appictus apparet, i. e. LI omnium Prodromi hoc in codice servatorum scriptorum), W, L, F, N, Mon (hic H et Vat1 perierunt; in P pessime conspicitur titulus rubricatus, cum margo dx rescissus sit): tou` sofwtavtou kai; logiwtavtou kurou` qeodwvrou tou` prodrovmoufilªosovfou ?º grª... Atho1: k. f. g. tou` aujtou` Filh` S, Miller: tit. deest in Nea || 1-27 om. L || 1-2 inverso ordine (i. e. 2-1) F || 1 w\ om. l; grau` S (cfr. v. 22; Matrangae hoc in versu 4 insequentibusque 2 et 6 mikrav pro miarav tribuit Miller): grau`" miarav (hoc cum ordine) Vin1, Mon || 2 qoukrivtou B, H, P, V, W, L, S, F, N, l, Atho1, Vat1 f. 1v: tou` krovnou Vin1, Mon: tou` krivtou Nea || 3 omm. Vat1 f. 1v et Nea, evanidissimum praebet H; rJei>khv kai; kronikhv B, P, V, W, S (Matrangae mronikhv tribuit Miller), F, Vat1 f. 2r (ubi vero alterum verbum non conspicitur), N, l, Atho1, Vin1, Mon: rJoi>khv kai; cronikhv Miller, alterum verbum vero perperam scribens || 4 ajselgiv" B, S, l (O.); w\ bevbhla (sic mihi visum est) kai; p. W e. m. (M.) || 5 kaprw`sa B, H, P, V, W, S, N, l, Atho1, Nea, Vin1, Mon (Vat1 periit): trufw`sa F || 6 om. Vat1 f. 1v, Nea, periit in H || 7 gra`" (alterum) P; kai; pentavki" F (M.), quod procul dubio ex insequenti versu huc irrepsit || 8 om. Vat1 f. 1v, Nea; pentavkrone W; p. prevsbu" (deinde verbum presbuvti" deest spatio vacuo relicto) Atho1 || 9 ajtlantikovn vix in H conspicitur, lacuna insequente || 10 wjkeavneion B, H, P, V, S, F, N, l, Atho1, Vin1, Mon (Vat1 periit; wjkeavª...ºion Nea): wjkeavnion V2 , W (O.) || 11-18 omm. Vat1 f. 1v et Nea || 11 aJlmurwtevra B, H, V, W, F, N, l, Vin1, Mon (Vat1 f. 2r periit): aJlmurotevra S (O.): aJlmurwtavth P, Atho1 (vd. v. 61) || 12 ejkubivsthsen oJlka;" muriva B, P, V, S (Matrangae ejkubivsthsan oJlkaiv tribuit Miller), F, N, l (eij" h}n ejkubª... H; Vat1 f. 2r periit): ejkubivsqhsan oJlka;" murivai (sic) W (2 M.): ejkubhvsthsan (-sh sscr.) ejlka;" murivai (sic) Atho1: ejkubivsthsan oJlka`sai murivai (sic, cum syll. ai in interl.) Vin1, Mon || 13-14 om. W (cuius scriba probabiliter ex antigrapho eos praetermisit quippe qui in tres columnas sic distribuiti erant, ut a primo huius lineae, i. e. v. 12, ad primum lineae insequentis, i. e. v. 15, oculum transposuerit; cfr. vv. 53-55) || 13 ejnauavghsan B, H, V, S, Vat1 f. 2r, l, Vin1, Mon: ejnauavghsen P, N, F, Atho1; au[tandro" P: au[tandra Atho1 || 14 pulou` (O.) Atho1; baquvth" ijluvo" B, H, P, V, W, S (cui codici falso ejluvo" tribuit Miller), Vat1 f.2 r, l, Atho1, Vin1, Mon: baquvti" ijluvo" N (O.): baquvti" ijlluvo" F (2 O.) || 15 th`" ejgkevluo" oi\ke kai;ª... H: t. ejgkelivo" o. (sic) N || 16 kai; tw`n ejn fuvsei spatio vacuo relicto om. Atho1 || 17 cavlaza B, H, P, V, W, S, F, Vat1, N, l, Atho1: qavlassa Vin1, Mon; sknivy H, V, W, F, Atho1 (Vat1 f. 2r periit): knivy B, P, S, N, l, Vin1, Mon, Miller || 18 sunovlw" B, H, P, V, W, F, Vat1 f. 2r, N, l, Atho1, Vin1, Mon: sunovlh" S bivou B, H, V, W, S, Vat1 f. 2r, N, l, Vin1, Mon: gevnou" P, F, Miller: tou` brotw`n bivou spatio vacuo relicto om. Atho1 || 19 w\ om. S || 20- 54 vv. om. Vat1 f. 1v et Nea || 20 h] ejmparoinh`/" th/` talª... Atho1 || 21 katacrivousa p. ta;" trivca" B, H, P, V, W, F, N, l, Atho1, Vin1, Mon (Vat1 f. 2r periit): katatruvcousa p. to; sw`ma S (M.) || 22 grau` P (cf. v. 1); pavnto" H, P, V, W, F, N, Vin1, Mon (Vat1 f. 2r periit): pavmpan B, l, S (M.): w\ grau`" ojdovnto"ª... Atho1 || 23 paratrwvgousa B, H, V, W, S, F, Vat1 f. 2r m2 , N, Atho1, Vin1, Mon: katatrwvgousa Vat1 f. 2r m1 || 24 eu\ ge B, H, V, W, S, F, N, l, Atho1, Vin1, Mon (Vat1 f. 2 r periit): a[ge (sic) P; ajfei`len B, H (sed vix verbum conspicitur), V, W, S, F, N, l, Vin1, Mon (Vat1 f. 2 r periit): ajfh`ken P: ajª... Atho1 || 25 ajrtigevnnhton B, H, P, V, W, F, N, l, Atho1, Vin1, Mon (Vat1 f. 2r periit): ajrtigevnhton S (O.) (Matrangae ajntigevnhton tribuit Miller) || 26 graiv>" B, H, V, S (Matrangae grau`" tribuit Miller), F, N, l, Atho1, Vin1, Mon (Vat1 f. 2 r periit): grau`" P, W; wjcrav B, H, P, V, S, N, l, Vin1, Mon (Vat1 f. 2r periit), Miller: a[ocra W (ut mihi legere videtur, vel aliquid simile; fortasse scriba duas litteras metri causa exarare volebat, cum grau`" monosyllabum haberet? an est w male conscripta?): ...crou`" F (littera prima vero mihi incerta visa est): wjcri;" ka]nª... Atho1 (ex antecedenti desinente); yimmiqivw/ H, P, V, S (Miller probante), F, N, l, Vin1, Mon: yimmuqivw/ B, W || 27 stafiv" B, H, P, V, S, N, l, Atho1, Vin1, Mon, Miller (Vat1 f. 2r periit): stamfiv" W (O.): stafuliv" F extra metrum (M.) dokh/`" B, H, V, W, S, F, N, l, Atho1, Vin1, Mon (Vat1 f. 2r periit): dokei`" P || 28 kamarivna (parox. accentu praeditum) B, H, V, W, S, L, N, l, Vin1, Mon: kamavrine P (qua de lectione scribit Boissonade, An. nova, p. 91 adn. 1 «ad meliorem scripturam ducit Kamavrina» [sc. pro Thorlacii Kamarivna]): makarivna F, Vat1 f. 2r (O.) (cfr. clamavda v. 89); murivzh/ B, V, W, S, L, F, l, Atho1 (Vat1 f. 2r periit): murivzh/" H, N, Vin1, Mon: merivzh/ P; pantoivw" Atho1 || 29 leptuvnh/" B, H, V, W, S, L, F, N, l, Atho1, Vin1, Mon (Vat1 f. 2r periit): leptuvnei" P || 30 lhmw`sa B, H, V, F, S (Matrangae lumw`sa tribuit Miller), Vat1 f. 2r m2 (h supra oi, q. v. postea), N, l, Atho1, Vin1, Mon: lhmmw`sa W, L (O.): loimw`sa Vat1 f. 2r m1 ta;" kovra" B, H, V, W, S, L, Vat1 f. 2r, N, l, Atho1, Vin1, Mon: tai`" kovrai" (sic) F || 31 rJussw`sa B, H, P, V, W, S, L, F, Vat1 f 2r m2 , N, l, Atho1, Vin1, Mon: rJupw`sa Vat1 f 2r m1 : rJussou`sa Miller (qui Matrangae kaiv pro tov tribuit) || 32 podagriw`sa B, H, P, V, W, S (Matrangae nhvson pro novson tribuit Miller), L, F, Vat1 f. 2r m2 (gri in interlineo), N, Vin1, Mon: podalewsa (sic) Vat1 f. 2r m1 : podartiw`sa Atho1 || 33 luvgisma B, P, V, W, L, F, l, Atho1 (Vat1 f. 2r periit): livgusma H, S, N, Vin1, Mon (O.): ejxhrgasmevnh Atho1 || 34 dev H, V, W, L, N, Atho1, Vin1, Mon: te P, F, Miller (Vat1 f. 2r periit): dev om. B, l, S ojrqoumevnh P1 , Miller: aijdoumevnh B, l, P2 , V, W, L, S, F, Vat1 f. 2r, N, Atho1, Vin1, Mon: gauroumevnh (sic) H || 35 w\ g. kai; p. g. kai; p. g. p. (sic) P || 37 rJevpei" B, H, P, V, L, F, N, l, Atho1, Vin1, Mon (verbum in litura habet W; Vat1 f. 2r periit): blevpei" S || 38 ajfrodivsia B, H, V, W, S, L, F, N, l, Vin1, Mon (Vat1 f. 2r periit): ajfrodisivwn P: ajfrodivsiª...ºpnevei" Atho1 || 39 kai; mh;n ejavn se Atho1; sunidei`n B, H, P, W, S, L, F, N, l, Atho1, Vin1, Mon (Vat1 f 2r periit): sunoi>dei`n V (O.) || 40 proshvkonto("?) (sic) N; tw/` om. Atho1 || 41 ...ºtruga`/" ktl. Atho1 || 42 drepavnhn B, H, P, V, S, L, F, N, l, Vin1, Mon (Vat1 f. 2r periit): drevpanon W: drepavnh ej. t. aj. fevrª... (sic) Atho1 || 43 clovh B, H, P, V, W, S, L, F, l, Atho1, Vin1, Mon (Vat1 f. 2r periit): crova N; crovnw/ H, V, W, S, L, F, N, l, Atho1, Vin1, Mon (Vat1 f. 2r periit): krivnw/ P || 44 ajnazevei H, P, V, W, F, N, Atho1, Vin1, Mon (Vat1 f. 2r periit): a{ma zevei B, l, S: a[nw zevei (sic) L (M.) || 45 pivqon B, H, V, S, L, F, N, l, Vin1, Mon (Vat1 f. 2r periit): povqon W: puvqon P, Atho1; ejx ajkrasiva" (-taxiva" sscr.) Atho1 || 46 Matrangae thvn pro tav tribuit Miller; kaiv bis scripsit Atho1 || 47 e[scaton B, H, P, V, S, L, F, N, l, Atho1, Vin1, Mon (Vat1 f. 2r periit): eijkovta W || 48 5 swfrovnw" B, H, V, W L, S, F, N, l, Atho1, Vin1, Mon (Vat1 f. 2r periit): eujfrovnw" P, Miller || 49 kaqwv" B, H (sed verbum vix conspicitur), V, W, S, L, F, N, l, Atho1 (Vat1 f. 2r periit): kaqav P, Vin1, Mon || 50 Matrangae probh`sa tribuit Miller; litterae vero tamquam probh`sai mihi quoque visae sunt, sed fort. flosculum tantum est in desinente || 51 th;n de; trivca fqavsasa th;n geraitavthn H, P, V, L, F, N (ghr-), Atho1, Miller (ghr-): th;n d∆ ejscavthn f. t. ghraitavthn B, l, S: kai; th;n trivca f. t. geraitavthn W (fqavsasan), Vin1, Mon: Vat1 f. 2r periit: th;;n de; truvga f. t. g. ci. Boissonade, An. nova, p. 91 adn. 1 «cogito de legendo truvga, cum praecesserit comparatio vini» || 52 codici P falso s∆ pro d∆ tribuit Miller; est enim d celeriter exarata || 53-55 om. N (fort. quia scriba antigraphi lineam tripertitam, in qua versus erat, praeteriit; cf. vv. 13-14) || 53 Matrangae ejkluvvousa pro kluvvousa tribuit Miller; ejrinnuvwn B, H, P, V, W, S, F, l, Atho1, Vin1, Mon (Vat1 f. 2r periit): ejrrinnuvwn L (O.); ex h. v. textum in mg. dx scriptum praebet Atho1 || 55 oi|" B, H, P, V, W, S, L, F, Vat1 f. 1v, l, Atho1, Nea (Vat1 f. 2r periit): h| (sic, i. e. h|/) Vin1, Mon; neavnide" B, H, P, V, S, F, Vat1 f. 1v, l, Atho1, Nea (Vat1 f. 2r periit), Vin1, Mon, Miller: neavnidai W (M.): neavzousai L || 56 Matrangae tw/` fuvlle pro tw/` fuvkei tribuit Miller || 58 ad h. v. carmen desinit in Nea, quod excipit series VII versuum (vd. apparatus finem) || 59 tevttix B, H, P, F, l, Atho1 (Vat1 periit), Vin1, Mon, Miller: tevtix V, W, S, L, N (O.) || 60 ejkpnoai`" B, H, V, S, L, l, Atho1 (Vat1 periit): tai`" pnoai`" P, W, F, N, Vin1, Mon, Miller || 61 eJtairikwtevran B, H, V, S (Matrangae stolivzei tribuit Miller), L, N, l, Atho1 (ut puto, sed lectu difficile), Vin1, Mon: eJtairikwtavthn P, W, Vat1 f. 2r: ejrwtikwtavthn F || 62 sfai tou;" daktuvlou" Mon (quippe qui ex Vin1 maculato legerit) || 63 tw`n tina;" nevwn B, H (fort., sed verba vix legi possunt), V, S, F, N, l, Atho1: tina;" tw`n nevwn P, W, L, Vin1, Mon, Miller || 64 eijdovnta" P || 66 prosegguvsai (sic) N: proseggivsa" Boissonade, An. nova, p. 91 adn. 1 ex Thorlacio sed nullam variam lectionem ex P exhibens, qui certe proseggivsai praebet || 67 ka[n eij muvroi" pavttoito B, H (sed verba vix conspiciuntur), P (t in interl.), V, S, N, l, Atho1, Vin1, Mon: k. e. m. pavtoito F (O.): k. e. m. plavttoito W: ka]n toi`" muvroi" plavttoito Vat1 f. 2r; to; pa`n sarkivon (hoc in ordine) S: pa`n to;; sarkivon non conspicitur in Atho1 || 68 favgoi B, P (ubi vero vermis desinentes litteras partim exedit), V, S, l (Vat1 periit): favgh W, L, F, N: fagh` H: verbum non bene conspicitur in Atho1; mevliti summigh` kovpron B, H, V, W, S, L, F, l, Atho1 (Vat1 periit): m. s. kuvpron (sic) N: mevli ti summige;n kovprw/ P, Vin1, Mon || 69 crusopavstw/ suzugh`/ delfakivw/ B, H, V, S, L, F, N, l, Atho1: c. suzugei` d. P: crusovpaston summigh` delfakivw (sic) W (2 M.; summigh` ex superiori versu irrepsit): crusopavstw/ suzeucqh`/ delfakivw/ Vin1, Mon: crusopavstw/ suzugeivh devlfaki possis? || 70 labeivh P (...ºlabeivh H); ka[n te nou`n kai; ta;"ª... Atho1 || 71 ejxamoivbein Vin1, Mon; oi\de t. t. f. B, H, P, V, W, S, L, l, Vin1, Mon (Vat1 periit): oi|a F (M.): oi\den hJ tevcnh fuvsin N: ex h. v. carmen in mg. sn f. 225v scriptum, evanidum atque exesum praebet Atho1 || 73 ka]n N (ex priori versu irrepsit) trovpou" B, H, P, V, W, S, L, F, N, l, Atho1, Vin1, Mon: lovgou" Vat1 f. 2r || 74 ajsbovloi" (O.) N || 75 triobovlon (sic) N || 76 h\" B, H, P, V, W, S, L, F, N, l, Atho1, Miller (Vat1 periit): ei\" Vin1, Mon: h\/" perperam Romano; crhvsimo" i[sw" eij" e[ron H, V, W, F, N, Vin1, Mon (Vat1 periit): c. i[. wJ" e[. P (Boissonade, An. nova, p. 91 adn. 1 non innotuit varia lectio wJ", quod mendum ferme occurritur: cfr. Germ. II, carm. poen. v. 28 ed. meae wJ" dou`lon B, Dapontes: eij" dou`lon N): c. i[. e. e[rwn L: c. i[. e. e[rin B, l, S: ...ºhvsimo" i[sw" eij"ª... Atho1 || 77 om. L; h\" H, P, V, W, S, F, N, l, Atho1, Miller (Vat1 periit): ei\" Vin1, Mon: h\/" perperam Romano; devlo" H, P, V, W, F, N, Vin1, Mon (Vat1 periit): bevlo" B, l, S: gevlw" Atho1 || 78 kruvpton B, H, P, V, S, L, F, l (Vat1 et Atho1 perierunt): kruvpte W: kruvptwn N, Vin1, Mon; kakh`" B, H, P, V, S, L, F, N, l, Vin1, Mon (Vat1 et Atho1 perierunt): kalh`" W; ajggistrivdo" N (O.) || 79 nu`n (alterum) om. F infra metrum || 80 oujde;n ga;r a[llo tw/` crovnw/ tw/` sw/` prevpei B, H (sed vix verba conspici possunt), P (a[llw/ excepto) V, W, S, L, F, N (sed oujdev praebet N), l (Vat1 et Atho1 perierunt): o. ti g. a[. tw/` sw/` crovnw/ p. Vin1, Mon || 81 h] ma`llon H, P, V, W, L, N (Vat1 et Atho1 perierunt): kai; ma`llon B, l, S, Vin1, Mon, Miller bivw/ B, H (sed verbum vix conspicitur), V, W, S, L, F, N, l, Vin1, Mon (Vat1 f. 2r, Atho1 perierunt): crovnw/ P || 82 ajll∆ ouj B, P, V, W, S, F, N, l, Vin1, Mon (vix conspicitur versus in H; Vat1 periit): ajll∆ eij L kai; brw`ma B, H, P, V, W, S, L, N, l, Atho1, Vin1, Mon (Vat1 periit): to; brw`ma F (forsan articuli tov compendio pro kaiv alicunde perperam lecto?) || 83 fqavrhqi B, P, V, W, S, L, F, N, l, Atho1, Vin1, Mon (H et Vat1 perierunt): fqavrhti Miller (forsan falsa Matrangae collatione fretus), Romano; kakw`" P, V, W, L, F, N, Vin1, Mon (H et Vat1 perierunt): kakoi`" B, l, Atho1, S; hJ kakivwn B, P, V, W, S, L, N, l, Vin1, Mon (H et Vat1 perierunt): wJ" kakivwn F: ...ºkakiva Atho1 || 85-87 om. W || 85 mhv om. N; mevlle B, P, V, S, F, N, l, Atho1, Vin1, Mon (H et Vat1 perierunt): mevle L (O.); kovyon B, H (sed vix verbum conspici potest), P, V, W, S (ubi vero et kuvyon, ut iampridem Matranga, legere possis), L, F, Atho1, Vin1, Mon (Vat1 periit): kovywn N (vox nihili?) to;n mivton B, H, P, V, S, L, N, l, Vin1, Mon (Vat1, Atho1 periit): to;n bivon F (vestigia tantum, sed perspicua et certa, litterae b verticalis; haec lectio forsan falsae litterae m tamquam b horizontalis lectae debetur?) || 87 nekroª.....º"; (sic hoc cum acc.) Vin1, atramenti maculae causa: nekropompov" Mon, ex infelici coniectura ex priori versu deprompta; presbuvthn Atho1 || 88 mhv om. N; mevlle B, P, V, W, S, F, N, l (...º mhd∆ oJ krh`" mivnw" H; Vat1 periit): mevle L (O.) m. m. ª....ºmavnqu m. wjku;" m. (sic) Vin1, ubi atramenti macula litteras rJada tegit: m. m. mavnqu m. wjku;" m. Mon (quippe qui ex Vin1 maculato legerit): rJadavn maª... Atho1 || 89 krinou`nte" B, H, V, W, S, L, F, N, l, Atho1, Vin1, Mon (Vat1 periit): kirnou`nte" P; palaiavn B, H, P, V, W, S, L, F, N, Vin1, Mon (Vat1 et Atho1 perierunt): poliavn Miller (certe Matrangae descriptione fretus); clamavda P (cf. makarivna v. 28) || 90 ajporei`te B, H, P, V, W, S, L, N, l, Atho1, Vin1, Mon (Vat1 periit): 6 ajporei`tai F: ajporh`te Miller-Matranga, Romano || 91 Matrangae klivna" et kicnivai tribuit Miller (mihi vero amicoque Lorusso verba incerta visa sunt) aj. k. bow`sin aujtai; l. B, H, P, V, W, S, L, F, N, l, (Vat1 periit; aj. k. ª...º aujtai; l. Atho1): aj. k. kravzousi aujtai; l. Vin1: aj. k. kravzousi eJautai; l. Mon (verbum kravzousin e v. 93 fort. irrepsit) || 92 o{mw" B, H, P, V, W, L, N, l, Vin1, Mon (Vat1 et Atho1 periit): o{lw" S: oJ...k(aiv) rasura inter duo litteras F || 94 Matrangae pampevlou pro pempevlou tribuit Miller || 95 pavqoi–tuvcoi H, P, V, W, L, F, N (Vat1 periit), Miller: pavqh/–tuvch/ B, l, Atho1, S, Vin1 (sed supra h verbi tuvch diphtongi oi vestigia apparent), Mon (qui vero tuvch{ sic his cum accentibus scripsit, vestigia praedicta perperam intelligens) || 96 par∆ uJmi`n B, l, S, L, Miller: par∆ hJmi`n H (vix legi potest), V, W2 (in interlineo), N, Atho1 (Vat1 periit): par∆ hJmw`n P, W1 , F, Vin1, Mon, Romano; ijdivai (O.) Atho1 || 97 pollaiv N kaiv om. W trovpoi B, H, P, V, W, S, F, l, Atho1, Vin1, Mon (Vat1 periit): tovpoi L, N || 98 ei|" H, P, V, S, L, F, N, Atho1, Vin1, Mon (Vat1 periit): oi|" W; mavlista prevpei hoc in ordine S (hic B non concordat); tauvth/ th/` krivsei B, H, P (sed atramenti macula partim verba tegit) V, W, S (Matrangae toiauvth/ th/` k. tribuit Miller), L, F, N, l, Atho1, Vin1, Mon (Vat1 periit): toiauvth/ k. Miller et Romano || 100 Matrangae eujqhvna" tribuit Miller: atramenti macula verbum eujquvna" tegit, exceptis uqu P || 101 kai; toi (soi m1 ) p. ou{tw (sic) sarkivon ojstrakwqevn P: inter ou{tw et ojstrakwqevn litterae duae apparent lectu difficiles Atho1 sarkivw/ (sic) Vin1, Mon || 102 tw/` (sic, non tov) N In cod. l f. 222r post v. 102 haec verba sequuntur: a[n ti" qh/` katav tino" e[gklhma, ejkei`no" de; baruvteron e[gklhma ajnqepavgh/ (fort. ajntepavgh/), to; ajntepenecqevn, gumnasqh`nai crh; provteron, baruvteron ouj; in f. 222v sequitur Prodromi collectio vel alia carmina, ut mihi Matthaeus Di Giovanni refert, qui folium ipse Londinii vidit (fqore; crovne, dov" moi qesauvrisma tw`n qhlutevrwn tw`n ojlbivwn). In cod. Vat1 f 2r, valde pessumdatum carmen a prima linea tripertitum scriptum manet, quod quantum valui sic exscripsi: l. 5 col. sn e≥n≥onti mikr(o;n) eijmi; tw`n ouj brosivmwn l. 7 col. sn k(ai; ?) ... grammavtwn ouj pleiovnwn l. 8 col. sn ejn tw/` skovte≥i≥ ... o[nuxnux l. 9 col. sn p..beion d... l. 10 col. sn a[crhston eu{rhse ... pro;" xulourgivan In cod. Nea f. 315v, post v. 58 carminis 140 H., sequuntur versus VII, quos hic describo: ...ºlon eijmi;: sullabh;n fevrw mivan ...ºfavmª...ºkai; to; rw de; karkivnãouà divkhn ...ºwkª...ºtw`nª...ºesme tauto; prosmevnw ...ºkefaliª...ºqevggomª...ºkai; pnevw ...ºth``" kefalh`" ajpotimhqivsh" piqw ...ºgrau`", tiv bhvttei" ejn emª...ºia" ejn w[ eluka ..eka diaqei`sa th`/ kavra, bhvttw TRADUZIONE              5          10          O vecchia lurida, sciagura immensa per gli uomini!  O vecchia lurida, più anziana di Tucrito!  Ruga ricurva, putredine attempata!  O vecchia impudente, o impura anziana,  dissoluta, sempre in fregola, altezzosa!  O vecchia peripatetica, arcibaccante, menade selvaggia!  O vecchia lurida, tre volte vecchia e quattro volte!  Veneranda quintuplice cornacchia, putrida anziana!  Oceano Atlantico, profondità del mare Egeo,  Ponto, Propontide, bocca d’oceano,  distesa marina, completamente più salata di questa,  in cui andarono a sprofondare mille e mille bastimenti,  in cui andarono a naufragare navi intere con tutto l’equipaggio!  O palude di fango e profondità di melma!  7 15          20          25          30          35          40          45          50          55          60          65    o casa dell’anguilla e della rana!  Contaminazione della natura e degli esseri naturali!  O locusta, grandine, zanzara, tenebra,  e insomma rovina della vita dei mortali!  O vecchia canuta fino alle ciglia,  per quanto tu offenda la sventurata natura,  tingendo continuamente i capelli!  O vecchia senza neanche un dente,  che mordicchi solo con due molari,  che fece bene il tempo a non toglierti,  perché non ti si credesse un bimbo appena nato!  O vecchia pallida, anche se inganni con la biacca!  O uva passa, anche se sembri ancora acerba!  O cloaca massima, anche se ti profumi abbondantemente!  O cuoio conciato, anche se stiri la pelle;  cisposa, anche se il bistro è intorno alle pupille;  rugosa, anche se la cipria è intorno alle guance;  gottosa, anche se fingi (di non avere) la malattia;  capace di far passare la podagra per una lussazione;  gobba, anche se sembri dritta!  O vecchia, e ancora vecchia, e ancora vecchia e ancora;  scandalo antico, vetusta malizia!  Perché fai questo: pieghi di nuovo verso i desideri,  vai a caccia di amori, spiri aliti venerei?  Eppure dovevi saperlo prima  che ogni cosa è bella a suo tempo!  A suo tempo vendemmi l’uva dalla vite,   a suo tempo porti la falce alla spiga;   il balsamo, il giglio, l’erba viene a suo tempo.  Il vino nuovo e pieno di forza ribolle  e spacca l’orcio con disordine:  essendo nuovo, gli succede quello che succede ai giovani;  ma verso la vecchiaia e l’ultimo tempo   si ferma in sé stesso con temperanza,  si contiene ed è savio come un vecchio.  Ma tu che hai superato tutte le età,  che hai raggiunto il capello più vecchio,  che sei giunta vicino alla porta della morte,   che odi il grido delle Erinni  e l’ululato del cane Cerbero,  ti occupi ancora di faccende da giovani donzellette   e impiastricci le guance di belletto.   Oh povera te e il tuo amore per i piaceri venerei!  Oh tu forsennata per la caccia all’amore!  Quando sta per morire, la cicala canta di più   e tu, proprio vicino all’ultimo respiro,   indossi l’abito più degno di una cortigiana;  adorni le dita di lacci d’oro,   per catturare qualche giovane preda  che guardi all’ornamento, non all’età.  E qual giovane è tanto dissennato  da resistere ad avvicinarsi a uno scarrafone,  8       70          75          80          85          90          95          100      anche se si cospargesse tutto il corpo di profumi?  O chi mangerebbe il concio misto al miele,  o chi si unirebbe con un porcello cosparso d’oro,  se non fosse tocco di mente e d’intelletto?  L’arte non sa mutare la natura,  neanche se muovesse tutte le funi, come si dice,  ed escogitasse tutti i tipi di espedienti.  E un viso di vecchia pieno di fuliggine  uno assennato non lo comprerebbe nemmeno per due soldi.  Forse un tempo eri utile all’amore,   forse un tempo eri un’esca d’amore per gli uomini,   che celava l’uncino dell’amo maligno.  Ma va’ a fare la maîtresse ora, va’ a fare la procacciatrice di donnine!  Perché nient’altro si addice alla tua età,  o, per meglio dire, alla tua vita e al tuo carattere.  Ma, non vuoi? E va’ in pasto ai lupi.  Crepa tristamente, tu, più trista dei tristi!  Va’ in malora, va’ al diavolo!   Non tardare, Cloto, recidi una buona volta lo stame!  Tu, che sei la guida dei morti, accogli la poverina!  Tu, che sei il nocchiero dei morti, traghetta la vecchia!  Non tardare, Radamanto, neanche tu, Minosse di Creta!  Su, venite qui a giudicare la vecchia meretrice  e non mancherete di testimoni che la accusino!  I letti stessi, le lucerne stesse lucerne gridano!  Stiano tuttavia lontano e letto e lucerna:  i segni impressi gracchiano come Stentori  e testimoniano la vita della decrepita!  Che pena potrebbe subire, qual rendiconto potrebbe sostenere?  Sono molte le forme di tortura presso di voi,  molti e diversi i modi di punizione,  ma uno solo si addice soprattutto a questo giudizio:  al prisco e vecchio Cerbero  la vecchia sia resa e a lui renda conto.  Pure con una pelle così dura come il coccio  si sfiancherà anche la bocca di Cerbero.  NOTE Metro: dodecasillabo. Tradizione del testo: si rilevano alcune concordanze tra i codd. B e S (eccettuati i vv. 37, 67, 98). Lo stereotipo della vecchia eroticamente ripugnante compare in poeti e prosatori greci fin dall’età classica: rimanderei anzitutto ad Aristofane Thesm. Critilla; Eccles. la vecchia che cerca invano di attrarre un giovane; e Pl. 1059 ss., un brano che sembra qui riecheggiato in parecchi punti; poi a quegli epigrammi dell’Anthologia Palatina che descrivono e deridono vecchie decrepite, specialmente XI 65-74 e, più in generale, a tutto il libro XI, caratterizzato da contenuti scommatici accentuati, ripresi anche nella SAt. 141 H.; poi all’arte figurativa ellenistica (in primis la statua di vecchia ebbra).1 1 Copia romana in marmo da orginale ellenistico del II s. a.C., cm 94, provenienza Roma, via Nomentana, S. Agnese, 1620, ex Collezione Verospi-Vitelleschi, poi Collezione Ottoboni; ora a Roma, Musei Capitolini, inventario MC0299. L’archeologo P. Moreno ha identificato la vecchia della statua con la Maronide di Leonida di Taranto, AP VII 455 (epigramma giambico: ma non descrive le fattezze della vecchia). La statua 9 Chiara anche la lezione di Psello (citati secondo l’ed. Westerink): carm. XXI pro;" to;n Sabbaivthn (vd. anche il comm. di Sternbach 1903; trad. it. in Romano 1999) in molte imprecazioni simile al nostro; carm. XXII In monacum Iacobum carm. LXIII 49 carm. XVII in Mariam Sclerenam Christ. Mytil. In monacum Andream (ed. Kurtz; trad. it. in Romano 1999); I passi del testo in prosa Anacarsi o Anania attribuito a Niceta Eugeniano (Chrestides 1984) sono prova della lettura di Prodromo: troppe per essere casuali o poligenetiche sono le citazioni verbali e contenutistiche. Imitazione di alcuni versi di questa satira si trova in Nic. Eug. Dros. et Char. III 208-215, sp. nelle contumelie di v. 208 contro una vecchia libidinosa mainav", sobav", tavlaina, prevsba parqevne. 1 miarav: può essere inteso anche in senso fisico (cfr. Xen. Ephes. III 12 gunai`ka ojfqh`nai miaravn ripugnante a vedersi); sez’altro è voce comica (e.g. Ar. Ran. 571). Incipit simile in Prodr. Tetr. in Vetus et Novum Test. Gn 11a, 1 w\ miara; cei;r tou` Kavin kai; kardiva e Io. Tzetzes Scholium in Historias VII 831 w\ miarev, pammivare kai; koprwta; biblivwn. 2 Qoukrivtou palaitevra: è un vecchio ultrasettantenne menzionato in Luc. Dial. mort. XVI; ricompare in Sat. 141 H., 3. Da Prodromo, oltre che dalla fonte originaria, lo avrà certo ripreso Nic. Eug. (?) Anach. 396 Chrestides, come accade per molte altre voci ed espressioni, segnalate nel commento ai rispettivi passi delle altre satire. 3 rJoikhv: rJeikhv, grafia concorde di tutti i mss., è vox nihili (non lemmatizzata né in Tgl, né in LSJ, né in TLG on-line, dove con la stringa reik- si rinviene solo rJeikourevndo", che suona come voce latina recurrendus?). Tale grafia, nondimeno, dovrebbe provare almeno che ei era pronunciato senza dieresi, a dispetto del dodecasillabo, e quindi omofono a oi = /i/ dell’originale rJoi>kov", che va tuttavia necessariamente ripristinato con Miller. Quest’ultimo aggettivo, non più compreso dai copisti, è forse stato pedissequamente copiato (evento non raro per le parole inusuali, quando non siano state storpiate o adattate a forme più orecchiabili), ma senza verifica alcuna della grafia. Prodromo comunque avrà senz’altro scritto rJoikov", aggettivo non frequentissimo (una settantina di occorrenze in TLG on-line), ma vistoso per la sua mente erudita. Il significato non è piano né univoco; LSJ distingue secondo l’ortografia filologica moderna due rJoikov": 1- senza dieresi significa ricurvo e si usa specialmente per le gambe (vare o valghe, difficile da accertare; cfr. Hp. aer. 20, 2, 8), ma anche per bastoni (Theocr. IV 49 lagwbovlon, bastone per cacciare le lepri; VII 18 koruvna, clava); 2- con dieresi significa flaccido (Hp. aer. 20, 2, 14)2 oppure che soffre di flusso.3 Non so da dove LSJ ricavi questa distinzione grafica, ché i lessici antichi e medievali tacciono: anzi, riportano solo il primo significato; potrebbe darsi anche l’inverso (con dieresi ricurvo, senza che soffre di flusso)? Una ha proprio le caratteristiche fisiche della vecchia prodromea: denti radi e pelle vizza. Per i rapporti tra arte ellenistica e bizantina e per la ripresa nella seconda di tratti non idealizzati ma realistici della prima, vd. Kitzinger 1963, sp. p. 100 e tavv. 1-2 (confronto del maltese risanato da s. Paolo, Act. XXVIII 8-9, rappresentato nell’eburneo dittico Carrand, Museo Nazionale di Firenze, età tardo-antica/primo-medievale con la statuetta di uomo macilento, Washington, Dumbarton Oaks Collection, età ellenistico-romana). In età tardo-antica affiora la convinzione per cui una donna dalla bellezza sfiorita ha pur sempre qualcosa di più saggio da insegnare nell’amore di quanto non facciano i fanciulli nelle relazioni omoerotiche. Plut. Mor. 770c (amatorius) trova in questa affermazione l’implicazione moralistica a favore di una relazione eterosessuale fondata sull’amore e non sulla lussuria, ideale non condiviso da Caricle in Luc. Amor. (49 Mcl.) 25, propugnatore dell’amore eterosessuale a tutte le età e della sua componente meramente edonistica. Anche alcuni poeti della Anthologia Graeca si attestano su questa medesima posizione (Filodemo V 112; Nicarco V 38; Paolo Silenziario V 258; Eratostene Scolastico V 277). 2 Del passo ippocratico mi limito a sottolineare l’assenza di chiarezza: i filologi hanno scelto di volta in volta questa o quella variante, spostando la sfera di significato dall’ortopedia (rJoikov" ricurvo) agli umori (rJoi>kov" flaccido?). Una soluzione univoca e netta è a mio parere impossibile: io opto per il primo significato, ma la maggior parte degli interpreti, compresi quelli arabi, ha inteso la flaccidità. Nondomeno, anche accettando quest’ultima tendenza, il passo ippocratico sarebbe l’unico a testimoniare il significato flaccido; tutte le altre occorrenze dell’aggettivo da me controllate e non pertinenti il significato ricurvo vanno ricondotte inequivocabilemte al flusso (vd. n. seg.). 3 Le occorrenze di rJoi>kov" che soffre di flusso (diarroico o mestruale) sono 18 in Dioscoride (Wellmann 1907-1914) e 1 in Oribasio XIII G 3, 4 (Raeder 1929). Si noti, però, che nell’edizione succitata di Dioscoride solo 2 delle 18 occorrenze riportano la grafia dieretica rJoi>kov" raccomandata da LSJ; tutte le altre, invece, mancano della dieresi (l’apparato ad l. tace sempre). 10 dicotomia semantica, comunque, esiste, come si desume anche dal controllo diretto delle circa 70 occorrenze di rJoikov" in TLG on-line. Quale delle due sfere semantiche intendesse Prodromo, si può provare a determinare. A favore del secondo significato (affetto da flusso) potrebbe andare la presenza della dieresi,4 come dimostra il computo delle dodici sillabe del verso; anche in questo caso, tuttavia, Prodromo potrebbe essersi concesso la licenza di leggere con dieresi un dittongo proprio (cioè rJoikov" ricurvo), evento non raro nella poesia (specialmente omerica: e.g. il prefisso eu- letto separato in ejuknhvmide" ∆Acaioiv; e qui vd. v. 36 infra ajrcai>khv). Tre dunque sarebbero le possibilità di traduzione: ruga ricurva (la ruga stessa sul viso e/o, per metonimia, la vecchia rugosa curva nella schiena); ruga flaccida (se così interpretava anche Prodromo il passo di Hp. aer. 20, 2, 14; ma dubito); ruga (metonimia donna rugosa) malata di flusso. Credo che la prima sia la più vicina al senso dell’originale: il significato ricurvo è testimoniato abbastanza bene, con passi provenienti da Teocrito, autore ben presente alla memoria di Prodromo, come risulta anche dal suo romanzo erotico; nonché dai lessici, compulsati frequentemente dagli autori tardo-bizantini, cacciatori di glosse e parole peregrine. Degli altri due significati, invece, uno è troppo dubbio a mio parere, l’altro troppo specialistico. Per gli hapax vd. comunque n. ad v. 6 provbakc∆(e). L’aggettivo kronikov" indica figuratamente qualcosa che rimandi agli antichissimi tempi di Crono e significa, quindi, fuori moda, antiquato, datato; cfr., tra i primi, Ar. Pl. 581 (cum sch.), Plat. Lys. 205c 6; Alex. fr. 62, 2 Kock = 63 K.-A. (ap. Athen. XV 44, 18); Com. Adesp. 1052, 1 Kock = 751 K.-A. (ap. Poll. II 16 in un elenco di kwmika; skwvmmata); nonché i lessicografi (Esichio, Fozio, Suda). Interessante la comparazione con un verso esprimente una concezione completamente diversa delle rughe: Greg. Naz. PG XXXVII, 1244-1246, v. 2 rJuti;" gavr ejsti pragmavtwn ejmpeiriva. Sapriva è termine che compare a partire dagli autori ellenistici: tra gli altri, nei LXX (dieci volte, di cui sei nel libro di Giobbe); nella stessa sede metrica in Eug. Panor. XV 11 fuvousan aujth;n ejk rJuvpou kai; sapriva". 4 grau`"-presbuvti": si noti la costruzione chiastica sostantivo-aggettivo/aggettivo-sostantivo; per presbuvti" rimando al v. 8. 5 maclw`sa-gauroumevnh: il primo participio (maclw`sa) si trova a partire dagli scrittori ecclesiastici (vd. Lampe s.v.); cfr. il maclav" a v. 89 infra. Il secondo (kaprw`sa) già in Ar. Pl. 1024 (dal passo più volte qui menzionato); si confronti anche ps.-Archil. fr. 328, 15 West, un carme giambico, conservato nel Vat. Barb. gr. 69, f. 104r (saec. XVII) e assomante in sé una serie di glosse, molte delle quali sinonime tra loro (ed. pr. Tarditi 1961, p. 312, che lo attribuisce a un umanista del XVI sec.) toiga;r kaprw`sa macla;" a[rdhn ejrrevtw, riferito a una prostituta. Il terzo participio (gauroumevnh), infine, tra le sue molte occorrenze, ne annovera un paio vistose per Prodromo: Ez. trag. v. 268b ap. Eus. Praep. ev. IX 29, 16 tau`ro" w}" gaurouvmeno" (tale autore sembra riecheggiato anche al v. 17). Cfr. inoltre gauriovw in Heliod. Aeth. VIII 6, 4 kai; gauriw`n eij lupou`sa: i romanzieri tardo-antichi sono lettura prediletta da Prodromo, come provano molte parole da loro prese e impiegate in Rodante e Dosicle e nelle altre satire. 6 sobav": è parola comica (Eup. fr. 373 K.-A. ap. Sch. in Ar. Pac. 812a graosovbai, dove si spiega sobavda" ga;r ta;" povrna" levgousin), interpretato da LSJ come femminile poetico di sobarov" impetuoso e quindi insolente, procace; ma si trova anche in Filone Alessandrino, in alcuni scrittori ecclesiastici e nei lessici. Ho preferito tradurlo come un sostantivo di valore attributivo, qual sembra avere nei passi citati, e secondo un registro non troppo volgare, quale parrebbe avere anche il greco. provbakce: la parola non ha altre occorrenze, se non Eur. Bacch. 413 provbakc∆ eu[ie, che però è congettura di Hermann per il tràdito probakchvie.5 L’occorrenza prodromea anzitutto potrebbe provare che si leggevano le 4 Sull’impiego del trema, vd. Introd. Constitutio textus. § Spiriti ed altri segni ortografici. Trema, p. 39 supra. 5 I codici a noi pervenuti che tramandano le Baccanti sono cinque: due non descripti del sec. XIV, cosiddetti della “raccolta dei diciannove drammi” (ossia tutti) L (Laur. Plut. XXXII 2) e P (Vat. Pal. 287); e tre apografi di L (Laur. Plut. XXXI 1, sec. XV; Paris. 2817, sec. XVI; e Paris. 2887, sec. XV/XVI). Le Baccanti fanno parte della cosiddetta “silloge delle dieci” (Hec. Or. Phoen., ossia una delle cosiddette “triadi bizantine”; Hipp. Med. Alc. Andr. Tr. Rh. Bacch. con scoli) e a Costantinopoli dopo il 1000 tale tragedia doveva pur circolare, se è vero che l’anonimo autore (Teodoro Prodromo? Costantino Manasse? vd. Premessa, p. 5, n. 1 supra) del Christus patiens reimpiegò parecchi suoi versi, talora con varianti diverse dalle lezioni a noi note (specialmente quelli riferentisi allo sparagmov" di Penteo e da lui trasferiti alla crocifissione di Cristo); e se è vero che i copisti di L e P effettuarono la copia a noi pervenuta della “silloge delle diciannove” probabilmente da un prototipo, confezionato prima del 1175 e in cui erano già statate saldate meccanicamente la “silloge delle dieci” e la “silloge delle nove” (dette anche drammi alfabetici: Hel. El. H.f. Hcld. Ion Suppl.[Iket.] Iph.A. Iph.T. Cycl.[Kycl.]). Anche la conoscenza dei drammi alfabetici prima dell’età di Demetrio Triclinio crea non meno problemi che la conoscenza delle Baccanti, perché le citazioni di prima mano da essi in autori ante XIV sec. sono scarse e dubbie; tra le meno incerte, forse, quelle riconosciute in Eustazio di Tessalonica, che concluse appunto nel 1175 i Commentarii in Homerum (sp. Cycl. Ion, più dubbiosamente Iph.A. Iph.T. El. Suppl.; vd. Pertusi 1957, p. 21 e Magnelli 2003, p. 193). Tale fenomeno viene incrociato con le citazioni prodromee dalla stessa “silloge”, discusse nel ragionato e minuzioso spoglio di Magnelli 2003, che non esita 11 Baccanti in qualche ms. anteriore ai già pochi a noi pervenuti; poi che in tal ms. si leggeva la felice congettura di Hermann; infine conferma senz’altro la smania per gli hapax e le parole rare degli autori tardo-bizantini. Il significato che forniscono i vocabolari (in primis Tgl) non è uguale per entrambi i passi: per quello euripideo guida, capo della processione delle baccanti; per quello prodromeo invasato dal furore bacchico (vd. LBG s.v. = bacchantisch, con il nostro passo citato dall’ed. Miller II, sotto il nome di Manuele File); ma questo secondo mi pare dovuto a un processo di contestualizzazione. Data l’unicità del termine, manterrei il significato originario, che certo include anche quello derivato (come dire arcidiavolo per cattivissimo, anche se propriamente significa capo dei diavoli). 7 tri;" to; Ægrau`"Æ kai; tetravki": evidente rovesciamento del makarismos omerico tri;" mavkare" Danaoi; kai; tetravki" (e 306); cfr. anche Tzetz. proleg. in Lyc. 105 Scheer (= Hes. fr. 211.7, 10 M.-W. = 152.7, 10 Most). La variante gra`" per il secondo grau`" in P è solo un lapsus calami; è attestato però un gra`", hJ come variante di gravso" (termine usato in Sat. 141 H., 4) in ps.-Zon. Lex. 453. 8 penatakovrwne-presbuvti": pentakovrwno" è rarissimo e della poesia epigrammatica; non solo, però, nella perduta iscrizione di Smirne, n. 81, 15 Grégoire qhvkato kouridivhn ajpo; grao;" pentakorwvnou,6 bensì anche in una variante a noi tràdita dal solo codice planudeo (quindi post-prodromeo) Ven. Marc. 481 dell’AP per l’epigramma XI 67, 2 e[cei" de; su; tou;" ejniautou;"É di;" tovssou", truferh; Lai;> korwnekavbh. (Salm.: lai;> korw`n eJkavbh P (Palat. 23 + Paris. Suppl. Gr. 384, due parti del medesimo codice spartito per ragioni storiche tra Germania a Francia e datato al X sec. ex., sec. Beckby a): laontakovrwn eJkavbh Plan. a.c.: pentakovrwn∆ eJkavbh Plan. p.c.). Altri composti simili, che possono aver ispirato Prodromo, indipendentemente dal fatto che egli abbia incontrato o meno nelle sue letture un pentakovrwno", sono tetrakovrwno" in Hes. fr. 304 M.-W. ap. Plut. Def. orac. XI 415, passo istruttivo anche sulla longevità delle cornacchie (ejnneva toi zwvei genea;" lakevruza korwvnhÉ ajndrw`n hJbwvntwn: e[lafo" de; tetrakovrwno") e trikovrwno" in Alciphr. II 7, 1; Anth. Pal. V 289, 1; e XI 69, 1. Fuori luogo la traduzione di Romano «cinque volte ricurva». Prevsba si trova già nell’Iliade, per lo più come epiteto di Era, nel significato di augusta, veneranda, non di attempata; anche nelle scarse occorrenze posteriori mantiene il significato originario; evidentemente, però, l’aggettivo subisce lo stesso slittamento dell’italiano venerando (cfr. g 452, riferito a Euridice che, in quanto moglie di Nestore, proprio giovane non doveva essere). Tenderei, comunque, a considerare qui l’aggettivo come sostantivato; come poi per il seguente presbuvti", più frequente negli scrittori ecclesiastici nel senso di signora attempata e rispettabile, l’impiego ironico è palese. 9 ajtlantikovn-bavqo": l’idronimo Oceano Atlantico è frequente nella letteratura greca e forse Prodromo l’avrà rimembrato anche dai famosi passi platonici su Atlantide (Crit. 114a 17 e Tim. 24e 4); il Mare Egeo, poi, è nominato con un’espressione che è chiara citazione di Eur. Tro. 1. Comparare una persona a distese marine per offenderla non è comune, nondimeno presuppone che si intenda la sua insidiosa pericolosità e mostruosità. 10 Povnte-stovma: il Ponto Eussino, oggi Mar Nero, era detto antifrasticamente e apotropaicamente “ospitale”, mentre era temuto per le sue correnti insidiose; la Propontide, oggi Mar di Marmara, era notoriamente pericolosa, specialmente per le Simplegadi, come riferisce anche la saga degli Argonauti; la bocca d’Oceano sarà, nell’ipotesi più plausibile, lo stretto di Gibilterra (che anche Dante If. XXVI 107 chiama «foce stretta»), famoso per essere il limite divino del mondo antico conosciuto e la porta verso l’ignoto proibito. Per la verità le colonne d’Ercole non sono definite bocca dell’Oceano molto spesso: tra i pochi passi, il geografo Marc. Peripl. th;n me;n ou\n Eujrwvphn ajpo; th`" Libuvh" diorivzei to; kata; Gavdeira stovma tou` wjkeanou`, o{per ÔHravkleion kalou`si porqmovn; Suida s.v. e{rma, e 3022, 6; Tz. Chil. VIII 212, 609 ejk tou` zefuvrou kai; dusmw`n wjkeanou` e}n stovma,É to; ejk Gadeivrwn. Quanto alla grafia wjkeavneion con dittongo, non sembra così diffusa nelle edizioni critiche (una ventina ca. di occorrenze), ma è senz’altro legittima, per via dell’omofonia con il preponderante wjkeavnio";7 si rinviene anche in Prodr. Carm. hist. LXII 50 H. e nel però sospettarle come «tutti esempi malsicuri» (vd. anche mio comm. ad Sat. 147 H., 53 to; granivon katevage). Oltretutto il Ciclope doveva essere un ritrovamento recente nel XII sec. (Tz. De comoedia, red. I, p. 31, 155 e p. 90, 113 Koster) e nel sec. precedente forse non ancora venuto alla luce, poiché nemmeno il calcenterico Psello pare testimoniare effettiva lettura di esso e di altre tragedie alfabetiche, vuoi per diversità di interessi, rivolti soprattutto alla filosofia, vuoi per reale mancanza dei mss. Menzionava già il passo di Prodromo Tgl, ma sotto il nome di File e dall’ed. Thorlacius. 6 Peraltro datata al 1222-1223, quindi posteriore a Prodromo, secondo H. Grégoire, Recueil des inscriptions grecques-chrétiennes d’Asie Mineure, I, Paris 1922 [rist. an. Amsterdam 1968], p. 22, n. 81 (che la pubblicò, diversamente dagli editori a lui anteriori, non dall’apografo settecentesco di R. Pococke, ma dal fac-simile di J. Salter). 7 Questa è peraltro la grafia raccomandata da ps.-Ael. Herod. Partit. p. 172, 22 Boissonade ta; de; ajpo; potamw`n lhgovntwn eij" o" dia; tou` ijw`ta gravfontai: oi|on: Nei`lo", Neivlio" rJou`": Paktwlov", Paktwvlio": wjkeanov", wjkeavnio": potamov", potavmio": kai; ta; o{moia; grafia smentita qualche pagina prima (98, 14 B.) da wjkeanei`on rJeu`ma (così almeno l’ed. Boissonade, che non segnala varianti in nota: 12 dialogo anonimo Timario 121 Romano. Non escludo nondimeno anche un riferimento ai giambi sulla donna di Semonide, tramandati da Stobeo (IV 22, 193), sp. vv. 37 sgg., nei quali si paragona la donna al mare, imprevedibile nel suo mutamento da calmo a burrascoso. 11 qavlassa-aJlmurwvtera: l’aggettivo, che implica anche il senso figurato, potrebbe essere riferito sia a qavlassa (tu sei un mare più salato di questo, cioè del mare), sia direttamente alla vecchia (tu sei un mare, anzi no, tu sei più salata di questo, cioè nuovamente del mare); onde la mia traduzione ambigua. 12 oJlka;" muriva: come si nota dalla tradizione del verso, ha creato un po’ di problemi ai copisti il singolare, in realtà grammaticalmente corretto, perché collettivo (vd. LSJ s.v.). Kubistavw è detto in Omero o di uomini che ruzzolano, fanno capitomboli (P 745), o di pesci che si tuffano in acqua, escono e si rituffano (F 354); qui dal secondo significato si può derivare questo impiegato da Prodromo per le navi che affondano, ma senz’altro il passo del romanziere Ach. Tat. Leuc. et Clit. III 4, 3, 1 to; de; skavfo" ejkubivsta peri; toi`" kuvmasin ojrcouvmenon dev’essere guardato come il modello principale. Fuori luogo la traduzione di Romano «nel quale si getta in fondo a capofitto una nave». 13 au[tandra: è aggettivo molto spesso associato alle navi, catturate o affondate con tutti i loro uomini a bordo; frequente negli storici da Polibio a Cassio Dione, si trova poi in molti autori cristiani. 14 tevlma phlou`: è una iunctura tautologica e ridondante, probabilmente sorta in autonomia nella mente di Prodromo (TLG on-line fornisce come unico altro esempio Appian. Iber. 388, 2, che però non credo esser per forza il modello). baquvth" ijluvo": ijluv" è termine già omerico (F 318; vd. l’altro omerismo a v. 12); con baquvth" apparentemente solo qui. 15 th`"-batravcou: verità lapalissiana; in ogni caso mi piace ricordare i passi aristofanei sull’anguilla Ach. 880 ss. e Eq. 864-867, nonché la Batracomiomachia, tanto diletta da Prodromo, che ne ideò una parodia nella Catomiomachia. 16 th`"-fuvsei: il primo sintagma, molto raro, compare in Gregorio Nisseno e in Niceforo Callisto Xantopulo, con evidente connotazione religiosa a indicare il peccato del corpo; qui si avverte un po’ di forzatura nell’espressione, che andrà intesa nel senso di bruttura, aborto, mostro che contamina la bellezza della natura e di tutti gli enti naturali. Movlusma è termine in uso negli scrittori tardo-antichi (e.g. Porph. Abst. IV 20, 40), soprattutto ecclesiastici. 17 brou`ce-skovto": le offese ricordano le piaghe d’Egitto (LXX Ex VIII-X; cfr. anche la versione di Ez. trag. vv. 135a, 142, 144, autore tenuto a mente forse anche al v. 5 q.v.). La grafia sknivy si alterna a knivy già nei mss. dei LXX e degli altri autori che usano tale parola (vd. LSJ s.v.); qui tuttavia opto per la forma con s- sia perché è tràdita da V, il ms. più antico e più completo tra quelli Prodromei e spesso portatore di buone lezioni; sia perché è quella maggioritaria dei mss. dei LXX (cfr. anche Ps CV [CIV] 31). Lo stesso dicasi per la grafia brou`co" anziché brou`ko", eccetto che per i mss. prodromei, i quali qui non offrono varianti. Quanto al significato delle due parole, mi sono attenuto a Tgl s.vv. (che a sua volta si appoggia ai lessicografi antichi; ma vd. anche Ps cit. v. 31 skni`pe" in coppia con kunovmuia, moscone, tafano; e v. 34 brou`co" in coppia con ajkriv", cavalletta). 20 ejmparoinh/`"-fuvsei: il significato è senz’altro di beffa nei confronti della natura, contro la quale la vecchia si oppone, facendole forza e oltraggio, cercando di apparire più giovane; fuori luogo la traduzione di Romano «anche se ti esalti nell’ubriachezza, per la tua indole sciagurata». 21 bafai`"-trivca": sulla tintura dei capelli e altri espedienti di ringiovanimento esteriore, vd. Sat. 146 H., 83 (= 5, 12 Migliorini) ejbavyato me;n th;n kovmhn) e l’epigramma AP XI 66 di Antifilo di Bisanzio (?), che riporto qui per intero come prova di modello: kh]n teivnh/" rJakoventa polutmhvtoio pareih`"É crw`ta kai; ajblefavrou" w\pa" ejpanqrakivsh/"É kai; leukh;n bavyh/" mevlani trivca kai; purivflektaÉ bostruvcia krotavfoi" ou\la perikremavsh/"É oujde;n tau`ta, geloi`a, kai; h]n e[ti pleivona rJevxh/". Stesso tema anche negli epigrr. XI 370 e 374. Il verbo katacrivw è molto frequente negli autori medici, ma per indicare frizioni della testa affetta da dolori piuttosto che tinture della chioma; cfr. il composto pericrivw al v. 56. Un simile sintagma, impiegato però per descrivere il colore di una veste (favro"), in Prodr. Rhod. et Dos. IV 221 bafai`" perittai`" eujbafw`" kecrwsmevnon. 22 ojdovnto" ejsterhmevnh: iunctura poco utilizzata, tarda, e talora presente nei lessicografi per spiegare l’aggettivo nwdov". 23 movnoi"-duvo: in Ar. Thesm. 423 tre denti e Pl. 1059 un dente solo. Gomfivo" è il molare secondo LSJ; ma Suida s.v. g 373, 1 li definisce tou;" prosqivou" ojdovnta". In questo contesto non è necessario specificare; altrove, invece, sì (vd. Sat. 148 H., 80 e n.). Per duvo indeclinabile come a[mfw, vd. l’uso omerico citato in LSJ s.v. 25 ajrtigevnnhton brevfo": cfr. ajrtigevnnhta brevfh in NT Petr II 2, 2, più volte citato dai padri della Chiesa. bisognerebbe controllare i mss.). Vd. anche Introduzione. Constitutio textus § Omofonia di dittonghi e vocali secondo la pronuncia itacista, p. 40 supra. 13 26 graiv>"-yimmiqivw/: graiv>", graiv>do" per grau`" non è della buona lingua attica, ma Prodromo può averlo ripreso, fra gli altri, da Charit. Aphr. VI 1, 11, da alcuni scrittori ecclesiastici, dai lessici e dagli scolî (sp. Eustath. In Od. I 48, 5); ricompare in Prodr. Rhod. et Dosicl. VI 145. Considero sottinteso al verbo plana/`" un accusativo, che ho preferito non esprimere perché potrebbe essere sia un seauthvn (cfr. Sat. 141, 30 H. plana/`" seautovn), sia un tou;" a[llou". Sul significato di yimuvqion cipria bianca (ricavata dal piombo) contrapposto a fu`ko" belletto rossiccio (ricavato dal murice) istruisce Polluce, in un passo circostanziato (V 102); la differenza mi par qui osservata, ché si accusa la vecchia di voler confondere il suo pallore funereo con il bianco dei cosmetici (scambio dei significati, invece, e.g. in ps.-Chrys. In Gen. sermo III PG LVI 535, 51 dia; yimmiqivou kai; eJtevrou ejruqrou` ta;" parei;a" ejpicrwvsasai). La grafia yim(m)ivqion con i anziché u nella seconda sillaba è accettata da diversi editori di altri autori, specialmente medici, come variante grafica omofona affermatasi già dai primi secoli dell’era cristiana (lo stesso vale per la presenza di una o due mm);8 lo accetto anche qui, per quanto il passo aristofaneo del Pl. 1059 più volte indicato come uno dei modelli di questa satira, presenti la grafia concorde (?) yimuvqion (per lo meno in Ravennas, da me controllato sul fac-simile di J. van Leeuwen, UB-Tuebingen). e nelle edd. critiche? quanti sono i mss. del Pluto? tanti. 27 stafiv": lo stesso che ajstafiv" per uva secca, uvetta (frequente negli autori medici). Accostamento degli stessi termini in senso metaforico (uva acerba = giovane fanciulla; uva passa=vecchia decrepita) in un contesto simile (l’amore a varie età) presenta l’epigramma Anth. Gr. V 304 o[mfax oujk ejpevneusa": o{t∆ h\" stafulhv, parevpemyw:É mh; fqonevsh/" dou`nai ka]n bracu; th`" stafivdo" (in qualità d’ uva acerba non desti l’assenso; quand’eri grappolo maturo, rifiutasti; non negare di dare anche un pochino dell’uva secca); vd. anche V 19. L’aggettivo ijscnhv è qui tautologico e ridondante. “Omfax è già in h 125 28 Kamarivna: è sinonimo di afrore irresistibile (onde la mia traduzione con un corrispondente adatto), dal nome della città sicula presso Siracusa. Essa sorgeva, secondo un proverbio, vicino a un lago che i nuovi colonizzatori volevano prosciugare; rivoltisi all’oracolo, ne ottennero il responso mh; kivnei Kamavrinan, ajkivnhton ga;r a[meinon, che però essi tennero in non cale. Essi furono pertanto colpiti da morte a causa dei miasmi promanati dal lago stesso (cfr. Zenob. V 18, 2, CPG I 123 Leutsch-Schneidewin, secondo il quale era una pianta dal nome kamavrina a provocare il fetore; Suid. s. v. mh; kivnei Kamavrinan con lo stesso testo di Zenobio, eccetto nel nome della pianta, kamavrhn secondo l’ed. Adler, che non segnala varianti; Et. Gen. a 152 attribuisce la causa al lago di Camarina). Quanto all’accento parossitono, che ho accolto a testo secondo la grafia maggioritaria dei codici, esso compare nelle edizioni critiche di altri autori in misura molto inferiore a quello proparissotono (quest’ultimo tra l’altro confermato anche dal metro dell’oracolo proverbiale). Nondimeno è variante attestata in alcuni mss. di Zenobio (vd. ed. Leutsch-Schneidewin, non impeccabile e chiarissima nell’esposizione di tale problema); e ricorre in altri autori secondo le rispettive edizioni: come particolarità grafica è degna di essere mantenuta (non ho controllato chiaramente tutti i singoli passi sulle rispettive edizioni critiche, eccetto quelli degli scoli pindarici: lì Kamavrina proparossitono indica per lo più la città e Kamarivna parossitono per lo più la ninfa. Non sempre, però, come dichiarano i passi in cui il nome della città ha l’accento parossitono Kamarivna. Perché Drachmann ha accettato le due grafie? Si tratta o di tradizione maggioritaria o univoca del passo di volta in volta edito o si tratta di svista?). 29 bursovdermon-leptuvnh/": secondo TLG on-line e LBG l’aggettivo bursodevrmwn compare solo qui (è vocativo); in Schol. Tz. Ar. Pl. 1033 si trova bursodermavtino", all’interno di un breve componimento in dodecasillabi improvvisato da Tzetze e a noi tràdito dal solo cod. Ambr. gr. C 222 inf. (sec. XIII). La prima parte del composto è ben testimoniata, sin dall’aristofaneo bursodevyh"; la seconda è parte non molto produttiva di composti (e.g. Eur. Iph. Aul. 227-8 poikilodevrmona"; Epich. fr. 52 K.-A. ap. Athen. VII 286b tracudevrmone"). Sull’intervento di lifting, per così dire, vd. già Plat. Symp. 190e 9-191a 3 kai; ta;" me;n ajlla;" rJutivda" ta;" polla;" ejxelevaine kai; ta; sthvqh dihvrqrou, e[cwn ti toiou`ton o[rganon oi\on oiJ skutotovmoi peri; to;n kalavpoda leaivnonte" ta;" tw`n skutw`n rJutivda"; AP XI 66, 1 (cit. in n. al v. 21). Curiosamente simile anche un altro passo, benché ignoto a Prodromo per via indiretta, recentemente riportato alla luce da un papiro (e pesantemente integrato): Simon. fr. 22 West2 , 13-14 kaiv ken ejgªw; meta; paºi≥do;" ejn a[nqeªsin aJbra; pavqoimiºÉkeklimevno", leuk≥a;≥"≥ farkivda" ejktªo;" eJlw`nº. 30 lhmw`sa-kovclo": gli stessi difetti ha il vecchio Stratocle di Sat. 146 H., 162 sgg. (= 10, 11-12 Migliorini) con commento; fuori luogo la traduzione di Romano «anche se passi la conchiglia sulle palpebre». Stesso uso del bistro anche nell’epigramma citato in n. al v. 21; vd. anche v. 74 infra. 31 rJussw`sa: la grafia con il doppio s dell’aggettivo rJussov" e di tutti i suoi derivati è frequente nei mss. di altri autori; viene scelta da diversi editori (e.g. Theocr. XXIX 28; in molti passi di Galeno e in alcuni di lessicografi come lo ps.-Zonara). Qui a maggior ragione va conservata come particolarità grafica bizantina. ÔRussw`sa, grafia di S, già copiata da Matranga, non va corretto con Miller in rJussou`sa (il verbo rJussovw 8 Vd. in proposito S. Ihm, Der Traktat peri; tw`n ijobovlwn qhrivwn kai; dhlhthrivwn farmavkwn des sog. Aelius Promotus, Erstedition mit textkritischem Kommentar, Wiesbaden 1995, p. 39. 14 all’attivo non è intransitivo, significando «corrugo» vd. LSJ s.v., né gli si deve sottintendere un accusativo): essa conferma la glossa di Hesych. s.v. 5 rJusoi`": rJerushkovsi, geraioi`", che attesta un’intransitivo rJusavw sono rugoso, forse come forma alternativa dell’attestato rJusaivnomai. Non credo, infine, che la prima lectio di Vat1 rJupw`sa tu che sei lurida (peraltro corretta da m2 ) sia da preferire solo perché grammaticalmente più piana: anche per il senso si addice di più tu che sei rugosa (e copri le tue rughe con il belletto, come fanno maldestramente Stratocle in Sat. 146 H., cit. a n. v. 30, nonché la vecchia in Ar. Pl. 1064-1065 eij d∆ ejkplunei`tai tou`to to; yimuvqionÉ o[yei katavdhla tou` proswvpou ta; rJavkh). 32 podagriw`sa-novson: il primo verbo è eminentemente medico; ma cfr. Prodr. Rhod. et Dos. VII 432 podagriw`nta kai; falakro;n th;n kavrhn; il secondo ricompare con il significato in cui l’ho tradotto in Sat. 146 H., 84 (= 5, 14 Migliorini), al cui commento rimando. 33 luvgisma-ejxeirgasmevnh: la prima parola è un tecnicismo medico; il verbo, poi, significa propriamente portare a compimento, elaborare; qui vale come sinonimo di ajpergavzomai (cfr. Xen. Symp. IV 60 toiouvtou" ejxergavzeqaiv tina" farli tali, fare in maniera che diventino tali). 34 kurtouvmenh: anche questo verbo presenta parecchie occorrenze nei medici per indicare i difetti della schiena. L’accoppiamento dei due verbi si trova in Xen. Mem. III 10, 15, 2 tou` swvmato" mh; mevnonto", ajlla; tote; me;n kurtoumevnou, tote; de; ojrqomevnou. 35 grau`" pavlin: non ho ancora trovato paralleli per questa anafora insistita. 36 ai\sco"-kakiva: sembrano due definizioni calzanti per il peccato originale, colpa antica come il mondo (e in effetti è così in Anal. Hymn. Graec. Canon. Aug. XIX 20 Proiou-Schirò ejn soi; ejskhvnwseÉto; palaio;n ai\sco"Ékaqavra" th`" fuvsew" detto dell’incarnazione di Gesù che purifica la Vergine dal peccato originale). 38 ejrwtolhptei`"-pnevei": il primo verbo ricorre altrove solo in Const. Manass. Brev. chron. v. 529 Lampsides tw/` basilei` proshvnegkan ejrwtoleptoumevnw/; relativamente più usato (una decina di volte) l’aggettivo ejrwtovlhpto", la cui prima occorrenza è Procop. Hist. arc. I 18, 2. Il verbo, pur derivando da un agg. verb. pass., ha valore attivo come altri composti in -lhptevw (ajkatalhptevw non capisco, ajndrolhptevw catturo uomini, dwrolhptevw prendo doni ecc.). Cfr. poi v. 58 infra ejrwtolhyiva. La seconda iunctura ha l’accusativo neutro dell’oggetto interno come in Eur. Andr. 189 pnevonte" megavla, Pd. Ol. X (XI) 93 kenea; pneuvsai"; Pyth. XI 30 camhla; pnevwn. 39 sunidei`n: sottintende il riflessivo seautw/`; la traduzione di Romano «c’era bisogno che tu facessi all’amore allora» mi pare troppo libera, anche se potrebbe derivare dal significato del verbo sono complice di qcn (e.g. in un affare amoroso); in questo caso, però, si tratterebbe proprio di un’attività di mediazione confacente all’età della vecchia, come si ribadisce al v. 79 infra. 40 pavnta kalav tw`/ proshvkonti crovnw/: trascrizione del detto, attribuito per tradizione a Salomone da molti scrittori cristiani, LXX Eccl III 11 su;n ta; pavnta ejpoivhsen kala; ejn kairw`/ aujtou` (cfr. anche Sir XXXIX 16 ta; e[rga tou` Kurivou pavnta o{ti kala; sfovdra kai; pa`n provstagma ejn kairw/` aujtou` e[stai). 41-43 crovnw/-crovnw/: l’osservazione delle fasi della natura, specialmente della raccolta dei frutti, allude all’inevitabilità di certi processi che non possono essere né accelerati né rovesciati, come invece pretende la vecchia, nel tentativo innaturale di ringiovanimento; si veda lo stesso LXX Eccl III 2-8, sp. 2 kairo;" tou` futeu`sai kai; kairo;" tou` ejkti`lai pefuteumevnon; per un passo con simili termini, anche se in contesto diverso, Greg. Nyss. De anima et resurr. XLVI 112, 13 Migne (= ... ... Jaeger; vd. anche ed. Ramelli, Bompiani) pw`" ou\n ejpavxei th;n drepavnhn ajstacuvwn tomh`/… pw`" de; ajpoqlivyei to;n bovtrun ktl. Crovnw/ significa propriamente nel volgere del tempo, col tempo, cioè non subito (abbontante nei tragici); onde la mia traduzione, in sintonia con il significato del v. precedente. 43 to; bavlsamon-hJ clovh: perché Prodromo abbia scelto proprio queste due piante e l’erba, non è forse da sondare; mi pare comunque che esse non si distinguano, come invece il grano e l’uva, qual segno del volgere delle stagioni. Il balsamo è una pianta pregiata; il giglio è comune; l’erba può essere intesa nel senso di qualsiasi fioritura verde, anche il grano giovane. Altre occorrenze dei tre termini insieme sono rare e non significative all’intelligenza del presente passo; forse avrà giocato in qualche modo un ruolo nella scelta la reminiscenza del passo evangelico di NT Mt VI 28-30. Balsamo può essere o la pianta da cui si ricava il profumo o l’erba detta costmary in LSJ (la Balsamita maior o erba di S. Pietro?). Il verso è nominale. 44-45 oi\no"-ajtaxiva": sul vino nuovo in otri vecchi cfr. NT Mt IX 17, 1-4 oujde; bavllousin oi\non nevon eij" ajskou;" palaiouv": eij de; mhvge, rJhvgnuntai oiJ ajskoiv kai; oJ oi\no" ejkcei`tai kai; oiJ ajskoi; ajpovlluntai (cfr. Mc II 22, 2-3; Lc V 37, 1-2). La comparazione con il vino, che invecchiando decanta, non mi pare molto comune; sempre che non compaia in qualche epigramma dell’AP. CONTROLLA ∆Ataxiva è termine usato da autori filosofici per condizioni di instabilità politica. 50: interessante la comparazione con alcuni modi di descrivere i vecchi decrepiti: Ar. Vesp. 1364 s. w\ ou|to", tufedane; kai; coirovqliy,É poqei`n ejra`n t∆ e[oika" wJraiva" sovrou; id. fr. 198 Meineke = Dait.16.1 = fr. 15 206 K.-A. (ap. Galen. Gloss. Hippocr. XIX 66 Kühn) ajll∆ ei\ sorevllh kai;; muvron kai; tainivai; Anaxipp. com. fr. 1, 41 Kock = 1, 41 K.-A. (ap. Athen. IX 403; ma il testo sottolineato è ci. Kock; vd. appar. K.-A.) o{tan ejggu;" h\/ tw/` d∆ hJ sorov", ajrtuvw fakh`n; Machon comicus fr. 16, 301 Gow (ap. Athen. XIII 43, 47, 579e-581a) h[dh televw" h\n oJmologoumevnw" sorov"; Luc. Hermot. [70 Mcl.] 78 e[peita ej" povson e[ti to;n loipo;n crovnon ajpolauvsei" aujtou`, gevrwn h[dh kai; panto;" hJdevo" e[xwro" w]n kai; to;n e{teron povda fasi;n ejn th/` sorw`/ e[cwn…; cfr. in lat. Plaut. Mil. 628 tam capularis? tamne tibi diu videor vitam vivere?. 51 th;n de; trivca-geraitavthn: l’espressione avendo tu raggiunto il capello più vecchio è un po’ forzata, ma comprensibile in un autore sperimentalista come Prodromo; la variante th;n d∆ ejscavthn sarà forse lectio facilior, in quanto più chiara nel sottintendere th;n hJlikivan dal v. precedente. La forma geraitavthn (anziché gh-) si impone per ragioni oltre che di maggioranza testimoniale anche metriche, poiché la sede prevede un breve. 52 th`" qanasivmou puvlh": iunctura non comune, ma senz’altro sorta dall’omerico puvlai ∆Aidavo. (E 646; I 312; x 156), privato delle sue connotazioni pagane in NT MT XVI 18; cfr. anche skovtou puvlai Eur. Hec. 1 e nertevrwn puvlai Hipp. 1447. 53-54 ∆Erinnuvwn-Kerbevrou: che le Erinni vivessero negli inferi, insegnava già Omero (cfr. I 571-572 th`" d∆ hjerofoi`ti" ∆Erinu;"É e[kluen ejx ∆Erevbesfin ajmeivlicon h\tor e[cousa); ma che si distinguessero per il grido, si deduce forse anche da Aesch. Choeph. 1054 safw`" ga;r ai[de mhtro;" kuvne". La grafia con doppio n, non compare nelle edizioni di autori di età classica; è accettata invece da diversi editori per autori di età imperiale (vd. Cornut. Theol. graec. ed. Lang), o dei primi secoli della Chiesa (vd. Hippol. Refut. omn. haer. ed. Marcovich). Già nella prima occorrenza del nome di Cerbero si sottolinea la possanza del suo ululato (Hes. Theog. 311 Kevrberon wjmhsthvn, ∆Aivdew kuvna calkeovfwnon) 56 ta;" pareia;"-pericrivei": cfr. Iul. Or. VII 233b ta; provswpa tw/` yimuqivw/ kecrismevno"; Prodr. Sat. 146 H., 84 (= 5, 13 Migliorini) ejpevcrwse de; fukivw/ th;n pareiavn. Vd. katacrivousa al v. 21. 57 filafrodisiva": stando a TLG on-line, solo qui. 58 ejrwtolhyiva": il termine, che compare dal X s. (Digenis Acritas), ritorna in Prodr. Rhod. et Dos. VI 445 yuch`" aJlouvsh" ejx ejrwtolhyiva"; Nic. Eug. Drosill. et Charicl. 4, 253 ajpo; Zefuvrou th`" ejrwtolhyiva"; vd. v. 38 supra. I due genitivi sono esclamativi. 59 tevttix: delle cicale racconta Plat. Phaedr. 259c ajll∆ a[sitovn te kai; a[poton eujqu;" a[/dein, e{w" a]n teleuthvsh/; ma non riferisce che cantino più del solito quando si appressano alla morte, sorte toccante invece al cigno (Plat. Phaed. 84e 3-85a 3); vd. anche Mich. Ital. Orat. XV, p. 147 Gautier, cit. p. 29, n. 4 supra. 61 stolh;n eJtairikwtevran: la figura etimologica stolh;n stolivzesqai non è frequente, né significativa. L’aggettivo al comparativo si può intedere come comparativo assoluto, ovvero come comparativo vero e proprio sottintendente «più di prima». 62 sfendovnai": come termine tecnico per indicare il castone di un anello, vd. Eur. Hipp. 862; Plat Resp. 359e, Hesych. s.v.; per metonimia qui anello, come in Sat. 149 H., 67 (Romano traduce bene qui nel dodecasillabo con “anellini”, male nel testo in prosa con “fionda”). Ho tradotto liberamente con lacci (= collana) per mantenere un gioco linguistico simile a quello che presenta la parola greca, il cui primo significato è fionda. 65 kai; tiv" tosou`ton ajfronevstato": stesso concetto espresso in Prodr. Amicitia exul. 153 H. tiv" ou\n fronw`n a[nqrwpo", eijpev moi, xevne,/  toiavnd∆ ajfeiv", e[loito toiavnde blevpein/  bavkchn ajtecnw`", ajgrivan, kai; maclavda… 66 karterh`sai-proseggivsai: il verbo karterevw regge nel greco classico il participio e significa “continuare, insistere a fare una cosa”; qui, invece, con l’infinito, nel senso di “resistere, tollerare, sopportare, avere animo di fare qcs.”, come uJpomevnw. Kavnqaro" come in italiano scarrafone (propr. meridionalismo per scarafaggio, ma spesso nel senso di persona fisicamente ripugnante); qui però, forse, più che la ripugnanza della forma dello scarafaggio si vuol forse evidenziare la sua caratteristica di insetto stercoraro (in primis vd. Ar. Pac. 1 ss.) e quindi il suo olezzo. Confermerebbero questo anche la menzione dei profumi al v. seg. e quella del fimo due versi dopo; onde la traduzione più conveniente dovrebbe essere scarabeo stercoraro (o, se permesso, l’icastico toscanismo ruzzolamerde). 67 sarkivon: diminutivo già in uso nei padri della Chiesa con connotazione spregiativa per il corpo nei confronti dell’anima; qui potrebbe valere semplicemente per corpo (come già altri diminutivi nel greco tardo e bizantino valgono per il rispettivo sostantivo al grado normale e preparano la strada alle nuove parole del greco volgare e moderno: e.g. mavti < ojmmavtion). Ripetuto al v. 101 infra. 68 mevliti-kovpron: la domanda è certo retorica; ma non sarà forse un caso che essa finisca per divenire isceda. Esistono infatti precetti medici che raccomandano l’applicazione (Gal. Compos. medicam. sec. loc. XII 954, 14 Kühn) o addirittura il gargarismo (ps.-Gal. Rem. parabil. XIV 574, 12 Kühn) con fimo di diversi animali, compreso l’uomo, per la cura di diverse patologie. 69 crusopavstw/-delfakivw/: un passo simile in Nic. Eug. (?), Anach. p. 253, rr. 829-830 Chrestides h}n e[sce me;n toi`" gavmou novmoi" aujto;" oJ crusovpasto" devlfax, oJ kecruswmevno" koprwvn, che induce a non 16 interpretare delfavkion secondo il significato di aijdoi`on gunaikei`on fornito una glossa di Esichio (non sicura, tuttavia 72 pavnta-kavlwn: cfr. Eur. Med. 278 ejcqroi; ga;r ejxivasi pavnta dh; kavlwn, parodiato qualche anno dopo da Ar. Eq. 756 nu`n dhv se pavnta dei` kavlwn ejxievnai seautou`. 74 ajsbovlh": con questo termine viene indicato più o meno sprezzantemente il bistro, ossia quella polvere nera finissima ottenuta dalla fuliggine del faggio e usata come antesignano del rimmel; vd. v. 30 supra. Tra i passi paralleli, degno di menzione è un verso di Alessi (sui preparativi cosmetici delle etere nella commedia Isostasion) fr. 98, 16 Kock (= 103 K.-A., ap. Athen. XIII 23, 20) ta;" ojfru`" purra;" e[cei ti": zwgrafou`sin ajsbovlw/. K.-A. in apparato confrontano Nicostr. peri; gavmou ap. Stob. IV 23, 62 (p. 594, 10 H.) yimuqivou kai; ojfqalmw`n uJpografh`" kai; a[llou crwvmato" zwgrafou`nto" ta;" o[yei". Prodromo adotta qui la forma ajsbovlh, benché a[sbolo" sia quella raccomandata come tipicamente attica dal grammatico Frinico (in Luciano in effetti è l’unica che compare); in ogni caso anche N leggeva -h", come dimostra l’errore fonetico -oi". Il verbo derivato è in Prodr. Rhod. et Dosicl. IV 221 mikrov" ti" h\n, kavtiscno", hjsbwlomevno" (detto di un buffone). 75 wjnhvsaito-triwbovlou: cfr. una simile espressione in Ar. Pac. 848 oujk a]n e[ti doivhn tw`n qew`n triwvbolon; in Prodromo si ripete: 143 H., 68 o{sa privaio kai; triwbovlou; Sat. 149 H., 52-53 scolh/` a]n ejgw; triwbovlou priaivmhn toiouvtoi" katorqoumevnhn filosofivan; Sat. 147 H., 262-263 scolh/`` kai; tw`n duei`n priaivmhn to;n ijatrovn. 76 h\" e[ron: h\" per h\sqa (ma non come dorismo) si trova anche nei LXX e nel NT; compare però già in ps.Plat. Ax. 365e e diventa abbastanza usuale nel greco tardo, per quanto bollato come solecismo da Frinico. La forma poetica e[ro", già omerica, si trova nella variante e[rwn in L: potrebbe trattarsi sia di un errore ortografico (scambio di w per o), sia di una forma alternativa dell’accusativo singolare di e[rwta, attestata e.g. in AP VI 39 e comparabile con il gevlwn pro gevlwta in Sat. 146 H., 48 (= 3, 15 Migliorini). 77 devlo": è chiaramente lectio difficilior rispetto alla variante bevlo"; come variante di devlear ricorre molto raramente a partire da Cassio Dione (Hist. rom. XXXIX 26, 1), Romano il Melodo (Hymn. XLIV 7, 3) fino a Eustazio (in Iliad. I 357, 19). 78 ajgkistrivdo": secondo TLG on-line e LBG, l’unica altra occorrenza del derivato di a[gkistron (che invece è già in d 369) è Prodr. Rhod. et Dosicl. V 318 mh; sugkataspavsoite th;n ajgkistrivda. Su a[gkistron cfr. poi Boissonade, An. nova, p. 91, n. 1 «Anonymus de S. Theodoro 147: a[gkistron eu\ron to;n miasmo;n kampuvlon:É devlo" peripeivraimi touvtw/ to;n sivton. Ibi Wernsdorf.»; PG IV, col. 577, r. 1 (Vita et encomium s. Dion. Areop.) ajgkivstrw/ th`" cavrito". 79 pornobovskei: il verbo è poco frequente, ma pare esser stato caro ai comici: Ar. Pac. 849 e Poll. VII 202, 8; lo stesso dicasi del sostantivo in Ar. Th.. 341 (cfr. Vesp. 1028 e Ran. 1078-1079). 81 ma`llon eijpei`n: l’inciso è del greco tardo piuttosto che classico: cfr. ps.-Gal. Affect. ren. XIX 662, 2 Kühn; Porphyr. Harm. Ptol. comm. p. 151, 12 Düring; ps.-Athan. Contra Lat. PG XXVIII 825, 22; Basil. De Spir. San. VIII 17, 15 SChr. 82 brw`ma-givnou: forse ricorda anche A 4 eJlwvria teu`ce kuvnessin (cfr. Orac. Sybill. XIV 42 ajlla; kusi;n mevlphqra kai; oijwnoi`" te luvkoi" teÉ e[ssetai). 83 fqavrhqi-kakivwn: l’imperativo aoristo passivo è rarissimo; un po’ più frequente, ma non molto, l’imperativo presente fqeivrou (tre volte in Aristofane). Il comparativo kakivwn per kakwvtero" è già in b 277. 84 e[rre-Plouteva: simile espressione in Prodr. Carm. hist. XVII 51 e[rre, Persavrca bavrbare, mevcri puqmevnwn ”Aidou (cfr. AP VII 433, 5 e[rre, kako;n skuvlakeuma, kaka; meriv", e[rre poq∆ ”Aidan). Plouteuv" è forma collaterale per Plouvtwn già in Luc. Tragodop. [... Mcl.] 13 e nell’AP (e.g. IX 137); ricompare in Sat. 147 H., 134. 85 Klwqwv: cfr. Sat. 146 H., 115 (= 7, 16 Migliorini) ajdikei`" me, w\ Klwqoi`, ejxebova, e[ti to; nh`ma mh; uJpotevmnousa; cfr. anche Nic. Eug. (?), Anach. 795 Chrestides th/` dev ge kavkist∆ ajpoloumevnh/ dieloidorhsavmhn Klwqoi` wJ" mh; to;n mivton koptouvsh/ kai; tw/` nekroporqmei` didouvsh/ naustolei`sqai pro;" Kevrberon. Sul valore di ojyev una buona volta vd. Sat. 146 H., 35 (= 2, 16 Migliorini) con nota. Mivto" nel senso di «stame della vita» già in Lyc. 584. 86 nekropompov": l’epiteto, abbastanza raro (una decina di volte), è attribuito a Caronte in Eur. Alc. 441, ma ad Ermes in Luc. Dial. deor. [... Mcl.] 4, 1 e Catapl. 1 [... Mcl.]. Preferisco riferirlo al secondo, sia perché Caronte è nominato subito dopo, sia perché il compito di Ermes è propriamente quello di accompagnare le anime alla navicella di Caronte. Prodromo avrà senz’altro ricordato w 1 ss. Romano traduce con un generico e fuori luogo «necroforo», cioè becchino. 87 nekroporqmeuv": è Caronte (citato anche in Sat. 147 H., 66); il composto compare altrove solo nello scritto Anacarsi cit. in n. a v. 85. 88 ÔRadavmanqu-Mivnw": Radamanto e Minosse sono, insieme ad Eaco, i giudici infernali (cfr. e.g. Plat. Gorg. 526b-c); nella Sat. Amaranto 146 H., 116 (= 7, 17 Migliorini si nomina Eaco accanto a Cloto e Ade. 89 maclavda: femminile di maclov", lussurioso, sfrenato, si trova, tra gli altri, in Nonno di Panopoli (tre volte) e nei lessicografi; tra i bizantini Psell. Poem. II 193 (per la peccatrice che unge i piedi di Cristo in NT Lc VII 36-50, confusa nella tradizione con Maria Maddalena e con Maria di Betania, sorella di Lazzaro, almeno sin 17 da Hipp. In Cant. cant.); Prodr. Epigramm. in Vetus et Novum Testamentum (Iud 108a 3 per Dalila; Mt 206b per la sensuale danzatrice figlia di Erodiade, nominata da Fl. Ios. AJ XVIII, 5, 4 Salome; Mt 219a 4 per le vergini stolte); id. Amicitia exul. 153 H., v. 190 cit. a n. 65. Per la ricorrenza in ps.-Archil. fr. 328, 15 West vd. n. a v. 5). 91 klivnai-lucnivai: l’immagine dei letti e delle lampade che testimoniano a chiare lettere la sfrenata voluttà della vecchia costituisce parodia di quella ricorrente nei romanzi tardo-antichi e in alcuni epigrammi dell’AP, dove tali oggetti sono presentati o invocati come complici dell’amore di due giovani: V 7; V 8; VI 162; Mi sovviene anche Apul. Met. (Cupido et Psyche) V 23 hem audax et temeraria lucerna et amoris uile ministerium, ipsum ignis totius deum aduris, cum te scilicet amator aliquis, ut diutius cupitis etiam nocte potiretur, primus inuenerit. Aujtaiv potrebbe avere lo stesso significato che in neogreco (queste)? Oppure sono i letti e le fiaccole della tortura che si impone agli schiavi? No, non credo. 92 ajpevstw-lucniva: vale a dire «non occorrono letti e lucerne (d’amore) a testimoniare i misfatti della vecchia, ché a buccinarli in giro davanti a tutti bastano i marchi a fuoco (stivgmata cioè i segni di proprietà usuali sulla pelle degli schiavi; la vecchia come una schiava? o quelli che ella infligge alle sue vittime?)». L’interpretazione della vecchia schiava sembra supportata dal v. 96 e sgg., in cui si propone una punizione esemplare. 93 ajnti; Stentovrwn: Stentore è il famoso personaggio iliadico calkeovfwno" (E 785; cfr. Luc. Luct. [... Mcl.] 15). Sul neutro plurale con il verbo al plurale anziché al singolare, non raro in Prodromo, vd. Introduzione § Constitutio textus. Soggetto neutro plurale con verbo plurale, p. 43. 94 pempevlou: è aggettivo abbastanza raro ma vistoso per autori dal lessico ricercato come Prodromo: compare tra gli altri in Licofrone (682 e 826), scoliato dai due Tzetze; nei lessicografi; in Prodromo stesso (Carm. hist. XVIII 44; XLIV 182; Sat. 141 H. Contro il vecchio dalla lunga barba, 3 e 101) e in altri suoi contemporanei (Eustazio di Tessalonica, Eustazio Macrembolite, Costantino Manasse). Tutti lo usano nel senso di molto vecchio, decrepito; solo Hesych. s.v. p 1381 propone anche l’alternativa di linguacciuto, chiacchierone, non molto pertinente. 96 par∆ uJmi`n: credo che qui si debba leggere uJmi`n (per lo scambio con hJmi`n, vd. Introduzione. § Constitutio textus. Omofonia di dittonghi e vocali secondo la pronuncia itacista, p. 00), altrimenti si perderebbe il senso della battuta, riferita ai personaggi infernali, non a chi parla; non credo che l’hJmi`n possa esser detto in prima persona da loro stessi, ché ciò implicherebbe uno scambio di battute inatteso in questa e nell’altra invettiva prodromee. Fuori luogo il testo (par∆ hJmw`n) e la traduzione di Romano «io avrei molte idee sulle torture che le potrebbero infliggere». 97 kolasmw`n: kolasmov", avendo attestazioni posteriori a kovlasma, può essere interpretato come un metaplasmo, accolto anche da Prodromo; ne condivide lo scarso utilizzo come variante di kovlasi" e registra una decina di occorrenze, di cui sei in Plutarco. 101 ojstrakwqevn sarkivon: il verbo, nel senso di indurire la pelle come una conchiglia già in Aristot. Prob. 869b 25; al passivo in Lyc. 89 kelufavnou strovbilon wjstrakwmevnhn. 102 ejxasqenhvsei: verbo non appartenente alla buona prosa attica; compare nel corpus ippocratico, nei trattatisti come Aristotele e Teofrasto e, più frequentemente, negli autori tardo-antichi, soprattutto ecclesiastici. 18 Theodori Prodromi textus II (141 H.) Kata; makrogeneivou gevronto" dokou`nto" ei\nai dia; tou`to sofou` V, f. 100r 5 10 15 20 25 30 35 40 45 50 55 ∆Iatataia;x th`" aJdra`" geneiavdo" o{sh kaqei`tai mevcri tou` prokolpivou tw/` pempevlw/ gevronti saprw/` Qoukrivtw/. ∆Iatataia;x th`" kinavbra", tou` gravsou. Feu` tou` tosouvtou th`" uJJphvnh" fortivou. ”Osh me;n eij" e[ktasin, eij" eu\ro" d∆ o{sh, aJplw`" de; pavsa" ta;" diastavsei" o{sh. ∆Enteu`qen, oi\mai, katakuptavzei", gevron, fevrei" de; kai; kuvrtwma kai; sfairoi`" rJavcin: hJ ga;r geneia;" to;n travchlovn sou klivnei, pollhv ti" ou\sa kai; bavrou" ouj metrivou. Deivlaie, kei`re th;n uJphnh`tin trivca: a[qlie, drwpavkize ta; provswpav sou, crh`sai xuroi`", yalivsi, gumnai`" ajxivnai", II spavqai", macaivrai", sumparevstw kai; privwn. ∆Eleuqevrwson th;n gevnun tou` fortivou, ejleuqevrwson tou` bavrou" to;n aujcevna. ÔOra/`" o{pw" kevkufen a[qlio" kavtw, kai; schmatismo;n iJkevtou deivknusiv soi, oi\mai, liparw`n ajneqh`nai tou` bavrou". “Ekkoyon ou\n, mavtaie, th;n tovshn trivca. Eij d∆ oujci; tauvthn su; xurh`nai profqavsei", Mevnippo" ejgguv" kai; -ginwvskei" to;n kuvnanauphgikh;n eu[qhkton ajxivnhn fevrei: crhvsei ga;r hJmi`n tou`ton oJ gluku;" Suvro", ejk tw`n eJautou` deltivwn ajpospavsa". Kaiv, tou` kuno;" fqavsanto", oujaiv soi, tavlan: ouj ga;r movnhn sou th;n uJphvnhn ejktevmh/, ajlla; xu;n aujth/` kai; mevro" tw`n ojfruvwn. Plana/`" seauto;n kai; mataiavzei", gevron, th;n aJdrovthta th`" makra`" geneiavdo" ei\nai nomivzwn dei`gma filosofiva". «H ga;r to;n jAqhvnhqen a[ndra to;n mevgan, to; tw`n lovgwn au[chma, to;n qeolovgon, to;n a[ntikru" nou`n, th;n uJpe;r fuvsin fuvsin, to;n uiJo;n ∆Arivstwno", w/| klh``si" Plavtwn, kai; to;n fusikwvtaton ∆Aristotevlhn, th;n tw`n Stageivrwn a[kran eujethrivan, kai; to;n puro;" pavrergon ∆Empedokleva, kai; to;n Savmion tw/` gevnei Puqagovran, kai; to;n sparevnta Swfronivskw/ Swkravthn, eij mh; makra;" kaqei`nto kai; geneiavda" kai; mevcri" aujtw`n ajstragavlwn iJgmevna", kai; th`" kinavbra" e[pneon kai; tou` gravsou, a[stroi" d∆ ajpeikavzonto toi`" pwgwnivai", o{son to; tou` pwvgwno", ouj to; tou` favou", oujk a]n sofou;" e[famen, ouj filosovfou", oujk a]n dikaivou" kai; kalou;" kai; kosmivou"… Tiv d∆ a[n ti" ajnhvr, sukofantiva" gevmwn, ijdei`n me;n aijscrov", aijscivwn de; to;n bivon, a[frwn, ajmaqhv", a[llo" ∆Arcibiavdh" oJpoi`on oJ Plouvtarco" iJstovrhkev pou, pwvgwno" ejplouvthsen a[peiron trivca, h[dh sofo;" kaloi`to kai; sofo;" mevga"… Kai; mh;n e{toimo" Fwkivwn oJ gennavda" ajmfoi`n labevsqai tou` polutricwtavtou. Ei[hn strathgo;" Fwkivwn ejgw; nevo", V, f. 100v 19 60 65 70 75 80 81a 85 90 95 100 soi tw/` kaq∆ hJma`" ejcqro;" ∆Arcibiavdh/. Eij ga;r laboivmhn th`" palamnaiva", gevron, tavca yilh;n deivxaimi th;n o{lhn gevnun. ∆All∆ eijpev moi, Qouvkrite, pentavki" gevron, ∆Iapetev, Krovnie th;n hJlikivan: eij dou`lo" e[lqoi drapevth", mastigiva", kai; th;n gru` fwnh;n ajgnow`n -lovgo" levgei-, II forei` de; kai; pwvgwno" ajpeivrou bavro", tivna krinei`" ejkei`non, e[mpeiron lovgou… Th`" u{brew" feu` tw`n sofw`n maqhmavtwn. ∆All∆, oi|o" ejstiv, mna`" tuco;n pepramevnon… Th`" u{brew" feu` th`" makra`" geneiavdo". Dokei`" dev moi su; th;n filovsofon cavrin toi`" ajgelavrcai" prosnemei`n plevon travgoi", eij tw/` geneivw/ to;n lovgon perigravfei": kai; ga;r geneiavskousin eij" bavqo" travgoi. ∆All∆ ou[te tw/` pwvgwni doi`men to;n lovgon, ou[te travgou" tavxaimen ejn filosovfoi": wJ" ga;r fronou`sin ouj sofo;" levgoitov ti" podh`re" iJmavtion ejndedumevno", h] gou`n ejp∆ aujth`" ijgnuvh" ejzwsmevno". Oi|on Plavtwn a[zwsto" ejn tw/` cqe;" crovnw/ mevshn ejp∆ aujth;n h\lqen ∆Akadhmivan kai; toi`" maqhtai`" touvsde tou;" lovgou" e[fh: eij shvmeron zwvsaito kai; zwsqei;" levgoi, ouj tou` cqe;" a]n Plavtwno" e[stai beltivwn: ouj ga;r stolai; krivnousi tou;" ejn toi`" lovgoi", oujd∆ ejxamoibh; zwvsmato" kai; blautivou, fuvsi" de; gorgh; kai; mavqhsi" biblivwn, ajpovkrisi" kai; peu`si" eujlogwtavth. Ou{tw baqei`" pwvgwne" oujde;n eij" krivsin lovgou maqhtw`n kai; didaskavlwn lovgou. “Anqrwpe, ka]n suvmapasa filosofiva th`" sh`" ajph/wvrhto gou`n geneiavdo", e[dei se; tauvthn ejktemevsqai kai; pavlin, wJ" th;n ajp∆ aujth`" ejkfuvgh/" ajkosmivan: wJ" ga;r melw`n oJ kovsmo" ejk summetriva" ceirw`n, podw`n, a{panto" aJplw`" sarkivou, aiJ sustolai; de; kai; parektavsei" o{lai ajkosmivan fevrousin wJ" kai; kakivvai, ou{tw geneivou semnovth" summetriva. Pavntwn a[riston mevtron, ajrcai`o" lovgo". ∆All∆, w\ fivlon gevneion, a[kmaze plevon, provkopte pavnth/, mhkuvnou, dieuruvnou, kai; sugkatavspa th;n rJavcin tou` pempevlou, e{w" paraqrauvseia" aujto;n eij" tevlo". V, f. 101r Test.: H, N, P, V, Atho1, Vin1, Mon. Edd.: Boissonade IV, pp. 430-435 (ex P, sed cum erratis in transcribendo). Vers.: ital. Anastasi 1965, pp. 164-172 (sine textu graeco sed cum philologis adversariis, deterrimis vero, cum codicem P vir doctus minime viderit, Boissonadei vero textu temere fisus sit); Romano 1999, pp. 290-295 (textus graecus e regione, e Boissonadeo expressus una cum “emendatioinbus” Anastasii). tit. tou` aujtou` k. m. g. d. e. d. t. s. P: t. a. k. m. d. e. s. N (supra infraque cuius primam litteram t scriptum apparet qei`on fw`"): t. a. k. m. d. e. d. t. s. V (in mg. dx numerus n—b— appictus, i. e. LII omnium in hoc codice servatorum Prodromi scriptorum): tou` kurou` qeodwvrou tou` prodrovmou k. makrogevnou" (sic) d. e. d. t. s. Atho1: tou` prodrovmou k. m. g. nomivzonto" e. s. Vin1, Mon: in H nihil conspicitur || 1-3 perierunt in H || 3 pempevlw/ ejggevronti (sic) Atho1 || 4 ...ºtou` gravsou H || 5 primum verbum in lacuna H || 6 o{sh me;n eij" e[ktaª... H; eij" d∆ eu\ro" o{sh Atho1: eu|ro" Vin1, Mon || 7 ...ºta;" diastavsei" o{sh H || 8 katakuptavzei" H, N, V, Atho1: katakuptavsei" Vin1, Mon: katakompavzei" P, Boiss., Rom. || 9 sfairoi`" rJavcin N, V, Vin1, Mon: sfairoi`" rJavchn P (sfairei`" Boiss., sed dub. in adn. -oi`"; ambo vero solutiones dare possis, cum compendium ambiguum sit): sf...oi`"ª... H: sfairw`n rJavcin Atho1 || 10 ...ºa;" t. t. s. k. H || 11 ouj H, N, V, Atho1, Vin1, Mon, Boiss.: tou` P || 12 deivlaie H, N, V, P, Atho1, Vin1: deilai`e Boiss., falso; kei`ron Atho1 || 13 drwpavkize H (primum verbum in lacuna), N, 20 V, P (Boiss.), Atho1: drepavnize Vin1, Mon (Anast., Rom.) || 16-17 hoc in ordine H, N, V, P, Atho1: inverso ordine (i. e. 17-16) Vin1, Mon || 16 ...ºson t. g. t. f. H || 18 kevkufen H, N, P, Atho1, Vin1, Mon: kevkufa" V || 19; schmatismo;n iJkevtou H (...ºmatismo;n), Boiss.: s. oijkevtou N, V, P, Atho1, Vin1, Mon || 20 ajneqh`nai H, N, V, P2 (Boiss., Rom.), Atho1, Vin1, Mon: ajnaqh`nai P1 || 21 e[kkoyon H, V, Atho1, Vin1, Mon: e[kkopton N, P (Boiss., Rom.), perperam; tovshn V, P, Atho1, Vin1, Mon: o{shn N: th;n ª...º trivca H || 22 xurh`nai N, V, Vin1: ...ºci; t. s. zurh`nai p. (sic) H: xhrh`nai P (cui codici ajciv falso Boissonade in adn. tribuit): xurh`sai Atho1; proprofqavsei" (sic) Atho1 || 23 ginwvskei" H, N, V, P, Atho1, Vin1, Mon: ginwvskw Boiss. (compendio male lecto; quam lectionem codici P falso tribuit Anast.) || 24 eu[qhkton H, N, V, Atho1, Vin1, Mon, Boiss. (in adn.), Rom.: a[qhkton P || 25 crhvsei ga;r hJmi`n tou`ton N, V, Atho1, Vin1, Mon: ...ºg. hJ. t. oJ g. ..r. H: crhvsei me;n kai; ga;r tou`to oJ g. s. P (Boiss.): crhvseie kai; g. t. oJ. g. s. Boiss. (in adn., spondeo in sede secunda ablato) || 26 tw`n eJ. deltivwn H, N, V, P, Atho1: th`" eJ. deltivo" Vin1, Mon || 27 tavlan H, N, P, V, Atho1, Vin1, Mon: tavla" Boiss., Rom. (quam lectionem falso codici P tribuit Anast.) || 28 uJphvnhn H (evanidissimum verbum vix conspici potest), N, V, Atho1, Vin1, Mon: uJpeivnhn P; ejktevmh/ H (prima duo verba in lacuna), V, Vin1, Mon: ejktavmh/ N, P (Boiss., Rom.; bis -h/" falso scripsit Anast.): ejktevmei Atho1 || 31 ...ºth`" makra`" geneiavdo" H || 32 ei\nai nomivzwn dei`gma f.......a" H || 35 th;n articulus in mg. a recentiori manu additus in Mon || 36 w|/ H, V, Atho1, Vin1, Mon: ou| N, P (lectiones inversis codicibus falso adscripsit Anast.) || 37 primis duobus verbis in lacuna deperditis caret H || 40 primis tribus verbis in lacuna deperditis caret H || 42 makra;" kaqei`nto kai; geneiavda" H, V, Atho1, Vin1, Mon: makra`" kaqei`nto kai; geneiavdo" N: makra`" kaqh`nto kai; geneiavdo" P || 43 primis duobus verbis in lacuna deperditis caret H || 44 e[mpneon Atho1 || 45 toi`" pwgwnivai" H, V, Atho1: toi`" pwgwnivoi" N, P (-nei- falso Boiss.), Vin1, Mon || 46 ouj H (prima duo verba in lacuna), N, V, P, Vin1, Mon: kaiv Atho1 || 47 om. Vin1, Mon || 48 evanidus in H || 49 ...ºr s. g. H || 51 ajrcibiavdh" (sic) H, N, P (Boiss.), Atho1: ajlkubiavdh" V: ajlikibiavdh" Vin1, Mon, Rom. || 52 prima duo verba evanida praebet H || 53 a[peiron trivca H (quamquam evanida), N, V, P (Boiss., Rom.), Atho1: ajpeivrou" trivca" Vin1, Mon || 55 prima duo verba evanida habet H || 56 tou` polutricwtavtou (sc. pwvgwno") H, V, Atho1, Vin1, Mon: th;n polutricwtavthn (sc. trivca) H, P (Boiss., Rom.) || 58 e[cqro" H, N, V, P, Atho1: e[cqo" Vin1, Mon; ajrcibiavdh/ H (primum verbum in lacuna), N, P (Boiss.), Atho1: ajlkubiavdh/ V: ajlikibiavdh/ Vin1, Mon, Rom. || 60 yilhvn H (paenultimum verbum sub macula praebens), V, Atho1, Vin1, Rom.: yuchvn N, P (Boiss.) || 63 eij d. e[lqoi V, Vin1, Mon: e. d. e[lqh/ Atho1: oJ d. e[lqh/ N, P: e. d. e[lqª... H (madoris maculae causa) || 64 ajgnow`n lovgo" levgei N, V, P (Boiss.): ...ºfwnh;n ajª...ºw`nª...ºo;" levgei H: aj. o{lw" levgein Vin1, Mon, Anast., Rom.: ouj now`n lovgo" levgei Atho1 || 65 forei` H, N, V, Atho1, Vin1, Mon, Anast., Rom.: fwnei` P (Boiss.); ajpeivrou bavro" H, N, V, Atho1, Vin1, Mon (Anast., Rom.): ajpeivrou bavrou" P (Boiss.) || 66 extrema duo verba macula tegit in H || 67-70 in imo folio 159v P || 67-68 om. Vin1, Mon || 67 ...ºfeu`ª...ºw`n maqhmavtwn H || 68 pepramevnon V, Boiss., Rom.: pepramevno" H, N, P, Atho1 || 69 makra`" H, V, Atho1, Vin1, Mon: aJdra`" N, P (Boiss.), Rom. || 70 dokei`" N, V, P, Atho1, Vin1, Mon: dokei` Boiss. (quam lectionem falso sic legit, cum in interlineo littera s, quamquam parum perspicua, exstet; exinde codici P falso tribuit Anast.): ...ºth;n filovsofon cavrin H || 71-74 in imo folio 160r P || 71 ajgelavrcai" prosnevmein H, N, V, Atho1, Vin1, Mon: ajgelavrcoi" prosnevmoi" P (Boiss.); p. h. v. aiJ favlagge" ajnivscuroi braduvc deletum habet Mon || 72 perigravfei" H, N, V, Atho1, Vin1, Mon, Rom.: perigravfoi" P (Boiss.) || 73 prima tria verba evanida habet H || 75 travgou" H, N, V, P (Boiss., Rom.), Atho1: travgoi" Vin1, Mon || 76 wJ" V, Atho1, Vin1, Mon: toi`" N, P (Boiss., Rom.): ...ºo;" l. t. H || 78 om. H; ijgnuvh" V: ijgnuvo" N, P, Vin1, Mon: ejp∆ aujthvn (-h" sscr.) ij... ejzwsmevno" Atho1 || 79 oi|on H, V, Atho1, Vin1, Mon: oi|o" N, P (Boiss., Rom.) || 80 mevshn ejp∆ aujth;n h\lqen ajkadhmivan N, V, Atho1, Vin1, Mon: m. ejq∆ a. h\. aj. P (mevson falso Boiss., quem secutus est Anast.): ...ºmivan H || 81 e[fh H, N, V, Atho1, Vin1, Mon: levgei P (Boiss., Rom.): lovnou" Romano lapsu typographico || 81a levgoiV, Atho1pc : levgei H, N, Atho11 manu , Vin1, Mon: versum om. P (Boiss.), post 64 falso inseruit Romano || 82 a[n N, V, Atho1, Vin1, Mon: h\n P (Boiss., Rom.): ...ºwn H (sic desinit versus); beltivw Atho1 || 85-86 in lacuna H || 86 peu`si" N, P, Atho1, Vin1, Mon, Rom.: paivdeusi" V (e. m.): versu in lacuna deperdito caret H; eujlogwtavth V, P (vestigia enim eujª....ºtavth, non ajkª....ºtavth, ut falso Boiss. arbitratus est, qui ajkribestavth in textu scripsit), Atho1, Vin1, Mon || 87 falso baiei`" in adn. legit Boiss., cum littera, quae ei i visa erat, q vero strictissima sit in P: ...ºeij" krivsin H || 88-102 desunt in H || 88 didaskavlwn lovgou V, Atho1: didaskavlou lovgwn N, P, Vin1, Mon (Boiss., Rom.) || 89 ka[n N, V, P, Vin1, Mon: gavr Atho1 || 90 sh`" N, V, P, Atho1: gh`" Vin1, Mon; gou`n N, V, P, Atho1: sh`" Vin1, Mon || 91 ejktemevsqai V, Atho1 : ejktemei`sqai N, P, Vin1, Mon (Boiss., Rom.); kai; pavlai D’Alessandro || 93 wJ" N, V, P, Atho1: kaiv Vin1, Mon || 94 sarkivou N, P, Atho1, Vin1, Mon: sarkivon V || 95 o{lai N, V, Atho1, Vin1, Mon : o{lw" P || 96 ajkosmivan N, V, Atho1, Vin1, Mon, Boiss.: eujkosmivan P; kakivai V, N, P, Vin1, Mon: kakivan Atho1, Anast., Rom. || 97 ou{tw V, Atho1, Vin1, Mon: ou{tw" N, P (Boiss., Rom.) || 102 paraqrauvseia" P (Boiss., Rom.): paraqrwvseia" N, V (parara-), Atho1, Vin1, Mon TRADUZIONE      Traduzione in prosa   Traduzione in endecasillabi          5    Diamine, che barba folta!  Quanta ne scende fino alla veste che copre il seno  al vecchio decrepito e marcio Tucrito!  Diamine, che puzzo di caprone, che fetore di ascelle!  Ohimé, che carico immenso della barba!  Quanta ce n’è in estensione, quanta in ampiezza!  Poffare quant’è spessa questa barba!  Quanta ne cade infino a la cocolla  a ’l veglio marcio Tucrito decrepito!  Poffar l’afror di capro e di ditella!  Oh me, che carco immenso de la barba!  Quanta distesa, quanta ampiezza cuopre!  21       10          15          20          25          30          35          40          45          50          55          60          65          70      Insomma quanta in tutte le distanze!  Per questo, credo, sei piegato in avanti, vecchio,  e porti la gobba e curvi la spina dorsale;  la barba, infatti, ti inclina il collo,   essendo molta e di peso smisurato.  Povero te, taglia il pelo barbuto;  sventurato, applica l’unguento depilatorio al tuo viso,  usa rasoi, cesoie, asce sguainate,  spade, coltelli; e sia presente insieme financo la sega.  Libera la guancia dal carico,  libera dal peso il collo.  Vedi come si è piegato in basso lo sventurato  e ti mostra portamento da supplice,  credo, che scongiura di essere sciolto dal gravame.   Recidi, dunque, stolto, la tanto abbondante barba;  ma se non ti affretti a raderti codesta barba,  Menippo è vicino e ‐conosci il cinico‐  porta un’ascia da carpentiere ben affilata.  Codesto ce lo presterà il dolce Siro,  strappandolo dalle proprie pagine.  E, quando ti raggiungerà il cinico, guai a te, disgraziato:  che non ti tagli solo la barba,  ma con essa anche parte delle ciglia!  Tu inganni te stesso e parli a vanvera, vecchio,  la foltezza della tua barba  credendo dimostrazione di filosofia.  Non è forse vero che l’uomo di Atene, quell’insigne,  il vanto dei dialoghi, il teologo,  quello che è tutto intelletto, che è la natura al di sopra della natura,  il figlio di Aristone, di nome Platone,  e Aristotele, ferratissimo nella fisica,  l’estrema fioritura di Stagira,  ed Empedocle, preda aggiuntiva del fuoco,  e Pitagora, nato a Samo,  e Socrate, seminato da Sofronisco,  se non avessero coltivato barbe lunghe  che scendevano fino ai malleoli,  e non avessero promanato grave olezzo di becco e di ascelle,  e non fossero stati paragonati agli astri con la coda,   per quanto concerne la barba, non la luce,  non li avremmo mai chiamati sapienti, né filosofi,  né giusti, né belli, né onesti?  E allora se un uomo delatore,  turpe a vedersi e ancor più turpe nella vita,  sciocco, ignorante, un altro Archibiade,  del quale Plutarco raccontò da qualche parte,  fosse stato ricco di infinito pelo barbuto,  sarebbe ormai chiamato sapiente e sapiente grande?  Eppure il nobile Focione è pronto  a prendere con ambo le mani quel barbone.  Fossi io un novello comandante Focione,  a te, Archibiade del nostro evo, nemico!  Se ti afferrassi per la barba assassina, o vecchio,  presto ti renderei nuda tutta la guancia.  Ma dimmi un po’, Tucrito, cinque volte vecchio,  Giapeto, antico come Crono per età:  se venisse uno schiavo fuggiasco, pendaglio da forca,  che non sa il benché minimo bah ‐dice il proverbio‐,  ma porta una barba infinitamente pesante,  chi lo giudicherai essere: uno esperto di ragionamenti?  Che oltraggio, ohimé, contro le sapienti dottrine!   Oppure uno svenduto forse per una mina, quale in effetti è?  Che oltraggio, ohimé, contro la folta barba!  Mi pare che tu attribuisca maggiormente  la grazia filosofica ai capri, guide delle greggi,  se circoscrivi la razionalità con la barba;  Oh, quanta in tutte le distanze insomma!  Però piegato credo te in avante,  che porti gobba e curvi la dorsale;  la barba, infatti, la cervice inclina,  essendo molta e smisurata al pondo.  Tapino te, recidi il pel barbuto,  l’unguento stendi che depili il viso;  rasoi, cesoie ed asce ignude or usa,  coltelli e spade; e sega fia da canto.  Dal carco sopra libera la gota,  la tua cervice libera dal pondo.  In basso mira com’ piegò il meschino  e in atto supplichevol ti si mostra  di chi scongiura sciorlo dal gravame.  Recidi, adunque, stolido cotanta  peluria; ma se non t’avacci a farlo,  Menippo è appresso e ‐tu conosci il cane‐  di carpentiere un’ascia affila e porta.  Ce ’l presterà codesto soave Siro,   strappato da le proprie paginette.  E, giunto il cane, guai a te infelice,  che non ti rada solo via la barba,  ma pur di ciglia parte già con essa!  Te stesso inganni e blateri, vegliardo,  il folto della lunga tua gran barba  tenendo di fisolafo per mostra.  Quell’uom d’Atene, certo quell’insigne,  di dialoghi la gloria e teologia,  cerèbro tutto e sopra la natura,  io dico d’Aristone il fi’, di Plato,  e ’l fisico superbo, Aristotèle,  l’estrema fioritura di Stagira,  Empedoclés, di fuoco un’appendice,  Pitagora, che a Samo ebbe i natali,  e Socrate, pollon di Sofronisco,  se lunghe non avute avesser barbe  infino le caviglie discendenti  e non spirato lezzo di montone,  né a le comete il volto assimilito  sì ne la barba, non nel coruscare,  sapienti non li avremmo mai nomati  o giusti o vero belli o pure onesti?  Che dire ancor? Se un uomo delatore  a vista turpe e in vita infin più turpe,  un Archibiade stolto ed ignorante,  di che Plutarco ne narrò l’imprese,  di pel barbuto ricco fosse stato  saria nomato gran sapiente ognora?  Eppur Focione nobile è già pronto  a torre quel barbon con ambe mani.  Foss’io Focione duce redivivo,  a te inimico, al nostro Archibïade!  Che se tuo pel ghermissi scellerato  tua gota farei tosto tutta ignuda.  Ma dimmi, cinque volte vecchio Tucrito,  Giapeto, antico come il padre Crono,  se schiavo fuggitivo malfattore  qui ne venisse, ignaro d’ette dicesi,  ma seco il pondo di barba traendo,  giudicherai tu quello esperto savio?  Oh me, che torto ai dotti pensamenti!  O vero un uom da poco, qual è infatti?  Oh me, che torto al folto tuo barbone!  Tu mi ti mostri grazia sapienziale  più tosto ai capri tributar nei greggi,  se con la barba il coto circoscrivi;  22     75          80    81a       85          90          95          100  infatti i capri hanno la barba verso il basso.  Epperò né concederemmo razionalità alla barba,  né annovereremmo i capri tra i filosofi.  Per i sapienti non si potrebbe dir sapiente uno  rivestito di abito talare,  ovver cinto proprio sopra il polpaccio.  Come Platone fino a ieri non cinto  si recò nel bel mezzo dell’Accademia  e ai discepoli pronunciò questi discorsi;  se oggi si cingesse la veste e cinto parlasse,  non sarebbe migliore del Platone di ieri.  Non son le vesti, infatti, a distinguere i filosofi,  né il cambiar di cinto e di ciabatta,  ma una natura impetuosa e l’apprendimento dei libri,  una risposta e una indagine logicissima.  Barbe così lunghe non valgono niente a giudicare  l’intelletto dei discepoli e dei maestri l’intelletto.   Uomo, anche se tutta la filosofia  dipendesse dunque dalla tua barba,  bisognerebbe che tu la tagliassi vieppiù,   per sfuggire alla bruttezza che ne deriva.  Come infatti la bellezza delle membra deriva dalla simmetria  delle mani, dei piedi, insomma di tutto il corpo,  mentre le contrazioni e le espansioni completamente  portano disordine, come pure le bruttezze;  così la venerabilità della barba è data dalla sua simmetria.  La misura è la migliore di tutte le cose: discorso trito.  Ma, cara barba, cresci di più,  fa’ progressi dappertutto, allungati, dilatati  e trascina giù insieme con te la colonna vertebrale del decrepito,  finché tu non finisca per spezzarlo.    però che i capri il ciuffo han ver lo basso,  né raziocinio a barbe pur daremmo,  né tra i sapienti i capri schiereremmo.  Ché li assennati non direbber savio  quell’uomo avvolto in tunica talare  o ver di sopra al poplite ricinto.  E qual Platon non cinto infino a jeri  recossi pure in mezzo a l’Academia  e ai suoi scolari recitò i discorsi;  se ancoi cignesse sé e cinto parlasse,  miglior non fora del Platon di jeri.  Sicché la vesta il savio già non face,  né lo mutar di sandalo e di cinto,  sibben natura balda e apprendimento  e loica poscia indagine e risposta.  Barbe sì lunghe a giudicar non vaglion  la mente de’ pupilli e de’ maestri.  Mortale, s’anco tutta la sapienza  da la tua barba dunque dependesse,  mestier che la tagliassi più saria   per evitar la sconcia sua figura.  Qual l’ordine de’ membri fa bellezza  di mani e piedi e in un di tutto ’l corpo  ‐di contro membri attratti o molto espansi  disordine e bruttezza porteranno‐,  tal de la barba augusta simmetria.  Che tutto la misura avanza, il dice  un vecchio detto. Pure, o barba, cresci,  avanza in lungo e in largo, dappertutto,  e giuso la dorsale del decrepito  strascina, infin che tu lo schianti a mezzo.      NOTE Metro: dodecasillabo. Tradizione testuale: si notano consonanze tra N e P (eccetto 65, 82, 90, 95, spiegabili però come errori del copista, piuttosto che come varianti desunte da altro antigrafo); Mon è apografo di Vin1 (il che non era stato ben dichiarato da Anastasi), che a sua volta mostra ampie consonanze con il suo coevo H. Il vecchio qui dileggiato rappresenta il prototipo del sedicente filosofo che si crede tale solo per l’aspetto e il contegno, non per una reale proaivresi" professata. Di questa figura, molto diffusa nei dialoghi di Luciano, ho già parlato nelle note a Sat. 146 H., con riferimento alle varie occorrenze in Prodromo; aggiungo Rhod. et Dosicl. VII 427-435, passo in cui si mescolano difetti attribuiti in parte alla vecchia di Sat. 140 H., in parte al vecchio di questa satira: eij d∆ a[ra, mh; bou`n prosfevrwn qeoi`", e[fh,É ajnqrwpoqutw`, cwlo;n ou\n qusiavsw,É tuflovn, koruvzh" e[mplewn, ghralevon,É saproskelh`, trevmonta, kurto;n th;n rJavcin,É lhmw`nta, tou;" ojdovnta" ejxwrugmevnon,É podagriw`nta kai; falakro;n th;n kavran,É poluvtricon gevneion ejxhrthmevnon,É kai; tou`to leuko;n kai; kinavbra" ejkpnevon…É tivno" d∆ a]n aujtw`n oiJ qeoi; provsointov ge… 1 ijatataiavx: i primi quattro versi si caratterizzano per il lessico comico, in particolare aristofaneo, ripreso anzitutto da Luciano. La grafia ijatataiavx con un solo t è comprensibilmente bizantina (in TLG on-line solo nelle segg. edd.: Herodian. Partit. p. 42, 7 Boissonade; Nic. Eug. Dros. et Charicl. VIII 197 ijatataia;x th`" parouvsh" hJmevra", ove Conca sottolinea che la grafia con un solo t è nei codd. e nelle edd. prodromei; Mazaris 1975 II, p. 68, 4); ijattataiavx con due tt, invece, compare 20 volte in TLG on-line: è la grafia di Ar. Eq. 1 ijattataiavx tw`n kakw`n (per Th. 945, R e Suida hanno ijappapaiax, emendato da Bentley in ijattataiavx); Alciphr. Epist. III 4, 1, 2; Prodr. Catom. 193 tiv tou`to tou`to… feu` papai`, feu` moi pavlinÉ ijattataiavx, w] povnwn ijalevmwnÉ ai\ ai\, ijou; ijouv, w] kakw`n ponhmavtwn; l’ed. di Hunger non segnala varianti, ma solo loci similes in Prodr. Rhod. et Dosicl. V 271 ijatatai; to; pavqo" wJ" qhlufrovnwn e VII 236 ijatatai; to; kavllo" aujtoi`" hJlivkon); altre occorrenze in lessicografi e scoli aristofanei; aJdra`" geneiavdo": anche qui lo spirito cambia dall’atteso aspro al dolce a seconda della sensibilità più o meno spiccata del copista bizantino, che in genere non riconosce più l’aspirazione; si mantiene l’aspro sia perché compare in due codici importanti, sia perché è la grafia corretta e più rappresentata nei mss. anche non prodromei. L’aggettivo in coppia con questo sostantivo non sembra ricorrere altrove. Genaiav" è termine di derivazione poetica (sp. tragica) al posto dei prosastici uJphvnh e pwvgwn; viene ripescato dagli scrittori atticisti tardo-antichi (non Luciano), anche ecclesiastici; in Prodromo sembra l’unica occorrenza, benché in 23 questa satira si sprechi più volte (vv. 10, 31, 42, 69, 90). Qui (vv. 72, 97 e 99) e altrove (Sat. 146 H., 162 e 177 = 10, 12 e 11, 14 Migliorini; Rhod. et Dos. IV 222 e VII 433; Sched. muris I 41) compare comunque il sinonimo prosastico gevneion. 2 kaqei`tai: costrutti lucianei e prodromei simili con lo stesso verbo (qui al pf.) ma con il sost. uJphvnh ho già elencato nel comm. a Sat. 146 H., 123 (= 8, 3-4 Migliorini). 3 pempevlw/-Qoukrivtw/: il nome di questo vecchio lucianeo anche in Sat. 140 H. Contro la vecchia lussuriosa 2; l’agg. pevmpelo" anche in Sat. 140 H., 94. 4 kinavbra": olezzo di becco (come in Luc. Bis acc. [... Mcl.] 2, 10) ovvero di uomo maleodorante come un becco (Luc. Dial. mar. [... Mcl.] 1, 5); il verbo kinabravw in Ar. Pl. 294. Il significato di barba caprina come in Luc. Dial. mort. [... Mcl.] 20, 9 (passo ben presente a Prodromo, come dimostrano i vv. 23-27 infra) non è qui pertinente, visto il successivo gravso", nonché il v. 44. Gravso" ha più o meno lo stesso valore semantico, anche se Frinico distingue così: grasov" (hoc cum accentu) diafevrei kinavbra". graso;" me;n gavr ejstin hJ tw`n ajnqrwvpwn duswdiva, kivnabra de; hJ tw`n aijgw`n kai; travgwn; compare meno frequentemente: nei lessicografi (cfr. Ar. fr. 892 Kock = 923 K.-A., ap. Phot. Lex. s.v. yo p. 655, 12 e)piì tou= saprou= kaiì mh\ sunare/skontoj: eÃsti de\ a)pokommatikou= leceidi¿ou: yo/qon ga\r kalou=sin: ¹Aristofa/nhj: Ple/w gra/sou (teŸkaiì yoqoi¿ou kaiì r(u/pou [ge] kaiì yo/qou: Ai¹sxu/loj QewroiÍj) e in alcuni autori medio-bizantini, come Tzetze, Eustazio di Tessalonica e Costantino Manasse. 6 eij" eu\ro" d∆ o{sh: si noti la posizione della particella d∆ dopo il gruppo prep. + sost. (e non dopo prep., come cambia Atho1), anche per chiudere la sillaba finale di eu\ro", allungandola; cfr. Sat. 144 H., 79 ejpi; to; dusfhmovtaton dev. 7 pavsa"-diastavsei": in comparazione con la sintassi del verso precedente, si percepisce la mancanza di un eij", a meno che non si ripristini emendando il tav". 8 katakuptavzei": il verbo non è lemmatizzato in TLG on-line; LBG (= sich bücken; ma vd. già Tgl) lo registra come varia lectio in Schol. Ar. Ach. 263b, ln. 15 (Koster I 1b, 45, 15) oJ d∆ au\ Falh`" katakuptavzei Lh. 9 kuvrtwma-rJavcin: i sostantivi appartengono alla terminologia medica; il verbo sfairovw è abbastanza raro, ma compare in una significativa iunctura in Theocr. XXII 46 sthvqea d∆ ejsfaivrwto. 12 uJphnh`tin: non lemmatizzato in LSJ né in TLG on-line; femminile dell’attestato uJphnhvth" (come presbuvti" di presbuvth"). 13 drwpavkize: il verbo, tecnicismo medico non diffuso (cfr. e.g. Gal. Comp. med. sec. loc. XII 799, 16 Kühn; Orib. Eup. IV 7), ricorre, fra gli altri prosatori, in Arr. Epict. III 22, 10 e Luc. Daem. [... Mcl.] 50. In Mazaris 1975 I p. 44, 11 gli edd. hanno lasciato a testo la grafia con o, ossia dropakivzetai. 14 yalivsi: la parola compare in un frammento delle Tesmoforiazuse I, Ar fr. 320 Kock = 332 K.-A., ap. Poll. VII 95, 5 all’interno di un elenco di oggetti da toeletta; una simile enumerazione in AP XI 368 (Iul. Antec.) drepavnoisi kai; ouj yalivdessi karh`nai. 20 liparw`n-bavrou": liparevw nel senso di scongiurare è gia nei tragici (e.g. Aesch. Pr. 1004); ajneqh`naiv tino" al passivo deriva da usi con lo stesso verbo ma intransitivo quali Eur. Med. 457 su; d∆ oujk ajnivei" mwriva"; Ar. Ran. 700 th`" ojrgh`" ajnevnte"; Thuc. V 32 ajnei`san th`" filonikiva"; Dem. XXI [Mid.] 186 th`" ojrgh`" ajnei`nai nel senso di cessare da una cosa, cessare di fare una cosa, smettere, interrompere una cosa, smettere di fare qcs, cessare dalla condizione di, e quindi liberarsi da/di qcs. 21 e[kkoyon: cfr. Sat. 140 H., 85 mh; mevlle Klwqwv, kovyon ojye; to;n mivton. 22 xurh`nai: il passivo con accusativo è un ampliamento del medio con accusativo nel senso di azione compiuta a proprio vantaggio (radersi, farsi radere; vd. LSJ s.v. xurevw). Per la precisione, il verbo qui presente proviene dalla forma collaterale xuvrw, come denuncia la sua forma di infinito aoristo passivo, non attestata né all’infinito né in altri modi in TLG on-line, ma giustificabile come costruita sul modello di suvrw-ejsuvrhn-surh`nai; dalla forma principale del verbo, infatti, ci si attenderebbe xurhqh`nai. 23-24 Mevnippo": sul filosofo cinico ellenistico (III sec. a.C.), vd. Introd. a Sat. 146 H. Qui Prodromo fa chiaro riferimento a Luc. Dial. mort. [... Mcl.] 20, 9, dove si dileggia un filosofo barbuto, morto, pronto a salire sulla navicella di Caronte. Ermes, nondimeno, gli impedisce l’imbarco, se prima non avrà visto la sua esorbitante barba rasata via; e Menippo, che accompagna il dio psicopompo, è pronto a svolgere la funzione di barbiere (Mevnippo" ouJtosi; labw;n pevlekun tw`n nauphgikw`n ajpokovyei aujto;n [sc. to;n pwvgwna] ejpikovpw/ th/` ajpobavqra/ crhsavmeno" = usando come ceppo di decapitazione la scala di sbarco). Sintassi: ho supposto un ejstiv sottinteso a Mevnippo" e considerato un inciso le parole givnwskei" to;n kuvna. 25 Suvro": stesso modo di citare Luciano in Sat. 149 H., 85 kata; to;n Suvron eijpei`n rJhvtora. 27 oujaiv: oujavi è interiezione derivata sp. dai LXX (e.g. Num. XXI 29). 28 ejktevmh/: continua la citazione dal passo summenzionato di Luciano, in cui Menippo chiede a Ermes, in riferimento al filosofo barbuto: bouvlei mikro;n ajfevlwmai kai; tw`n ojfruvwn…. Tagliare le ciglia significa umiliare la superbia di qualcuno; ojfru`", infatti, è metafora per orgoglio, disprezzo. La variante ejktavmh/ è congiuntivo aoristo ion. dor. epico (vd. e.g. G 292); ma ho preferito la forma attica, non foss’altro perché tràdita da V. Ouj ha qui valore di mhv? O bisogna addirittura restaurare mhv al posto di gavr? 30 plana`/"-mataiavzei": si ripete il rimprovero di Sat. 140 H., 26, per cui i falsi atteggiamenti finiscono con l’ingannare sé stessi, non gli altri. Mataiavzw è verbo abbastanza raro (occorrenza importante per Prodromo in Luc. Luct. [... Mcl.] 16), le cui altre forme ortografiche presenti nei mss. di altri autori sono mata/vzw, matai>vzw e mataiivzw (vd. LSJ s.vv.). 31-32 aJdrovthta-filosofiva": stesso concetto in Sat. 146 H., 120 sgg. (= 8 Migliorini) con note; vd. anche Luc. Dem. [... Mcl.] 13 su; ajpo; tou` pwvgwno" ajxioi`" krivnesqai tou;" filosofou`nta"; Pisc. [... Mcl.] 41; Philops. [... Mcl.] 4- 24 5. Cfr. anche Plat. Leg. 732a 4-6 ejk taujtou` de; aJmarthvmato" touvtou kai; to; th;n ajmaqivan th;n par∆ aujtw/` dokei`n sofivan ei\nai gevgone pa`sin. 33-48: il punto di domanda alla fine di questa lunga frase è giustificato più che dal segno di interpunzione … in coda al v. 48 (segno peraltro di non univoca interpretazione; vd. Introduzione. Constitutio textus § 1) Punteggiatura), dalla particella all’inizio h\ gavr (vd. LSJ s.v. i sit not so? spesso da solo). Anche alla fine del v. 54 compare lo stesso segno d’intepunzione e la domanda si attaglia bene al contesto. 34 to;n qeolovgon: i filosofi antichi furono definiti dai loro successori, per lo più tardo-antichi, teologi a causa delle indagini sulla causa prima, sul bene primo e, più in generale, sulla metafisica (cfr. fra i primi Plut. Quaest. conv. 614c 10-d 2 o(r#=j ga\r oÀti kaiì Pla/twn e)n t%½ Sumposi¿% periì te/louj 614.D dialego/menoj kaiì tou= prw¯tou a)gaqou= kaiì oÀlwj qeologw½n ou)k e)ntei¿nei th\n a)po/deicin ou)d' u(pokoni¿etai). Platone e Aristotele, in particolare, godettero ampiamente di questa fama, non senza un’aura di divinizzazione delle loro stesse figure storiche, conferitagli soprattutto dai neoplatonici, filosofi e commentatori (si ricordi che Proclo compose una Theologia Platonica; cfr. poi e.g. Ammon. Alex. Interpr. p. 133, 16 CAG prw`ton me;n gavr, wJ" oJ Tivmaio" [p. 27c] hJma`" ejdivdaxe kai; aujto;" oJ ∆Aristotevlh" qeologw`n ajpofaivnetai kai; pro; touvtwn oJ Parmenivdh"; Elias In Arist. Cat. comm. p. 124, 22 CAG dio; ajei; oJ ∆Aristotevlh" qeologw`n fusiologei`, w{sper ajnavpalin oJ Plavtwn ajei; fusiologw`n qeologei`). In Prodromo l’associazione del verbo qeologevw con Platone ricorre in Sat. 149 H., 9; a ln. 86 della stessa satira è usato invece in riferimento all’attività filosofica di Diogene, come contrapposta alla sua occupazione materiale precedente di cambiavalute; a lnn. 53 e 91 il sedicente novello filosofo platonico è apostrofato con l’epiteto di qeolovgo", da lui usurpato, in quanto ignorante di filosofia. 36 uiJo;n ∆Arivstwno": la stessa denominazione in Sat. 149 H., 7; 43 oJ tou` ∆Arivstwno" ejkei`no", oJ ∆Aqhnai`o", to; au[chma th`" presbutevra" ∆Akadhmiva"; vd. anche il dialogo filosofico n° 135 H. Senedemo, 281 (= Cramer III, p. 213, 26). 37 to;n fusikwvtaton ∆Aristotevlhn: così detto evidentemente per la sua Fisica e i numerosi studi naturalistici suoi o confluiti nel suo corpus; la iunctura non è però molto diffusa e al di fuori di Prodromo si ritrova in Io. Philop. Opif. mundi p. 66, 1 Reichardt oujde; ga;r tou;" ajnevmou", wJ" ei\pon h[dh, oJ fusikwvtato" ∆Aristotevlh" ajevro" ei\nai kivnhsin bouvletai. Nel testo prodromeo n° 145 H. All’imperatore ovvero in favore del colore verde, 86 (Cramer III, p. 219, 1) oJ fusikwvtato" suv è apostrofato un ipotetico interlocutore, che si vanta d’essere allievo di Aristotele. 38 tw`n Stageivrwn-eujethrivan: quest’espressione vuol forse dire che Aristotele fu l’ultimo, l’estremo e il sommo buon prodotto di una città che, da quando fu distrutta da Filippo di Macedonia, non diede più altri frutti gloriosi. Del fatto siamo ben informati da diverse fonti, tra cui le Vitae aristoteliche (e.g. Vita Arist. Marc. f. 276a fin. Rose thvn te ga;r eJautou` patrivda Stavgeira katastrafei`san uJpo; Filivppou peivqei to;n ∆Alevxandron deuvteron ktivsai kai; cwvra" eJtevra" aujth/` katadidovnai). 39 to;n puro;" pavrergon ∆Empedokleva: così ironicamente detto perché secondo la tradizione si gettò nell’Etna, come racconta Diog. Laert. Vit. phil. VIII 69 5; pavrergon può significare qui inezia in confronto al fuoco (in cui si precipitò); ovvero occupazione collaterale, svago del fuoco dell’Etna, che bruciò Empedocle insieme con l’altra materia magmatica. Una simile iunctura in Prodr. Tetrast. in Vetus et Novum Test. 65a 1-2 tou;" qumiw`nta" ejn xevnw/ puriv, xevne,É qeivou puro;" pavrergon eijpev moi blevpwn (episodio di due figli di Aronne fulminati da Dio, per avergli sacrificato con fuoco non prescritto da Dio stesso). Interessante il confronto con Clem. Alex. Quis dives salvetur XXXII 3, 2 tiv se livqoi diafanei`" kai; smaravgdoi tosou`ton eujfraivnousi kai; oijkiva, trofh; puro;" h] crovnou paivgnion h] seismou` pavrergon h] u{brisma turavnnou… (perché ti danno tanta gioia pietre trasparenti e smeraldi e una casa, che non sono altro che esca per il fuoco, trastullo del tempo, occupazione collaterale/inezia del terremoto e manifestazione di superbia del tiranno?). Per il significato di pavrergon facile preda, bottino aggiuntivo Anastasi rimanda a Paus. X 27, 2 Privamon de; oujk ajpoqanei``n e[fh Levscew" ejpi; th/` ejscavra/ tou` ÔErkeivou, ajlla; ajpospasqevnta ajpo; tou` bwmou` pavrergon tw/` Neoptolevmw/ pro;" tai`" th`" oijkiva" genevsqai quvrai". Lesche disse che Priamo non morì sul focolare di Zeus protettore della casa, bensì che, strappato dall’altare, si aggiunse in più al bottino di Neottolemo presso le porte della reggia. 40 to;n Savmion-Puqagovran: tra le numerose testimonianze della provenienza di Pitagora, cfr. quelle in D.-K, tra cui e.g. Hdt. IV 95 e Isocr. Bus. 28. 41 sparevnta-Swkravthn: cfr. e.g. Plat. Alc. I 131e 3 ou|to" ajgaphtov", Swkravth" oJ Swfronivskou e Luc. VH II 17. 44: non credo che si debba intendere sempre puzzo di montone, bensì puzzo di ascelle può andar ugualmente bene. Per il gen. con i verbi di percezione fisica, cfr. anche l’it. letterario in C. Dossi, Note azzurre, ed. Isella, cit. in Nigro 2002, p. CXLIV «la guardia Naz[ionale] ai funerali di Manzoni sentiva di canfora e pepe». 45 a[stroi"-pwgwnivai": (ajsthvr) pwgwniva" è e.g. in Aristot. Mete. 344a 23. 51 ∆Arcibiavdh": vd. Plut. Phoc. X 1-2; la lezione ∆Alkibiavdh" è facilior (non si capisce perché Anastasi e Romano la preferiscano, pur rimandando al passo plutarcheo). L’espressione sukofantiva" gevmwn del v. 49 riprende per la verità il giudizio su un altro personaggio menzionato subito dopo Archibiade, cioè Aristogitone (∆Aristogeivtono" de; tou` sukofavntou polemikou` me;n o[nto"). 53 pwvgwno"-trivca: la costruzione di ploutevw è qui con l’accusativo dell’oggetto interno (vd. Luc. Tim. [... Mcl.] 48 con plou`ton; Them. Or. I 17c 9 con fivlou", 267a 4 con filivan), non con il genitivo, ché altrimenti l’accusativo resterebbe sospeso. 25 55-56 Fwkivwn-polutricwtavtou: Archibiade era un facinoroso, dotato di folta barba, mantellaccio ed espressione sempre corrucciata, come si addiceva a un filosofo cinico; Focione, allora, lo prese per la barba e gli disse che avrebbe fatto bene a tagliarsela, volendo significare che non gli serviva a nient’altro che al contegno esteriore. Fuori luogo le traduzione di Anastasi («la folta barba di entrambi») e Romano («le lunghe barbe di tutt’e due»), i quali misinterpretano ajmfoi`n, buon atticismo con ceroi`n sottinteso. 59 th`" palamnaiva": sottintendo, secondo le traduzioni di Anastasi e Romano («quella sciagurata/disgraziata barba») uJphvnh", benché tale agg. accompagni o sottintenda più spesso ceivr (vd. Sat. 148 H., 53 ta;" palamnai`a" cei`ra"), per significato qui meno attinente di “barba”. 60 deivxaimi: in attico ci si aspetterebbe ajpodeivxaimi; comunque ha valore di rendere. 61 pentavki" gevron: ricorda forse il pentakovrwne di Sat. 140 H., 8. 62 ∆Iavpete, Krovnie: per ∆Iavpeto" vd. Sat. 146 H., 80 [ci.], 95 e 219 (= 5, 9 [ci.], 6, 11 e 14, 5 Migliorini), nonché 140 H., 3. 63 drapevth", mastigiva": due parole tipicamente comiche; cfr. Ar. Ach. 1187; Eq. 1228; Ran. 501. 64 gru`: cfr Ar. Pl. 17 cum schol. 66: in V il ; è posto dopo bavro" di v. 65, mentre la sua collocazione adatta al contesto è in fine v. 66, dove V non lo segna, perché si accontenta di quello a fine v. 68; lo segna invece Boissonade, che per la verità ne pone uno anche a metà verso dopo ejkei`non, dove lo ripete Romano e da cui io invece ritengo si possa tranquillamente togliere; qui V ha il punto in alto, indice di pausa breve. 68 mna`" pepramevnon: cfr. Sat 140 H., 75. 70-73 dokei`"-travgoi: cfr. Luc. Eun. [47 Mcl.] 9 eij ga;r ajpo; pwvgwno", e[fh, baqevo" krivnesqai devoi tou;" filosofou`nta", to;n travgon a]n dikaiovteron prokriqh`nai pavntwn; Gall. [... Mcl.] 10 oJ gou`n pwvgwn mavla tragiko;" h\n ej" uJperbolh;n kouriw`n («la barba era assolutamente caprina e abbisognava di un taglio decisivo») detto di un sedicente filosofo; Iul. Misop. III 19 divdwmi ga;r aujto;" th;n aijti;an w{sper oiJ travgoi to; gevneion e[cwn; . Il verbo genaiavskw significa propriamente far crescere la prima barba; occorrenze e.g. in Plat. Symp. 181d e Xen. Cyr. IV 6, 5. 77 podhvre" iJmavtion: simbolo di lusso; cfr. e.g. l’associazione di due fasti in Clem. Alex. Paedag. III 1, 1, 1 ou) xrusoforw½n ou)de\ podhroforw½n. Sintagmi simili al nostro sono Eur. Bacch. 831 pevploi podhvrei"; Xen. Cyr. VI 4, 2 podhvrh" citwvn; Paus. I 24, 7 ejn citw`ni podhvrei e V 19, 6 ejndedukw;" podhvrh citw`na; Athen. XII 25, 2 citw`si podhvresi crwvmenoi. 78 ejp∆ aujth`" ijgnuvh" ejzwsmevno": fuori luogo la traduzione di Romano «cinto di peluria fino alle ginocchia»; qui si parla non di barba, bensì di tuniche corte e lunghe, che distinguono due ben precise categorie di... vuol dire che non basta l’abito lussuoso (lungo) o quello trasandato da Socrate-cinico (corto), per fare il sapiente? La lectio isolata di V ijgnuvh" è difficilior, poiché ristabilisce un sostantivo della 1a decl., l’epico-ionico ijgnuvh, variante del già omerico ijgnuva, a" (vd. N 212, Arist. HA 515b 8 et alibi; Plut. Art. XI 10 ecc.); ijgnuv", uvo", hJ, invece, ricorre, spesso come varia lectio della precedente: Hymn. Hom. Herm. (IV) 152, Arist. HA 494a 8 et alibi, Herond. I 14, Gal. X 902 Kühn ecc. La parola significa propriamente la parte posteriore del ginocchio o, tutt’al più, il polpaccio (vd. Tgl s.v.). Una ricerca combinata su TLG on-line di ijgnuvh + forma flessa di zwvnnumi non dà esito. 81a eij-levgoi: in questa sede è tràdito il verso dai mss. che lo riportano; l’ho contrassegnato con 81a per non turbare la numerazione delle edizioni di Boissonade e Romano (quest’ultimo, tra l’altro viene fuorviato da un confuso ragionamento di Anastasi, che parla del verso caduto in P nelle righe del suo commento al v. 47, riferendosi per giunta a un’altra diversa lacuna postulata da Boissonade dopo il v. 64, a sua volta sensata, però, solo con il testo corrotto di P al v. 65; Anastasi traduce tuttavia il verso al posto giusto). Sono incerto se considerare i vv. 81a-88 discorso diretto attribuito a Platone o discorso del poeta parlante; a favore della prima ipotesi va tou;sde tou;" lovgou" di v. 81; a sfavore vanno i verbi in terza persona, benché Platone possa parlare di sé stesso come di un terzo, e l’assenza esplicita di un soggetto (il primo nominativo del segmento è beltivwn). 83 ouj gavr stolai;-lovgoi": sulla falsa impressione esercitata da un elegante aspetto esteriore cfr. due circostanziati passi di Luciano, Merc. cond. [... Mcl.] 25 e Herm. [... Mcl.] 18. 84 blautivou: parola del lessico comico; cfr. Ar. Eq. 889; ritorna in Sat. 144 H., 41. 87 baqei`"-pwvgwne": cfr. v. 73 supra geneiavskousin eij" bavqo". 88 lovgou-lovgou: la scelta tra la lezione di V (e Atho1) lovgou maqhtw`n kai; didaskavlwn lovgou e quella degli altri mss. lovgou maqhtw`n kai; didaskavlou lovgwn potrebbe essere giustificata con argomenti parimenti uguali; opto per la prima per mere ragioni di stile (il chiasmo è così completo) e perché lovgo" mi par qui meglio esprimere la razionalità, piuttosto che un discorso specifico (ai dialoghi di Platone si sarebbe indotti a pensare con didaskavlou lovgwn) . chiasmo con simmetria completa del caso genitivo a-B / b1 -A1 (intelligentiae discipulorum et magistri intelligentiarum); la traduzione di Anastasi, ripetuta da Romano, «il senno dei discepoli e del maestro» appiattisce a mio parere la contrapposizione dell’originale, pur da essi seguito. 90 th`"-geneiavdo": simile espressione in Prodr. Rhod. et Dosicl. VII 433 poluvtricon gevneion ejxhrthmevnon. 93 ejk summetriva": cfr. Plot. Enn. I 6, 1, 20-28 Henry-Schwyzer le/getai me\n dh\ para\ pa/ntwn, w¨j ei¹peiÍn, w¨j summetri¿a tw½n me rw½n pro\j aÃllhla kaiì pro\j to\ oÀlon to/ te th=j eu)xroi¿aj proste qe\n to\ pro\j th\n oÃyin ka/lloj 26 poieiÍ kaiì eÃstin au)toiÍj kaiì oÀlwj toiÍj aÃlloij pa=si to\ kaloiÍj eiånai to\ summe/troij kaiì memetrh me/noij u(pa/rxein: oiâj a(plou=n ou)de/n, mo/non de\ to\ su/nqeton e)c a)na/gkhj kalo\n u(pa/rcei: to/ te oÀlon eÃstai kalo\n au)toiÍj, ta\ de\ me/rh eÀkasta ou)x eÀcei par' e(autw½n to\ kala\ eiånai, pro\j de\ to\ oÀlon suntelou=nta, iàna kalo\n vÅ. 96 wJ" kai; kakivai: kakivai è lezione dei codici poziori, mentre kakivan mi pare lectio facilior. 97 ou{tw geneivou: ho scelto la grafia ou{tw senza s finale perché ricorre in V, codice tra i più affidabili, e perché corrisponde alla regola generale di omettere il s davanti a consonante. Gevneion va tradotto con barba come ai vv. 72 e 99, non con mento, come fanno Anastasi e Romano. 98 pavntwn-lovgo": la sentenza, attribuita a Cleobulo di Lindo (e.g. in Diog. Laert. I 93 ajpefqevgxato: mevtron a[riston) viene citata da parecchi altri autori, anche senza paternità come qui. 100 dieuruvnou: verbo abbastanza raro (una cinquantina di occorrenze in TLG on-line); in Prodromo anche Rhod. et Dos. IV 177 mh; th;n ejmh;n gou`n koilivan dieuruvnh/. 101 sugkatavspa: un buon parallelo in Luc. Nigr. [... Mcl.] 11 iàna mh\ sugkataspa/sw pou peswÜn to\n hÀrwa oÁn u(pokri¿nomai.; in Prodromo Rhod. et Dosicl. V 318 e VI 12. Per pevmpelo" vd. v. 3 102 paraqrauvseia": la lezione paraqrwv-, tràdita fra gli altri codici da V, non è attestata né in TLG on-line né altrove (LBG, LSJ, Tgl): può derivare da una banale falsa decifrazione di un au vergato in maniera molto simile a un w; oppure da una pronuncia chiusa del dittongo (cfr. lat. cauda > it. volg. coda; causa > cosa), che va nondimeno contro l’attesa pronuncia fricativa bizantina dell’ u. Il verbo non è comunque molto frequente (una settantina di occorrenze in TLG online) e ricorre, oltre che una volta in Platone (Leg. VI 757e), per lo più in prosatori tardo-antichi, tra cui Galeno e i neoplatonici. 27 28 Theodori Prodromi1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 textus III (144 H.)1 ∆Amaqh;" h] para; eJautw`/ grammatikov"2 V, f. 50v Marsuvan de; ei[ ti" h[reto to;n aujlhthvn: ããPovtera, w\ fivle Marsuva, a[kro" fh;/" ei\nai th;n aujlhtikh;n ejpisthvmhn…ÃÃ, oJ de; ããKai; pavnu me;n ou\nÃÃ, e[fh,3 ããw\ a[nqrwpe, wJ" kai; ∆Apovllwniv pote peri; tauvth" diamillhvsasqaiÃÃ: kai; o{" ããManqavnw me;n kai; tau`taÃÃ, ei\pen, ããw\ Marsuva, wJ" diamillhqeivh" pote; peri; mousikh`" tw//` ajkersekovmh/ kai; wJ" aiJ Mou`sai ajmfoi`n katakouvsasai4 tw/` qew/` th;n nivkhn ejpiyhfivsainto.5 Tav te dh; a[lla th`" iJstoriva" ajkouvw kai; ta;" ejpenecqeivsa" soi para; tou` ∆Apovllwno"6 plhgav" kai; wJ" ejnteu`qen ajpo; tw`n aiJmavtwn gevnoito potamo;" kai; ajpov sou paronomasqeivh.7 Eij de; mh; lovgo" a[llw" tau`ta mhde; filotimiva poihtikhv, a[ge moi, toutoni; to;n aujlo;n ajnelovmeno", e[ndeixaiÃÃ: kai; a{ma oiJ para; tai`" cersi;n ejtivqei to; o[rganon, ajpedecovmeqa a]n8 tou` ajnqrwvpou, eij ou{tw" ajkribologoi`to9 to;n aujlhthvn… Ka[n ti" mh; rJa/divw" me;n ta; kata; to;n ejk Mhquvmnh" ⁄ kiqarw/do;n paredevceto, to; a/\sma ejkei`no kai; to;n delfi`na V, f. 51r ejkei`non kai; th;n kainh;n ejf∆ uJgrw/`10 iJppasivan, ajlla; kajkeivnou mh; a]n a[llw" e[cein to;n lovgon diamarturomevnou11 ããSemna; mevn soi kai; tau`ta, w\ jArivwn12 ÃÃ, e[legen, ããejgw; de; oujk oi\d∆ o{pw" tw/` lovgw/ pisteuvein oujc13 oi|ov" tev eijmi, eij mh; provteron ejnayavmeno" th;n kiqavran, toiou`ton a/\sai" oJpoi`on ejpi; th`" prwv/ra"14 to; thnikau`taÃÃ. Eij dh; tau`ta ejkei`no" ajph/vtei, para; quvra" a]n oujk ajpanta`n ejdovkei15 th/` ajlhqeiva/. Soi; de; grammatikw/` doi`men ei\nai, w\ fivl∆ eJtai`re, diovti sautw/` th;n ejpisthvmhn ejpiyhfivzh/, mhde; ajpaithvsaimen16 oJpwstiou`n peri; aujth;n ejnerghvsanta to; eujdovkimon ejpideivxasqai… ∆Alla; fatevon kai; ejpiv soi to; ããAujto;" e[faÃÃ17 , kaqavper ejpi; tw/` Samivw/ pavlai sofw/`… Kai; mh;n eij tau`ta toiau`ta, tiv mh; kajk tw`n a[llwn ejpisthmw`n kai; tecnw`n eJautovn ge paronomavzei" kai; mousiko;n kai; 1 Test.: V, Bar1, Bar 2, Matr2 Edd.: Iriarte 1769, pp. 388-391 (ex Matr2); Cramer III, pp. 222-227 (ex Bar1 et Bar2); Podestà 1945, pp. 242-250 (ex V, edd. Iriartei Cramerique collatis) Vers.: ital. Pod. l. l., Romano 1999, pp. 299-309 2 tou` aujtou` [sc. Prodromi] aj. h] p. eJautw/` g. V (v, o; cfr. Pod., Rom.): gemivnou aj. h] p. eJautou` g. Matr2 (sic De Andrés I, sed in imagine mea hunc titulum Graecum videre nequivi, sive in originali rubricatus, cum lucis ope expressus sit, evanidus et paene invisibilis apparet, sive eo in margine superiore posito imago mihi invidet; in mg. vero Gemini an literarum rudis sit intra se Grammaticus latine scriptum manet): gemivnou aj. h] p. ejautw/` g. Iriarte: aj. h] p. eJJautou` g. Hörandner 1974, p. 51: titulum sub magna atramenti macula Bar1, nullum Bar2 ac Cramer praebent 3 e[fh V: e[fhn Bar1, Bar2 (Cr.), Matr2 (Ir.), Pod. (Rom., qui ambo vero recte vertunt; an omnes n ephelcisticum falso credidere?) 4 katakouvsasai V, Bar1, Bar2 (Cr.): katalouvsasai (sic) Matr2 (Ir.) 5 ejpiyhfivsainto V, Bar1, Bar2 (Cr.): ejpeyhfivsanto Matr2 (Ir.; sed in ms. e secunda supra pristinum i rescripta apparet, ain vero s. l. iacet) 6 ajpovllwno" Pod. (Rom.): ajpovllw V, Bar1, Bar2 (Cr.), Matr2 (Ir.) 7 paronomasqeivh V, Bar1, Bar2 (Cr.), Pod. (Rom.): paroinomasqeivh Matr2 (Ir.) 8 ajpedecovmeqa a[n V, Bar1, Bar2 (Cr.), Pod. (Rom.): ajpodecovmeq∆ a[n Matr2 (Ir.) 9 ajkribologoi`to supra pristinum ajkribologei`to sscr. V 10 uJgrw/` V, Bar1, Bar2 (Cr.), Matr2 (Ir.): uJgro;n Pod. (Rom.) 11 diamarturomevnou V, Bar1, Bar2 (Cr.), Pod. (Rom.): diamartwmevnou (sic) Matr2: diamarturoumevnou Ir. 12 ajrivwn V, Bar1, Bar2 (Cr.), Matr2 (Ir.): a[rion Pod. (Rom.) 13 oujc V, Bar1, Bar2 (Cr.), Matr2 (Ir.): oujk Pod. (Rom.) 14 prwvthära" (litteris sic deletis) Matr2: prwtevra" (sic) Ir. 15 ejdovkei V, Bar1 (Cr.), Matr2 (Ir.): ejdovkh Bar2 16 ajpaithvsaimen V, Bar1, Bar2 (Cr.): ajphthvsaimen Matr2 (Ir.) 17 in mg. dx haec verba concernens scriptum paroimiva praebet V 29 ijatrikovn kai; gewmevtrhn kai; ajstronovmon… Tiv mh; uJpokrivnh/ to;n Qrasumhvdh…18 Tiv mh; 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 46 47 48 49 50 51 52 53 54 55 56 57 58 59 60 61 62 63 19 Carwvndan to;n ejk Katavnh"… »Wn oJ me;n dihvnegke tw`n loipw`n th;n ajgalmatopoihtikhvn, oJ de; th;n ∆Italivan kai; Sikelivan ouj mikra; tai`" nomoqesivai"20 wjfevlhke. Tiv mh; ta; Qavlew"21 sfeterivzh/ tou` Milhsivou22 kai; prw`to" ojnomavzh/ kat∆ ejkei`non sofov"… Tav te a[lla kai; o{ti yuch;n ejntevqeike23 tw/` hjlevktrw/ kai; th/` magnhvtidi. ∆Alla; su; me;n mhde;n uJpostevllou tw`n aJpavntwn, mh; pra`gma, mh; o[noma: favqi movnon kai; faivnou kata; th;n favsin h] mhde; tou`tov ge24 , ajll∆ ejnqumhvqhti movnon ei\nai ta; pavnta kai; e[sh/25 ta; pavnta. ∆Egw; de; tosou`ton oujk a]n tw/` toiouvtw/ xunqeivmhn26 dovgmati, wJ" oujde; skuteva rJa/divw" oujdevna ei[poim∆ a[n27 , ka]n hJ diomhvdeio" ajnavgkh moi ejpikevoito xivfei to; metavfrenon plhttomevnw/, eij mh; th;n smivlhn eujfuw`" ajnalhvyaito28 kai; to; kenththvrion kai; to; uJpovdhma eu\ diavqoito kai; th;n ajrbulivda tecnhevntw" rJavyoi29 kai; to; blautivon. Tiv" gavr me sumpeivsei lovgo", wJ" oujk “Anuto" me;n ∆Aristeivdhn, ∆Ismhnivan de; Dhmovfilo" uJpokrivnetai… Pou`30 de; oi\da eij uJpo; th/` leonth/` kai; pavlin o[no" ojgkhvsetai kai; oJ mu`" galh`n ejlevgxei,31 th;n tevw" nuvmfhn, kai; fwnhvsa" oJ kovrax peinhvsetai…32 “H povte ti" kai; para; tivni pugmiko;" h] palaistriko;" wjnomavsqh, mh; pu;x ajqlhvsa", mh; pavlhn33 , mh; ejn Nemeva/, mh; ∆Isqmoi`…34 Povte de; th;n pivtun h] to; sevlinon ejkomivsato… Tiv" de; kai;35 to;n qettalo;n36 ejstefavnwse Poludavmanta, mh; provteron ejn pagkrativw/ ejpideixavmenon… ⁄ Oujk a[ra oujdev soi ajpocrw`n e[stai to; levgein ei\nai V, f. 51v grammatikw/` eij" e[ndeixin tou` ei\nai toiouvtw/, mh; kai; dokimasqevnti ge provteron: tavca ga;r hJ ludiva ejlevgxei to; kivbdhlon kai; to; novqon oJ ÔRh`no" kai; to;n oujk ajetideva oJ h{lio". “H gou`n ajrnhtevvon soi kai; to; o[noma, h] tou`to mh; ajrnoumevnw/ katadektevon th;n dokimhvn: wJ" ejgw; bracuv tiv se kai; tou`to tw`n ejn prooimivoi" th`" tevcnh" keimevnwn ejrhvsomai. Eijpe; gavr moi pw`" kai; tevcnhn oJ tecnwvsa" tivqetai th;n grammatikhvn kai; ejmpeirivan au\qi" tauvthn oJrivzetai…37 Povteron duvo tivqh"38 ei\naiv moi ta;" grammatika;", ajtelestevran te kai; telewtevran, kai; th;n me;n ejmpeirivan,39 th;n de; tevcnhn ojnomavzesqai ajxioi`"… ‘H kai; a[mfw divdw" kata; mia`" ta; ojnovmata, wJ" taujtou` o[nto" tevcnh" kai; ejmpeiriva"… ∆Alla; tevcnhn me;n kai; ejmpeirivan ou[te su; taujtovn, oi\mai, qeivh"40 , oujt∆ ejgwv soi xunqeivmhn qemevnw/, mevcri"41 a]n ∆Aristotevlou" ajkouvw, ejk pollw`n me;n mnhmw`n th;n ejmpeirivan gennw`nto", ejk de; tauvth" th;n tevcnhn probavllonto". Devdoika de; kai; a[llw" mh; ajntifavsei peripesou`mai, to; aujto; kai; mh; e[cein lovgon kai; e[cein tiqevmeno", ei[per 18 Qrasumhvdh scripsi (levissime Qrasimhvdh Pod.-Rom. corrigens): Frasimhvdh V, Bar1, Bar2 (Cr.), Matr2 (Ir.) 19 mh; Bar1, Bar2 (Cr.), Matr2 (Ir.), Pod. (Rom.): mh; ouj V, ut mihi Podestàque legere visum est (Karwvndan Rom., typothetae lapsu) 20 nomoqesivai" Bar1, Bar2 (Cr.), Matr2 (Ir.), Pod. (Rom.): nouqesivai" V 21 qavlew" V, Bar1, Bar2 (Cr.): qavlew Matr2 (Ir.), Pod. (Rom.) 22 milhsivou V, Cr., Ir.: melhsivou Bar1, Bar2: mhlhsivou Matr2 23 ejntevqeike V: ejnevqhke Bar1, Bar2 (Cr.), Matr2 (Ir.), Pod. (Rom.) 24 ge V, Bar1, Bar2, Matr2 (Ir.): te Cr. 25 e[sh/ V: e[so Bar1, Bar2 (Cr.), Matr2 (Ir.) 26 xunqeivmhn V, Bar1, Bar2, Matr2 (Ir.): xunqeivhn Cr., Pod. (Rom.) 27 in mg. dx haec verba concernens scriptum paroimiva praebet V 28 ajnalhvyaito V pc (a supra o), Bar1, Bar2 (Cr.), Matr2 (Ir.), Pod. (Rom.): ajnalhvyoito V 29 rJavyoi V, Bar1, Bar2 (Cr.), Matr2 (Ir.): rJavyai Pod. (Rom.) 30 pou` V, Bar1, Bar2 (Cr.), Matr2 (Ir.): poi` Pod. (Rom.) 31 in mg. dx haec verba concernens scriptum paroimiva praebet V 32 peinhvsetai V: ponhvsetai Bar1, Bar2 (Cr.), Matr2 (Ir.) 33 pavlhn V, Bar1 (Cr.), Matr2 (Ir.): plavnhn Bar2 34 ijsqmoi` Pod. (Rom.): ejn ijsqmoi` V, Bar1, Bar2 (Cr.): ejn ijsqmw/` Matr2 (oi sscr.; Ir.) 35 de; kai; V, Bar1, Bar2 (Cr.), Matr2 (Ir.): dh; kai; de; Pod. (Rom.) 36 qettalo;n et poludavmanta V, Bar1, Bar2 (Cr.), Matr2 (Ir.): qevttalon et poludamavnta Pod. (Rom.) 37 oJrivzetai V, Bar1 (Cr.), Matr2 (Ir.): zhrivzetai (sic) Bar2 38 tivqh" V, Bar1 (Cr.), Matr2 (Ir.): tivqei" Bar2 39 ejmpeirivan bis scripsit, secundum vero delevit Matr2 (semel Ir.) 40 qeivh" V, Bar1, Bar2 (Cr.), Ir., Pod. (Rom.): qivh" Matr2 41 mevcri" V, Bar1, Bar2 (Cr.), Matr2: mevcri Ir., Pod. (Rom.) 30 a[logon me;n tribh;n th;n ejmpeirivan eijdw;" kai; Plavtwno" de; ajkouvwn, mh; ajxiou`nto" tevcnhn kalei`n o} a]n a[logon h\/, e[peita ejmpeirivan kai; tevcnhn taujtivzoimi. Leivpetai dh; grammatika;" duvo qevmenon eJkavteron tw`n ojnomavtwn eJkatevra/ prosavyai. ÔH me;n ou\n miva e[sti pou 64 65 66 67 68 69 70 71 72 73 74 75 76 77 78 79 80 81 82 83 84 85 86 87 88 89 90 91 92 93 94 95 42 kai; par∆ hJmi`n, w\ qaumavsie, kai; polu;" oJ ejk tauvth" parwnomasmevno" tw`n grammatikw`n oJrmaqov", th;n de; a[llhn euJrivskoi" aujtov". ∆All∆ oujk oi\mai, ka]n murivon ajnatlaivh" to;n kavmaton, eij mhv soi fivlon ou{tw th;n grammatistikh;n43 ojnomavzein. Tiv44 siwpa/`" pro;" tau`ta, grammatikev, mhde; th;n ajporivan ejpiluvei" tacuv…45 Bouvlei soi tou`to me;n xugcwrhvswmen46 , e{teron dev ti probalwvmeqa47 tw`n eujporwtevrwn… ããPavnu me;n ou\nÃÃ, eu\ oi\d∆ o{ti ejrei`". Oujkou`n ajpovkrinaiv moi48 , th;n kovruzan49 ojyev pote50 perielovmeno" th`" rJinov", pw`" ejk tou` ejn xevnoi" foneuvesqai tovpoi" oJ Xenofw`n hjtumologhvqh51 tw/` palaiw/` sou… Povteron ga;r diovti kevklhtai ou{tw, pefovneutai… ‘H diovti pefovneutai, kevklhtai… Eij me;n to; prw`ton52 , misavnqrwpoi oiJ tajnqrwvpw/ to; o[noma qevmenoi, eij dia; tou`to mevlloi foneuvesqai ejp∆ ajllodaph`"53 : h] tosauvthn eJautoi`" tw`n ojnomavtwn penivan ⁄ V, f. 52r prosemartuvranto, wJ" eijakevnai me;n to;n Diomhvdh, to;n Ferekuvdh, to;n Qemistokleva, to;n Perikleva,54 to;n ∆Aristovdhmon, to;n ∆Alkivnoon kai; o{sa a[lla tw`n ojnomavtwn semnav, ejpi; to; dusfhmovtaton de;55 tou`to kathnthkevnai to;n Xenofw`nta. Eij de; diovti pefovneutai kevklhtai, lanqavnei prw`ton ktinnuvmeno"56 ka/\ta tiktovmeno" kai; ojnomazovmeno". ∆Egw; de; kai; Xenofw`nta" manqavnw pavnu pollouv", eij mh; ojneivrw/ toi`" biblivoi" ejfivsthmi, mhvte ejp∆ ajllodaph`"57 mhvte biaivw" to; crew;n ajpoleleitourghkovta", w{ste h]58 ajfairetevon ejkeivnou"59 to; o[noma mhde; Xenofw`nta" kalei`sqai ajxiwtevon, i{na mh; to;n e[tumon kai; ajlhqeva lovgon sumbh/` diayeuvdesqai. ∆Alla; tw/` tecnikw/` me;n h|tton a]n dia; tau`ta kai; ejpitimhtevon: tuvpou"60 ga;r uJpodeiknuvein movnou" ejtumologiw`n kai; ejmfavsei" touvtw/ proevkeito, ouj mevntoi filosofei`n peri; touvtwn ta; telewvtata. Soi;61 de;, w\ ejmbrovnthte, oujk ejpitimhtevon movnon ojrqw`", ajlla; dh; kai; konduvlou"62 kata; kovrrh" ejpitriptevon, oi|" to;n me;n grammatiko;n ejpiyhfivzesqai sautw/` kai; to; ejn Dwdwvnh/ calkei`on uJperhcei`"63 : pro;" dev moi ta;" peuvsei" phvlino" a[ntikru" e{sthka" ajndriav". Bouvlei sou64 kai; trivton puqoivmeqa h] kai; pro;" aujto; ajposiwphvsei" oujde;n e[latton… ããOuj me;n ou\n, ajll∆ ejrwvtaÃÃ, oi\mai, levgei kataneu`ovn65 sou to; kravnion. Eijpe;66 toigarou`n (soi; ga;r kai; tw`n poihmavtwn hJ 42 e[sti pou kaiv V: e[sti kaiv Bar2 Matr2 (Ir.): ejsti; kaiv Bar1 (Cr.), Pod. (Rom.): ejstiv pou kaiv possis? 43 grammatistikh;n V, Bar1 (Cr.), Matr2 (Ir.), Pod. (Rom.): ejpirivan tistikh;n (sic) Bar2 44 tiv bis Bar2 45 ejpiluvei" tacu; V: ejpiluvei" o{ti tacu; Bar1, Bar2, Matr2 (Ir.): ajpoluvei" o{. t. Cr., Pod. (Rom.) 46 xugcwrhvswmen V, Pod. (Rom.): xugcwrhvsomen Matr2 (Ir.), Cr.: xuncorhvsomen Bar1, Bar2 47 probalwvmeqa V, Bar1 (Cr.), Pod. (Rom.): proballwvmeqa Bar2, Matr2 (Ir.) 48 moi om. Pod. (Rom.): accentus sic et V praebet 49 kovruzan V, Bar1, Bar2 (Cr.): kovnuzan Matr2 (Ir.) 50 pote V, om. Bar1, Bar2 (Cr.), Matr2 (Ir.), Pod. (Rom.) 51 hjtumloghvqh V, Pod. (Rom.): ejtumologhvqh Bar1, Bar2 (Cr.) Matr2 (Ir.) 52 to; prw`ton V, Bar1, Bar2 (Cr.), Pod. (Rom.): tw/` prwvtw/ Matr2 (Ir.) 53 ajllodaph`" V, Bar1, Bar2: ajllodapoi`" Matr2 (Ir.) 54 to;n perikleva om. Bar2 55 de; V, Pod. (Rom.), om. Bar1, Bar2 (Cr.), Matr2 (Ir.) 56 ktinnuvmeno" V, Bar1 (Cr.), Matr2 (Ir.), Pod. (Rom.): ktunovmeno" (sic) Bar2 57 ajllodaph`" V, Bar1, Bar2 (Cr.), Pod. (Rom.): ajllodapoi`" Matr2: -toi`" (Ir.) 58 h] V, Bar1, Bar2 (Cr.), Matr2 (Ir.): h/\ Pod. (Rom.); vd. comm. 59 ejkeivnou" V (desinens non compendiosum simillimum ac f. 52v, l. 11 ou\"), Bar1 (utputo, sed evanidiss.), Bar2 (Cr.), Matr2 (Ir.): ejkeivnoi" Pod. (Rom.) 60 tuvpou" V, Bar1, Bar2 (Cr.), Pod. (Rom.): tovpou" Matr2 (Ir.) 61 soi V, Bar1, Bar2 (Cr.), Pod. (Rom.): su; Matr2 (Ir.) 62 konduvlou" V (sic plane desinens per compendium exaratum solvendum), Bar1, Bar2, Matr2 (Ir.): konduvloi" Cr., Pod. (Rom.) 63 calkei`on uJperhcei`" V, Bar1, Bar2 (Cr.), Pod. (Rom.): calkei`on uJperara`/" hjcei`" Matr2 (Ir.) 64 sou V, Bar1, Bar2 (Cr.), Matr2 (Ir.): soi Pod. (Rom.), desinentem litteram male dispiciens 65 kataneu`ovn sou Pod. (Rom.): kataneu`on sou V, Bar1, Bar2 (Cr., -eu`on sou` sic): kataneu`sai Matr2 (Ir.) 66 eijpe; V: ejpei; Bar1, Bar2 (Cr.), Matr2 (Ir.), Pod. (Rom.) 31 krivsi": tauvth/ ge mh;n67 kai; tw`n poihtw`n para; th`" grammatikh`" ejpitevtraptai): ÔOmhvrou ajpodevch/ 96 97 98 99 100 101 102 103 104 105 106 107 108 109 110 111 112 113 114 115 116 117 118 119 120 121 122 123 124 125 68 poivhsin h] ÔHsiovdou… “H par∆ a[mfw tw; a[ndre a[llou tou… ÔOmhvrou eu\ oi\d∆ o{ti levgei" kai; met∆ aujto;n ÔHsiovdou, eij mh; pantavpasi katayeuvdomaiv sou th`" kefalh`", kai; eu\ge poiei`" tou;" sofwtavtou" tw`n a[llwn uJpertiqevmeno"69 . «Ara gou`n70 kai; toi`" touvtwn poihvmasin ejggumnavsai" tou;" nevou"… Kai; tou`to71 movgi" katevneusa". Plavtwn de; a[ra oJ ∆Aqhnai`o" oujk oi\d∆ o{ti paqwvn ouj sumyhfa; tw/` lovgw/ oujde; ajdelfav soi72 fronei`: o{" tosou`ton th`" oJmhrikh`" katevgnwke Kalliovph" w{ste kai; to;n eu\ prosthsovmenon povlew" mh; a]n ejnteqravfqai73 th`/ rJayw/diva/ nomoqetei`74 , eij mh; mevlloi pavsh" ei[dwla kakiva" ejnteu`qen ejnqevmeno" th/` yuch/`, e[peita kai; eJautw/` kai; th/` povlei kakw`n ajnapefavnqai swrov": wJ" ou[t∆ a]n ajndreiva" ou[t∆ ajlhqeiva" ⁄ ou[te V, f. 52v swfrosuvnh" ou[te ejleuqeriovthto" ejxovn tw/75 ei\nai a[llw" ejpilabevsqai, eij mh; pantavpasi tw`n ÔOmhvrou ajpovscoito.76 Tiv dev soi kai; oJ ejx “Askrh" sofov"… Pavnu me;n ou\n crhsimwvtaton ei\naiv oiJ to; e[po" ejrei`", ajll∆ ouj tw/` grammatikw/` ge, w\ lw/`ste, tw/` nautillomevnw/ de; polu; mavlista kai; tw/` gewrgou`nti: tiv gavr77 eij dwvrwn me;n tosw`nde78 hJ79 a{maxa, toiavde dev ti" hJ u{nni" kai; eij nu`n me;n ajmhtevon, nu`n de; ajrotevon kai; eij nu`n me;n qetevon uJpe;r kapnou` to; phdavlion, nu`n d∆ eJlktevon th;n nau`n eij" th;n qavlassan, eij mhv ti" tw`n nautillomevnwn ei[hn80 kai; gewrgouvntwn… ∆Oknw` ga;r levgein wJ" oujde; toi`" toiouvtoi" crhsimeuvsei ta; hJsiovdeia, tou` mevtrou oi|on ejpiprosqhvmatov"81 tino" toi`" ajgroikotevroi" th;n didaskalivan ejpikaluvptonto"82 . ÔOra/`" wJ" e[sfaltaiv soi ta; peri; th;;n tw`n poihmavtwn krivsin, sofwvtate… ÔW" e[gwge, ei[ moi bouvlei to; ou\" uJpevcein oJposonou`n,83 sumbouleusaivmhn a[n soi pinavkion84 ajna; cei`ra" labovnti kai; ej"85 grammatistou` ajpiovnti toi`" prwvtoi" me;n ta; prw`ta stoiceivoi" prosbibasqh`nai, ei\ta klimakhdo;n86 toi`" telewtevroi" ejpanabaivnein, a[cri" a]n th;n th`" grammatikh`" katalavbh/" ajkrovpolin: eij de; kai; povnwn soi87 ajniovnti88 dehvsei, kai; povnwn tw`n ouj metrivwn,89 uJpevcein kajkeivnoi" mavla gennaivw" tou` ou| e{neka e{neka.90 Geloi`on ga;r a]n ei[h kai; ejpieikw`" a[logon spoudh;n me;n peri; ta; paikta; katativqesqai, peri; de; ta; spoudai`a mh; oujci; tou`to poiei`n. ‘H puvqou91 moi tw`n ejpi; skhnh`" oJpovson uJpevcousi to;n ajgw`na, wJ" a]n aujtoi`" rJapizovmenai92 yofei`n 67 mh;n V, Bar1, Bar2 (Cr.), Matr2 (Ir.): me;n Pod. (Rom.) 68 ajpodevch/ V, Bar1, Bar2, Matr2 (Ir.), Pod. (Rom.): ajpedevch/ Cr. 69 uJpertiqevmeno" supra pristinum uJpertiqw`n sscr. V 70 gou`n V, Pod. (Rom.): ou\n Bar1, Bar2 (Cr.), Matr2 (Ir.) 71 tou`to V, Bar1, Bar2 (Cr.): tau`ta Matr2 (Ir.) 72 soi V, Bar1, Bar2 (Cr.), Matr2 (Ir.): sou Pod. (Rom.) 73 ejnteqravfqai Bar1, Bar2, Matr2 (Ir.): ejntravfqai (sic) V: ejntetravfqai Cr., Pod. (Rom.) 74 nomoqetei` V, Bar1, Bar2 (Cr.), Matr2 (Ir.): nomoqetei`n Pod. (Rom.) 75 ejxovn tw/ V, Bar1, Matr2 (Ir.): ejx o[ntwn Bar2, Cr., Pod. (Rom.) 76 ajpovscoito rescriptum supra prius ajpovschtai V 77 tiv gavr V: tiv gavr moi Bar1, Bar2 (Cr.), Matr2 (Ir.), Pod. (Rom.) 78 supra sw`n aliquid scriptum conspicitur in V, sed nescio utrum moi an aliud sit 79 hJ om. Matr2 (Ir.) 80 ei[hn V, Bar1, Bar2 (Cr.), Pod. (Rom.): ei[h Matr2 (n deleto; Ir.) 81 ejpiprosqhvmato" V, Bar1, Bar2 (Cr.), Pod. (Rom.): ejpi; prosqhvmato" Matr2 (Ir.), Cr., Pod. (Rom.) 82 ejpikaluvptonto" V, Bar1, Bar2 (Cr.), Pod. (Rom.): ejpikaluvptonta Matr2 (Ir.) 83 oJposonou`n V, Bar1, Bar2 (Cr.) Matr2 (Ir. oJpovson ou\n); h] ouj mikro;n in interlineo glossae ad instar praebet V (et supra o secundum scripsit w) 84 oJra`"–pinavkion, sequentibus verbis ejpi; prosqhvmato"–ejpikaluvptonta" (sic), bis scripsit et in cancellis posuit Bar2 85 ej" V, Bar1, Bar2 (Cr.): eij" Matr2 (Ir.), Pod. (Rom.) 86 klimakhdo;n V, Matr2, Cr., Pod. (Rom.): klimakhdw;n Bar1, Bar2: klimakido;n Ir. 87 soi V, Bar1, Bar2 (Cr.), Matr2 (Ir.): kai; perperam Pod. (Rom.) 88 ajniovnti V, Bar1, Bar2 (Cr.), Matr2 (Ir.), Pod.: ajnievnai Rom. 89 tw`n ouj metrivwn V: ouj tw`n metrivwn Bar1, Bar2 (Cr.), Matr2 (Ir.), Pod. (Rom.) 90 tou` ou| e{neka e{neka V, Bar1: touvtou ou| e{neka Bar2: tou` ou| e{neka Matr2 (Ir.), Cr.: touvtou e{neka Pod. (Rom.) 91 h] puvqou V, Bar1, Bar2 (Cr.), Matr2 (Ir.): ejpuvqou Pod. (Rom.) 92 rJapizovmenai V, Bar1, Bar2 (Cr.), Pod. (Rom.): rJapizovmenoi Matr2 (Ir.) 32 ejqisqei`en aiJ pareiaiv93 kai; hJ94 fwnh; nu`n me;n to;n qrhnou`nta, nu`n de; to;n ajpeilou`nta, ejnivote de; to;n ajniwvmenon 126 127 128 129 130 131 132 133 134 135 136 137 138 139 140 141 142 143 144 145 146 147 148 149 150 151 95 uJpokrivnoito, tav te sfura; kai; oiJ povde" eujkataklwvmenoi kai; kamptovmenoi tw/` kovrdaki kai; th;n a[llhn sundiaskeuavzoien96 o[rchsin. Su; d∆ ajxioi`", oujde;n propeponhkwv"97 oujde; pollosto;n gou`n tina th`" ajreth`" prokataballovmeno"98 kavmaton, ⁄ e[peiq∆ oi|on spartov" ti" V, f. 53r ajnafu`nai tw/` bivw/ grammatikov". Kai; mh;n oujk e[dei se, w\ filovth", eij" tou`to ajtimiva" katavgein to;n lovgon, wJ" tou` bouvlesqai movnou99 wjnhtevon100 ei\nai poiei`n, ou| propavroiqen iJdrw``ta"101 e[qesan, kata; to;n so;n ÔHsivodon, oiJ qeoiv: eij mhv pou kaiv se kata; tou`ton i[sw" to;n poihth;n fai`men uJpo; Mousw`n sesofivsqai.102 ∆All∆ ejkei`non me;n dafnivnh/ th/` rJavbdw/ aiJ Dio;" ejsovfisan qugatevre",103 kata; tou;" muvqou", se; de; dikaivw" a]n e[paisan aJdra/`104 kai; rJoi>vnh/ ajnovhton o[nta. Ei\ta toiou`to" w[n105 , w\ ajnqrwvpwn talaipwrovtate106 , kai; didaskalei`a107 fantavzh/ kai; qrovnou" kai; bhvmata108 kai; oJmadovn tina neanivskwn oujk ajgennw`n, w|n me;n stoichdovn, ejk parallhvlou paristamevnwn, e[sti d∆ w|n kai; ejpi; skimpodivwn kaqizhmevnwn109 kaiv tina" ajnaplavtth/ meivraka" eujproswvpou", ejxistamevnou" soi th/` eijsovdw/ a{ma kai; sivzonta"… Ta; me;n ou\n a[cri touvtwn oujk ajgennw`", eu\ oi\d∆ o{ti, to;n didavskalon uJpokrivnoio110 : semnw`" te ga;r111 eijsevlqh/"112 kai; prokaqivsei"113 lamprw`" kai; calavsei"114 me;n th;n uJphvnhn, calavsh/"115 de; to;n aujcevna kai; schmativsh/ to;n merimnw`nta, eJkatevra// tw`n tou` qrovnou pleurw`n to;n116 ph`cun ejpereidovmeno". ∆All∆ ouj mevcri touvtwn hJmi`n oJ didavskalo", ajnoivxei117 dev pote kai; ta; ceivlh kai; toi`" e[rgoi" pistwvsetai tou[noma, oi|" me;n tou`to tou` lovgou ejpimetrw`n, oi|" de; a[llo kai; a[lloi" e{teron. Su;118 de; kairou` kalou`nto"119 eijpei`n tiv g∆ a]n kai; faivh" ajlogwvtato" w[n… Kai; a[llw" de; oujde; ajbasanivstw" ou{tw tiv" soi paravqoito to;n uiJeva… Oi[ei ga;r cuvtran me;n ejwnh`sqai mevllonta" mh; a[llw" tou`to poiei`n, pri;n a]n kai; ojfqalmw/` to;n o[strakon iJstorhvsaimen kai; perikrouvsaimen120 toi`" daktuvloi", 93 pareiaiv V, Matr2 (Ir.), Pod. (Rom.): pariaiv Bar1, Bar2 (Cr.) 94 hJ V, Bar1, Bar2, Matr2, Pod. (Rom.): eij Ir., Cr. 95 ajniwvmenon V, Bar1, Bar2, Matr2 (supra prius ajpeilouvmenon sscr.): ajpeilwvmenon (sic) Ir. 96 sundiaskeuavzoien V, Pod. (Rom.): diaskeuavzoien Bar1, Bar2 (Cr.), Matr2 (Ir.) 97 propeponhkwv" V, Bar1, Bar2 (Cr.), Matr2 (Ir.): propeponekwv" (sic) Pod. (Rom.) 98 ajreth`" prokataballovmeno" V, Pod. (Rom.): ajreth`"ª...ºta ballovmeno" Bar1, Bar2 (Cr.): ajreth`" kataballovmeno" Matr2 (Ir.) 99 tou` bouvlesqai movnou V, Bar1 (Cr.), Matr2 (Ir.): to; bouvlesqai movnou Bar2: tou` bouvlesqai movnon Pod. (Rom.) 100 wjnhtevon V, Bar1, Bar2 (Cr.): oijhtevon Matr2 (oijktevon sic Ir.): wjnhqevon (sic) Pod. (Rom.) 101 iJdrw`ta" V, Bar1, Bar2, Matr2 (ijd- Ir.): iJdrw`ta Pod. (Rom.) 102 sesofivsqai Vmg. dx , Bar1, Bar2 (Cr.), Matr2 (se sofivsqai sic Ir.), Pod. (Rom.): sofivzesqai V 103 qugatevre" per compendium (qugatr) V 104 aJdra`/ kai; rJoivnh/ V, Bar1 (-a` kai; -nh/` sic Cr.), Matr2 (aj- sic Ir.), Pod. (Rom.): auJdra` (sic) Bar2 105 p. h. v. in mg. dx peri; th`" ÔHsiovdou dafnofagiva" V 106 talaipwrovtate V, Matr2 (Ir.), Pod. (Rom.): talaipwrovtata Bar1, Bar2 (Cr.) 107 didaskalei`a V, Bar1 (Cr.), Matr2, Pod. (Rom.): didaskaliva Bar2: didaskalovtate Ir. 108 kai; bhvmata V, Bar1, Bar2 (Cr.), Pod. (Rom.): kai; maqhvmata Matr2 (Ir.) 109 kaqizhmevnwn V, Bar1, Bar2 (Cr.), Pod. (Rom.): kaqizomevnwn Matr2 (Ir.) 110 ujpokrivnoio V, Rom.: uJpokrivnoi" Bar1, Bar2 (Cr.): uJpokrivnh/ Matr2 (Ir.), Pod. 111 te ga;r V, Bar1, Bar2 (Ir.) Matr2: tev ge Ir. (compendio male intellecto) 112 eijsevlqh/" V, Bar1, Bar2 (Cr.), Matr2 (Ir.): eijshvlqei" Pod.: eijshvlqh/" (sic) Rom. 113 prokaqivsei" V, Bar1, Bar2, Matr2, Podestà (Romano) 114 calavsei" V, Bar1, Bar2 (Cr.), Matr2 (Ir.), Pod. (Rom.) 115 calavsh/" (compendium potius sic quam -avsa" solvendum) V: calavsei" Bar1, Bar2 (Cr.), Matr2 (Ir.), Pod. (Rom.) 116 to;n V, Pod. (Rom.): th;n Bar1, Bar2, (Cr.), Matr2 (Ir.) 117 ajnoivxei V, Bar1 (Cr.), Matr2 (Ir.), Pod. (Rom.): ajnoivxe (sic) Bar2 118 su; d. k. k. eijpei`n, tiv g∆ a[n ktl. V, Bar1, Bar2, Matr2 (Ir.): ouj d. k. k. e.: ti g∆ a]n ktl. Cr.: ouj d. k. k. e. . Tiv g∆ a]n ktl. Pod. (Rom.) 119 keleuvonto" vel ãparaÃkalou`nto" ci. D’Alessandro 120 perikrouvsaimen V, Bar1, Bar2 (Cr.), Matr2, Pod. (Rom.): perikouvsaimen (sic) Ir. 33 mhv ti kai; duvshcon121 kata; ta;" oujc uJgiainouvsa" fqevgghtai122 … Lovgw/ de;123 ta; paidiva mevllonta" ejmbibavzein, mh; oujci; dedokimasmevnw" 152 153 154 155 156 157 158 159 160 161 162 163 164 124 tou`to poiei`n… Kai; to;n me;n pw`lon oujk ajmaqei` pwlodavmnh/,125 ajnohvtw/ de; to;n pai`da didaskavlw/ paratiqevnai… Kai; tw`n me;n ajndrapovdwn ouj mikro;n tivqesqai lovgon, ei[ pw" ajpoxesqei`en aujtoi`" aiJ glw`ttai pro;" to; eJllhnikwvteron, tw`n de; uiJw`n ta;" glwvtta" kai; ta;" yuca;" katabarbarou`nta"126 kai; ⁄ ejxandrapodivzonta" V, f. 53v tw`n eujkatafronhvtwn hJJgei`sqai to; pra`gma127 … Oujc ou{tw" ajnohtaivnousin128 a{nqrwpoi,129 oujc ou{tw" oJ Phleu;" Melitivdh"130 wJ" ajnti; Ceivrwno" coivrw/ to;n eJJautou` ejmpisteuvsasqai ∆Acilleva, oujc ou{tw131 Kovroibo" oJ ∆Alevxandro"132 , wJ" tw/` pantavpasin ajtelei` ajnt∆ ∆Aristotevlou" maqhtia`n. ∆Alla; su; me;n ããu{dwr kai; gai`a gevnoioÃà kata; to;n so;n poihthvn, eij mh; ejx ajmfoi`n ge h[dh pefuvrasai, phvlino" w]n ta; grammatikav. ÔHmei`" dev se parevnte" wJ" a]n ejqevlh/"133 dianoei`sqai peri;; sautou`, a[llon ejnteu`qen kovsmon ajeivsomen134 . 121 duvshcon V, Bar1, Bar2 (Cr.), Matr2 (Ir.): duvshco" Pod. (Rom.) 122 fqevgghtai V, Bar1, Bar2 (Cr.), Matr2 (Ir.): fqevggetai Pod. (Rom.) 123 de; V, Bar1, Bar2 (Cr.), Matr2 (Ir.): te Pod. (Rom.) 124 dedokimasmevnw" V, Bar1, Bar2 (Cr.), Pod. (Rom.): dedokimasmevno" Matr2 (Ir.) 125 ajmaqei` pwlodavmnh/ V, Bar1, Bar2 (Cr.), Pod. (Rom.): ajmaqh` pwlodavmnhn Matr2 (Ir.) 126 katabarbarou`nta" V, Bar1, Bar2 (Cr.), Pod. (Rom.): katabarou`nta" Matr2 (Ir.) 127 to; pra`gma om. Matr2 (Ir. ) 128 oujc ou{tw" ajnohtaivnousin–ajcilleva om. Matr2 (Ir.) 129 a{nqrwpoi D’Alessandro: a[nqrwpoi V, Bar1, Bar2: oiJ a[nqrwpoi Cr., Pod. (Rom.) 130 phleu;" melitivdh" V, Bar1, Bar2 (Cr.): peleu;" melidivdh" (sic) Pod. (Rom.) 131 ou{tw V, Bar1, Bar2 (Cr.), Matr2 (Ir.): ou{tw" Pod. (Rom.) 132 ajlevxandro" V, Bar1, Bar2 (Cr.), Matr2 (Ir.): ajlevxeuro" (sic) Pod. (Rom.) 133 ejqevlh/" V, Pod. (Rom.): ejqevlei" Bar1, Bar2 (Cr.): ejqevloi" Matr2 (Ir.) 134 kovsmon ajeivsomen V, Bar1, Bar2 (Cr.), Pod. (Rom.): kovsmw/ ajeivsomen Matr2 (kovsmw/ ajhvsomen Ir.) 34 Theodori Prodromi1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 textus III (144 H.) iuxta codicis Vaticani gr. 305 posituras1 +tou` aujtou`∙ ajmaqh;" h] para; eJautw`/ grammatikov"+ V, f. 50v Marsuvan de; ei[ ti" h[reto to;n aujlhthvn, povtera, w\ fivle Marsuva, a[kro" fh;/" ei\nai th;n aujlhtikh;n ejpisthvmhn,. oJ de;, kai; pavnu me;n ou\n e[fh w\ a[nqrwpe∙ wJ" kai; ∆Apovllwniv pote peri; tauvth" diamillhvsasqai∙ kai; o{" manqavnw me;n, kai; tau`ta ei\pen w\ Marsuva wJ" diamillhqeivh" pote; peri; mousikh`" tw//` ajkersekovmh/∙ kai; wJ" aiJ Mou`sai ajmfoi`n katakouvsasai, tw/` qew/` th;n nivkhn ejpiyhfivsainto. tav te dh; a[lla th`" iJstoriva" ajkouvw kai; ta;" ejpenecqeivsa" soi para; tou` ∆Apovllwno" plhgav"∙ kai; wJ" ejnteu`qen ajpo; tw`n aiJmavtwn gevnoito potamo;"∙ kai; ajpov sou paronomasqeivh∙ eij de; mh; lovgo" a[llw" tau`ta∙ mhde; filotimiva poihtikhv, a[ge moi toutoni; to;n aujlo;n ajnelovmeno"›2 e[ndeixai∙ kai; a{ma oiJ para; tai`" cersi;n ejtivqei to; o[rganon: ajpedecovmeqa a]n, tou` ajnqrwvpou∙ eij ou{tw" ajkribologoi`to to;n aujlhthvn∙ ka[n ti" mh; rJa/divw" me;n ta; kata; to;n ejk Mhquvmnh" ⁄ kiqarw/do;n paredevceto∙ to; a/\sma ejkei`no kai; to;n delfi`na V, f. 51r ejkei`non…3 kai; th;n kainh;n ejf∆ uJgrw/` iJppasivan∙ ajlla; kajkeivnou mh; a]n∙ a[llw" e[cein to;n lovgon diamarturomevnou, semna; mevn soi kai; tau`ta w\ jArivwn e[legen: ejgw; de; oujk oi\d∆ o{pw" tw/` lovgw/ pisteuvein oujc oi|ov" tev eijmi∙ eij mh; provteron ejnayavmeno" th;n kiqavran, toiou`ton a/\sai" oJpoi`on ejpi; th`" prwv/ra" to; thnikau`ta∙ eij dh; tau`ta ejkei`no" ajph/vtei› para; quvra" a]n oujk ajpanta`n ejdovkei th/` ajlhqeiva/, soi; de; grammatikw/` doi`men ei\nai w\ fivl∆ eJtai`re∙ diovti sautw/` th;n ejpisthvmhn ejpiyhfivzh/∙ mhde; ajpaithvsaimen oJpwstiou`n peri; aujth;n ejnerghvsanta to; eujdovkimon ejpideivxasqai… ajlla; fatevon kai; ejpiv soi, to; aujto;" e[fa: kaqavper ejpi; tw/` Samivw/ pavlai sofw/`… kai; mh;n eij tau`ta toiau`ta, tiv mh; kajk tw`n a[llwn ejpisthmw`n kai; tecnw`n eJautovn ge paronomavzei"∙ kai; mousiko;n∙ kai; ijatrikovn∙ kai; gewmevtrhn∙ kai; ajstronovmon∙ tiv mh; uJpokrivnh/ to;n Qrasumhvdh∙ tiv mh; Carwvndan to;n ejk Katavnh"∙ w|n oJ me;n, dihvnegke tw`n loipw`n th;n ajgalmatopoihtikhvn∙ oJ de;, th;n ∆Italivan kai; Sikelivan› ouj mikra; tai`" nomoqesivai" wjfevlhke∙ tiv mh; ta; Qavlew" sfeterivzh/ tou` Milhsivou∙ kai; prw`to" ojnomavzh/ kat∆ ejkei`non sofov"∙ tav te a[lla kai; o{ti yuch;n ejntevqeike tw/` hjlevktrw/ kai; th/` magnhvtidi∙        1 Distinctionis signa, quae solum ab hoc scriba adhibentur, punctum medium, virgula, punctum et virgula (semel non interrogationis signum), dicolum et uncum ad dexteram acuminatum sunt; ambigo quomodo punctum medium a superiore distinguam, sed hoc tantum confiteri possum, quod in linea id magis medium mihi stare videatur quam superius. Sunt autem maculae quaedam quae in imagine lucis ope confecta oculum adeo decipiant ut satius sit codicem ipsum excutere. Lectori vero hunc locum prima facie legenti eius significatio non ilico et immediate perspicua his cum posituris videretur, nisi palaeographus expertissimus et is utrumque sermonen, graecum antiquum dico byzantinumque, satis callens foret. 2 Hic et in linea 23 post verbum ajph/vtei atque in linea 31 post verbum Sikelivan signum ad instar unci mihi conspicere videor, de quo bene tractavit Perria 1991; verumtamen hoc non tale, sed simplicem virgulam acutam puto. 3 Hoc interrogationis punctum non interrogationem sed diastolen tantum hic signicat, de quo vd. Liverani 2001, pp. 192-196 in Eustathium. 35  37 38 36 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 46 47 48 TRADUZIONE   TESTO III   (144 H.)    Lo stolto ovvero il sedicente maestro di scuola      Se  uno  chiedesse  al  flautista  Marsia:  «Caro  Marsia,  è  vero  che  sei  un  bravo  flautista?»; e quello rispondesse: «Certo che sì, signor mio, al punto che un giorno sfidai a  singolar  tenzone  persino  Apollo  in  questa  disciplina».  E  se  l’altro  ribattesse  «Apprendo  anche questo, Marsia, che avresti gareggiato con il dio che mai si recide la chioma e che le  Muse,  dopo  avervi  uditi  entrambi,  avrebbero  decretato  la  palma  della  vittoria  al  dio.  Quanto al resto della storia, so anche per sentito dire che le prendesti da Apollo e che in  conseguenza di ciò dal tuo sangue versato sgorgò un fiume che derivò da te il nome. E, a  meno che questo non sia una leggenda vana o un’invenzione composta per ambizione da  qualche poeta, suvvia, prendi quest’aulo e dimostrami la tua perizia». E se nel contempo  gli  mettesse  in  mano  lo  strumento,  approveremmo  quell’uomo,  se  volesse  mettere  alla  prova in cotal guisa l’auleta? E se uno non accettasse facilmente ciò che accadde al citaredo  di Metimna, ossia quel suo famoso canto, il delfino e la sorprendente cavalcata sul mare;  ma, anche se l’altro protestasse che la storia non sta diversamente, questo dicesse: «Arione  caro, questo ti fa onore; ma io non so come non riesco proprio a credere alla storiella; a  meno  che  prima  tu  non  metta  mano  alla  cetra  e  canti  proprio  come  allora  facesti  sulla  prua». Se dunque quell’uomo ponesse tali domande, non sembrerebbe in verità mancare il  bersaglio.    Or dunque, a te dovremmo concedere di farti chiamare professore di lettere, caro  compagno, perché tu decreti a te stesso il sapere, e non dovremmo reclamare affatto che  tu, esercitando tale sapere, ne dimostri l’onore? Bisogna invece dire anche sul tuo conto   ipse dixit, come per l’antico sapiente di Samo? Ebbene, se così stanno le cose, perché non ti  fai chiamare in base agli altri saperi e alle altre arti per lo meno musico, medico, geometra  e  astronomo?  Perché  non  fai  il  Trasimede?  Perché  non  il  Caronda  di  Catania?  Il  primo  eccelse  sugli  altri  nell’arte  scultorea;  il  secondo  non  fu  di  poco  giovamento  alla  Magna  Grecia  e  alla  Sicilia  con  le  sue  legislazioni.  Perché  non  ti  appropri  delle  conoscenze  di  Talete  di  Mileto  e  come  quello  ti  fai  chiamare  primo  filosofo?  Non  foss’altro  perché  ha  introdotto un’anima anche nell’ambra e nella magnetite.    Ma tu non tacer niente fra tutte le cose, né fatto, né nome: parla soltanto e mostrati  come parli; anzi, no, nemmeno questo, bensì pensa solo di essere tutto e sarai tutto. Io,  però, non sarei tanto d’accordo con questa opinione, così che neanche il titolo di calzolaio  darei senza problemi a uno ‐anche se su di me incombesse l’inevitabile sorte di Diomede  con  una  spada  che  mi  batte  le  spalle‐,  se  questo  non  prendesse  in  mano  abilmente  il  trincetto e la lesina e non sistemasse bene la suola e non cucisse da vero artista lo scarpone  e il sandalo. Quale ragionamento mi persuaderà che Anito non fa l’Aristide e Demofilo  l’Ismenia? Come faccio a sapere se sotto la pelle leonina raglierà di nuovo l’asino, se il topo  farà scoprire la gatta, lei che prima si atteggiava a sposina, e gracchiando il corvo morirà di  fame? Oppure quando e presso chi uno fu chiamato pugile o culturista, senza aver prima  partecipato  al  pugilato  o  alle  gare  di  lotta  a  Nemea  o  a  Corinto?  Quando  vinse  il  ramoscello di pino o quello di apio? E chi poi premiò con la corona il tessalo Polidamante,  senza che quello avvesse prima dato prova di sé nel pancrazio?    Nemmeno a te, dunque, basterà dire di essere un professore per dimostrare che sei  tale, senza aver prima superato l’esame apposito. Presto, infatti, la pietra di paragone lidia  37 49 50 51 52 53 54 55 56 57 58 59 60 61 62 63 64 65 66 67 68 69 70 71 72 73 74 75 76 77 78 79 80 81 82 83 84 85 86 87 88 89 90 91 92 93 94 95 96 farà scoprire ciò che è ambiguo, il Reno il bimbo illegittimo e il sole l’uccello che non è un  aquilotto. Tu devi pertanto o negare anche il nome o, se non lo vuoi negare, accettarne la  prova: bada che ti chiederò in breve anche ciò che fa parte dei rudimenti della disciplina.  Dimmi un po’: come fa colui che dà una formazione in un’arte a considerare la grammatica  un’arte  e  poi  definirla  una  pratica  empirica?  Forse  mi  supponi  che  vi  siano  due  grammatiche, una più incompiuta, l’altra più compiuta, e credi che l’una si chiami pratica  empirica, l’altra arte? Oppure tu attribuisci entrambi i predicati a una sola delle due, come  se arte e pratica empirica fossero la stessa cosa? Ma nemmeno tu supporresti che arte e  pratica empirica sono la stessa cosa, né io sarei d’accordo con te, se tu lo supponessi, finché  mi  atterrò  all’insegnamento  di  Aristotele,  il  quale  da  molte  reminiscenze  fa  derivare  la  pratica empirica, e da questa poi fa produrre l’arte. Temo tra l’altro di incorrere in una  contraddizione,  supponendo  che  la  stessa  cosa  abbia  e  non  abbia  razionalità,  se  per  l’appunto,  pur  sapendo  che  la  pratica  empirica  è  un’occupazione  irrazionale  e  attenendomi all’insegnamento di Platone, che non ritiene giusto chiamare arte ciò che sia  irrazionale,  identificassi  poi  pratica  empirica  e  arte.  Resta  allora  da  supporre  due  grammatiche  e  applicare  un  nome  all’una,  un  altro  all’altra.  L’una,  dunque,  o  mirabile  amico, esiste da qualche parte anche da noi e lunga è la fila dei professori che prendono il  nome da essa; l’altra, invece, ti auguro di scoprirtela tu. Ma non ci credo, sai, quand’anche  ti sobbarcassi all’infinita fatica; a meno che non ti piaccia tanto chiamarla grammatistica.    Perché  taci  davanti  a  queste  parole,  caro  professore,  e  non  ti  sbrighi  a  trarti  d’impaccio? Vuoi che ci mettiamo d’accordo sotto questo aspetto e ne proponiamo un altro  più risolubile? Sono certo che dirai di sì. Forbisciti dunque una buona volta il moccio dal  naso e rispondimi un po’: come mai l’etimologia del nome “Senofonte” fu dal tuo antico   derivata dal fatto che quegli fu ucciso in luoghi stranieri? Forse dunque è stato  ucciso, perché si chiama così? Oppure si chiama così, perché è stato ucciso? Se è la prima  soluzione, sono davvero poco umani quelli che gli hanno imposto il nome, se a causa di  questo  doveva  essere  ucciso  in  terra  straniera;  oppure  hanno  dato  prova  di  una  loro  sì  grande penuria di nomi, da lasciare  Diomede, Ferecide, Temistocle,  Pericle,  Aristodemo,  Alcinoo  e  tutti  gli  altri  nomi  onorevoli  e  da  incappare  in  questo  malaugurantissimo  nome  di  Senofonte.  Se,  invece,  prende  il  nome  dal  fatto  che  è  stato  ucciso,  mi  sfugge  come  abbia  potuto  prima  esser  stato  ucciso,  poi  generato  e  chiamato.  Vengo  a  sapere,  nondimeno,  anche  di  moltissimi  altri  Senofonti,  a  meno  che  non  me  li  sogni  io  stando  sui  libri,  che  non  sono  defunti  né  all’estero  né  in  seguito  a  violenza;  cosicché  certo  si  dovrebbe  togliere  loro  il  nome  e  considerare  sbagliato  chiamarli  Senofonte, perché non succeda di ingannarsi sul vero e reale ragionamento. Chi è addentro  all’arte , tuttavia, andrebbe rimproverato di meno per questo: si trattava  per  lui  di  accennare  soltanto  a  modelli  e  spiegazioni  di  etimologie,  non  discettare  della  loro perfezione.    A  te,  invece,  rintronato  che  non  sei  altro,  non  solo  bisogna  muovere  un  giusto  rimprovero, ma anche assestare qualche bel ceffone sul mostaccio, perché vai buccinando,  anche più forte della statua bronzea di Dodona, che ti si decreti il titolo di grammatico.  Davanti  alle  mie  domande,  però,  stai  fermo  come  una  statua  d’argilla:  vuoi  che  ne  te  poniamo anche una terza o starai parimenti zitto pure a questa?  «No di certo, domanda  pure!», dice il tuo capo annuendo, come credo. Di’ un po’, allora, poiché a te spetta pure il  giudizio sulla poesia ‐qui per lo meno è la grammatica che te lo affida: approvi la poesia di  Omero o quella di Esiodo? Oppure oltre a questi due uomini quella di un altro? Quella di  Omero, senz’altro mi dirai, e dopo di lui quella di Esiodo; a meno che io non m’inganni  completamente sul cenno del tuo capo; e fai bene a considerarli i più sapienti al di sopra  38 97 98 99 100 101 102 103 104 105 106 107 108 109 110 111 112 113 114 115 116 117 118 119 120 121 122 123 124 125 126 127 128 129 130 131 132 133 134 135 136 137 138 139 140 141 142 143 144 degli  altri.  Dunque  eserciteresti  forse  i  giovani  persino  nella  poesia  di  costoro?  Mi  hai  appena  fatto  cenno  di  sì  anche  per  questo.  Ma  Platone  l’Ateniese,  non  so  che  gli  sia  successo, per non pensarla né d’accordo con il discorso né in sintonia con te; egli, infatti,  ha tanto accusato la Calliope omerica da giungere a emettere questa legge: chi si accinge a  guidare  una  città  non  sia  stato  allevato  a  suon  di  poesia  rapsodica,  a  meno  che,  introducendo  da  qui  nell’anima  le  immagini  di  ogni  tipo  di  malizia,  non  si  appresti  a  risultare poi per sé stesso e per la città un monte di disgrazie. Perché uno non potrebbe  acquisire in altro modo né coraggio, né verità, né temperanza, né libertà, se non si tenesse  del tutto lontano dai versi di Omero.    E il saggio di Ascra, a che ti serve? Dirai che il suo verso è molto, molto utile; non,  però, per il professore, ottimo amico, bensì per il navigante soprattutto e per il contadino.  A che servirebbe, infatti,  se il carro è lungo tot spanne, se il vomere è pressoché  tale e se ora bisogna mietere, ora arare, ora riporre il timone sopra il focolare, ora tirare la  nave in mare, se io non fossi un navigante o un contadino? Mi perito, infatti, di dire che i  versi  di  Esiodo  non  saranno  utili  nemmeno  a  tali  categorie  di  persone,  poiché  il  metro  nasconde  l’insegnamento  ai  più  indotti  come  se  fosse  un  ornamento  aggiuntivo.  Vedi  com’è  fallito,  o  sapientissimo,  il  tuo  tentativo  di  giudicare  i  poemi?  Perciò,  se  vuoi  porgermi l’orecchio quanto più puoi, ti consiglierei di prenderti in mano una tavoletta e di  andare dal maestro elementare e lasciarti condurre anzitutto verso i primi rudimenti, poi  gradualmente salire a quelli più perfetti, finché non conquisti la rocca della grammatica; e  se fatiche ti faran mestieri nel tuo salire, e fatiche smisurate, ti consiglierei di sobbarcarti  molto coraggiosamente anche a quelle a causa della causa finale. Sarebbe infatti risibile e  veramente illogico metterci serio impegno nelle inezie e non fare altrettanto negli affari  seri. Oppure chiedi per favore a quelli che calcano la scena quanto si cimentano, perché le  loro guance, schiaffeggiate, si abituino a far strepito, la loro voce interpreti ora chi geme,  ora  chi  minaccia,  talora  chi  è  afflitto,  e  i  loro  malleoli  e  piedi  ben  dinoccolati  e  piegati  effettuino insieme con il cordace anche ogni altra danza.   Tu, invece, senza aver prima faticato ed esserti giulebbato la benché minima pena  insita nella virtù, poi ti credi di spuntare in vita professore come se fossi stato seminato. E  certo, caro amico, non dovevi protrarre il discorso fino a tal punto di disonore, così che il  fare  apparisse  acquistabile/dovesse  essere  acquistato  a  prezzo  del  solo  volere:  prima  di  esso gli dèi posero il sudore, come dice il tuo Esiodo, a meno che non dobbiamo in certo  qual modo dire che anche tu sul modello forse di questo poeta sei stato reso sapiente dalle  Muse.  Quello  tuttavia  fu  reso  sapiente  dalle  figlie  di  Zeus  con  la  verghetta  d’alloro,  secondo che racconta il mito; mentre per te, che sei stolto, avrebbero fatto bene a batterti  con un robusto bastone di melograno!    E tu in tali condizioni, uomo disgraziatissimo, ti immagini ancora scuole, cattedre e  tribune e una serqua di giovinetti non ignobili, dei quali alcuni stanno uno accanto all’altro  in file parallele, altri stanno seduti su sgabelli, altri te li concepisci bei giovinetti, che si  alzino al tuo entrare e poi ti esaltino con fischi d’approvazione?    Fin qui, dunque, per ora, ne sono certo, possa tu interpretare molto egregiamente la  parte  del  maestro:  entrerai  maestosamente  e  siederai  con  magnificenza  e  allungherai  la  barba,  allenterai  il  collo,  ti  foggerai  come  uno  pensoso,  poggiando  le  gomita  d’ambo  le  parti del seggio. Fin qui, tuttavia, non avremo il maestro; ma aprirà alfine anche le labbra e  si renderà credibile nel nome con i fatti, assegnando agli uni questa parte del discorso, agli  altri  un’altra,  ad  altri  un’altra  ancora.  Ma  tu,  quando  l’occasione  ti  invita  a  parlare,  che  potresti  dire  nella  tua  stoltezza?  D’altra  parte  nessuno  ti  consegnerebbe  suo  figlio  così,  senza una prova; pensi, infatti, che noi, quando ci apprestiamo ad acquistare una pentola,  39 145 146 147 148 149 150 151 152 153 154 155 156 157 158 159 non lo facciamo altrimenti, prima di aver saggiato con l’occhio e battuto tutt’intorno con le  dita il coccio, perché non emetta un suono cattivo come nelle pentole incrinate? Mentre,  quando  ci  apprestiamo  a  guidare  i  nostri  figlioli  verso  un  discorso,  pensi  che  non  lo  facciamo  senza  aver    messo  alla  prova  il  maestro?  E  il  puledro  pensi  che  lo  mettiamo  accanto  a  un  domatore  non  sciocco,  mentre  il  bambino  accanto  a  un  maestro  stolto? E pensi che teniamo in gran conto gli schiavi, se mai la loro lingua fosse affinata  verso una pronuncia piuttosto greca, e consideriamo invece robetta da niente imbarbarire  e schiavizzare le lingue e le anime dei figli? Gli uomini non sono così stolti! Peleo non fu  così gonzo da consegnare il proprio figlio Achille a un porco anziché al centauro Chirone;  né Alessandro fu così babbeo da desiderar imparare con un maestro del tutto imperfetto  anziché con l’estremamente perfetto Aristotele.    Tu, invece, possa diventare acqua e terra, come dice il tuo poeta; a meno che tu non  sia  già  impastato  con  entrambi,  visto  che  sei  cocciuto  nella  grammatica.  Noi  qui  ti  abbandoniamo a pensare a te stesso, come tu voglia; e partendo da qui, cominceremo un  altro bel canto.  40 Note al testo Lo stolto ovvero il sedicente maestro di scuola (144 H.) Tit.: para; eJautou` di H. sarà un refuso tipografico: da Iriarte, l’unico catalogo dei matritensi disponibile fino a De Andrés 1987 (il quale pure ha eJautou`), e da Podestà, una delle due ed. del testo fino ad oggi pubblicate (Cramer, editando dai lacunosi Barr 1-2, mancava del tit.), si ricava para; eJautw/`. Tale sintagma significa a detta sua, a suo giudizio; bene le tradd. intra se (Matr2 in marg. e Ir.) e sedicente (Pod.), ovvero a suo modo (Romano); cfr. LSJ s. v. che rimanda a Hdt. I 32 par∆ ejmoiv (in meinem Sinne, nach meinem Urteile, secondo Stein ad loc., il quale a sua volta confronta Hdt. I 86 tou;" para; sfivsi aujtoi`si dokevonta" ojlbivou" ei\nai, coloro chce sembrano a detta loro essere felici, ben confrontabile con il nostro titolo; IV 65 e VII 16; più definito in III 160 para; Dareivw/ krith/`). A proposito di grammatikov", sotto il nome di Prodromo è tràdito un libro di ∆Erwthvmata (n° 138 H.; ed. Göttling 1822). Grammatikov" indica qui il maestro di scuola, ma di ordine superiore (onde traduco spesso “professore”); il maestro elementare è il grammatisthv" (cfr. l. 69 grammatistikhvn e 118 grammatistou`) 10 manqavnw me;n kai; tau`ta: una simile espressione narrativa in Ael. Hist. anim. I 6 Γλαύκης ἀκούω τῆς κιθαρῳδοῦ ἐρασθῆναι κύνα. 13 para; tou` ∆Apovllwno": l’emendamento di Podestà mi pare la soluzione più economica; la studiosa confronta un simile errore nella tradizione di Iambl. Vit. Pythag. XXVIII 136 Nauck. Si potrebbe tuttavia pensare che ∆Apovllw fosse una forma di genitivo che Prodromo attribuiva al teonimo, per confusione con l’antroponimo ∆Apollw`" (il cui genitivo compare e.g. nella lettera paolina 1Cor I 12 ejgw; mevn eijmi Pauvlou, ejgw; de; ∆Apollw`, ejgw; de; Khfa`, ejgw; de; Cristou`). Nondimeno contro tale ipotesi vanno il fatto che il nominativo di quell’antroponimo era reperibile in Act. XVIII 24 e che l’accento di ∆Apovllw in V è sulla penultima sillaba, non sull’ultima. La storia di Marsia viene raccontata, tra gli altri, da Plat. Symp. 215b e Resp. 399e. 14 lovgo" a[llw": l’avverbio pare avere qui funzione attributiva (vano), come in Eur. Suppl. 127 kovmpoi mavthn. 22 ejnayavmeno" th;n kiqavran: è lezione sicura dei mss., ma un po’ dura, ché ci si attenderebbe con il verbo tràdito un genitivo (th`" kiqavra"), con l’accusativo tràdito un altro verbo (e.g. ajnalhyavmeno", come a l. 41 th;n smivlhn eujfuw`" ajnalhvyaito). 24 para; quvra"–ejdovkei: l’espressione para; quvra" ajpanta`n non pare molto frequente; cfr. alcuni passi di commentatori filosofici, ben presenti a Prodromo, assiduo lettore di Platone e Aristotele: Simpl. In Cael. 7, 129 ejk de; tw`n eijrhmevnwn kai; pa`sai me;n ajqrovw" aiJ ejnstavsei" aujtou` dialevluntai wJ" para; quvra" uJpantw`sai (vd. anche id. In Ph. 9, 648 ajlla; para; quvra", toutevstin e[xwqen kai; ejp∆ a[lla" quvra"); id. In Ph. 9, 652 peri; ∆Anaxagovran, o}n kai; para; quvra" ajpanta`n e[legen; Olymp. In Gorg. 3, 1 oJ Pw`lo"... para; quvra" ajpanta/`; 3, 4 oJ Pw`lo" para; quvra" ajpanta/`... para; quvra" ajpevnthse Cairefw`nti; 4, 1 oJ toivnun Gorgiva" para; quvra" ajpanta/` («his response to the question is also beside the point... Polus misses the point... Polus’ response to Chaerephon was beside the point... Gorgias’ reply misses the point» trad. Jackson-Lycos-Tarrant 1998, p. 80). Anche se in questi passi il significato tende ad essere rispondere a sproposito, conformemente al valore fig. di ajpantavw (rimasto in neogreco) qui in Prodr. sarà meglio tradurre più genericamente con mancare il bersaglio. Il dativo th/` ajlhqeiva/, poi, è a mio avviso avv. = revera, a dire il vero, come registra Tgl s. v., non oggetto di ajpanta`n; invero un parallelo in Prodr. Epist. VI, PG CXXXIII col. 1256a ej" tosou`ton de; para; quvra" ajpantw`n th`/ diagnwvsei th`" diaqevsew" indurrebbe a credere che ajpantavw regge il dativo. Le traduzioni di Podestà («non mi parrebbe che si opponesse alle vie della verità») e di Romano («non credo proprio che farebbe un torto alla verità») sono a senso coincidenti con il significato richiesto; non mi risultano tuttavia preferibili. 25 soi; de; grammatikw/` doi`men ei\nai: la stessa contrapposizione apparenza VS essenza di filosofo in Sat. 149 H., 50 se; de; to;n kumai`on o[non h] kanqhvliovn ge hJmivonon, oJphnivka tw`n platwnikw`n ti deltivwn ejpisacqeivh", kai; to; th`" filosofiva" eujqu;" sunepisavttein ajxivwma (e invece supporremmo che tu, asino di Cuma ovvero mulo da basto, qualora ti carichi di una delle tavolette platoniche, carichi insieme pure la dignità della filosofia). 27 aujto;" e[fa: è il celeberrimo detto attribuito alla scuola pitagorica in riferimento all’autorità indiscutibile del suo maestro (580-504 ca. a.C.); cfr. Diog. Laert. VIII 46 (= Suid. s.v. aujto;" e[fa) e, un po’ prima del III sec. d.C., e.g. Diogen. Gramm. III 19, 1; Clem. Alex. Strom. II 5, 24, 3, 3; Orig. Contra Celsum I 7, 15. 30 uJpokrivnh/ to;n Frasimhvdh: la costruzione è comparabile con quella di Sat. 146 H., 138 to;n ajniwvmenon uJpekrivneto; ricompare più avanti a l. 43. La lezione Frasimhvdh va emendata con Qrasumhvdh (Pod.-Rom. quasi giusto!), poiché del primo non si ha notizia (l’unico nome che gli si avvicina è quello femminile della madre di Dedalo, secondo l’unica fonte Sch. in Plat. Resp. 529e Daida/lou. Dai¿daloj o( Eu)pala/mou kaiì Frasimh/dhj, a)galmatopoio\j aÃristoj; sec. Tgl 41 esiste anche un Frasimhvdh", ou", oJ, ma in un’iscr. di Rodi). Trasimede di Paro, un tempo creduto allievo di Fidia, era figlio d’Arignoto e nativo di Paro; noto scultore e architetto del IV sec. a.C., eresse nel tempio di Asclepio a Epidauro una statua seduta crisoelefantina della divinità con cane e serpente e con gesta di Bellerofonte e Perseo sul basamento del trono, copia dello Zeus di Olimpia (Paus. II 27, 2; vd. KP s.v.). Caronda, poi, fu un leggendario legislatore di Catania, forse contemporaneo dello spartano Licurgo (VIII-VII sec. a.C.), forse allievo di Pitagora, di certo anteriore ad Anassila di Reggio (494-476 a.C.), il tiranno che abolì dalla sua città le leggi di Caronda fino ad allora in vigore. Tali leggi, redatte in versi, furono in uso nelle colonie magnogreche calcidesi, sp. Catania e Reggio. Secondo Aristotele (Pol. II 1, 2 1274b 6 sgg. e 1297a 23) si trattava di norme poco originali e caratterizzate da spirito aristocratico; secondo Diod. Sic. XII 12-21 esse furono più tardi imparate a memoria e recitate in occasioni di festa (vd. KP s.v.). In V si vede abbastanza bene un segno prima del c di Carwvndan: sembra un ouj, sul confronto del medesimo segno di oujc ou{tw" di V, f. 53v, ln. 1 (= ln. 157 infra) ma non potrei confermare con certezza assoluta. 36 uJpostevllou: cfr. Dem. Or. XIX [De falsa leg.] 156-157 πολλὰ λέγοντος ἐμοῦ καὶ θρυλοῦντος ἀεί, τὸ μὲν πρῶτον ὡς ἂν εἰς κοινὸν γνώμην ἀποφαινομένου, μετὰ ταῦτα δ’ ὡς ἀγνοοῦντας διδάσκοντος, τελευτῶντος δ’ ὡς ἂν πρὸς πεπρακότας αὑτοὺς καὶ ἀνοσιωτάτους ἀνθρώπους οὐδὲν ὑποστελλομένου. 33-35 Qavlew"--magnhvtidi: cfr. Aristot. De an. 405a 19-21 eÃoike de\ kaiì Qalh=j e)c wÒn a)pomnhmoneu/ousi kinhtiko/n ti th\n yuxh\n u(polabeiÍn, eiãper th\n li¿qon eÃfh yuxh\n eÃxein, oÀti to\n si¿dhron kineiÍ. 37-38 ejnqumhvqhti...ta; pavnta: potrebbe essere un riferimento alla teoria dell’uno e dei molti di Eraclito, alla sua teoria del divenire e dell’unità degli opposti, per cui tutti gli enti si trasformano, passando da un contrario all’altro (vd. n. a Sat. 148 H., 160 infra). Non diversa, però, la teoria di Empedocle sulla palingenesi (fr. 117 D.-K.). O si tratta di un riferimento a Plotino? Enn. V 1, 2 ejnqumeivsqw toivnun prw`ton ejkei`no pa`sa yuchv, wJ" aujth; me;n zw/`a pavnta ejmpneuvsasa aujtoi`" zwhvn. 39 xunqeivmhn: vd. l. 59 xunqeivmhn. 40 diomhvdeio" ajnavgkh: cfr. Plat. Resp. 493d (-mhvdeia DF Schol: -eiva A, iuxta ed. Slingsii); Ar. Eccl. 1029 (mhvdeia). I rispettivi scoli ai due passi raccontano una versione diversa; Prodromo segue quella dello scolio platonico: h( Diomhdei¿a ktl. Diomh/deioj a)na/gkh, paroimi¿a e)piì tw½n kat' a)na/gkhn ti pratto/ntwn ei¹rhme/nh, a)f' i¸stori¿aj toiau/thj, hÂj kaiì ¹Aristofa/nhj me/mnhtai e)n Batra/xoij (immo Eccl. 1029), oÀti Diomh/dhj kaiì ¹Odusseu\j to\ Palla/dion kle/yantej e)c ¹Ili¿ou nukto\j e)panh/esan e)piì ta\j nau=j selh/nhj u(pofainou/shj, filotimou/menoj d' ¹Odusseu\j au)tou= mo/nou do/cai gene/sqai th\n pra=cin e)pexei¿rhsen to\n Diomh/dh meta\ tou= pal … palladi¿ou (sic) prohgou/menon a)neleiÍn. o( de\ kata\ to\ th=j selh/nhj fw½j th\n kat' au)tou= qeasa/menoj tou= e)piferome/nou ci¿fouj skia/n, sullamba/nei te to\n ¹Odusse/a, kaiì ta\j xeiÍraj tou=de sundeiÍ, proa/gein te keleu/ei, kaiì tu/ptwn au)tou= plateiÍ t%½ ci¿fei to\ meta/frenon e)piì tou\j àEllhnaj paragi¿netai. La versione dello scolio aristofaneo (cfr. Hsch. s.v. diomhvdeio" ajnavgkh) si riferisce al Diomede trace che costringeva i passanti a giacere fino allo sfinimento con le sue sorelle povrnai, in altre fonti associato invece alle i{ppoi ajnqrwpofavgoi. 41 ajnalhvyaito: per l’inconcinnitas bizantina dei tempi verbali, cfr. Introduzione. § Constitutio textus. ...) Omofonia di dittonghi e vocali secondo la pronuncia itacista. Diavqoito è forma concorrente analogica di ott. aor. medio pro diavqeito, già attestata comunque per gli autori post-classici. Per smivlh, cfr. e.g. Ar. Thesm. 779. 43 “Anuto"-Dhmovfilo": significa: sono certo che siamo nella stessa condizione in cui saremmo se Anito, l’accusatore di Socrate (Plat. Apol. 18-36; cfr. anche Men. 89-100, dove è rappresentato come nemico dei sofisti -pur difendendo, ma sempre contro Socrate, l’oratoria popolare- mostrandosi, quindi, in contrasto già palese con Socrate), volesse farsi passare per Aristide, il giusto per antonomasia; e Demofilo, implicato nell’accusa che portò alla condanna a morte di Focione (319 a.C.; Plutarco lo cita però senza notizie rilevanti solo in Phoc. XXXVIII 2, 2; a meno che Prodromo non ricordasse male e volesse riferirsi all’accusatore principale, Agnonide) e nell’accusa di Aristotele (cfr. Athen. XV 696b, Diog. Laert. V 5; cfr. RE s.v. n° 4), volesse farsi credere un Ismenia (dei vari tebani che portano questo teoforo, sarà da intendere il più famoso, messo a morte dagli Spartani nel 382 a.C., per aver finanziato l’impresa di Trasibulo contro i trenta tiranni; fonte principale Xen. Hell. III 5, 3 sgg.; cfr. RE s.v. n° 1). Sono contrapposti due personaggi, comportatisi da falsi difensori della democrazia e veri calunniatori, a due uomini diversamente meritevoli e finiti nel gorgo della vendetta dei rispettivi nemici. Da notare il chiasmo dei nomi propri (nom.-acc./acc-nom.) 44 sgg.: favole esopiche: 1) l’asino e la pelle leonina (CIC Hausrath-Hunger; cit. anche in Luc. Philops. [34 Mcl.] 5); 2) la gatta e Afrodite (L); 3) il corvo e la volpe (CXXVI). 47-48 pivtun-sevlinon: cfr. Plut. Mor. [Quaest. conv.] 676d sulle corone di pino e apio/sedano (le prime assegnate ai vincitori dei giochi pitici, le seconde a quelli dei giochi istmici e nemei; vd. RE s.vv. Eppich, Kranz, Föhre). Di Polidamante parla Plat. Resp. I 338c (grafia Pouludavma"). 42 49-50 soi-toiouvtw/: tutti i predicativi sono concordati al dativo con soi. 51 ludiva...ÔRh`no"...h{lio": sulla pietra lidia, cfr. Theocr. XII 35-37; in Prodromo anche Sat. 149 H., 82 oi|on ga;r ludiva/ tw/` logismw/`; n° 145 H., 12 oi|on ludiva/ tw/` lovgw/. Per storia e diffusione della leggenda sulla crudele ordalia dei germani, vd. Lentano 2006, sp. p. 110, dove si ricorda che la versione secondo cui i neonati venivano immersi nelle fredde correnti del Reno, adagiati su di uno scudo, perché ne risultasse la tempra e la resistenza e quindi la legittimità, compare solo dal IV sec. d.C. in tre autori tra loro legati da rapporti professionali: Libanio (Or. XII 48), Gregorio Nazianzeno (allievo di Libanio: Carm. I, 2, 29, 221-222 e II, 2, 4, 141-143) e Giuliano l’Apostata (pupillo di Gregorio: Or. II 81d- 82a). Per la leggenda dei piccoli d’aquila alla prova del sole vd. De Lucia 2006, p. 49, che riporta come prima attestazione Aristot. HA IX 34 620a 1-5; tra gli altri anche Luc. Icarom. [... Mcl.] 14 e Pisc. [... Mcl.] 46. Vd. nel Manganeios-Prodromos XII 49 Bernardinello to;n ÔRh`non perievlamyan to;n krivnonta ta; novqa. 55 oJ tecnwvsa": il verbo tecnovw è piuttosto raro e proprio della lingua filosofica; al medio in Nonn. Dion. XXV 413 un tecnwvsato vale tecnhvsato (purché tecnwvsato sia la giusta lezione tràdita); ma quello di produrre con arte mi pare significato non attribuibile a questo attivo, né qui richiesto. Certo non tradurrei come Podestà («come colui che esercita l’arte grammaticale la pone come un’arte e poi la definisce esperienza?») o Romano («come chi esercita la grammatica la pone come un’arte, e poi la definisce come esperienza?»): non chi esercita un’arte, ma chi dà una formazione in un’arte. Per questo non mi pare del tutto peregrina l’ipotesi che qui si alluda a Dionisio Trace, inteso come fondatore della grammatica. 58 kata; mia`": secondo me qui ta; ojnovmata didovnai vale lo stesso che kathgorei`n, onde si giustifica il katav + gen. in senso filosofico: dare entrambi in nomi, dire entrambi i predicati intorno a una sola, circa una sola (sc. grammatica); ossia, ammetti che ci siano due grammatiche separate, che chiami rispettivamente arte ed esperienza; oppure ammetti che la stessa grammatica comprenda sia arte sia esperienza? Cfr. ejrei`n, levgein katav tino" Plat. Apol. 37b, Protag. 323b e sp. nella terminologia logica aristotelica katav tino" levgesqai o kathgorei`sqai essere predicato, detto come predicato di qcs Aristot. Interpr. 16b 10, Cat. 1b 10; katafh`saivÉajpofh`saiv ti katav tino" affermare, negare qcs intorno a qcs. in Metaphys. 1007b 21 ecc. A meno che katav mia`" non sia un’espressione avverbiale da intendere nello stesso momento (sott. w{ra"? cfr. katav bivou a vita, katav panto;" tou` aijw`no" per l’eternità); ma è soluzione che non mi convince molto. 61 ∆Aristotevlou" ajkouvw: richiama il proemio di Metaphys. 980b 28 sgg. γίγνεται δ’ ἐκ τῆς μνήμης ἐμπειρία τοῖς ἀνθρώποις· αἱ γὰρ πολλαὶ μνῆμαι τοῦ αὐτοῦ πράγματος μιᾶς ἐμπειρίας δύναμιν ἀποτελοῦσιν κτλ. 66 hJ me;n ou\n miva e[sti pou: direi che l’accentazione di V (inequivocabile, ché l’accento, anche se posto sopra il t e non sopra l’e di e[sti, segue immediatamente lo spirito dolce ed è acuto; se fosse su i sarebbe grave, secondo l’uso di V) indirizza qui verso l’interpretazione di miva come pronome indefinito (l’una,  dunque, o mirabile amico, esiste da qualche parte anche da noi); del resto ad esso è parallelo l’altro indefinito th;n de; a[llhn, mentre in attico basterebbe hJ mevn... th;n dev. Per interpretare miva come nome del predicato (l’una, dunque, o mirabile amico, è in qualche modo unica anche da noi), occorre accentare ejstiv (copula, come fanno Pod.-Rom.). Reinsch 2001, p. 38* testimonia che nei mss. medio- e tardo-bizantini di Anna Comnena ejstiv compare perlopiù ortotonico dopo sostantivo ossitono, proparossitono, perispomeno e properispomeno; il nostro caso con un parossitono a rigore non vi rientra. Nondimeno, a favore di un cambio d’accentazione e dell’interpretazione di ejstiv come copula interverrebbe il seguente passo, pertinente anche dal punto di vista del contenuto: Aristot. Metaphys. 1003b 19-21 ἅπαντος δὲ γένους καὶ αἴσθησις μία ἑνὸς καὶ ἐπιστήμη, οἷον γραμματικὴ μία οὖσα πάσας θεωρεῖ τὰς φωνάς; cfr. anche Top. 142b 31 Ἔτι εἰ πρὸς πλείω λεγομένου τοῦ ὁριζομένου μὴ πρὸς πάντα ἀποδέδωκεν, οἷον εἰ τὴν γραμματικὴν ἐπιστήμην τοῦ γράψαι τὸ ὑπαγορευθέν· προσδεῖται γὰρ ὅτι καὶ τοῦ ἀναγνῶναι. οὐδὲν γὰρ μᾶλλον <ὁ> τοῦ γράψαι ἢ <ὁ> τοῦ ἀναγνῶναι ἀποδοὺς ὥρισται, ὥστ’ οὐδέτερος, ἀλλ’ ὁ ἄμφω ταῦτ’ εἰπών, ἐπειδὴ πλείους οὐκ ἐνδέχεται ταὐτοῦ ὁρισμοὺς εἶναι. La mia traduzione propende verso la prima ipotesi, che offre un senso forse più orecchiabile. 69 grammatistikhvn: mentre grammatikhv indica l’insegnamento di lingua e letteratura a un livello avanzato (per noi contemporanei liceale-universitario), grammatistikhv potrebbe corrispondere all’abbiccì, ai rudimenti della lingua, all’insegnamento elementare; cfr. e.g. Phil. Congr. 148 to/ ge mh\n gra/fein kaiì a)naginw¯skein grammatikh=j th=j a)teleste/raj e)pa/ggelma, hÁn paratre/ponte/j tinej grammatistikh\n kalou=si, th=j de\ teleio te/raj a)na/ptucij tw½n para\ poihtaiÍj te kaiì suggrafeu=sin; Sext. Emp. Math. I 44-45 grammatikh\ toi¿nun le/getai kata\ o(mwnumi¿an koinw½j te kaiì i¹di¿wj, kaiì koinw½j me\n h( tw½n o(poiwndhpotou=n gram ma/twn eiãdhsij, e)a/n te ¸Ellhnikw½n e)a/n te barbarikw½n, hÁn sunh/qwj grammatistikh\n kalou=men, i¹diai¿teron de\ h( e)nte lh\j kaiì toiÍj periì Kra/thta to\n Mallw¯thn ¹Aristofa/nhn te kaiì ¹Ari¿starxon e)kponhqeiÍsa; Them. Or. XXI 29, 9. 72 ejpiluvei" tacuv: la lezione di V non sembra molto soddisfacente, ma si può pur sempre accettare; il testo di Cr., evidentemente una tacita congettura, appare migliore, ma non da adottare necessariamente. 74 th;n kovruzan-rJinov": gli antichi, collegando il fatto di avere il naso gocciolante ai bambini non ancora svezzati e incapaci di pulirsi da soli, potevano definire un adulto dal naso pulito per denotarne la saggezza; cfr. Plat. Resp. I 343a o{ti toi [sc. hJ titqh;] koruzw`ntav se periora`/ kai; oujk ajpomuvttei deovmenon, in cui Trasimaco rimprovera Socrate perché, pur essendo adulto fatto, mostra di aver ancora bisogno della balia 43 che gli forbisca il naso come a un bambino; Socrate, insomma, non dà prova di tutta la saggezza che dovrebbe possedere. Vd. anche Luc. Alex. [42] 20 toi`" ijdiwvtai" kai; koruvzh" mestoi`" th;n rJi`na; Hor. serm. 1, 4, 8 Lucilius... facetus... emunctae naris, durus componere versus e Phaedr. fab. 3, 3, 14 Aesopus... naris emunctae senex. Per kovruza riferita alla vecchiaia, vd. invece Prodromo Sat. 146 H., 87 e il testo retorico 145 H., 122. La frase del testo si può dunque interpretare: dimostrati una buona volta adulto e saggio, anche se è un po’ tardi per farlo soltanto ora. ∆Oyev pote = sia pur tardi una buona volta (inelegante «togliendoti tardo il moccio» Podestà; Romano l’omette); cfr. Plut. Dem. II 2, 2 ὀψέ ποτε καὶ πόρρω τῆς ἡλικίας ἠρξάμεθα Ῥωμαϊκοῖς συντάγμασιν ἐντυγχάνειν; simile, ma senza pote Sat. 146 H., 36 75 Xenofw`n-tw/` palaiw/` sou: il dat. è d’agente: l’uso, prevalente con il part. pf. pass. in età arcaica e classica, si allarga al passivo in generale specie negli autori tardo-antichi (cfr. e.g. Greg. Naz. Or. XXIX 11 ejlpizevsqw toi`"... kaqairomevnoi"); avrei comunque gradito un sostantivo specificante accanto a palaiw/`, e.g. grammatikw`/ (che potrebbe essere caduto). Bene Podestà «dal tuo antico modello»; vago Romano «anticamente» (con omissione di sou nella trad.). L’etimologia del nome di Senofonte a cui allude Prodromo ricorre, a quanto pare, solo in un lessico del sec. XI (Et. Gud. 415 s.v. ὁ ἐν τοῖς ξένοις τόποις φονευόμενος); idem ps.-Zon. Lex. s.v. 1416, 5 ed. Tittmann e Lexicon artis grammaticae s.v. ed. Bachmann I, p. 430, 6). 79 tosauvthn-prosemartuvranto: per prosmartuvromai nel senso di testimoniare, dimostrare, vd. LBG s.v., che cita Psell. Phil. min. I 43, 22 Duffy; id. Theol. I 16, 132 Gautier (passivo); Eustath. In Iliad. I 151, 22; Nic. Chon. Or. XXIX 6. Il verbo vale quindi come variante grafica di prosmarturevw. 79 wJ" eijakevnai—Xenofw`nta: si noti la seconda posizione di dev dopo tutto il complemento ejpi; to; dusfhmovtaton avvertito come parola unica in prima posizione, anziché immediatamente dopo ejpiv; cfr. Sat. 141 H., 6 eij" eu\ro" d∆ o{sh. Il verbo katantavw ha solitamente per sogg. la cosa che capita e il compl. eij" + acc. della persona a cui la cosa tocca (vd. NT 1Cor XIV 36 h] ajf∆ uJmw`n oJ lovgo" tou` qeou` ejxh`lqen h] eij" uJma`" movnou" kathvnthsen); qui invece il sogg. della consecutiva all’acc. + inf. (come in Sat. 147 H. 366-367 wJ" ajrpavsanta... nika`n dokei`n) è Senofonte e il complemento è espresso con ejpiv + acc. (similmente, ma solo per caso, al lat. nel senso di in aliquid incidere, alicui rei occurrere). Nel sign. di imbattersi in qcs. ci si attenderebbe altri composti: ajpantavw con prov" ti (Dem. XXI 24; Isocr. I 31), sunantavw + dat. (Eur. IT 1210) o peripivptw + dat. 84 eij mh;—ejfivsthmi: lett. «a meno che io non stia a studiare sui libri in sogno», ovvero “a meno che io non me lo sia sognato, leggendo sui libri”. Ennesima dichiarazione di studio soverchio. 85 to; crew;n ajpoleleitourghkovta": quest’espressione corrisponde a quella latina vitā defungi; vd. s.v. in Tgl con esempi di Diog. Laert. III 99, Marc. Ant. X 22 (hÄ a)poqnv/skeij kaiì a)peleitou/rghsaj), Prodromo (il ns. passo cit. dall’ed. Cramer III, p. 225, 2) e di un non specificato glossario (ajpoleitourghvsa" defunctus, emeritus); in LSJSuppl si aggiunge ajpoleitourgevw to;n bivon (PLond 1708, 29, VI sec. d.C.) compiere i doveri di questa vita; LBG ha solo il lemma ajpoleitouvrghsi" Ableisten, tou` crew`n (= das Ableben) in Chr. Papadopoulos 1935, B 100 [testo del XII sec.]. TLG on-line aggiunge i passi di Synes. Catabases, or. II VI 17 kai; th;n yuch;n ajpoleitourgh`sai me dei`; Psell. Epitaph. in Michael. Cerull. p. 361, 9 Sathas kai; aujth;n ajpeleitouvrghse marturikw`" wJ" tw/` qew/` th;n yuchvn; 85-86 w{ste h]—o[noma: l’acc. ejkeivnou" che leggo in V è decifrato sul confronto delle ultime tre lettere con quelle di ou\" (“orecchio”); a prima vista par di leggere -oi", ma in genere V usa il compendio ٤٤ per questa desinenza (è pur vero che anche per -ou" V usa in genere il compendio ( ); vd. e.g. V, f. 50v, ln. 9 touv". La costruzione di ajfairevw è in genere tiv tini, ma è attestato anche tinav ti (vd. LSJ s.v.); e la successione dei complementi parrebbe suggerire la seconda soluzione, benché più peregrina. Lo h] dei mss. se fosse disgiuntivo esigerebbe il suo corrispondente, ché altrimenti resterebbe sospeso; se invece tale grafia vale per h\ (vd. LSJ s.v. h\ I 2, expletive), come par logico, si tratta di grafia alternativa, che conservo. Lo h\/ verbo essere congiuntivo presente di Pod. (Rom.) è senz’altro fuori luogo, sia per posizione in iato, sia per il modo. 86-87 i{na mh;—diayeuvdesqai: secondo LSJ (no lemma in LBG) il verbo diayeuvdw nel significato di inganno si trova in generale al medio con valore assoluto; al medio può significare anche negare, smentire; al. pf. e aor. pass. significa essere ingannato (in), essere defraudato di, con o senza complemento. Capendo il soggetto della subordinata retta da sumbh/`, si capisce anche il significato del verbo: se è lovgon, va bene il primo significato, con sottinteso un hJma`" generico; se invece il sogg. è sottinteso (tina), lovgon diventa ogg. e il senso migliore non è smentire, bensì essere defraudato di, essere ingannato in, ovvero ingannarsi (come katayeuvdomai ln. 98 infra), che può reggere in accusativo di relaz. il complemento corrispondente (cfr. Montanari 2004 s.v. con es. di Aristot. Pol. 1323a 33 oujdei;" ga;r a]n faivh makavrion to;n... ta; peri; th;n diavnoian ou{tw" a[frona kai; dieyeusmevnon w{sper ti paidivon h] mainovmenon). Quest’ultima traduzione è quella da me data. 91 konduvlou" kata; kovrrh" ejpitriptevon: cfr. il carme in dodecasillabi giambici 143 H. (Versi di lamento contro la Provvidenza), 62 kai; nu``n me;n ejntrivyeien aujtoi`" konduvlou"; letteralmente significa logorare i pugni su qcs., stampare un ceffone addosso a pcn (qui sulla faccia, lett. tempia). Cfr. LSJ s.vv. kovrsh e kovndulo". Il dat. konduvloi" di Cr. (che sia errore di decifrazione o congettura poco importa), copiato 44 pedissequamente da Pod. (Rom.), è qui fuori luogo. Prodromo ha fuso insieme due espressioni diverse come risulta chiaro dal confronto dei sgg. passi: Luc. Prom. [... Mcl.] 10 ἢ κονδύλους ἐνέτριψαν ἢ κατὰ κόρρης ἐπάταξαν (cfr. anche Plut. Mor. 186 d 5-6 ἐντρίψας αὐτῷ κόνδυλον a conferma dell’acc. tràdito konduvlou"; il dat. konduvloi" di Cr.-Pod. (Rom.), sia esso errore o congettura, va invece confrontato con Dem. XXI 72 ὅταν κονδύλοις, ὅταν ἐπὶ κόρρης ταῦτα κινεῖ); ejpitrivbw qui è variatio ovvero lapsus per ejntrivbw. Per kata; kovrrh" anziché ejpi; k. il modello è Luciano (accompagnato dal verbo paivw o patavssw; vd. anche Gall. [… Mcl.] 30, Symp. [... Mcl.] 33, Catapl. [... Mcl.] 12, Anach. [... Mcl.] 40, Menipp. [... Mcl.] 17, Dial. mort. [... Mcl.] 6 (= 20) 2). 91-92 oi|"-uJperhcei`": per oi|" = wJ" cfr. Sat. 146 H., 24 (= 2, 1 Migliorini) con nota. “Bronzo di Dodona” indica chi parla all’infinito: cfr. Zenob. VI 5 e Pausan. gramm. Voc. att. d 30 (il proverbio ricorre fino a Suid. s.v. d 1445, Eustath. In Odyss. II 73 Stallbaum). Sul suono del bronzo, cfr. anche Plat. Prot. 329a 5; Plut. Mor. 502d [de garrul.] e NT 1Cor. XIII 2 gevgona calko;" hjcw`n h] kuvmbalon ajlalavzon. 92 pro;" dev moi ta;" peuvsei" phvlino" a[ntikru" e{sthka" ajndriav": cfr. Sat. 149 H., 39-40 phvlino" eJsthvxh/ pro;" th;n ejrwvthsin ajndriav". Vd. anche Aristot. Met. 1035a, 32. 94 poihmavtwn: in V, f. 52r, l. 16 la parola non appare chiara come negli altri mss.; è scritta infatti poimtv(wn) o piuttosto poimsv(wn): non riesco a decifrare con assoluta certezza la lettera dopo m, ma al confronto con la parola poivhsi" a l. 18 parrebbe più un s che un t. Comunque sia, è chiaro che immediatamente sotto il rigo di m si trova un h vergato in carattere più piccino. In tal modo accanto a poimavt(wn) si potrebbe presupporre un originario poihvs(ewn). 95 tauvth/-ejpitevtraptai: intendo tauvth/ avv. locale: «qui, in questo ambito della poesia per lo meno dei poeti viene affidato dalla grammatica», cioè è compito istituzionale e legittimo della grammatica studiare i poeti; e tu, che ti millanti grammatico, sei apparentemente abilitato. Non bene Podestà «infatti pure il giudizio dei poeti viene usurpato dalla grammatica», ché ne vien fuori una frase negativa contraria al ragionamento di Prodromo: egli non se la prende con la grammatica, anzi l’ha in stima (vd. ll. 67- 68); bensì se la prende con i sedicenti grammatici. Generico Romano «anche questo è uno dei settori che comprendono la grammatica» (casomai il contrario: che la grammatica comprende). Kai; tw`n poihtw`n sa di zeppa, ovvero manca del nomitativo hJ krivsi". L’avv. tauvth/ può corrisponde a un dia; tau`ta, come e.g. in Luc. Nigr. [3 Mcl.] 23; ovvero tauvth potrebbe essere nominativo “erroneo”, analogico ai casi obliqui, al posto di au{th, come in Alexandre 1858, p. 2 n. 1 «Mon. 336, f. 1: hJ bivblo" tauvth (sic) ejsti;n kth`ma ejmou` Dhmhtrivou ÔRaou;l tou` Kabavkh Spartiavtou kai; Buzantivou; alibi scriptum, ”Ellhnov" te kai; Qra/kov"». Nondimeno sarebbe questa l’unica occorrenza nel greco dotto atticista di Prodromo; condizione che mi induce a respingere l’ipotesi. 96 ÔOmhvrou-ÔHsiovdou: l’eterna disputa a chi assegnare la palma della vittoria tra Omero ed Esiodo risale certo a prima dei tempi di Platone (Ion. 531a povteron ou\n peri; touvtwn kavllion a]n ejxhghvsaio a} ”Omhro" levgei h] a} ÔHsivodo"); cfr. anche il Certamen Homeri et Hesiodi, una delle vite tramandate nel corpus biografico omerico. 100 movgi" katevneusa": la forma movgi" prevale in Platone e nella prosa tardo-antica su movli", che invece è rimasto anche nel neogreco; Prodromo può aver preferito una forma più letteraria. In neogreco movli" twvra corrisponde al greco antico a[rti, nuper, significato qui a mio avviso richiesto e forse trasferibile a movgi", solitamente invece valido per vix, aegre, hardly. Del resto anche l’italiano appena (propr. < a pena = a stento, vix, aegre) racchiude entrambi i significati, temporale (nuper) e modale (vix, aegre). Plavtwn ktl.: Platone viene chiamato in causa come autorità anche in Sat. 146 H., 306-307 (= 18, 5 Migliorini); qui sono echeggiati i passi di Resp. X 607a sgg. e Leg. VII 801c-802a. 103 ejnteqravfqai: l’inf. pf. med.-pass. di (ejn-)trevfw è senz’altro teqravfqai (cfr. LSJ s.v. trevfw e Traut s.v. teqravfqai; sulla non operatività della legge di Grassmann in casi come questo di aspirate consecutive, vd. Kühner-Blass I, p. 278). La vox nihili ejntravfqai di V si può spiegare come aplologia di ejntetravfqai, inf. pf. med.-pass. di ejntrevpw. Ora, il verbo ejntrevpomai (cfr. l’attuale ntrevpomai) significa solo vergognarsi, e non essere versato, come traducono Podestà e Romano; ma è chiaro che il contesto esige un significato più vicino a essere versato che a vergognarsi, soddisfatto dalla lezione (congettura?) degli altri codd. ejnteqravfqai. Se, dunque, si vuole ammettere un eventuale ejntetravfqai nell’antigrafo di V, esso andrà inteso come errore ortografico per ejnteqravfqai. In altri passi (Plat. Gorg. 525a; Xen. Hell. II 3, 24) in cui inequivocabilmente il contesto esige teqravfqai la tradizione ms. offre anche la variante tetravfqai; in Xen. Cyr. VI 4, 14 compare un suntevtrafqe (2° pers. plur. ind. pf. med.-pass.), che a quanto ricavo dalle edd. appare unanimemente tràdito e interpretato come proveniente da suntrevfw (ma tevqrafqe < trevfw in Plat. Leg. 625a, apparentemente senza varianti; in Thuc. VII 73, 2 il necessario tetravfqai < trevpw ha la variante tetavfqai (sic); ma l’inf. pf. med.-pass. di qavptw dovrebbe essere teqavfqai). Che Prodromo abbia scritto un ejntetravfqai per ejnteqravfqai non stupisce allora eccessivamente, alla luce dell’oscillazione della tradizione ms.; dal punto di vista fonetico, però, lo scambio non è giustificato, ché ancor oggi q /θ/ si distingue da t /t/. 108 tiv dev soi-sofov": la costruzione può sottintendere un o[felo"; ma vd. anche NT Ev. Io. II 4 tiv ejmoi; kai; soiv, guvnai. [sic, con soi accentato]. 45 111-113 dwvrwn ktl.: secondo lo scolio ad Hes. Op. 426 dw`ra è un’unità di misura equivalente alla palavsth (lat. palma, it. spanna); fuori luogo quindi le traduzioni di Podestà e Romano («il carro di tanti doni, un carro colmo di molti doni»). La parola u{n(n)i" per vomere o coltro (ploughshare, Pflugmesser) non è di Esiodo, ma degli scoli ad Op. 425, dove compare quasi sempre al femm. Su aratura e mietitura vd. rispett. Op. 479 sgg. (e 392 sgg.); sul timone Op. 45 e 629; in Plut. Mor. [VII sap. conv.] 157f 10-14 e Mor. [De cupid. divit.] 527b-c si conduce una disputa al riguardo. 114 oi|on ejpiprosqhvmatov" tino": LBG s.v. (= Abschirmung, Blende) registra questo solo passo di Prodr. Comm. in carm. Cosmae etc. Stevenson 1888, p. 29, 16; si capisce come doppione di ejpiprovsqhsi". 117 sumbouleusaivmn: regge i tre infiniti prosbibasqh`nai, ejpanabaivnein e uJpevcein. 118 ej" grammatistou`: cfr. Plat. Ch. 159c ejn grammatistou`. 119 prosbibasqh`nai: secondo LSJ s.v., il passivo è in Luc. Philops. [34 Mcl.] 33 tavca ga;r a]n kai; suv, w\ Tuciavdh, ajkouvwn, prosbibasqeivh" pro;" th;n ajlhvqeian tou` dihghvmato", nel senso di essere persuaso della verità del racconto (lett. essere avvicinato alla verità). LBG ha solo il lemma prosbibastevon, man muß hinzufügen, Procl. In Tim. I 281, 16 qui tuttavia non pertinente e derivante invece dal significato già registrato da LSJ s.v. II 1 add. 121 tou` ou| e{neka e{neka: to; ou| e{neka è la causa finale (cfr. e.g. Aristot. Phys. 194a 27). Senz’altro sbagliato il testo di Podestà-Romano (e le rispettive traduzioni «ti consiglierei di sottometterti a questa [sc. fatica] assai nobilmente»; «sarebbe mio consiglio di sopportarle [sc. fatiche] con grande dignità, per questo scopo»). 124 tw`n ejpi; skhnh`" oJpovson uJpevcousi to;n ajgw`na: il testo di V è un po’ duro; la mia traduzione nondimeno è più soddisfacente di quella di Podestà («tu mi sai di quelli che son sulla scena che fatica facciano...», sic!) e Romano («mi sembri proprio uno di quelli che stanno sulla scena, che fanno una fatica orrenda...»), per nulla accettabili. Il sintagma uJpevcousi to;n ajgw`na compare, secondo una ricerca combinata su TLG on-line di forme flesse di uJpevcw + ajgwvn, solo in Ioseph. Calothetus Or. contra Acindynum et Barlaam IV 906 pro;" to;n uJpeschmevnon aujtoi`" ajgw`na (sec. XIV); nonostante la sua rarità esso è comunque comprensibile sul confronto di più noti uJpevcw a[thn, zhmivan, timwrivan (sostenere, sobbarcarsi a, soffrire una sciagura, una punizione, una vendetta), ovvero divkhn o lovgon (rendere conto, render ragione). Il teatro di Bisanzio era piuttosto ridotto a mimo, almeno nei secoli che vanno dal tardo-antico a prima del Mille, ereditato del resto dai gusti dell’impero romano; vigeva nondimeno anche il teatro liturgico, benché questo, noto specialmente alla tradizione medievale europea occidentale con il nome di “mistero” o “sacra rappresentazione”, non godesse di altrettanta diffusione; vi restano comunque irrisolte, per mancanza di prove adeguate, questioni fondamentali inerenti al luogo di allestimento scenico (teatro antico diroccato? chiesa? piazza?) e alla provenienza degli attori (chierici? dilettanti laici?). Non basta, infine, a rimpolpare il quadro di una vitalità teatrale molto scarnificata, rispetto a quella di età greca classica, la pur corretta affermazione secondo la quale a Bisanzio liturgia e retorica erano molto teatralizzate, nel senso che prevedevano concorso di persone parlanti e figuranti, gesti tipici, codificati, scenici, con accompagnamento di abiti e musiche acconci, davanti a un pubblico riunito; si tratta infatti di un ben differente contesto il cui fine precipuo è rispettivamente liturgico e oratorio prima che teatrale. Infine va sempre ricordato, come ho cercato di fare anche nell’Introduzione, che Bisanzio non fu un’unità inconcussa lungo tutto il suo millennio, onde, anche in assenza di prove evidenti, bisognerà pur ammettere qualche cambiamento di gusto da secolo a secolo e da luogo a luogo dell’impero. Cfr. Kazhdan 1983b, pp. 129-137 (sp. p. 136 «così Bisanzio, rifiutato il teatro antico, non si servì che di forme solo in parte drammatiche e non creò un vero teatro autonomo»; stesse informazioni in ODB s.v. «Theatre» a c. di A. Karpozilos e Kazhdan stesso); vd. anche il cenno in Wilson 1990, p. 63 n. 38. Sul qevatron logikovn, vd. p. 29 supra. ALTRA BIBLIOGRAFIA PIù RECENTE? 127-128 hJ fwnh;–uJpokrivnoito: stesso uso del verbo uJpokrivnomai vd. ln. 30 uJpokrivnh/ to;n Qrasumhvdh supra. 130 sundiaskeuavzoien: il verbo regge, a mio parere, con il suo preverbio anche il dat.; mi risulta athesauriston (no Tgl, LSJ + Suppl, van Herwerden, Sophocles, Dimitrakos, Lampe, TLG on-line). Sul kovrdax, danza lasciva, vd. e.g. Ar. Nub. 540. filovth": voce attica; vd. Sat. 146 H., 135 e 165 (= 8, 7 e 10, 2 Migliorini cum adnn.; vd. Plato Phaedr. 228d; Eustat. In Od. I 129, 36-41 Stallbaum). D’Alessandro propone l’emendamento Filivth, per un gioco di parole con il poihth;" kai; filolovgo" di Cos; congettura ingegnosa ma non necessaria. 131 wJ" tou` bouvlesqai movnou wjnhtevon ei\nai poiei`n: la frase è abbastanza inelegante: classicamente si sarebbe atteso almeno un <ãto;à poiei`n e, forse, anche un wjnhtovn: «così che il fare apparisse acquistabile a prezzo ecc.» (si potrebbe pensare a uno scambio di -tevon/-ndus per -tovn/-bilis; in Kühner-Blass II, p. 289 è però testimoniato solo -tov" = -tevo" negli agg. verb. di significato pass. già in età class.; forse in quella tardoantica si può ammettere anche l’ipotesi suesposta). Podestà traduce «così da affermare che col solo volere ci si debba procurare il fare»; generico Romano «sì da ritenere che il solo volere è anche potere»; impossibile un 46 «in modo da far sì [wJ"...poiei`n] che dovesse essere comprato a prezzo del solo volere», ché verrebbe a mancare il soggetto della consecutiva. Quanto al concetto per cui il solo voler apparire qualcuno non basta per essere realmente tale, cfr. Sat. 149 H., 87 h[/dei ga;r mh; ajpocrw`n ei\nai to; bouvlesqai movnon ejn toi`" ge toiouvtoi". 132 ou| propavroiqen-qeoiv: cfr. Hes. Op. 289 th`" d∆ ajreth`" iJdrw`ta qeoi; propavroiqen e[qhkan. 134 dafnivnh/ th/` rJavbdw/: si riferisce al proemio di Hes. Th. 30-32 kai¿ moi skh=ptron eÃdon da/fnhj e)riqhle/oj oÃzon É dre/yasai, qhhto/n, e)ne/pneusan de/ moi au)dh\n É qe/spin. 140 sivzonta": cfr. e.g. Plat. Resp. 564d 9-10 to\ d' aÃllo periì ta\ bh/mata prosi¿zon bombeiÍ. 141 ta; me;n ou\n a[cri touvtwn: stesso connettivo in Sat. 148 H., 106. 143-145 calavsei"-ejreidovmeno": ritorna come un Leitmotiv lo stereotipo del pensatore (qui non propriamente filosofo, ma gli è vicino; la statua moderna di Rodin, detta appunto il pensatore, esemplifica in qualche modo l’immagine qui presente); vd. Sat. 141 H., 31-32 e Sat. 146 H., 123-125 (= 8, 3-5 Migliorini); Sat. 149 H., 32- 34 kai; kaqizavnei" ejpi; tou` govnato" kai; to;n ph`cun ejpereivdh/ th/` pareia/` kai; pantoivw" to;n ajnagignwvskonta schmativzh/ (detto del sedicente filosofo platonico). Sulla compresenza di diversi tempi e modi verbali, vd. Introduzione. Constitutio textus. ...) Omofonia di dittonghi e vocali secondo la pronuncia itacista, p. 41. 146 pistwvsetai tou[noma: un medio per attivo; cfr. Sat. 148 H., 126 pistou`tai muvqou" (conferma i racconti). 149 sgg. oi[ei ga;r cuvtran me;n ejwnh`sqai mevllonta" ktl: questa infinitiva e le sgg. hanno come sogg. hJma`", che si ricava da iJstorhvsaimen e perikrouvsaimen. 151-152 lovgw/ de;-ejmbibavzein: il verbo ejmbibavzw con valore tr., quale sembra qui avere, regge come compl. di moto a luogo figurato o eij" + acc. (Xen. Oec. XIV 4 eij" th;n dikaiosuvnhn tou;" oijkhvta"; Dem Or. XIX eij" lovgou") o, più raramente, il dat. (Plut. Mor. 2, 416f toi`" ajnqrwpivnoi" pavqesin to;n qeo;n ejmbibavzein), come par essere qui; non credo infatti che lovgw/ sia da intendere avverbialmente (a parole), sia perché manca il corrispettivo e[rgw/ (di fatto) che solitamente lo accompagna, sia perché bisognerebbe di conseguenza intendere il verbo o privo di compl. di moto a luogo fig., ovvero assoluto (imbarcarsi, sc. nell’impresa scolastica? Ma ciò comunque cozzerebbe contro ta; paidiva, difficilmente interpretabile come soggetto concordato a senso con mevllonta" maschile). 152 mh; oujci; dedokimasmevnw" tou`to poiei`n: il segno di abbreviazione ( ) in fine di parola dedokimasm(evn)(...) va interpretato senz’alcun dubbio come -w", non -ou" o -o". Le due negazioni mh; oujciv sono diverse: una è soggettiva (pensi che non lo faccia), l’altra è oggettiva (non verificatamente). 152-157 kai; to;n me;n pw`lon--to; pra`gma: a proposito dell’espressione pro;" to; eJllhnikwvteron vd. Georg. Pachym. (1242-1310) Hist. de Michael. Pal. V 8: I, 360, 10-14 e comm. p. 561 parla di un vescovo occidentale accolto con affabilità dall’imperatore, che lo fa letteralmente rivestire dopo qualche tempo pro;" to; eJllhnikwvteron e gli dona il titolo di una chiesa a Costantinopoli. Là dove la polemica si indirizza contro gli ajndravpoda, gli schiavi, contrapposti agli uiJoiv/uiJei`", i figli, credo che si possa intendere stranieri non acculturati e tuttavia favoriti nel sistema sociale anche come precettori, come il grammatikov" qui bersagliato, contrapposti ai rJwmai`oi purosangue, ai veri eredi della tradizione ellenica, come Prodromo, paradossalmente svantaggiati. Ciò non significa necessariamente che nella Bisanzio del XII sec. i maestri fossero liberti, alla stregua di un Esopo o di un Fedro; piuttosto l’espressione vuol essere altamente spregiativa nei confronti di una tendenza che indignava parecchio Prodromo. Come si è detto nell’Introduzione § Biografia e § Ellenismo negli scrittori del XII sec. , in un’epoca di accentuata diglossia (koiné atticizzante VS greco volgare) e filooccidentalismo (sp. di Manuele I) il pericolo dell’imbastardimento o addirittura della perdita delle radici elleniche era profondamente paventato da laudatores temporis acti quali Prodromo; prova ne sono tra l’altro i trattati normativi linguistici epitomati o di bel nuovo redatti (p. es. il Peri; suntavxew" lovgou di Gregorio Pardo di Corinto, XI-XII sec., e la grammatica di Prodromo stesso, per cui vd. adn. ad tit. supra). Sul trattamento di favore riservato ai parenti e ai servi (suggenei`" kaiv qeravponte") rispetto ai senatori (suvngklhto" boulhv) sotto il regno di Alessio I (in cui Prodromo propriamente era nato e aveva trascorso fanciullezza e adolescenza; cfr. Introduzione. § Biografia), vd. Zonar. XVIII 29, 19-25, vol. III, pp. 766-767 Büttner-Wobst, CSHB, Bonnae 1897 (ap. Magdalino 1983, p. 330).1 Più tardi Niceta Coniata lamenta la politica di Manuele I, fautore degli stranieri incolti a scapito dei dotti Greci (Hist. p. 205 van Dieten).2 1 Βασιλεῖ δὲ πρὸς τούτοις καὶ ἡ τῆς δικαιοσύνης φροντὶς καὶ ἡ τῶν ὑπηκόων προμήθεια καὶ ἡ τῶν παλαιῶν ἠθῶν τοῦ πολιτεύματος τήρησις. τῷ δὲ μέλημα μᾶλλον ἡ τῶν ἀρχαίων ἐθῶν γέγονε τῆς πολιτείας ἀλλοίωσις, καὶ τὸ μεταλλάξαι ταῦτα ἔργον ἦν αὐτῷ σπουδαιότατον, καὶ τοῖς πράγμασιν οὐχ ὡς κοινοῖς οὐδ’ ὡς δημοσίοις ἐκέχρητο καὶ ἑαυτὸν οὐκ οἰκονόμον ἥγητο τούτων, ἀλλὰ δεσπότην, καὶ οἶκον οἰκεῖον ἐνόμιζε καὶ ὠνόμαζε τὰ βασίλεια. καὶ τοὺς τῆς συγκλήτου βουλῆς οὔτε τιμῆς ἧς ἐχρῆν ἠξίου οὔτε πρόνοιαν αὐτῶν ἐτίθετο κατὰ τὸ ἀνάλογον, μᾶλλον μέντοι καὶ ἔσπευσε ταπεινῶσαι τούτους. ἀλλ’ οὐδ’ ἐν ἅπασι τὴν τῆς δικαιοσύνης ἦν τηρῶν ἀρετήν· ταύτης γὰρ ἴδιον τὸ τοῦ κατ’ ἀξίαν ἑκάστῳ διανεμητικόν· ὁ δὲ τοῖς μὲν συγγενέσι καὶ τῶν θεραπόντων τισὶν ἁμάξαις ὅλαις παρεῖχε τὰ δημόσια χρήματα καὶ χορηγίας ἐκείνοις ἀδρὰς 47 157 Oujc ou{tw" ajnohtaivnousin---∆Alevxandro": i due nomi indicano perfetti imbecilli (Zenob. IV 58); cfr. anche Sat. 147 H., 302 ejgw; gou`n oujk ej" tosou`ton Melitivdh" a]n ei[hn kai; Kovroibo"; cfr. anche Nic. Eug. (?) Anach. 260 Chrestides tiv de; Kovroibo" mainovlh", kumatopevtrh" te kai; paravforo"… ; e l. ... kai; wJ" mainovlhn a[llon parablevpetai Kovroibon; per Corebo vd. Callim. fr. 587 Pfeiffer (ap. Suid. s.v. Kovroibo"); Men. Asp. 269; Luc. Philops. [34 Mcl.] 3 (solo Corebo); Amor. [49 Mcl.] 53 (Melitide, già in Ar. Ran. 991, e Corebo); Aelian. VH XIII 15; Diogen. V 56; Apostol. X 3 e XI 93 Leutsch-Schneidewin; Eustah. In Od. K 552, p. 1669, 51 Stallbaum (solo Melitide); Erasm. Adag. chil. IV, cent. 4, ad. 69, p. 903 (fort. cum mendis). Ceivrwno" e coivrw/ formano un gioco di parole solo con la pronuncia itacista, chiaramente qui da presupporre; gioco di parole ancora con ajtelhv" e ∆Aristotevlh" interpretato etimologicamente (eccellentemente perfetto), come già prima il nome di Senofonte (ln. 74 sgg.). 160 maqhtia`n: forme desiderative come questa sono tipiche della lingua comica: Ar. Nub. 183 (cfr. binhtiavw Ar. Lys. 715); ps.-Luc. Philopatr. [... Mcl.] 14; AP XV 38. Il verbo regge il dat. semplice, anziché retto da suvn, da intendere comunque di compagnia, piuttosto che di mezzo, forse perché la costruzione ricalca quella di sunei`nai, oJmilei`n, dialevgesqai. 161 u{dwr kai; gai`a gevnoio: citazione da Omero (H 99 ἀλλ’ ὑμεῖς μὲν πάντες ὕδωρ καὶ γαῖα γένοισθε così Menelao rimprovera i socordi Achei). 162 phvlino": probabilmente dietro all’aggettivo sta un doppio senso, ricostruibile dal significato di phlov" imbranato attestato in Com. Adesp. 890 Kock CAF (non recepito da K.-A.; apud Phot. Lex. s.v. phlo;" ἐτησίους ἀπένειμεν, ὡς καὶ πλοῦτον περιβαλέσθαι βαθὺν καὶ ὑπηρεσίαν ἑαυτοῖς ἀποτάξαι οὐκ ἰδιώταις, ἀλλὰ βασιλεῦσι κατάλληλον, καὶ οἴκους προσκτήσασθαι, μεγέθει μὲν πόλεσιν ἐοικότας, πολυτελείᾳ δὲ βασιλείων ἀπεοικότας οὐδέν· τοῖς δὲ λοιποῖς τῶν εὖ γεγονότων οὐχ ὁμοίαν ἐνεδείκνυτο τὴν προαίρεσιν, ἵνα μή τι ἕτερον φαῦλον ἐρῶ, φειδόμενος τοῦ ἀνδρός. Oltre a questo al re spettava di curarsi della giustizia, provvedere ai sudditi e mantenere gli antichi usi della vita civile. Ma per lui [sc. Alessio I] l’interesse maggiore era adulterare le vecchie abitudini della vita civile, e cambiarle era la sua occupazione più urgente; dei mezzi, poi, si serviva non come se fossero comuni e pubblici e considerava sé stesso non come amministratore degli stessi, ma come padrone e riteneva e chiamava casa propria la reggia. I senatori, poi, non li riteneva degni dell’onore dovuto né si curava di loro in maniera adatta, ma piuttosto si dava da fare per umiliarli. D’altra parte egli non rispettava la giustizia nemmeno in tutti gli ambiti: di essa è proprio un atteggiamento per cui si assegna a ciascuno secondo il merito; mentre egli procurava ai propri parenti e ad alcuni tra i servitori denaro pubblico a intere carrate e distribuiva loro continue prebende annuali. In tal modo essi si circondavano di enormi ricchezze e dispiegavano ai propri ordini una servitù che si addiceva non a privati e semplici cittadini, ma a re; e si costruivano dimore simili a città per grandezza, per nulla diverse dalla reggia per dispendio. Ai restanti bennati, invece, [l’imperatore] non mostrava simile disposizione; ma non dirò un’altra cosa cattiva e risparmierò l’uomo. 2 Ῥωμαίους γὰρ ὡς κλεμματιστὰς ἐκτρεπόμενος εἴτε ὑποβλεπόμενος ἐλάνθανεν ἑαυτὸν ἐρασιχρημάτους ὀλβίζων βαρβάρους καὶ εὖ ποιῶν ἀνδράρια κακοδαίμονα καὶ τοῦ κατὰ φύσιν καὶ παιδείαν χρηστοῦ καὶ πιστοῦ πρὸς τὴν ἀντικειμένην γνώμην τοὺς ἐνδαποὺς καθιστῶν, ἐπεὶ καὶ τὸ εἰς αὐτοὺς καχύποπτον τοῦ βασιλέως ἐκεῖνοι γνωρίζοντες καὶ ὡς ὑπηρέται πλέον καὶ προαγωγοὶ λημμάτων ἤπερ ἀσφαλεῖς τὰ ἐς πίστιν κρινόμενοι τοῖς ἐθνικοῖς (συντάττονται <γὰρ> κατὰ σύνδυο ἐκπεμπόμενοι ἢ γοῦν ὡς παρήοροι καὶ παράσειροι τοῦ τῆς ἀρχῆς λογίζονται ἅρματος), τὸ διατεταγμένον μόνον ἐποίουν θερίζοντες καὶ δεσμεύοντες ὡς δράγματα τὰ κέρματα καὶ ὡς εἰς ἅλωνα συμφοροῦντες τὸν ἐπὶ πολλῶν καθιστάμενον ἐκεῖνον καὶ πλείστων ἄλλων ἀντάξιον Ῥωμαίων κρινόμενον βάρβαρον, τὰ δ’ ἄλλα παρέβλεπον, ἵνα μὴ λέγοιμι ὡς βασιλεῖ μὲν ἐνίοτε βραχέα καὶ οἷον ἀφαιρέματα τῶν ὅλων εἰσήγετο, τὰ δὲ πλείω ἐκεῖνοι παρενοσφίζοντο, τοῦ ἀγαθοῦ καὶ πιστοῦ παρὰ βασιλεῖ δούλου ἐν πρώτοις ἑαυτῷ φύροντος ἐγκρυφίας ἐκ τῶν ἀλοωμένων πυρῶν εἴτ’ οὖν χρυσίνων καὶ μετέπειτα μεταδιδόντος καὶ τῷ συνάρχοντι. , tenendo lontano ovvero in sospetto i bizantini come ladri, finiva senz’accorgersene per omaggiare invece stranieri avidi di denaro, favorire omuncoli dappoco e mettere gli indigeni nella condizione di pensare il contrario dell’onestà e affidabilità che derivano dalla disposizione naturale e dall’educazione. I bizantini, infatti, sapendo del sospetto del re verso di loro, ed essendo giudicati come servitori e procacciatori di guadagno piuttosto che come fidati consiglieri -vengono infatti inquadrati con i forestieri, spediti a coppie, oppure vengono tenuti in conto di compagni e affiancatori del carro del potere-, svolgevano solo gli ordini, raccogliendo e legando in fasci il denaro e portandolo in mucchio come per così dire in un’aia a quel barbaro preposto a molti e stimato valere come moltissimi altri bizantini messi insieme. Il resto, poi, lo trascuravano, per non dire che al re venivano talora versate poche e, per così dire, scelte parti del tutto; il più, invece, se lo intascavano. E in questo modo il servo reputato onesto e fedele presso il re anzitutto impastava per sé le pagnotte con il grano macinato, ovvero con le monete d’oro; quindi le spartiva pure con il compagno di potere. (entrambe le traduzioni sono mie, controllate su preesistenti) 48 ou|to": ajnti; tou` ajnaivsqhto" eij" uJperbolhvn; cocciuto è l’unico agg. ital. che mi viene in mente, atto a mantenere un gioco di parole tra un significato proprio, di coccio, ora non più in uso, e uno traslato dalla testa dura come un coccio). Cfr. ln. 92 supra. 162-163 parevnte"--sautou`: la trad. di Pod. («ma lasciandoti a meditare come vuoi su te stesso») e Rom. («io qui ti lascio, come vuoi, a meditare su te stesso») non implica per forza che parivhmi abbia la costruzione di ejavw con acc. + inf. nel senso di permettere a qcn di fare qcs; dianoei`sqai, infatti, va visto come semplice infinito finale e parivhmi mantiene il suo valore di abbandonare. Si potrebbe, nondimeno, pensare anche che dianoei`sqai dipenda da wJ" a]n ejqhvlh/", subordinata non modale, ma finale (con a[n e.g. Soph. OC 575 tou`t∆ aujto; nu`n divdasc∆, o{pw" a]n ejkmavqw e Ar. Eq. 81 ajlla; skovpei, o{pw" a]n ajpoqavnwmen ajndrikwvtata). 163 a[llon--ajeivsomen: il fut. di a[/dw è in genere medio in attico; forme attive, tuttavia, compaiono già in Saffo e nei mss. di Aristofane; diventa normale nella poesia tardo-antica (Nonn. Dion. XIII 47). Questa chiusa con due esametri dattilici e il verbo non contratto sembra voler conferire un’aura poetica, certo canzonatoria. è citazione di qcs.? 49 50 Theodori Prodromi1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 46 47 textus IV (148 H.)1 Dhvmio" h] ijatrov"2 V, f. 56r ããEij e}n h\n oJ a[nqrwpo" oujk a]n h[lgeenÃÃ, oJ Kw`ov" fhsin ijatrov": kai; tiv" a]n tajnqrwvpw/ ejpimemyei`tai ta; kairiwvtata peri; th`" ajnqrwpivnh" kai; diagnovnti kai; ajpofhnamevnw/ fuvsew"… To; ga;r ajnaivsqhton pefuko;" ei\nai, eij e}n h\n, pw`" a]n kai; h[lgeen, ei[per ai[sqhmav ti to; a[lghma kai; aijsqavnesqai to; ajlgei`n… ∆Alla; tau`ta me;n ÔIppokravtou" ta; rJhvmata, megavla dia; mikrw`n toutwni;3 sullabw`n aijnittovmena -oJpoi`o" ejkei`no" poluvn tina nou`n kai; gennai`on ojlivgoi" ejpikaluvptein toi`" gravmmasin. ∆Egw; de; tw/` lovgw/ prosepiqeivmhn kai; tau`ta: eij e}n h\n oJ a[nqrwpo", oujd∆ a]n zw`/on h\n, oujd∆ a]n a[nqrwpo": xuvnqeton ga;r ejk pleovnwn to; zw`/on kai; zw`/on oJ a[nqrwpo". Ka]n tini doi`men aJplw`/ ei\nai, touvtou polu; provteron ajposkeuasaivmeqa th;n zw/ovthta: oiJ gavr toi Luvkioi Provkloi a[llw" th;n ajllovkoton ejkeivnhn terateivan ejpideiknuvtwsan, ejmpuvria movnw" kai; ajevria zw`/a kai; th`" loiph`" tw`n stoiceivwn ijdiva/ duavdo", tou;" eJautw`n4 ajnaplavttonte" oiJ kakodaivmone" daivmona". Eij e}n h\n oJ a[nqrwpo", oujk a]n h[lgeen: ajlgei` de; poikivlon te o]n kai; ejk pollw`n kai; ejnantivwn xugkeivmenon, a} filiwqevnta th/` fuvsei kai; eij" aujto; sunelqovnta, to;n ajrcevgonon o{mw" oujk hjgnovhse povlemon, ajlla; ta;" pantodapa;" dia; touvtou dhmiourgei` tw`n novswn diaforovthta". Eij toivnun ajnavlghton me;n to; e{n, ta; d∆ ejkstavnta touvtou kata; ta; mevtra dhladh; th`" ejkstavsew" kai; tou` a[lgou" meteivlhcen, ejpi; plevon a[ra pavntwn tou` eJno;" ejxevsthn ejgwv. Kai; ouj tetraktuv" me movnh stoiceivwn, wJ" e[oiken, ajll∆ ojgdoa;" h] dwdeka;" h] kaiv ti plevon favnai sunevdhse kai; ejzwv/wsen uJpe;r pavnta" ouj movnon ajnqrwvpou", ajlla; dh; kai; ãão{sa gai`an ejpipneivei5 te kai; e{rpeiÃà zw`/a -prosqeivhn d∆ a]n ejgw; ããkai;6 kata; qalavssh" kubista/`ÃÃ- nosazovmenon. ⁄ Eij ga;r aJplou`n to; ajnavlghton, V, f. 56v a[ra to; noserwvteron sunqetwvteron: ou{tw teravstiovn ti zw`/on ejgw; kai; a[llai" ejx a[llwn tai`" ponhrivai" tou` swvmato", wJ" sfai`ra meirakivwn paizovntwn, perikrouovmeno". Ta; me;n ou\n o{sa tw`n noshmavtwn h] mocqhriva/ diaivth" h] eujpaqeiva/ swvmato" h] a[llai" aiJstisinou`n tuchrai`" nifavsin hJmi`n ejpicalazou`tai, e[coimen a]n ajnafevrein ta; me;n eij" to; sfw`n hJmw`n ajkratev", ta; d∆ eij" th;n fuvsin, ta; d∆ eij" th;n tuvchn: ta; d∆ oJpovsa hJmi`n oiJ qaumastoi; ou|toi ∆Asklhpiavdai -ou{tw ga;r ajxiou`si kalei`sqai oiJ paravgraptoi tw/` tw``n ijatrw`n oJmivlw/- prosepitrivbousin, ou}" xeniva" diwvkaqon a]n kai; ÔIppokravth" kai; Galhnov", eij parh`san, oi} stolivzontai me;n kata; ijatrouv", h]n dev ti" ajpoduvsa" i[dh/, skapanei`" eijsi kai; bafei`" kai; skutodevyai: to;n ga;r tou` muvqou o[non tou`to to; mevro" ajpomimnou`tai, uJpo; th/°` leonth/` ta;" ojgkhvsei" dh`qen kruptavzonte". Povsou7 , w\ parovnte", oi[esqe lovgou ei\nai ajfhghqh`nai… ∆Egw; mevn, sunelw;n eijpei`n, ejpibouvlou" dei`n oi\mai aujtou;" ojnomavzein th`" ajnqrwpivnh" uJgeiva" kai; mageivrou" ajtevcnou" tou` kaq∆ hJJma`" swvmato" kai; ajpanqrwvpou" dhmivou" kai; ajlithrivou" th`" fuvsew" kai; ejparw`mai aujtoi`" a[llo me;n oujde;n tw`n deinw`n h] tai`" sfw`n eJautw`n ejmpesei`sqai cersivn: ou{tw ga;r a]n kai; katergasqei`en tacuv ejmfuvlion aujtoi`" tou` qeou` to;n povlemon ejpegeivranto". ÔEautoi`" ga;r ou|toi kai; 1 Test: V Edd.: Podestà 1947, pp. 12-21 (ex codd. V et o) Vers.: ital. Pod. l. l., Romano 1999, pp. 311-325 2 post tit. in mg. dx. litteram k (i. e. numerum XX omnium in V contentorum scriptorum) praebet V 3 toutwni; Pod. (Rom.): tout.ni; V (inter t alterum et n littera spissa rescriptaque non bene distinguitur utrum o an w sit) 4 p. h. v. non necessarie adiecit oiJ Pod. (Rom.) 5 ejpipneivei V: ejpipnevei Pod. (Rom.), perperam 6 p. h. v. ta; kata; Pod. (Rom.), sed non necessarie 7 povsou-lovgou V: povson-lovgon Pod. (Rom.) 51 to;n loipo;n parametrou`nte" a[nqrwpon kajnteu`qen pollostou` to; thlikou`ton zw`/on hJgouvmenoi a[xion, oujde;n tw`n ajtopwtavtwn eijrgavsqai nomivzousi, ka]n eij 48 49 50 51 52 53 54 55 56 57 58 59 60 61 62 63 64 65 66 67 68 69 70 71 72 73 74 75 76 77 78 79 80 81 82 83 84 85 86 87 88 89 90 91 92 8 devka h] pentekaivdeka o{lou" a[ndra" uJpo; tw/` eJJautou` xurivw/ diaceirivzoito e{kasto". ÔW" ajgaqou;" a[ra oiJ novmoi9 touvtou" tai`" povlesin ejpevsthsan khdemovna": oi} oujk a]n fqavnoien10 uJpo; th`" sfw`n ajmaqiva"11 oijkiva" o{la" ajpokenou`nte" aujqhmerovn, touvtou" kai; ajnoustevrou"12 aJJpavntwn tivqemai kai; kakopoiei`n deh`san sofouv": koinoi; ga;r o[nte" ajnqrwvpwn polevmioi kai; ta;" palamnaiva" cei`ra" pa`sin ejpanateivnonte", oujk ajdeh`13 th;n lwvbhn ejpavgousin oujd∆ ajperiskovphton, ajll∆ ou}" me;n kata; cei`ra ⁄ dedivasin, touvtou" peri; ta; pro;" rJwvmhn suvnerga V, f. 57r tw`n morivwn lumaivnousin, ou}" d∆ uJpotrevmousi kata; stovma kai; th;n logikh;n ajrethvn, touvtoi" peri; to; stovma ta;" eJJlepovlei" ejpavgousin kai; h] th;n glw`ssan h] tou;" ojdovnta" h] ta; ceivlh poliorkou`si. To; me;n ou\n ejmo;n i[sw" oujci; toiou`ton, tevw" ge mh;n peri; aujtou;" kajmoi; tou;" ojdovnta" toi`" ajniavtroi" oJ povlemo". ∆All∆ w[ moi tiv pavqw… Tou` pavqou" ga;r ajnemnhvsqhn kai; uJpotrivzein me;n tou;" ojdovnta" kata; tw`n ajlastovrwn bouvlomai, ajmhcanw` dev, tw`n me;n ejmoi; diaseseismevnwn, tw`n d∆ ajpewsmevnwn pantavpasi. Biavzomai th;n glw`ssan ejnergh`sai th;n a[munan, ajll∆ oujk e[cei tiv pot∆ a]n kai; katapraxei`tai to; plh`ktron, kataklasqeisw`n tw`n cordw`n. “Agete dhv moi cei`re" to;n uJpe;r tw`n suggenw`n ojdovntwn ajnadevxasqe povlemon: miva gavr, kata; to;n eijpovnta, ta; pavnta xuvrroia, miva xuvmpnoia, ta; pavnta xumpaqeva. “Agetev moi cei`re" -uJma`" ga;r ejpibwstrou`mai,14 h/|15 ta;" ejx ∆Oluvmpou Mouvsa" oJ Mevlhto"- ajntistrateuvsasqe16 tai`" makellikai`" aiJ filovsofoi kai; kata; tou` palamnaivou sidhvrou to;n dovnaka qhvxate kai; ta; th`" buzantiva" tauvth" u{dra" palimfuh`17 diakovyate kavrhna. “Epelqe dev moi kai; suv, oJ ∆Iovlew" ÔIppokravth", tw/` ejmw/`18 sunevriqo" ÔHraklei`, ta;" ajkefavlou" h[dh dei`ra" ejpikavwn. Kai; i{na mhv ti" to; fivleri katablasfhmoivh tou` lovgou, oJpoi`oiv tine" tou;" ajnaitivou"19 aijtiavsasqai proceirovtatoi, e[nqen eJlw;n to; kata; tw`n ejmfuw`n ojdovntwn lh/sthvrion ejkkaluvyomai. Kai; suvmpan me;n a[ra mou to; swmavtion e[oiken o[rganon ei\nai yuch`" ajsqenou`" ajsqenev": plevon de; peri; th;n kefalh;n ejpirrei` to; kakovn, h}n ejpevsthse me;n hJ fuvsi" oi|on kolofw`na tw/` o{lw/ swvmati, tamei`on de; w{sper kai; aJpasw`n ejpoivhse tw`n aijsqhvsewn. Peri; dh; th;n toiauvthn ajkrovpolin ejmoi; ta; polla; aiJ polevmioi ejpistrateuvousi novsoi kai; e[sti me;n ou| tw`n ojfqalmw`n, e[sti de; ⁄ V, f. 57v ou| tw`n w[twn, ejniacou` de; kai; th`" rJino;" katastrathgou`sin. Oujk e[melle dev moi a[ra oujd∆ oJ tw`n ojdovntwn qriggo;" ajpeivrato" e[sesqai tou` kakou`, ajll∆ ejpeisevfrhke20 ta; prw`ta me;n peri; tou;" prosqivou", meta; de; kai; peri; tou;" gomfivou" oJ povlemo" kai; th;n fusikh;n ajnevtreye muvlhn, mivan tw`n ajlhqousw`n ejpinemhsavmeno". Eu\comai, w\ a[ndre", mh; peivra/ uJma`" aijsqevsqai tou` pavqou", ajll∆ ejn ajllotrivai" filosofei`n sumforai`". ∆Egw; me;n ou\n a[ntikru" tw/` kakw/` ejqanavtwn kai; wJ" oi|av ti" bou`" oi[strw/ plhgei`sa, tou;" ajpantach` perihvein dh`qen ∆Asklhpiavda" kai; peri; th`" sumfora`" aujtoi`" ejkoinologouvmhn. «Hn de; ijdei`n e[rin ou[toi smikra;n ejn aujtoi`": oiJ me;n ga;r kata; tw`n flebw`n turannikwvteron ejbouleuvonto, oiJ de; to;n kauth`ra dievkaon kata; tou` wjtov", eijsi; de; oi} th;n botavnhn ejph/vnoun to; puvreqron -tou;" ga;r dh; filotimotevrou" ejw`, oi{ moi kai; th;n selhnaivan o{lhn katavxein di∆ ejpw/dh`" ejphggevllonto, ou{tw lamprovtatovn mou toi`" ojdou`si to;n ijatro;n katapevmponte". 8 eij V: h] Pod. (Rom.) 9 novmoi V: novmimoi Pod. (Rom.), non necessarie 10 fqavnoien Pod. (Rom.) : fqavnoian V 11 ajmaqiva" V: ajmaqeiva" Pod. (Rom.) 12 ajnoustevrou" V: ajnoustavtou" Pod. (Rom.) 13 ajdeh` V: ajdeh/` Pod. (Rom.), perperam 14 ejpibwstrou`mai V, sed u bis rescripta supra priori littera quae nunc vix conspici potest 15 h|/ Pod. (Rom.): h] V 16 ajntistrateuvsasqe Vpc : ajntistrateuvsasqai V 17 palimfuh` scripsi: palimfua` V: palimfua; Pod. (Rom.) 18 tw/` ejmw/` V, Pod. (Rom.): ejmoi; coniecerim 19 ajnaitivou" V: ejnantivou" Pod. (Rom.) 20 ejpeisevfrhke Pod. (Rom.): ejpeishvrhke (an legendum ejpeish/vrhke?) V 52 Loidorivai ta; ejpi; touvtoi" kat∆ ajllhvlwn pavnu pollav kai; a{lmata kai; kraugaiv, kai; a{pa" ejph/vnei to; eJautou`, w{stev moi kai; eij" gevlwn ajntiperisth`nai to; pavqo". Tevlo" qrasuv" ti" a[nqrwpo" kai; uJpe;r tou;" loipou;" 93 94 95 96 97 98 99 100 101 102 103 104 105 106 107 108 109 110 111 112 113 114 115 116 117 118 119 120 121 122 123 124 125 126 127 128 129 130 131 132 133 134 135 136 21 kraktiko;" eij" mevsou" ejmphdhvsa" aujtouv", ããTiv de;, w\ mavtaioiÃÃ, ei[pen, ããou[pot∆ hjkouvsate: VV∆Odovnta ponei`"… “Ektilon aujtovnVVÃÃ. Tou`to ei\pen me;n ejkei`no", ejph/vnei de; to; sunevdrion kai; ejgw; ejpeiqovmhn. Tiv ga;r e[dei kai; ajpistei`n presbutikw/` ou{tw" ajnqrwvpw/, pollhvn tina th;n pei`ran suneilhcevnai marturoumevnw/ th/` polia/` kai; to;n ouj bracu;n crovnon th`/ makrh/` tevcnh/ mh; a]n ejmpodw;n eij" gnw`sin e[cein uJpeilhmmevnw/… ÔOplivzetai gou`n moi kata; tw`n ojdovntwn eujquv": Macavwn me;n h] Podaleivrio" oujdamw`", “Eceto" de; kai; Favlari" a[ntikru" kai; ejgw; me;n ou{tw dokou`n22 kaqizovmhn, hjggevlleto de; h[dh h{kein oJ dhvmio" a[nqrwpo": ei[ tw/ pisto;" oJ lovgo", th;n me;n hJlikivan mikrovn ti tw`n ⁄ dhmokriteivwn ajtovmwn h] V, f. 58r tou` shmeivou tou` gewmetrikou` dienhnocwv", pevlwron de; kai; pavnu gennai`on ejpi; th`" ajgkavlh" fevrwn to;n sivdhron, w/| ka]n ejlefavntwn o{lwn h] kavprwn ajgrivwn ojdovnta" su;n oujdeni; ejxevkrouse movcqw/, w{ste qau`ma h\n ijdevsqai kaino;n kai; ejpieikw`" ajllovkoton a[cqo" thlikou`ton, w\ lovgoi, th/` ajdiastavtw/ ejkeivnh/ stigmh/` bastazovmenon. Ta; me;n ou\n a[cri touvtwn pevnqou" h\n kai; gevlwto" kukewvn, ta; d∆ ejnteu`qen, crhvsatev23 moi ojdovnta" eijpei`n: ejgw; me;n ga;r th/` tuvch/ o{lon ejmauto;n ejpidou;", katav tina tw`n iJereuomevnwn h[dh zwvwn hJsuvcazon, oJ d∆ oujk oi\da tivni qew`n h] daimovnwn katevquev mou to; stovma, manteusovmeno" i[sw" ejnteu`qen th;n eJautou` ajmaqivan, oujkevti me;n dia; splavgcnwn kai; h[pato", w{" tine" tw`n ajrcaivwn, oujde; di∆ aujlw`n ajkoh`" kai; tumpavnwn, wJ" oiJ korubantizovmenoi kai; oiJ kavtocoi tw/` Sabazivw/24 kai; oiJ mhtrivzonte", oujd∆ wJ" oJ25 ejn Kolofw`ni iJereu;" tou` Klarivou26 dia; povsew" u{dato", oujde; dia;; th`" ejpi; tw`n27 stomivwn kaqevdra", wJ" aiJ ejn Delfoi`" qespivzousai, oujde; mevntoi kata; tou;" ajlfitomavntei"28 h] ta;" ejn Bragcivsi profhvtida". ∆Alla; tivna trovpon… Dia; th`" tou` stovmato" kai; tw`n fatnivwn ajnatomh`"29 : aujtav te ga;r tau`ta makellikh/` macaivra/ diecaravxato kai; tou;" oJdovnta" ajpokaluvya" ejgewmevtrei ka/\ta meta; th;n aJpavntwn ajpovpeiran tou` ajlgou`nto" ojye; gou`n kai; movli" kateustochvsa" ei\lken,30 w\ ∆Asklhpie; kai; ÔIppovkrate", kai; periei`lke th/`de kajkei`se to;n a[qlion. {Ote moi kai; uJperh`lix oJ pugmai`o" ejkei`no" e[doxen a[nqrwpo" kai; eJkatovgceir kai; eJkatovmphcu", tovte kai; to;n u{llon ejpeivsqhn to; bracu; zwuvfion tou;" ajmfibivou" qanatou`n krokodeivlou" kai; to; bracu; delfavkion to;n ejlefantiai`on o[gkon katagwnivzesqai. Tevlo" pukna;" ejkeivna" oJlka;" kai; periolka;"31 oJ a[qlio" ouj stevxa" ojdou;" divca tevmnetai kai; to; me;n a[lgo" oJpovson toi`" ge mh; pantavpasi ajnaisqhvtoi" provdhlon, to; mevntoi ai\ma bluvzon potamhdo;n tou;" peri; to;n aujlhth;n Marsuvan pistou`tai muvqou" tou;" oJmwnuvmou" potamou;"32 ejk tw`n sarkw`n ajporreuvsanta33 . Oujk h[rkese ⁄ tau`ta th/` ajpanqrwvpw/ ejkei`nh/ yuch/`, oujde; dievceiav ti" V, f. 58v ejdovqh th/` makelleiva/, pavnth/ de; kako;n kakw/` ejsthvrikto, ei\pen a]n ”Omhro": wJJ" ga;r oujk ajpocrwvsh" th`", h}n e[famen kai; uJmei`" hjkouvsate, turannivdo", kai; to;n kauth`ra kata; tou` uJpoleifqevnto" ejxevkause. Kai; tau`ta me;n oJ gennai`o" ejkei`no", ejmoi; de; ajpevcrhsen a]n eij" a[munan tou` kaqavrmato", eij th`" Mwsaikh`" ejkei`no to; mevro" ouj kathrghvqh nomoqesiva", ojdovnta ejxoruvttein ajnti; ojdovnto"34 kai; ojfqalmo;n 21 loipou;" Pod. (Rom.; praktiko;" vero perperam): loipo;n V 22 dokou`n V : dokw`n Pod. (Rom.) 23 crhvsate V: crhvstate perperam Pod. (Rom.) 24 sabazivw/ Pod. (Rom.): sabizivw/ V 25 oJ V: om. Pod. (Rom.) 26 klarivou Pod. (Rom.): klavrion V 27 dia th`" ejpi; tw`n scripsi: dia; tw`n ejpi; th`" V, Pod. (Rom.) 28 aj- ego: ∆A- Pod. (Rom.) 29 ajnatomh`" V: ejpitomh`" Pod. (Rom.) 30 ei\lken V: ei|len Pod. (Rom.) 31 kai; periolkav" V, om. Pod. (Rom.) 32 potam; procul dubio legitur in V (desinens celeriter conscriptum?) 33 ajporreuvsanta Pod. (Rom.): ajpovrreusta V 34 ojdovnto" V: ojdovnta perperam Pod. (Rom.) 53 ajnti; ojfqalmou`: nu`n de; ajlla;35 th;n sukivnhn, o{ fasin, tauvthn ejpikourivan, tou;" lovgou" kata; tou` ajlovgou probavllomai. Ei\ta sitivzei tou;" toiouvtou" hJJ povli" kai; ajxiou`sin, w] th`" tovlmh", kai; misqou;" th`" ajpanqrwpiva" 137 138 139 140 141 142 143 144 145 146 147 148 149 150 151 152 153 154 155 156 157 158 159 160 161 162 163 164 165 166 167 168 169 170 171 172 173 174 175 176 177 178 179 180 181 36 komivzesqai, w{sper aijdouvmenoi proi`ka ei\nai kakoiv, kai; th`" hJmetevra" eujhqeiva" katatrufw`si. Kai; spavqhn me;n oujk a[n ti" wjnhvsaitov pote kata; th`" aujtou` kefalh`", oujde; lussw`nta eijsoikivsaito kuvna kavrcaron: tou;" de; toiouvtou" hJdevw" pavnu kaq∆ hJmw`n eJautw`n misqouvmeqa kai; lanqavnomen pollou` to;n oijkei`on wjnouvmenoi qavnaton. Ei\ta barei`" me;n oiJ novmoi kata; kleptw`n37 , poivnimo" de; kata; tou` lh/steuvonto" w{ristai ceivr, kai; oujk a]n a[llw" eujnomouvmenai klhqei`en38 aiJ povlei" h] tw/` timwrei`sqai tou;" aJmartavnonta": tou;" de; lh/sta;" a{ma touvtou" kai; lwpoduvta"39 –lh/steuvousiv te ga;r ta; ajnqrwvpina swvmata kai; th;n proshgorivan lwpodutou`si40 tw`n ijatrw`n41 – ouj movnon ajpoinhlathvtou" ajfia`sin, ajlla; kai; prosepeuergetou`sin o{ti pollav. Kai; oJ me;n tau`ro" xenoktonw`n ajpanqrwpei`n dokei` kai; paranomei`n, oiJ de; oijkeioktonou`nte"42 ou[pw paranomou`si. Kaivtoi povsw/ tou`to ejkei`nou dusqewvteron kai; paranomwvteron: to; d∆ hJmw`n aujtw`n kai; th;n lakwnikh;n uJperbaivnein ajnalghsivan dokei`, pro;" tou;" ouj xaivnonta" movnon, ajlla; kai; qanatiou`nta" aujtomolouvntwn, kai; th;n tw`n kavprwn uJperpaivei manivan, oJphnivka fevronte" eJautou;" eij" gumno;n to;n sivdhron oJmovse cwrou`si. ããNaivÃÃ, fhsin, ããajll∆ ouj para; mivan ajpotucivan ajmaqiva"43 dikaivw" gravfh/ to;n ijatro;n äoujde; ga;r ªoujde;º44 to;n uJpodhmatorravfon h] to;n cutreva, h] to;n ejx oiJasou`n tevcnh" h] ejpisthvmh" wjnomasmevnon ajtevcnou" ei[poi ti" a[n, ka[n eij oJ me;n ejfavpax parevrraye to; uJpovdhma, oJ de; th;n stefavnhn th`" cuvtra" ou{tw sumpeso;n dielovxwse: th;n ga;r e[stin ou| diamartivan45 oujde; hJ fuvsi" hjgnovhse kai; ta; bougenh` tou` ∆Empedoklevo" eij" marturivan ajndrovprw/ra ⁄ ajll∆ ouj para; tou`to ajrcitevktwn V, f. 59r fuvsi" ajnepisthvmwnÃÃ. ÔW" w[fele", w\ a[nqrwpe, toiou`to" ei\nai kai; th;n ijatrikh;n, oJpoi`o" ta;" loxa;" ajntiqevsei": ei\ce" ga;r a[n ti kai; tevcnh" zwvpuron. Plh;n e[dei se sofwvtaton o[nta, mh; th;n ∆Empedoklevo" movnon ajkribou`sqai filosofivan, ajll∆ e[stin a} sunidei`n kai; tw`n46 ÔHrakleivtou, kai; tou`tov ge pro; tw`n loipw`n: ei|" ga;r ejmoi; murivoi, fhsi; oJ sofov", w{ste ka]n eJni; ejmparoinh`sai dokh/`", murivoi" oujde;n h|tton ejmpeparw/vnhka". Ouj ga;r tw/` povsw/ ma`llon h] tw/` poivw/ to; pravgma dokimastevon: eij de; kai; kovsmon ejn mikrw/` mevgan to;n a[nqrwpovn fasin oiJ sofoiv, ka]n kosmoktoniva" se diwkavqoimen ajnqrwpoktonou`nta. ∆Ew` ga;r levgein o{sa" me;n ajnqrwvpwn yuca;" “Ai>di proi>vaya"47 oJ nevo" nekragwgo;", oJsavki" de; to; tou` Cavrwno" nekrw`n ejmpevplhka" skavfo" kai;; pravgmata parevsce" tw/` Aijakw/` duslogistou`nti dia; to; plh`qo". Oi[dasi tau`ta aiJ kataleifqei`sai ch`rai gunai`ke", aiJ ta; neogna; mhtevre" ajnhrpasmevnai, aiJ tou;" a[llw" xunhvqei" kai; suggeneva". ããEi\en. Tiv devÃÃ, fhsi, ããperi; hJmw`n dogmativzei", w\ kaine; nomoqevta… Limwvxomen, rJigwvsomen, ajnupovdetoi tou` ceimw`no" peripathvsomen, wJ" hJmei`" ge oujk e[stin h{ntina eJtevran ejkmemelethvkamen tevcnhn, h] h}n lh/steutikh;n ojnomavzei"ÃÃ. «W lovgoi kai; mavqhsi" kai; bibliva, oujk ajnektw`" e[ti oJ ajnovsio" ou|to" melagcola/`. Tevcnhn, w\ ajpofwvlie, kalei`" th;n ajnqrwpoktonikhvn kai; kalw`n oujk ejruqria/`"… Eijpe; gavr moi, ei[ ti" Bracma;n h] Bretano;" a[nqrwpo" h] tou` Tivgrhto" pivnwn h] louovmeno" tou` Neivlou h] ta; peri; to;n Buvzhn kai; to;n Borbuvzhn nemovmeno", par∆ hJma`" aujtou;" ejlqw;n eJJkavsta" ajpaitoivh ta;" tevcna" eij" o[noma, ei\q∆ hJmei`" eijpovnte" wJ" hJ me;n hJmi`n ajgalmatopoihtikhv, hJ de; liqoxoikhv –paretevon ga;r ta;" ejn lovgoi" kai; peri; 35 ajlla; V: a[llo perperam Pod. (Rom.) 36 ajpanqrwpiva" V (per compendium): ajpaqeiva" perperam Pod. (Rom.) 37 kleptw`n V (sic in ms., non leptw`n, ut nos credere inducit Pod.) 38 eujnomouvmenai klhqei`en V: eujnoumouvmenai plhqei`en perperam Pod. (Rom.) 39 lwpoduvta" V: lwpodivta" perperam Pod. (Rom.) 40 lwpodutou`si V: lwpoditou`si perperam Pod. (Rom.) 41 tw`n ijatrw`n Pod. (Rom.): tou` ijatrw`n V: th;n ijatrw`n possis 42 oijkeioktonou`nte" Pod. (Rom.): oijkeioktenou`nte" V 43 ajmaqiva" V: ajmaqeiva" Pod. (Rom.) 44 oujdev secl. 45 diamartivan V: de; aJmartivan Pod. (Rom.) 46 tw`n V: tou` Pod. (Rom.) 47 a[i>di proi?aya" V: «Aidi proi>avya" perperam Pod. (Rom.) 54 ta; maqhvmata– kai; hJ me;n oijkodomikhv, hJ de; bursodeyikhv, aiJ de; toiavde ti"48 kai; toiavde, tevlo" th;n ajnqrwpoktonikh;n ejpiqw`men, oi[ei mh; a]n ejpimuvxanta pro;" to; rJJh`ma to;n a[ndra kai; th`" o{lh" katakagcavsanta politeiva" oijchvsesqai… Ou{tw", oi\mai, kai; aujto;" xunqei`o tw/` lovgw/, eij de; mhv, ajll∆ e[stw kaqavper a]n aiJroi`o kai; tou`to, kai; ajpivtw ta;" aJpavsa" ejpainevsa" tevcna" oJ xevno". Tiv de; hJ povli", ejf∆ w|/ mh; tou;" ajlithrivou" uJma`" limwvxesqai 182 183 184 185 186 187 188 189 190 191 192 193 194 195 196 49 , limwxei`tai tw`n eJauth`" politw`n… ÔW" ajpovloisqe a[ra kakoi; kakw`", oiJ sumfora;" me;n kai; luvpa" ejx eJautw`n hJmi`n carizovmenoi, ⁄ ei\t∆ ejn ajllotrivh/si sumforh/`sin ijdiva" luvpa" V, f. 59v karpou`sqai diateinovmenoi: dikaivw" ga;r uJma`" kai; Plavtwn th`" eJautou` politeiva" ejxwvrisen. Eij dh; tau`ta uJpe;r sou`, w\ gennaiotavth, ejrrevqh, tw`n ajnqrwpivnwn ejpisthvmh swmavtwn ijatrikh;, kai; uJpe;r uJmw`n dev, w\ kaqhgemovne" th`" tevcnh", sou` te, w\ Kallivklei" Nikovlae, eujfuestavth tw/` o[nti kai; ejpisthmonikwtavth ta;50 pavnta yuchv, kai; sou` de; Lizivkwn a[riste Micahvl, yovgo" ga;r ajniavtrwn, e[paino" a[ntikru" ijatrw`n, uJmevteron a]n ei[h pronoei`sqaiv te mou tou` ajsqenou`" toutoui; swmativou kaiv moi tou;" ajlithrivou" touvtou" sunepitrivbein. 48 ti" V, om. Pod. (Rom.) 49 limwvxesqai V: limwvxestai Pod. (Rom.) 50 ta; V, om. Pod. (Rom.) 55 TRADUZIONE   TESTO IV   (148 H.)    5 10 15 20 25 30 35 40 45 Boia o medico      «Se l’uomo fosse un’entità unitaria, non soffrirebbe», dice il medico di Cos; e chi  potrà  biasimare  l’uomo  che  compie  le  diagnosi  e  le  dimostrazioni  più  opportune  nei  confronti della natura umana? Ciò che è per natura insensibile, infatti, se fosse un’entità  unitaria, come farebbe a soffrire, se è vero che la sofferenza è una sensazione e il soffrire  un  sentire?  Nondimeno  queste  sono  le  parole  di  Ippocrate,  che  alludono  per  enigmi  a  grandi significati tramite queste piccole sillabe qui; come è bravo quell’uomo ad ammantar  sublime  e  nobil  concetto  sotto  picciol  verbo!  Io,  comunque,  vorrei  aggiungere  al  ragionamento  anche  questo:  se  l’uomo  fosse  un’entità  unitaria,  non  sarebbe  un  essere  vivente, tantomeno un uomo; ché l’essere vivente è composto di molti elementi e l’uomo è  un essere vivente. E, se a uno concedessimo di essere semplice, finiremmo molto prima  con lo sbarazzarci della sua natura di essere vivente: dimostrino pure in altro modo i Lici  Procli  quella  prodigiosa  ciurmeria,  per  cui  ci  sono  esseri  viventi  da  una  parte  fatti  esclusivamente  di  fuoco  e  di  aria,  e  dall’altra,  separatamente  ,  fatti  della  restante diade degli elementi (sc. di terra e acqua); poveri diavoli, loro che si foggiano ad  arte i propri... diavoli!    Se  l’uomo  fosse  un’entità  unitaria,  non  soffrirebbe;  soffre,  però,  poiché  è  vario  e  composto di elementi numerosi e contrari che, riuniti in reciproca concordia dalla natura e  convergenti nello stesso punto, non ignorarono tuttavia la guerra primordiale, ma tramite  questa  producono  tutte  le  possibili  differenti  malattie.  Se  dunque  l’entità  unitaria  è  immune da dolore, mentre ciò che se ne distanzia partecipa anche del dolore, ovviamente  in ragione della sua distanza, allora io sono quello che più di tutti si distanzia dall’entità  unitaria. E quanto a me, non la sola tetrade di elementi, come sembra, bensì l’insieme di  otto  ovvero  di  dodici  o  qualcosa  di  maggiore  a  dirsi  mi  legò  insieme  e  mi  fece  essere  vivente, malato al di sopra di tutti gli uomini, come pure di tutti gli animali «che respirano  e sulla terra strisciano» ‐e, aggiungerei io, «che nel mare guizzano ». Se, infatti, ciò che non  soffre è semplice, allora ciò che più è soggetto alla malattia è più composto: sì prodigioso  essere vivente sono io e percosso dappertutto, come una palla, quando i bimbi giocano, ora  da alcuni mali del corpo che constano di alcuni elementi, ora da altri che constano di altri  (provenienti da una parte, ora da altri provenienti da un’altra?).     Da  un  lato,  dunque,  tutte  le  malattie  che  o  per  cattiva  alimentazione  o  per  cagionevolezza del fisico o per qualunque altro sventurato fortunale si abbattono su di noi,  potremmo ricondurle parte alla nostra intrinseca debolezza, parte alla natura, parte alla  sorte; dall’altro lato invece ci sono ancora tutte quelle che ci appioppano codesti mirabili  Asclepiadi ‐così infatti stimano opportuno farsi gli iscritti all’albo dei medici‐ che financo  Ippocrate e Galeno, se fossero al mondo, perseguirebbero per appropriazione indebita di  cittadinanza; personaggi che si vestono da medico, ma se uno li spoglia e poi li guarda,  sono  villici,  tintori  e  conciatori.  Essi,  infatti,  imitano  a  loro  volta  l’asino  della  favola,  nascondendo cioè i ragli sotto la pelle di leone.   Signori  ascoltatori,  a  prezzo  di  quante  parole  pensate  che  debba  aver  luogo  il  racconto? Io, per dirla in breve, credo che si debba chiamarli cospiratori contro l’umana  salute,  cuochi  inetti  del  nostro  corpo,  carnefici  disumani  e  rei  contro  la  natura;  e  nessun’altra terribile maledizione auguro loro se non di cadere nelle mani di sé stessi: così  56 si distruggerebbero in fretta, se il dio instillasse in loro una lotta intestina. Costoro infatti,  commisurando  a  sé  stessi  anche  ogni  restante  uomo  e  di  qui  stimando  degno  di  pochissimo  sì  grand’essere  vivente,  non  pensano  di  fare  cosa  sbagliatissima,  anche  se  ciascuno di loro si mettesse a maneggiare col proprio bisturi dieci o quindici uomini tutti  insieme. Che competenti questi custodi che furono imposti dalle leggi alle città! Io, però,  quelli che per la propria ignoranza inevitabilmente svuoteranno intere magioni in un sol  giorno, io li considero più stolti di tutti e bravi quando c’è da compiere il male; poiché,  infatti, essi sono nemici comuni degli uomini e stendono su tutti le proprie mani assassine,  arrecano un danno che non può non essere spaventoso né passare inosservato. Ma quelli  che essi temono per la mano pesante, questi li danneggiano nelle parti che contribuiscono  a  dar  forza;  quelli  che  invece  essi  paventano  per  la  parola  e  la  valentia  intellettuale,  a  questi portano intorno alla bocca le macchine da guerra  e assediano loro o la lingua o i  denti o le labbra. La mia situazione, dunque, forse non è/era tale; certamente almeno fino  al  momento  in  cui  anch’io    faccio/feci  guerra  con  questi  non‐medici  proprio  per  i  denti. Ma, che mi succede? Ho ricordato la sofferenza e voglio digrignare i denti contro  quei  flagelli,  ma  non  ci  riesco,  perché  alcuni  mi  sono  stati  sconquassati,  altri  del  tutto  estratti. Costringo la lingua a effettuare la difesa, ma questo plettro non sa che risultato  mai otterrà, poiché le corde sono state spezzate. Su, mie mani, sobbarcatevi alla guerra in  favore dei denti vostri affini; perché, secondo le parole del nostro, tutto è una sola comune  circolazione, una sola comune respirazione, una sola comune sofferenza. Su, mie mani ‐voi  infatti  invoco,  come  il  figlio  di  Melete    le  Muse  d’Olimpo‐  voi,  le  sapienti,  combattete contro le macellaie e affilate il dardo contro il ferro omicida e tagliate le teste  rinascenti di quest’idra bizantina. Soccorrimi anche tu, o Ioleo‐Ippocrate, scudiero al mio  Eracle, bruciando i colli ormai privi di teste.  50 55 60 65 70 75 80 85 90 95   E  perché  nessuno  rinfacci  al  discorso  il  tono  contenzioso,  come  fanno  certuni  prontissimi ad accusare gli innocenti, partendo di qui svelerò la banda di ladri contro i  miei denti innati. Tutto il mio corpo nel suo complesso sembra essere debole strumento di  una debole anima; ma il più del male scorre intorno alla testa, che la natura ha imposto  come fastigio all’intero corpo e ha reso anche come dispensatore di tutte le sensazioni. È  contro siffatta mia rocca che le malattie nemiche muovono per lo più i loro attacchi: e ora  assalgono gli occhi, ora gli orecchi, talora financo il naso. Nemmeno la chiostra dei denti  doveva restarmi intatta dal male, ma la guerra dapprima aggredì gli incisivi, poi i canini, e  sconvolse la mola naturale, devastando una di quelle che macinano. Vi auguro, o uomini,  di non intender per prova dolore, bensì di riflettere filosoficamente sulle sventure degli  altri. Io, dunque, a causa del male desideravo senz’altro morire e, qual vacca afflitta da  estro, facevo il giro, pensa un po’, degli Asclepiadi dappertutto e comunicavo loro la mia  disgrazia;  ed  era  possibile  vedere  una  non  indifferente  disputa  tra  di  loro:  alcuni  deliberavano  piuttosto  dispoticamente  contro  le  vene;  altri  invece  arroventavano  il  cauterio  contro  l’orecchio;  altri  ancora  decantavano  le  proprietà  dell’erba  del  piretro  ‐ tralascio  infatti  i  più  ambiziosi,  che  mi  promettevano  di  tirar  giù  la  luna  intera  con  un  incantesimo,  spedendo  giù  ai  miei  denti  sì  luminoso  medico.  Quel  che  ne  seguì  erano  offese reciproche numerosissime e salti e grida e ciascuno lodava la propria trovata, così  che la mia sofferenza mutò persino in riso. Alla fine, un uomo ardimentoso e urlatore più  di tutti gli altri, balzando in mezzo a loro, disse: «E allora? Sciocchi! Non avete mai udito il  detto “Ti duole un dente? Toglilo!”?». Così diceva quegli, l’assemblea approvava e io ci  credevo.  Perché  infatti  non  si  doveva  credere  a  un  uomo  d’età  così  venerabile,  che  testimoniava di aver ottenuto in sorte insieme con la sua canizie una grande esperienza e  che supponeva di non avere ad impedimento della conoscenza il non corto tempo per la  57 lunga  arte?  Egli  dunque  si  arma  contro  i  miei  denti:  non  è  certo  un  Macaone  o  un  Podalirio, anzi senz’altro un Echeto e un Falaride. E io stavo seduto, visto che sembrava  opportuno così, mentre si annunciava che era già arrivato l’uomo carnefice: ammesso che  il  racconto  sia  per  qualcuno  credibile,  quanto  a  statura  egli  era  di  poco  differente  dagli  atomi  di  Democrito  o  dal  punto  geometrico;  portava,  però,  sul  braccio  un  mostruoso  e  veramente maiuscolo ferro, con cui avrebbe cavato senza alcuna pena persino i denti di  elefanti interi e di cinghiali. Pertanto era un prodigio strano e davvero insolito a vedersi, o  racconti, un peso siffatto sostenuto da quel punto senza dimensioni.   100 105 110 115 120 125 130 135 140 Fino a qui la situazione fu un guazzabuglio di dolore e di riso; ma da qui in poi,  prestatemi  i  denti  per  parlare:  io,  consegnatomi  tutto  alla  sorte,  me  ne  stavo  tranquillo  come un animale sacrificale, mentre quegli non so a che divinità o a che nume immolava la  mia bocca, per trarre forse da lì dentro il vaticinio sulla propria ignoranza, non più dalle  viscere  e  dal  fegato,  come  facevano  alcuni  antichi  indovini,  né  dall’ascolto  di  auli  e  di  timpani, come facevano i Coribanti e i devoti di Sabazio e i sacerdoti della Gran Madre  Cibele,  né  bevendo  acqua,  come  fa  il  sacerdote  di  Apollo  Clario  a  Colofone,  né  stando  seduto sopra le aperture nella terra, come fanno le profetesse di Delfi, né al modo degli   alfitomanti e delle sibille dei Branchidi. In che modo, allora? Tramite il taglio della bocca e  degli alveoli dei denti: li incise da parte a parte con un coltello da macellaio e, scoperti i  denti,  prendeva  le  misure  e,  dopo  aver  saggiato  tutto  del  paziente,  orbene  finalmente,  dunque, e a fatica, dopo aver mirato bene, tirava, o Asclepio e Ippocrate, e strattonava qua  e là lo sventurato. Quando pure quell’uomo stravecchio alto una spanna mi parve essere  un  centimano  e  un  centibraccio,  allora  rimasi  persuaso  che  anche  l’icneumone,  piccolo  animaletto, riesce a far morire gli anfibi coccodrilli e che il piccolo porcellino riesce a tener  testa alla mole dell’elefante.   Alla fine, il povero dente, non riuscendo più a resistere ai continui tiri e strattoni, si  fende  in  due;  e  quanto  grande  sia  il  dolore  è  chiaro  almeno  a  quelli  che  non  sono  completamente  insensibili.  Il  sangue  certo  che  scaturisce  a  fiumi  conferma  il  mito  di  Marsia, che fece traboccare dalle sue carni i fiumi che da lui hanno preso il nome. Questo  non bastava a quell’anima disumana, né fu concessa interruzione allo strazio, ma in ogni  dove  sciagura  a  sciagura  s’aggiunse,  direbbe  Omero.  Come  se  non  bastasse,  infatti,  la  tirannide,  di  cui  noi  dicevamo  e  voi  sentiste  parlare,  egli  prese  pure  ad  arroventare  il  cauterio sul rimanente. Ebbene questo era quel nobil uomo, mentre a me sarebbe bastata  per difendermi da quello scarto/avanzo di galera, se non fosse stata abrogata quella parte  della  legge  mosaica,  ossia  strappare  dente  per  dente  e  occhio  per  occhio.  Ora,  tuttavia,  questo che propongo è il soccorso del fico, come si suol dire, ossia i ragionamenti contro  chi  non  ragiona.  E  poi  la  città  mantiene  tali  tipi  ed  essi  ‐oh  temerità!‐  stimano  giusto  ricavare  un  guadagno  della  loro  disumanità,  come  se  si  vergognassero  di  essere  cattivi  gratis, e se la godono a spese della nostra ingenuità. E poi uno non si comprerebbe mai  una  spada  per  mettersela  sopra  la  testa,  né  ammetterebbe  in  casa  un  cane  rabbioso  dai  denti  aguzzi;  questi  tali,  invece,  noi  li  assoldiamo  di  buon  grado  contro  noi  stessi  e  ci  compriamo  a  caro  prezzo,  senz’avvedercene,  la  morte  in  casa.  Sono  state  stabilite,  poi,   leggi severe contro i ladri, ed è stata stabilita mano punitiva contro il saccheggiatore; e le  città non potrebbero essere chiamate ben governate altrimenti che con la punizione di chi  sbaglia. Costoro, tuttavia, che sono sia ladri sia malfattori ‐infatti depredano i corpi umani  e rubano il titolo di medici‐ vengono non solo rilasciati senza punizione, ma anche onorati  con quanti più benefici. E così il toro che uccide gli essere estranei al suo genere sembra  compiere un gesto crudele e illegittimo, mentre quelli che uccidono il proprio genere non  sono ancora considerati fuorilegge. Eppure quanto questo comportamento è più empio e  58 145 150 155 160 165 170 175 180 185 illegale  di  quello!  Ma  il  nostro  proprio  agire  sembra  oltrepassare  persino  l’insensibilità  spartana, perché andiamo spontaneamente incontro a quelli che non solo ci torturano, ma  anche  ci  fanno  morire;  e  supera  la  follia  dei  cinghiali,  allorquando,  portandosi  verso  il  ferro  sguainato,  vi  corrono  incontro  insieme.  «Sì»,  dice,  «ma  tu  accusi  ingiustamente  il  medico per una sola cattiva riuscita: nemmeno il calzolaio o il pentolaio o chi prende il  nome da una qualunque arte o scienza uno potrebbe ritenerli inetti, per quanto una sola  volta uno abbia cucito in orlo il sandalo e l’altro abbia piegato il bordo della pentola così a  caso; talora, infatti, nemmeno la natura ignora il grave errore e i volti umani nati da buoi  di Empedocle lo testimoniano, ma non esattamente per questo la natura è un architetto  ignorante».  Bisognava,  o  uomo,  che  anche  nella  medicina  tu  fossi  tale,  quale  sei  nelle  obiezioni contorte: avresti avuto persino una qualche scintilla d’arte. Occorreva, tuttavia,  che tu fossi sapiente e che non solo studiassi attentamente la filosofia di Empedocle, ma  anche conoscessi certi principi di quelli di Eraclito e questo per lo meno prima degli altri:  uno per me sono diecimila, dice il filosofo, cosicché anche se credi di aver offeso uno solo,  sappi nondimeno che ne hai offesi diecimila. La faccenda infatti non va provata più per la  quantità che per la qualità; e se i filosofi dicono che l’uomo è un grande cosmo in piccolo,  poiché uccidi gli uomini potremmo persino perseguirti per cosmicidio. Tralascio di dire  quante anzitempo all’Orco generose travolgesti alme d’eroi, tu novello necroforo, quante volte  colmasti di morti la navicella di Caronte e procurasti grane a Eaco, che faticava a tenere il  conto a causa della massa. Questo lo sanno le donne lasciate vedove, le madri depredate  dei  neonati,  quelle  private  in  altro  modo  di  familiari  e  affini».  «Bene;»,  risponde,  «ma  perché emani decreti sul nostro conto, novello legislatore? Soffriremo la fame e il freddo,  andremo in giro senza calzari d’inverno, perché noi non siamo esperti in nessun’altra arte  se  non  in  quella  che  chiami  arte  del  ladro».  O  ragionamenti,  o  apprendimento,  o  libri!  Questo empio continua a delirare in modo intollerabile! Chiami arte quella di uccidere gli  uomini, o stolido, e così chiamandola non arrossisci? Dimmi un po’: se un bramano o un  britanno o uno che beve le acque del Tigri o che si lava nelle acque del Nilo o che vive i  territori intorno al Bize e al Borbize venisse tra di noi e chiedesse il nome di ciascuna arte; e  se noi allora gli dicessimo che per noi una è quella di fabbricare statue, un’altra quella di  levigare la pietra –bisogna infatti tralasciare le arti retoriche e matematiche‐, una quella  edilizia, un’altra quella di conciar pelli, e le altre una è tale e l’altra è tale; e se alla fine  aggiungessimo  l’arte  di  uccidere  gli  uomini,  non  pensi  che  quest’uomo  brontolerebbe  davanti alla parola e se ne andrebbe deridendo tutta la costituzione del nostro stato? Così,  credo,  tu  pure  dovresti  convenire  con  il  ragionamento;  e  se  no,  sia  pure  come  tu  lo  preferiresti,  e  lo  straniero  se  ne  vada  lodando  tutte  le  arti.  Perché  allora  la  città  sarà  affamata dei propri cittadini, a condizione che voi colpevoli non moriate di fame? Possiate  morire voi malvagi in malo modo, voi che ci siete larghi da voi stessi di disgrazie e dolori,  e  poi  vi  sforzate  nell’altrui  disgrazie  di  guadagnarvi  dolori  personali:  a  ragione  anche  Platone vi confinò fuori del suo stato. Se dunque questo fu detto a pro tuo, o nobilissima  scienza medica dei corpi umani, e vostro, o luminari dell’arte, tu Callicle Nicola, anima  realmente dignitosissima e sapientissima in tutto, e tu Michele ottimo tra i Lizice, biasimo  dei non‐medici, gloria invece dei medici, sarebbe compito vostro provvedere a questo mio  debole corpo qui e a mio vantaggio stritolare questi rei.    59 Note al testo Lo stolto ovvero il sedicente maestro di scuola (148 H.) Tit.: dhvmio", nome di per sé già sprezzante nel suo accostamento a medico, può implicare un ulteriore gioco di parole con medico pagato a spese pubbliche, medico condotto (general practitioner, praktischer Arzt), professione presupposta dalle ll. 51 sgg. wJ" ajgaqou;" a[ra oiJ novmoi touvtou" tai`" povlesin ejpevsthsan khdemovna" e l. 137 ei\ta sitivzei tou;" toiouvtou" hJJ povli" ktl. In effetti, stando al Codex Theod. XIII 3, 8 e al Cod. Iust. X 53c, 9, si evince che da tempo antichissimo in Oriente i magistrati locali facevano eleggere dai cittadini medici pubblici. La diffidenza degli antichi verso i medici si ritrova anche nella letteratura latina arcaica: Cato Maior, De medicina ap. Plin. NH XXIX 14 iurarunt inter se barbaros necare omnes medicina, sed hoc ipsum mercede faciunt, ut fides iis sit et facile disperdant. Va inoltre ricordato che fino alle soglie del sec. XX alcune attività, oggi affidate a medici e tecnici specializzati, venivano espletate da mestieranti tuttofare, forti della sola esperienza manuale: il barbiere, detto anche cerusico, estraeva denti, praticava salassi e altre piccole operazioni chirurgiche; la conoscenza della teoria, d’altra parte, non era garanzia di miglior riuscita degli interventi, per ragioni facilmente intuibili che hanno a che fare con il progresso della medicina. Vd. anche Hippocrates: quae medicamenta non sanant, ferrum sanat; quae ferrum non sanat, ignis sanat (Schiller, Die Räuber, Exergo) La scarsa stima che Prodromo nutre nei confronti della corporazione dei medici riprende un topos già consueto nella Seconda Sofistica. Un contemporaneo di Luciano, invece, compara, secondo un modello stoico diffuso, la filosofia alla medicina, riconoscendo ad entrambe l’utilità nella cura dell’uomo, rispettivamente nella sua parte corporale e in quella spirituale: Marc. Aur. Ad se ipsum 3, 13 w{sper oiJ ijatroi; ajei; ta; o[rgana kai; sidhvria provceira e[cousi pro;" ta; aijfnivdia tw`n qerapeumavtwn, ou{tw ta; dovgmata su; e[toima e[ce pro;" to; ta; qei`a kai; ajnqrwvpina eijdevnai; cfr. anche Cic. Tusc. III 6 est profecto animi medicina philosophia. Già Platone, comunque, nei suoi paragoni tra filosofia e medicina, presupponeva che quest’ultima fosse utile. 7 eij e}n h\n oJ a[nqrwpo" ktl.: vd. Hippocr. De natura hominis II 10 sgg. (vol. VI Littré) ¹EgwÜ de/ fhmi, ei¹ eÁn hÅn o( aÃnqrwpoj, ou)de/pot' aÄn hÃlgeen· ou)de\ ga\r aÄn hÅn u(f' oÀtou a)lgh/seien eÁn e)w¯n· ei¹ d' ouÅn kaiì a)lgh/seien, a)na/gkh kaiì to\ i¹w¯menon eÁn eiånai· nuniì de\ polla/· polla\ ga/r e)stin e)n t%½ sw¯mati e)neo/nta, aÁ, o(ko/tan u(p' a)llh/lwn para\ fu/sin qermai¿nhtai¿ te kaiì yu/xhtai, kaiì chrai¿nhtai¿ te kaiì u(grai¿nhtai, nou/souj ti¿ktei· wÐste pollaiì me\n i¹de/ai tw½n noushma/twn, pollh\ de\ kaiì h( iãhsij au)te/wn e)sti¿n. La citazione letterale effettuata da Prodromo si limita alle parole da me poste tra virgolette; il resto è parafrasi, benché poco dopo ricompaia, forse per eco inconscio, la forma non contratta h[lgeen. 8 ejpimemyei`tai: questo e altri futuri dorici, ossia sigmatici e contratti nel contempo (ln. 64 katapraxei`tai; ln. 186 limwxei`tai) non sono noti dalla tradizione grammaticale attica; si tratta forse di forme analogicamente ricostruite da Prodromo, nella convinzione che conferiscano una patina atticizzante. In attico ricorrono soprattutto sette forme al medio di tale futuro, proprio dei verbi che possiedono anche il regolare futuro sigmatico (klausou`mai, neusou`mai, paixou`mai, pleusou`mai, pneusou`mai, rJeusou`mai, feuxou`mai); ma si trova anche in Omero (ejssei`tai, B 393), Aristofane (cesei`sqai, B Vesp. 941) e Teocrito (ba–seu`mai, B II 8); le iscrizioni in dorico, poi, testimoniano che i greci occidentali usarono pure la forma attiva. Psaltes 1913, pp. 216-217 §335 non segnala nulla a proposito di tale formazione analogica. cfr. Kühner e Schwzyer 12 oJpoi`o": vale un oi|o" (cfr. il celebre oi|o" tecnivth" ajpovllumai detto da Nerone, secondo la versione greca di Dio Cass. Hist. Rom. LXIII 29, 2 epitomata da Zònara). 14 pleovnwn: non va considerato necessariamente uno ionismo, benché s’incontri sovente in Omero ed Erodoto. 16-18 oiJ gavr toi Luvkioi Provkloi-duavdo": Lici Procli è un plurale generalizzante: persone come Proclo di Licia; altri plurali del genere in Sat. 149 H., 53 w\ pro;" tw`n Lukivwn sou Provklwn, ajpovkrinai (e 15-17 “Agamaiv sou...tou;" kalou;" Faivdrou" ejkeivnou", tou;" rJhvtora" ejkeivnou" Gorgiva", tou;" Qeaithvtou", tou;" ∆Axiovcou", tou;" loipou;" Plavtwna"); Sat. 147 H., 327 ta; uJpoduvskola tau`ta kai; deinw`" barbarika; ejxhgouvmeno" kavllion h] o{loi Provkloi tou;" ∆Alkibiavda" kai; tou;" Timaivou". Secondo che racconta Marin. Vita Procli l. 150 Masullo, Proclo nacque a Costantinopoli da genitori provenienti dalla Licia; onde per transitività fu detto anch’egli licio. Sui principi divini composti di fuoco, cfr. Iambl. De myster. VII 2; Procl. In Plat. Parm. VI 31 e Theol. Plat. IV 39; nonché più in generale la teoria eraclitea del fuoco come ajrchv (fr. 30 D.-K. ap. Clem. Strom. V 105 (vol. II 396, 10 Stählin; cfr. Plut. De animae procreatione in Timaeo V, 1014a ko/smon to/nde, to\n au)to\n a(pa/ntwn, ouÃte tij qew½n ouÃte a)nqrw¯pwn e)poi¿hsen, a)ll' hÅn a)eiì kaiì eÃstin kaiì eÃstai pu=r a)ei¿zwon, a(pto/menon me/tra kaiì a)posbennu/menon me/tra). Sui corpi sovrumani d’aria e di fuoco, cfr. Aristot. De mund. 60 398b 33 τὸ δὲ ἀέριον ἐξαρθὲν ἐκ γῆς μετάρσιον οἰχήσεται πετόμενον, μιᾶς τῆς πρώτης αἰτίας πᾶσιν ἀποδούσης τὴν οἰκείαν εὐμάρειαν; Psell. Or. for. et acta I 603 Dennis (I 249, 252 Kurtz-Drexl) τὰ δὲ αἰθέρια στερεώματα καὶ τὸν ἐκπύρινον νοῦν καὶ τὸν ἅπαξ ἐπέκεινα καὶ τὸν δυαδικὸν θεὸν καὶ ἀγνοῆσαι οἴομαι τοὺς ἄνωθεν τῆς εὐσεβείας μυσταγωγούς. Sulla diade, vd. Aristot. Metaph. 1081a, 14; Alex. Aphr. In Aristot. Metaph. 58, 12 Hayduck. Sui quattro elementi primordiali (fuoco, aria, acqua, terra), vd. la nota storia della filosofia presocratica in Aristot. Metaph. I (A mei`zon) 4-10. Per il gen. di materia (th`" loiph`"... duavdo") con il verbo “essere”, qui sottinteso, vd. LSJ s.v. eijmiv C II b. Diversi invece i quattro principi di Emped. fr. 6 D.-K. ap. Aët. I 3, 20 [A 33 I 289, 14]; Sext. X 315 τέσσαρα γὰρ πάντων ῥιζώματα πρῶτον ἄκουε·/ Ζεὺς ἀργὴς Ἥρη τε φερέσβιος ἠδ’ Ἀιδωνεύς/ Νῆστίς θ’, ἣ δακρύοις τέγγει κρούνωμα βρότειον. 19 oiJ kakodaivmone" daivmona": gioco di parole tra l’aggettivo (disgraziato) e il sostantivo (dèmoni, spiriti incorporei); ho cercato di renderlo con la parola diavolo (in it. povero diavolo significa per l’appunto povero sventurato). Nell’affermare, poi, che ciascuno si forma le immagini di dèmoni che più si confanno alla propria mente, si può ravvisare anche un’allusione al famoso fr. di Senofane (15 D.-K. ap. Clem. Alex. Str. II 400, 1 St. ἀλλ’ εἰ χεῖρας ἔχον βόες <ἵπποι τ’> ἠὲ λέοντες/ ἢ γράψαι χείρεσσι καὶ ἔργα τελεῖν ἅπερ ἄνδρες,/ ἵπποι μέν θ’ ἵπποισι βόες δέ τε βουσὶν ὁμοίας/ καί <κε> θεῶν ἰδέας ἔγραφον καὶ σώματ’ ἐποίουν/ τοιαῦθ’ οἷόν περ καὐτοὶ δέμας εἶχον <ἕκαστοι>. 21-22 filiwqevnta--povlemon: chiaro richiamo alla teoria di Empedocle, per cui il mondo si evolve nella continua alternanza di due principi, filiva e nei`ko" (qui povlemo"); per il verbo filiovw, cfr. anche Sat. 146 H., 274 eJautoi`" de; e{kasta filiou`n con comm. Oujk hjgnovhse è all’aoristo perché allude al tempo originario in cui si verificò il nei`ko". 26 tetraktuv": è termine pitagorico per indicare il numero quaternario, cioè il 10, formato dalla somma dei numeri 1, 2, 3 e 4; cfr. ps.-Pythag. Carmen aureum 47 Young (carme di tradizione diretta, conservato e.g. nel Vindob. philos.-philol. gr. 314, saec. X, e in parte indiretta); Luc. Laps. sal. [... Mcl.] 5; ps.-Luc. Philopatr. [... Mcl.] 12 mh; th;n tetraktu;n fh;" th;n Puqagovra h] th;n ojgdoavda kai; triakavda. 28 o{sa-e{rpei: parte dell’esametro R 447 πάντων, ὅσσά τε γαῖαν ἔπι πνείει τε καὶ ἕρπει (probabile interpolazione in s 131). La grafia separata di e[pi (anastrofe) gai`an degli edd. omerici sarebbe quasi certamente da ripristinare anche qui; ma Prodromo, ovvero lo scriba, ha confuso con, ovvero trovato in qualche ms. omerico, il verbo ejpipnevw, che tuttavia nel suo significato di soffio su è inadatto al contesto. 28-29 kai;-kubista/`: non è citazione di nessun verso in particolare (non vi si riconosce nemmeno un andamento metrico), ma può ricordare F 353-354 τείροντ’ ἐγχέλυές τε καὶ ἰχθύες οἳ κατὰ δίνας,/ οἳ κατὰ καλὰ ῥέεθρα κυβίστων ἔνθα καὶ ἔνθα. 29 a[ra: nonostante il non raro scambio di accenti in età medio- e tardo-bizantina, specialmente in parole omografe, escluderei che questo a[ra sia da emendare in a\ra interrogativo; per a[ra conclusivo all’inizio di frase e, in particolare, di apodosi, vd. già LSJ s.v. D, che cita passi neotestamentari (Mt. XII 28; Rom. X 17) ou{tw teravstiovn ti: sento la mancanza di una particella o congiunzione dopo ou{tw (cfr. in effetti poco sotto l. 38 ou{tw ga;r ajxiou`si) 35 wJ" sfai`ra meirakivwn paizovntwn: riecheggiato in Nic. Eug. (?), Anach. l. 88 εὐκαταφρόνητον γάρ με τιθεῖς καὶ σφαῖραν παιζόντων μειρακίων ἄντικρυς ἀποκαθιστᾷς. cfr. Ps. LXXX 7 du machst uns zum Spielball der Nachbarn (così la Einheitsübersetzung; non però i LXX, Ps. LXXIX 7 ἔθου ἡμᾶς εἰς ἀντιλογίαν τοῖς γείτοσιν ἡμῶν; Vulg. ibid. posuisti nos contentionem vicinis nostris; Lutero 1545, Ps. LXXX 6 du setzest uns unsern Nachbarn zum Zank; Nova Vulg. Ps. LXXX [LXXIX] posuisti nos in contradictionem vicinis nostris); 33 ejpicalazovw: sulla coniugazione in -ow di tal verbo, vd. Sat. 146 H., 54 katekalavzwsa". 34 ta; d∆ eij" th;n tuvchn: sulla sorte incolpata come causa delle malattie, vd. e.g. Plut. Mor. [de tranq. an.] 475e kai;; ga;r hJ tuvch duvnatai novsw/ peribalei``n. 39 tou`to to; mevro": è un accus. avverbiale, in una forma un po’ insolita, perché contente anche il dimostrativo, e significa pro virili parte, a loro volta. Negli autori di età classica o atticisti in genere la forma consueta è toujmo;n mevro", to; so;n mevro", to; ejkeivnou mevro" ecc. (per parte mia/tua/sua ecc., a mia/tua/sua ecc. volta), ma si può trovare anche l’ellittico to; mevro", come in Thuc. I 74, 3 xuneswvsamen uJma`" te to; mevro" kai; hJma`" aujtou;" e II 67, 2 o{pw" mh;... th;n ejkeivnou povlin to; mevro" blavywsin e Dem. Or. XIX [de falsa leg.] 82, 367, 5 ou{tw dievqhka" aujtou;", oi\mai, to; mevro" suv (to; ãkata; sautovnà Sgr iuxta app. Dilts). cfr. un’ed. crit. di Demosth. Quest’uso viene ripreso anche da Luc. Iupp. Trag. [21 Mcl.] 5 suneurivskete ga;r kai; aujtoi; to; mevro" trovate anche voi a vostra volta insieme con me la soluzione. 40 uJpo; th/` leonth/`--kruptavzonte": è la favola esopica n° CXCIX Hausrath-Hunger. Il termine o[gkhsi" è molto raro: Ael. Nat. anim. V 50 e 51; Ann. Corn. Nat. deor. XLI 11 Lang; Nic. Eug. (?) Anach. l. 63 61 Chrestides (all’interno di un passo che ricalca il nostro: τοὺς γὰρ ἄνευ τῶν σῶν βαθρωμάτων τῇ ἀκεστορικῇ καὶ μάλιστα προσαναβαίνοντας σιωπῶ, οἳ σκαπανεῖς τυχὸν ἢ σκυτοδέψαι τυγχάνοντες ἰατρικὴν στολὴν περιτίθενται τὸν τοῦ μύθου ὄνον ἀπομιμούμενοι καὶ ὑπὸ τῇ λεοντῇ τὰς ὀγκήσεις, ἡδύτερα δὲ περὶ ἀμίδων ἀπερευγόμενοι καὶ συνόλως εἰπεῖν ἡδεῖαν πολλὴν ἐνίοτε διατριβὴν παρεχόμενοι «taccio infatti quelli che senza i tuoi fondamenti crescono vie più di numero nell’arte guaritoria, i quali forse contadini o conciatori si ricingono della veste di medico, imitando l’asino della favoletta e i ragli sotto la pelle di leone, ma vomitando però più dolcemente intorno a pitali e insomma procurando talora un gran dolce passatempo»). 41 Povsou... oi[esqe lovgou ei\nai ajfhghqh`nai: lett. «di quanto discorso pensate che sia il raccontare?» con gen. di prezzo, costruito figuratamente; significa «quanto lungo credete che debba essere il mio discorso per raccontare fino in fondo le loro malefatte?». Fuori luogo le traduzioni di Podestà («quanto credete che sia giusto stimare costoro?») e Romano («quanto andrebbero stimati dei simili individui?»), che non han capito la costruzione e han creduto il verbo ajfhghqh`nai passivo. 42 sunelw;n eijpei`n: in attico è sunelovnti (g∆) eijpei`nÉfavnai (e.g. Xen. An. III 1, 38 ecc.; cfr. Kühner-Gerth I, p. 424 einem, der die Sache zusammenfasst; l’espressione ne fonde due insieme: wJ" eijpei`n e sunelovnti); qui al nom., come in Thuc. I 70, 9 e II 41, 1 xunelwvn; Luc. Phal. [... Mcl.] I 6 sunelovnte" ta; ejn mevsw/. 43 mageivrou" ajtevcnou": vengono tirati in ballo i cuochi e non altre categorie, per echeggiare la distinzione platonica tra esperienza culinaria, che non è arte, e arte medica: Plat. Gorg. 500 καὶ ἐτίθην τῶν μὲν περὶ τὰς ἡδονὰς τὴν μαγειρικὴν ἐμπειρίαν ἀλλὰ οὐ τέχνην, τῶν δὲ περὶ τὸ ἀγαθὸν τὴν ἰατρικὴν τέχνην (vd. già 464- 465, dove viene chiamata ojyopoiikhv, anziché mageirikhv) 45 ou{tw ga;r a]n kai; katergasqei`en tacuv: il verbo katergavzomai è medio-passivo e pass. al pf. negli autori classici; qui il passivo si estende anche ad altri tempi. 46 ejmfuvlion...povlemon: è concetto storico, abbastanza caro, tra gli altri, a Polibio (e.g. I 71, 6, 1 πόλεμον ἀναλαμβάνοντες ἐμφύλιον ecc.; ma cfr. già Aesch. Eum. 861-863 μήτ’.../ ἐν τοῖς ἐμοῖς ἀστοῖσιν ἱδρύσηις Ἄρη/ ἐμφύλιόν τε καὶ πρὸς ἀλλήλους θρασύν). 51 khdemovna": richiama ironicamente i custodi della città platonica (Resp. 412c) e non va tradotto con sanitari come fanno Pod.-Rom.; tutt’al più khdemwvn può significare patrono, come in Ar. Vesp. 731 ed e.g. in Mich. Ital. Orat. XV, p. 147 Gautier (cit. in Introduzione, p. 29, n. 4 supra). 52 oujk a]n fqavnoien--ajpokenou`nte": il costrutto oujk a]n fqavnoi"/-oite + part. pres., che più spesso esprime un ordine, serve qui invece a dare un’idea di futuro (vd. LSJ s.v. IV 2b, con esempi di autori da Demostene in poi); non del tutto corrette le tradd. di Podestà («non mancherebbero di ecc. ») e Romano («gente che non esiterebbe ecc.»). La forma di ottativo pres. fqavnoian (con inequivocabile compendio finale per -an ad alambicco in V, f. 56v, l. 20) anziché fqavnoien, non è testimoniata nelle edd. digitalizzate in TLG on-line; si può giustificare come confusione con la forma alternativa dell’ott. aor. (fqavsaien/fqavseian), indotta dall’identica pronuncia itacista del dittongo precedente la desinenza -eian /ian/ e -oien /ien/; non so se esista per altri verbi. 53 ajnoustevrou": sec. Podestà si tratta di un lapsus calami del copista, che nel suo archetipo avrebbe scambiato l’abbreviazione per -tavtou" con quella per -tevrou"; certo ciò non si può escludere, ma dire che le due desinenze siano paleograficamente «molto simili», mi par eccessivo. Oltretutto il comparativo in luogo di un superlativo è abbastanza bene attestato sin da Omero, autore ben presente alla mente di Prodromo (cfr. Kühner-Gerth I, p. 22, 3). kakopoiei`n deh`san: Podestà («e necessariamente sapienti nel far del male») e Romano («e certo sapienti nel far del male») non hanno capito la costruzione (vd. anche Sat. 147 H., 90-91 diskeuvein deh`san gumnastikwvtato"). 55 oujk ajdeh`-ajperiskovphton: l’agg. ajdehv" (< devo") significa che non ha paura, impavido, sicuro, che non teme (la pena) > impune; ma anche, con valore causativo, che non fa paura. Podestà coglie nel segno: «portano danno non certo irrisorio e non trascurabile» (Romano omette gli aggettivi: «non pochi malanni arrecano»); danni che non sono per nulla spaventosi possono essere definiti insignificanti o risibili. Un emendamento in ajdah` (< √daÛ danni non ignoranti > studiati) non è necessario. ∆Aperiskovphto" è registrato in Demetrakos come voce della Suida (ma TLG on-line non fornisce nemmeno la stringa) e degli autori medievali; vale come doppione di ajperivskepto" (non esaminato; sconsiderato) e ajperivskopo" (uguale al preced.). LBG s.v. (= nicht behütet) cita Zepos 1931, I, 304 [a. 1082]; (= unbedacht, unüberlegt) cita il nostro passo dall’ed. Podestà. 56 kata; cei`ra-kata; stovma kai; th;n logikh;n ajrethvn: sono complementi di relazione (per kata; cei`ra cfr. Plut. Philop. VII 9, 3 λαμπρὸς ἦν ὁ Φιλοποίμην, ὡς οὔτε κατὰ χεῖρα τῶν νέων τινὸς οὔτε συνέσει τῶν πρεσβυτέρων ἀπολειπόμενος). Temibile kata; stovma è chiaramente Prodromo, abile nell’arte retorica. 58 ejlepovlei": dall’epiteto eschileo (Ag. 687) derivò il nome della macchina da guerra inventata da Demetrio Poliorcete (Diod. Sic. XX 48; Plut. Demetr. XXI; cfr. anche ps.-Hippocr. Ep. XI 40 (l’epistolario spurio è sorto tra I a.C-II d.C.; vd. Smith 1990). 59-60 to; me;n ou\n ejmovn-oJ povlemo": le forme del verbo essere sottintese sono solitamente la terza sing. e plur. del presente indicativo; in casi più rari anche forme dell’imperfetto, come par esser qui (vd. KühnerGerth I, p. 41 n. 2 con esempi da e 477; Plat. Resp. 503a); si potrebbe anche sottintendere il presente con 62 valore di pres. storico? Bene Podestà: «quanto a me, forse le mie condizioni non erano tali, finché proprio per i denti anche per me fu la guerra con questi falsi medici» (idem Romano «io non ero poi in tali condizioni, finché questi sedicenti medici non portarono guerra ai miei denti»). Intendere la frase come interr. diretta («non è forse tale la mia situazione?») esigerebbe almeno una particella interrogativa d’introduzione diversa da i[sw", che solitamente è affermativa. Infine, ajniavtroi" mi par essere il dat. di svantaggio retto da povlemo", come se fosse polemivzw o mavcomai. ∆Anivatro" compare in Hipp. Praec. VII; Aristot. Phys. 191b, 6 (vd. anche Tgl s.v.). 61 ajll∆ w[ moi tiv pavqw: tipica imprecazione tragica, acconciamente seguita dall’eschileo ajlavstore". 61 uJpotrivzein tou;" ojdovnta": la iunctura, che esprime un sentimento di rabbia, compare in TLG on-line solo due volte: in un testo del IX sec. Methodius I Conf. et Patriar., Encomium et vita Theophanis (e cod. Mosq. synod. 159 Vlad.) XVIII 5 Spyridonov Ὁ δὲ γογγυσμῷ τοῦ ἀπιστεῖσθαι δόξειν ὑποτρίζων ὀδοῦσιν ἀπῄει καὶ δεύτερον ἀνοίξας καὶ θρασύτερον ὀργιζόμενος τὸ πρὸ μικροῦ φανὲν πάντη ἄπορον εὐθὺς νόμισμα φέρον εἶδεν, ὡς συσταλῆναι παρέκπληκτα ; e in uno del X sec. Vita sancti Pauli Junioris in monte Latro XI 8 Delehaye ὑποτρίζοντες τοὺς ὀδόντας. (uno dei versi emessi dai demòni che assalgono il santo penitente nel deserto). Il verbo uJpotrivzw, a significare un verso animalesco (stridere, cinguettare) è per giunta alquanto raro (9 occorrenze in TLG on-line, tra cui Ael. Nat. anim. VII 8, 32; Nonn. Dion. XI 219 e XXV 47); ma si rimandi almeno all’ uJpostigkrwvzw di Sat. 146 H., 175 infra. 63 biavzomai--a[munan: libera la trad. di Podestà «mi sento costretto a usar la lingua a difesa»; casuale quella di Romano «mi posso difendere solo con la lingua». 64 katapraxei`tai to; plh`ktron: per il fut. dor., vd. n. 8 supra. La lingua come plettro pare similitudine/metafora degli autori cristiani (una dozzina di volte in TLG on-line), e.g. Io. Chrys. In S. Romanum PG, L 611, 37 ajfaireqevnto" tou` plhvktrou, th`" glwvssh" levgw; Theod. Stud. Epigr. X 4 Speck kivnei dev sou th;n glw`ssan wJ" plhvktron fevrwn; interessante anche il confronto con la metafora dell’arco Nic. Chon. p. 24, 18 van Dieten e)n t%½ ta\ xei¿lh tei¿nein kata\ neura\n kaiì tou\j o)do/ntaj w¨seiì to/con diatiqe/nai ke/rasin a(rmozo/menon.. 65 a[gete dhv moi cei`re": cfr. le parole di Medea (Eur. Med. 1244) ἄγ’, ὦ τάλαινα χεὶρ ἐμή, λαβὲ ξίφος. 66 kata; to;n eijpovnta: è citazione a memoria Hippocr. De alimento XXIII ξύρροια μία, ξύμπνοια μία, ξυμπαθέα πάντα. La mia punteggiatura segue qui V, sicché miva precede solo xuvmpnoia. Kata; to;n eijpovnta, privo di nome comune o proprio, compare a partire da Origene, in riferimento a citazioni di detti di Cristo; poi molto frequente negli scrittori ecclesiastici, anche riferito ad altri parlanti. 68 h]-Mevlhto": oJ Mevlhto", cioè il figlio di Meles/Melete, fiume che scorre a Smirne, è Omero, come tramanda il Certamen Homeri et Hesiodi ll. 53, 75, 151 Allen e, fra gli altri, Suida s.v. ”Omhro" (o 251, 1); da non confondere con Mevlhto", -evtou, l’accusatore di Socrate (per il quale vd. Prodr. n° 143 H. Versi di lamento contro la Provvidenza 105-106 lhrei` Mevlito", kai; didavskei Swkravth":É kai; zh`/ Mevlito", kai; teleuta/` Swkravth"; qui V presenta inequivocabilmente la grafia itacista). Si sarebbe comunque atteso un oJ tou` Mevlhto". Lo h|/ di Podestà per il tràdito h[ è paleograficamente verosimile (vd. Introduzione, § Constitutio textus. 2) Accenti); l’uso del pronome relativo h|/ in qualità di congiunzione modale/comparativa resterebbe tuttavia di gran lunga inferiore in Prodromo rispetto a oi|on, wJ", w{sper. La congiunzione disgiuntiva h[, invece, sarebbe spiegabile così, senza grande cambiamento di significato, ma con minore consequenzialità sintattica: «io, Prodromo, invoco le mie mani -ovvero il figlio di Meleto le Muse». 68 ejpibwstrou`mai: regge l’accus. come nell’unica attestazione di Montanari 2004 (Theocr. XII 35, v.l. ejpibw`tai), ma qui al medio, forse per quella tendenza negli autori tardo-antichi a rendere deponenti verbi attivi. In V si nota bene che il dittongo ou è reso non con il tipico nesso intrecciato ( ), bensì per esteso, e che la u è ripassata sopra una precedente lettera, non intelligibile. 70 th`" buzantiva" tauvth" u{dra": Prodromo non fa trasparire mai elementi riconoscitivi della società del suo tempo; una delle poche allusioni, per altro vaghissime, che si concede è di chiamare alcuni suoi personaggi abitanti di Bisanzio: non usa il rJwmai`o" corrente, né il kwnstantinoupolivth", ma l’antico nome della città, a motivo del preziosismo ellenizzante. Altri passi: Sat. 147 H. Vendita..., (2 volte; la seconda è per i tempi antichi di Demostene); dial. phil 136 H. Senedemo 5 e 55 (a l. 32 il nome della città, Buzavntion). Su “bizantino”, vd. Introduzione, p. 19, n. 5; l’agg. compare anche in Sat. 147 H., 30 e 384 e nel dialogo filosofico 136 H. Senedemo, 5 e 55 (ll. 32 e 47 il nome della città). 70 palimfuh`: per l’emendamento, vd. Introduzione, § Constitutio textus. 6) Metaplasmi. L’immagine dell’Idra, tolta principalmente da Luc. Amor. [... Mcl.] 2, ricorre 5 volte in Niceta Coniata (Hist. p. 160, 322 e 334 van Dieten; Orat. VII, p. 59 van Dieten; Epist. VIII, p. 213 van Dieten). 71 tw/` ejmw/` sunevriqo" ÔHraklei`: nota la fatica dell’eroe panellenico, più volte ricorrente nella letteratura greca. Grammaticalmente, il dat. tw`/ ejmw/` ÔHraklei` potrebbe significare il presente discorso (Ippocrate, vieni in soccorso con i tuoi scritti al mio!); oppure, con piccolo emendamento (vd. app.), si avrebbe un testo forse più piano («o Ioleo-Ippocrate soccorri me Eracle-Prodromo»). 63 73 to; fivleri katablasfhmoivh tou` lovgou: costruito come katagignwvskw tiv tino" (non bene Podestà «biasimi l’aggressiva pugnacità del discorso» e Romano «muova rimprovero all’eccessiva mia aggressività verbale»). 74 e[nqen eJlw;n: la iunctura compare nel romanziere tardo-antico Caritone di Afrodisia (I 7, 6, 1; V 7, 10, 1; VIII 7, 9, 1), il quale a sua volta la tolse da Omero (q 500; x 74). 75 swmavtion: per il diminutivo con ugual valore del sostantivo di grado normale e ripetuto a l. 195, vd. Sat. 140 H., 67 cum adn. 77 khfalhvn... kolofw`na: sull’importanza della testa nel corpo si può rimandare, anche se la corrispondenza non è perfetta, all’apologo paolino di 1Cor XII 12 sgg. (il corpo mistico della Chiesa, di cui Cristo è il capo). 78 ajkrovpolin: per la testa come acropoli del corpo, tra i passi (una trentina, sec. TLG on-line) forse più presenti alla mente di Prodromo cito Long. De subl. XXXII; Plut. Quaest. conv. 647 c 10; Synes. Calvitii encomium XII 15 Terzaghi; Psell. Or. hag. Ia 334 Fisher; altri in Crisostomo; tra le riprese post-prodromee, interessante Nic. Eug. (?) Anach. l. 1295 Chrestides e sp. Nic. Chon. Hist. p. 38 van Dieten e Or. XII, p. 115 van Dieten, che ambo le volte se ne serve per descrivere un accesso di febbre). La metafora dell’acropoli utilizzata per il cuore, invece, è in Aristot. De part. an. III 5, 670a 25. 81 oJ tw`n ojdovntwn qriggov": la perifrasi riecheggia l’omerico e{rko" ojdovntwn (e.g. D 350) e ricorre solo (stando a TLG on-line) in ps.-Hippocr. Ep. XXIII 24 λαλιῆς μήτηρ γλῶσσα, ψυχῆς ἄγγελος, πυλωρεῦσα τὴν γεῦσιν, ὀχυροῖς ὀδόντων θριγκοῖσι πεφρούρηται (epistolario già cit. supra n. 61 eJlepovlei"). Qriggov" è forma tarda (da Strabone in poi) per qrigkov" (già in Omero), che è propriamente il corso superiore di pietre o mattoni in un muro di cinta (più o meno la merlatura medievale) e, per sineddoche, la cinta stessa. 82 ejpeisevfrhken: in V, f. 57v, l. 2 leggesi inequivocabilmente ejpeishvrhken; idem in Petit 1902b, p. 12, l. 188 (= W, f. 46r nescio lineam, per cui l’editore propone in app. la correzione ejpeisevfrhke di Kurtz; la lezione da Petit messa a testo ejpeisevrrhke, sic, è un errore di stampa ripreso dall’ed. di un excerptum del medesimo testo trascritto da Papadimitriou). Anche Maiuri 1908, p. 530, l. 22 (= V, f. 79v, ln. 5 accetta la stessa congettura per l’identico ejpeishvrhke (in realtà Maiuri scrive uJp- sia a testo -ovvero trascrivendo da V, che in effetti presenta una lettera ingannevolmente simile a un uJ-, ma a ben vedere priva del trema che porta invece l’uJpovplew" di tre ll. più sotto in V-; sia a pp. 519-520, dove si riferisce erroneamente con uJ- all’ ejpeishvrhken di Petit) e giustifica a p. 520 «evidentemente nell’archetipo di V e W, a cui aggiungerei M, il nesso efr era coartato a modo di hr». La spiegazione paleografica potrebbe anche quadrare; la congettura per giunta è ghiotta. La parola è cara a Euripide (come già qrigkov"; cfr. El. 1033 le/ktroij t' e)peise/frhke, kaiì nu/mfa du/o); vd. anche Xenoph. Cyr. IV 5, 14, 2; Hesych. e 1120, 1 e 3815, 1. La reggenza di ejpeisfrvew, tuttavia, è per lo più il dativo, non periv + acc. Un presunto composto ep-eis-aiJrevw invece non è attestato, né esiste eijs-airevw né ejp-aijrevw. 83 gomfivou": il fatto che qui si nominino distintamente i provsqioi (incisivi) e i molari (qui muvlh mola, macina -cfr. il napoletano mola = dente molare- anziché muvlo"; ajlhvqousai è partic. pres. da ajlhvqw = ajlevw macino) e l’etimologia gomfivo" < govmfo" (bullone, chiodo, cavicchio) potrebbero indurre a propendere per la traduzione canini (canine teeth, Eckzähne). Va tuttavia evidenziato come tale deduzione cozzi con il linguaggio medico, ove il termine tecnico per canino è kunovdou": cfr. Galen. De ossibus ad tirones, II 753 sg. Kühn (= p. 58 Garofalo, BL 2005). Da qui si evince che gomfivo" significa molare: ὀδόντες δ’ ἕξ καὶ δεκα ὑπάρχουσι καθ’ ἑκατέραν τὴν γένυν, ἔμπροσθεν μὲν τέσσαρες, οἱ τομεῖς ὀνομαζόμενοι, μονόρριζοι πάντες· ἐφεξῆς δὲ αὐτῶν ἑκατέρωθέν εἰσιν οἱ κυνόδοντες, μονόρριζοι καὶ αὐτοί· εἶθ’ οἱ γόμφιοι [sic] τούτων ἑξῆς ἑκατέρωθεν πέντε, τρίρριζοι μὲν οἱ ἐν τῇ ἄνω γένυϊ, δυοῖν δὲ ῥιζῶν οἱ ἐν τῇ κάτω. Cfr. anche Athen. X 1, 411 (= Eustath. In Iliad. 870, 10) ¹Epi¿xarmoj me\n e)n Bousi¿ridi le/gwn (p. 223 L = fr. 21 Kaibel = 18 K.-A.): prw½ton me\n aiã k' eÃsqont' iãdoij nin a)poqa/noij.É bre/mei me\n o( fa/rugc eÃndoq', a)rabeiÍ d' a( gna/qoj,É yofeiÍ d' o( gomfi¿oj, te/trige d' o( kuno/dwn,É si¿zei de\ taiÍj r(i¿nessi, kineiÍ d' ouÃata. 84 ejpinemhsavmeno": sec. Montanari 2004, aor. sigm. poetico per ejpeneimavmhn (vd. Eus. Caes. Vita Const. V 22, 2). 85 ∆Egw; me;n ou\n a[ntikru" tw/` kakw/` ejqanavtwn: mi ricorda Sapph. fr. 94 V. teqnavnhn d∆ ajdovlw" qevlw (ma ha trad. indir. oltre alla membrana Berolinensis?) L’avverbio a[ntikru" vale certamente, senza infingimenti; cfr. più avanti altre 2 volte; poi Satt. 144 H., 92; 146 H., 282; 147 H., 356; dialogo filosofico n° 135 H. Senedemo, 66; carme n°153 H. L’amicizia in esilio, 21 e 202). 86 wJ" oi|av ti" bou`": il riferimento è al mito di Io, raccontato e.g. nel Prometeo eschileo. dh`qen: vale forsooth (= non mi dire), onde l’ho tradotto con pensa un po’. 87 h\n de; ijdei`n-aujtoi`": cfr. Petr. Satyr. XLVII 2 nec medici se inveniunt. 90 puvreqron: le proprietà di questa pianta vd. RE 90 selhnaivan: “tirar giù la luna” è un detto... per la forma alternativa di selhvnh, vd. e.g. Ar. Nub. 614; Luc. Vit. auct. [... Mcl.] 6. 92 loidorivai: manca una particella connettiva, come pure dopo il tevlo" di ln. 94 e quello di ln. 126. 93 gevlwn: per quest’accus., vd. Sat. 146 H., 52 cum adn. 64 94 loipou;": malgrado la lezione ben leggibile di V loipovn, il tacito emendamento di Pod. (Rom.) è senz’altro sensato. 96 ojdovnta ponei`"… e[ktilon aujtovn: il detto rassomiglia a quello evangelico Mt V 29 eij de; oJ ojfqalmov" sou oJ dexio;" skandalivzei se, e[xele aujto;n kai; bavle ajpo; sou`... kai; eij dexiav sou cei;r skandalivzei se, e[kkoyon aujth;n kai; bavle ajpo; sou`. 97 ejph/vnei de; to; sunevdrion: cfr. A 22 e[nq∆ a[lloi me;n pavnte" ejpeufhvmhsan ∆Acaioiv. La parola sunevdrio" forse parodia il contesto del racconto della passione di Cristo, a cui Prodromo molto velatamente e senza blasfemia potrebbe alludere. 97 presbutikw/` ou{tw" ajnqrwvpw/: l’agg. è anche in Sat. 146 H., 179. 98 pollhvn tina th;n pei`ran suneilhcevnai-th/` polia`/: il verbo sullagcavnw compare e.g. in Plat. Politic. 266c ta)nqrw¯pinon h(mw½n aÀma ge/noj suneilhxo\j kaiì sundedramhko\j ge/nei t%½ tw½n oÃntwn gennaiota/t% kaiì aÀma eu)xeresta/t%. 99 to;n ouj bracu;n crovnon-tevcnh/: memoria del detto ippocratico (Aphor. IV 1, 1 Littré), citato anche in Sat. 147 H., 229. 100-101 Macavwn-Favlari"/: vengono nominati i due figli di Asclepio, Macaone e Podalirio (B 732), nonché due personaggi che anticipano la definizione di carnefice caratterizzante il cerusico: Echeto, re dell’Epiro, noto perché mutilava i suoi schiavi (s 85, 116; f 308); Falaride, tiranno di Agrigento, noto per la tortura del toro a cui ha dato il nome (cfr. tra le altre fonti il libello di Luciano Phalaris [1 Mcl.]). 106 dokou`n: che possa essere un errore di trascrizione del copista di V per un originario dokw`n, come postula la Podestà, è sensato; benché, infatti, la lezione ou di V mi paia sicura, se confrontata con il gou`n precedente, ci si potrebbe tuttavia sforzare di leggere w, se lo si confronta con l’ w di lakwnikh;n V, f. 58v, l. 18. Nondimeno, non escludo che dokou`n vada interpretato quale accusativo assoluto, analogico all’aoristo dovxan, il quale ultimo è più comune in attico; ipotesi da me preferita nella traduzione «visto che si decideva così», perché tradurre un ou{tw dokw`n «con questo pensiero» (così Pod. e pedissequamente Rom.) non mi pare meno strano. A meno che, infine, il dokou`n non nasconda un’errata decifrazione di un precedente dokei`n, inf. assol. (benché lo si trovi per lo più nella forma wJ" dokei`n ejmoiv ovvero wJ" ejmoi; dokei`n come io credo; dal punto di vista paleografico l’infinito è talora compendiato a guisa di due veloci ss allungate sopra l’ultima lettera espressa) . 103 th;n me;n hJlikivan--dienhnocwv": la stessa modalità espressiva e per giunta concernente un medico ricorre in Prodr. Epist. VI, PG CXXXIII, col. 1256a proseuvxane de; th;n novson kai; a[tecno" ijatrov", th;n me;n hJlikivan bracuv ti tw`n dhmokriteivwn ajtovmwn, h] tou` shmeivou tou` gewmetrikou` dienhnocwv". 107 ajdiastavtw/: l’aggettivo significa anzitutto continuato, non interrotto; poi senza dimensioni; non è rarissimo e compare da Filone Alessandrino in poi. 109 ta; me;n ou\n a[cri touvtwn: stesso connettivo in Sat. 144. H., 141. 110 crhvsate moi ojdovnta" eijpei`n: cfr. Charit. Aphrod. V 7, 10 crhvsatev moi ka]n eij" th;n divkhn Cairevan. 112-118: sono elencati sei diversi modi di predire il futuro vd. RE 114 korubantizovmenoi-Sabazivw/: Coribanti e Sabazio (= Bacco; cfr. e.g. Ar. Av. 875 sgg.) sono divinità barbare rispetto al pantheon ellenico, come appare anche in Luc. Deor. conc. [52 Mcl.] 9. La grafia di V Sabizivw/ può essere un lapsus calami dovuto ad assimilazione scrittoria regressiva dello i. 115 Klarivou: è epiteto di Apollo, venerato a Claro, santuario presso Colofone, sulla costa settentrionale del golfo di Efeso; l’epiteto è già in Call. Hymn. Apoll. [II] 70, Sch. Lyc. 1464, mentre le fonti letterarie che menzionano la sorgente da cui il sacerdote-profeta del dio beveva l’acqua che lo induceva al vaticinio sono, tra le altre, Sch. Apoll. Rhod. I 308, Anacreontea 11, Clem. Alex. Protr. 2, p. 10 P., Porphyr. Ad Aneb. III 33 (cfr. RE s.v., col. 549) 116 dia; th`" ejpi; tw`n stomivwn kaqevdra": l’ipotesi per cui la pizia s’inebriasse con emissioni sulfuree dal sottosuolo è già in Plutarco (De defectu oraculorum...); ma è stata smontata dagli scavi archeologici vd. NP e OCD 117 ajlfitomavntei": indovini che compivano i loro vaticini per mezzo della farina d’orzo (Iambl. Myst. III 17). 117 ejn Bragcivsi: discendenti di Branco, figlio di Apollo, appartenevano a una famiglia che svolgeva il servizio sacerdotale presso il tempio e l’oracolo di Apollo Didimo a Mileto (Hdt. I 46; Luc. Alex. [... Mcl.] 29). 118 fatnivwn: to; fatnivon è tecnicismo medico (cfr. Gal. II 754 Kühn). 65 121 ojye; gou`n kai; movli": alla fine dunque e a stento. 124 u{llo": animale ricordato in coppia con il porcellino in Pisid. Hexaem. 965-970, come uccisore dell’elefante. vd. ed. Gonnelli 1998 (già Hercher). va identificato con lo ijcneuvmwn, una specie di mangusta che mangia i serpenti anche velenosi, su cui vd. e.g. Physiol. XXVI; Plin. NH VIII, 35-36, 37 descrive il modo in cui l’icneumone sconfigge i serpenti, da lui detto simile a quello con cui ammazza i coccodrilli. Sul porcello che intimidisce l’elefante vd. anche Plut. De soll. anim. 32; Aelian. HA I 38; VIII 28; XVI 36. zwuvfion è diminutivo peregrino (vd. TLG on-line; attestazioni singole o doppie in vari autori, e.g. in Gal. VI 666; Athen. V 210c; Eustazio di Tessalonica 28 volte nei Commentaria). 125 ejlefantiai`on: forma alternativa dell’aggettivo ejlefavnteio", non attestata nei lessici da me consultati (LSJ, Tgl, Demetrakos, Kriaras, Sophocles, Lampe), né in TLG on-line. 126 tevlo" puknav": l’assenza di una particella connettiva (e.g. dev) si può forse tollerare sul confronto di ln. 94 tevlo" qrasuv". Stevgw nel senso di resistere è uso ellenistico e della koinhv (vd. LSJ s.v.). 128 potamhdo;n: avverbio in -do;n come klimakhdovn in Sat. 144 H., 121. 129 pistou`tai muvqou": il medio con valore att. in Sat. 144 H, 146 pistwvsetai tou[noma. 129 tou;" oJmwnuvmou" potamou;" ejk tw`n sarkw`n ajporreuvsanta: il participio con valore causativo (ovvero con acc. dell’ogg. interno potamouv") costituisce la soluzione più economica di decifrare il compendio di V; un ajporreuvsasqai (con formazione di un’ oggettiva epesegetica: e cioè che i fiumi che da lui presero il nome cominciarono a scorrere dalle sue carni) è paleograficamente meno verisimile, ma sintatticamente non impossibile. Senz’altro leggere solo l’apparente ajpovrreusta riesce più difficilmente esplicabile (lettura non raccomandabile, anche perché s e t non sono in neso, onde vanno lette separate). 131 makelleiva/: in LSJ attestato makellei`on; LBG s.v. Gemetzel con cit. del solo nostro passo. 131 kakovn--”Omhro": cfr. P 111. 135 kathrghvqh: il verbo katargevw è di uso per lo più neotestamentario (cfr. LSJ s.v.; di leggi abrogate dicesi in NT Gal. III 17). La legge del taglione a cui si allude è espressa in LXX Ex. XXI 4 136 nu`n de; ajlla;: per questo sintagma connettivo non usuale, cfr. Prodr. Monod. n° 83 H., ed. Majuri 1908, p. 531; ed Eustat. De capta Thessalonica, 120, 3-5 nu`n de; ajlla; mikrou` devon oiJ pleivou" toi`" tw`n luvkwn ktl. Sukivnh ejpikouriva, per indicare un aiuto inutile, è in Hesych. Lex. s.v. suvkino"; ma cfr. l’aggettivo nel significato di inutile già in Theocr. X 45. 139 th`"--katatrufw`si: il gen. potrebbe essere di prezzo o causale; il verbo è ellenistico (VT Ps. XXXVI 4, e 11). 140 spavqhn: riprende il mito della spada di Damocle (diverso invece quello citato nella Sat. 144 H., 40 ka]n hJ diomhvdeio" ajnavgkh moi ejpikevoito xivfei to; metavfrenon plhttomevnw/. Il cane rabbioso dai denti aguzzi potrebbe essere Cerbero; ma non necessariamente. 147 o{ti pollav: cfr. Sat. 147 H., 9 cum adn. o{ti polloiv. 148 oJ me;n tau`ro" xenoktonw`n: riferimento probabile al mito del minotauro? Poco più avanti un cenno “etologico” sui cinghiali, tratto da... Multe inflitte ad animale che uccida o ferisca un uomo sono in Plat. Leg. Il verbo xenoktonevw è relativamente raro: Tgl s.v. hospites occido, eadem forma qua dicuntur quum alia, tum ajnqrwpoktonw`, Eur. Hec. 1247; Diod. IV 18; Athen XII, p. 516b; Luc. Dial. deor. III 1, 18. Podestà-Romano, però, traducono il verbo nel senso di “uccidere un essere non simile a sé stesso”, significato non attestato ma deducibile, se si contrappone la prima parte del verbo xeno- a quella del successivo oijkeio-. LBG non ha il lemma. 149 oijkeioktonou`nte": la lieve correzione degli edd. mi pare palmare e doverosa (ché altrimenti la radice kten- rimanda a un qui inopportuno kteiv"). Il verbo, di comprensibile formazione, è attestato secondo LBG (= die eigene Art töten) qui e in Nic. Eug. (?) Anach. 375 157 dielovxwse: LSJ registra il verbo semplice loxeuvw come variante tardo-antica (Liban. Descr. XXX 18) di loxovw e il composto dialoxeuvw (Liban. Descr. XXX 16), a sua volta verbo della retorica tarda. 158 bougenh`-ajndrovprw/ra: cfr. Emped. frr. 60-62 D.-K. (tramandato, tra i primi, da Aristot. Phys. 198b 32). 66 164 ei|" ga;r ejmoi; murivoi: cfr. un simile accenno in Amicitia exulans 153 H., 41-42 kai; ta;" tosauvta" tw`n a[nw muriavda"É eij" e}n sunavptw kai; mivan seira;n plevkw. Cfr. Heracl. test. I 99-103 D.-K. [Anth. P. VII 128]: ¸Hra/kleitoj e)gw¯: ti¿ m' aÃnw ka/tw eÀlket' aÃmousoi;É ou)x u(miÍn e)po/noun, toiÍj d' eÃm' e)pistame/noij.É eiâj e)moiì aÃnqrwpoj trismu/rioi, oi¸ d' a)na/riqmoiÉ ou)dei¿j. tau=t' au)dw½ kaiì para\ Fersefo/nhi; fr. 49 D.-K. ap. Gal. De dign. puls. VIII 773 Kühn [cfr. Symm. Ep. IX 115, Theod. Prodr. Ep. p. 20: cuius editionis? Lazeri?] . Vd. anche fr. 10 D.-K. [Arist.] De mundo V 396b 7 to\ para\ tw½i skoteinw½i lego/menon ¸Hraklei¿twi: <2suna/yiej oÀla kaiì ou)x oÀla, sumfero/menon diafero/ menon, suna=idon dia=idon, kaiì e)k pa/ntwn eÁn kaiì e)c e(no\j pa/nta>. 172 ka]n kosmoktoniva" se diwkavqoimen ajnqrwpoktonou`nta: qui come altrove il ka[n è nella apodosi, onde non significa anche se. Kosmoktoniva è neoconiazione prodromea (vd. LBG s.v. = Tötung der Welt, con cit. del solo nostro passo prodromeo), benché in Pisid. Exam. 1821 compaia già kosmoktovno". 168 yuca;" a[i>di provi>aya": cfr. A 3, onde ho tradotto echeggiando la classica traduzione italiana di V. Monti. 169-170 Cavrwno"-Aijakw/`: Caronte è citato in Sat. 147 H., 66; Eaco in Sat. 146 H., 116. Il verbo duslogistevw (non -ovw, come afferma Podestà) significa giusta LBG beim Berechnen Mühe haben (cit. il nostro passo soltanto). 170 oi[dasi: pro i[sasi nei codd. di Hdt. II 43 e Xen. Oec. XX 14. 173 ajnupovdetoi: la grafia con e, anziché h, ricorre in mss. e iscrr., ma è stigmatizzata dall’atticista Frinico 409 (PS p. 27B). 175 melagcola/`: lo stesso verbo anche in Sat. 147 H., 356; 149 H., 27 e carme 153 H. Amicita exulans, 21. vd. già Ar. Av. 14, Pl. 12, 366, 903; Plat. Phaedr. 268e. 175 ajpofwvlie: compare da e 182 in avanti. 177 Bracmavn: i bramini sono sacerdoti indiani (cfr. Dio Chrys. XLIX 7; Luc. Fug. [... Mcl.] 6; Diod. Sic. XVII 102; Strab. XV 712 sgg.; Philostr. Vita Apoll. I 18); al singolare la parola ricorre in Nonn. Dion. XXXIX 358. Insieme con i britanni a settentrione, i mesopotamici che vivono lungo il Tigri (cit. e.g. da Hdt. VI 20), gli egiziani lungo il Nilo e gli abitanti ta; peri; to;n Buvzhn kai; to;n Bopbuvzhn, i bramini possono indicare popoli periferici del mondo allora conosciuto (nel XII sec. di Prodromo non si riscontrano rilevanti progressi geografici rispetto all’età tardo-antica), ovvero non civilizzati (per lo meno non tanto quanto i greci). Ciò richiama il mito del non civilizzato Anacarsi (vd. Plut. Conv. VII sap. e Luc. Anach.). L’inequivocabile articolo maschile davanti a Buvzhn e Borbuvzhn fa pensare, piuttosto che a un errore per thvn, a nomi della prima in h, Buvzh" e Borbuvzh"; cosa indichino, però, se etnonimi o toponimi, è arduo definirlo. RE, Tgl e Pape-Benseler non forniscono i lemmi (in RE esistono un Buvza", eroe eponimo di Bisanzio, e una Buvzh ap. Anton. Lib. 40; in Pape-Benseler esiste una Bovruza, città persiana sul Ponto, Hecat. fr. 1a, 1, F166 ap. Herodn. Pros. cath. III 1, 251). 177 louovmeno" tou` Neivlou: louvesqai con gen. è costrutto omerico (cfr. e.g. E 5 ajsthvr... leloumevno" ∆Wkeanoi`o). 182 ejpimuvxanta: verbo iliadico (D 20, Q 457). 183 katacagkavsanta: katakagcavzw ha attestazioni in Agath. in AP V 216, 6 e Suid. s.v. ajnateinavmeno". 186 ejf∆ w|/ mh; tou;" ajlithrivou" uJma`" limwvxesqai limwxei`tai tw`n eJauth`" politw`n: il verbo limwvssw è generalmente intr. (LSJ “to be famished, to be hungry”); di conseguenza se la prima delle due qui presenti occorrenze è intransitiva (affinché voi non moriate di fame), ci si attenderebbe che anche la seconda lo sia. La traduzione di Podestà (affamerà i suoi cittadini) e Romano (deve ridurre alla fame i suoi cittadini), che solo apparentemente è logica, in realtà non rende conto del genitivo tw`n eJauth`" politw`n, che è piuttosto modellato sul gen. part. di ejsqivw “essere affamato di”; cfr. Tgl s.v. con esempio di Theoph. Sim. Epist. X 13- 14 Zanetto lusitelw`" limwttei` crusou` to; ajnqrwvpinon gevno", Swsivpatre (esurire aurum). Oscillo tuttavia tra il significato “la città avrà fame dei propri cittadini”, ossia “divorerà i propri cittadini”, e “la città morirà di fame per mancanza di cittadini”. limwxei`tai fut. dor., vd. n. 8 supra. ejf∆ w|/ mhv... limwvxesqai è costrutto consecutivo espresso all’accus. + inf. con negaz. mhv secondo la regola; cfr. Hdt. I 22, 4 meta; de; h{ te diallaghv sfi ejgevneto ejp∆ w|/ te xeivnou" ajllhvloisi ei\nai kai; xummavcou". 187 wJ" ajpovloisqe a[ra kakoi; kakw`": cfr. Sat. I v. 83 fqavrhqi kakw`" tw`n kakw`n hJ kakivwn. 188 ejx eJautw`n hJmi`n carizovmenoi: interpreto ejx eJautw`n come un ejx uJmw`n aujtw`n ossia compl. di moto da luogo fig. (a partire da voi stessi, spontaneamente, ajpo; tou` aujtomavtou, ejkousivw", ultro); non credo che vada riferito a sumforav" e luvpa". 188 ejn ajllotrivh/si–diateinovmenoi: citazione quasi totalmente letterale da Hipp. Flat. VI 90 (§ I 2) Littré, ricorrente anche in Sat. 147 H., 212 ejn ajllotrivh/si sumforh`/sin ijdiva" karpou`mai luvpa" (q. v.). 67 La traduzione di Littré suona «et dans les malheurs d’autrui son coeur est blessé de chagrins particuliers»; in tal modo il senso di karpou`mai è guadagnarsi, vale a dire un male per contatto con i mali altrui: una sorta di sumpavqeia, come risulta chiaro sia dal passo di Ippocrate, sia dal contesto di Sat. 147 cit.. Vanno dunque escluse le traduzioni traggo profitto da dolori personali (così Podestà tendendo a far fruttare i vostri mali nelle disgrazie altrui; Romano per sfruttare i vostri mali sulle spalle degli altri) oppure godo di dolori personali (così Montanari 2004 s.v. karpou`mai); colgono nel segno invece Malato-Marsili Feliciangeli 1962 ad Sat. 147 cit. 189 dikaivw"-ejxwvrisen: riferimento a Plat. 192 Kallivklei" Nikovlae: Nicola Callicle era archiatra e professore di medicina reputato, nonché epigrammista, alla corte di Alessio I, come racconta Anna Comn. Alex. XV 11 (vd. Romano 1980). In occasione della malattia mortale che colpì l’imperatore, Callicle rimase in minoranza rispetto agli altri medici nel dare consigli di cura più sensati ed efficaci. Viene citato anche in Ptochopr. Carm. III 415. 193 Lizivkwn a[riste Micahvl: i Lizice dovevano essere una stirpe che aveva dato i natali a diversi personaggi eminenti. Michele era medico e amico di Prodromo, ma non va identificato con il Lizice retore destinatario di due epistole prodromee (vd. Introduzione, p. 16, n. 1 «Gautier 1972, p. 51»); a detta di Gautier 1972, p. 51, è più probabile l’identificazione di questo medico Michele Lizice con il medico eunuco Michele che assistette l’imperatore insieme con Callicle (Ann. Comn. Alex. XV 11 lo menziona per terzo; i mss. tramandano purtroppo il patronimico in lacuna treiÍj me\n ga\r hÅsan oi¸ korufaiÍoi tw½n i¹atrw½n, oÀ te u(perfuh\j Niko/laoj o( Kalliklh=j kai¿ tij eÀteroj Mixah\l o( Pantexˆnh\j‰ e)k ge/nouj th\n e)pwnumi¿an laxwÜn kaiì o( .....libo\j Mixah\l o( e)ktomi¿aj. vd. anche ed. Reinsch). 195 kaiv moi tou;" ajlithrivou" touvtou" sunepitrivbein: il moi è semplice dat. commodi, non il corrispettivo di uJmevteron (ci vorrebbe un ejmovn; vd. l’errata trad. di Podestà-Romano “e mio [sc. compito] bollare questi malvagi”). Sunepitrivbw compare in Xen. Anab. V 8, 30. Per swmavtion vd. l. 75. 68 Theodori Prodromi1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 textus V1 (149 H.) Filoplavtwn h] skutodevyh"2 V, f. 53v Ei\en, w\ pai` ∆Arivstwno", kalo;" me;n ei\ kai; sofo;" kai; pro;" a{pasan mou`san kai; a{pan ei\do" sofiva" tw`n o{ti mavlista deinw`n kai; peridexivwn: novmou" gravfei", povlei" oijkivzei", hjqikeuvh/, fusikeuvh/, qeologei`" kai; ajrivstw" a{panta: mou`sa tugcavnei" toi`" mousikoi`" kai; fqovggo" aJJrmoniwvtato", prwvth toi`" ajriqmou`si monav", h{lio" toi`" ajstronomou`sin, eujqei`a toi`" gewmetrou`si grammhv, kai; sunovlw" toi`" ajmf∆ eJkavsthn ejpisthvmhn tw`n peri; eJkavsthn to; kavlliston: Plavtwno" ta; e[ph, Plavtwno" oiJ diavlogoi, Plavtwno" hJJ pa`sa dih/rhmevnw" rJhtorikh; kai; hJ pa`sa au\qi" filosofiva kai; hJ filovsofo" sunhmmevnw" rJhtorikhv kai; hJ rJhvtwr filosofiva. “Agamaiv sou to;n peri; yuch`" Faivdwna3 , kataplhvttomaiv sou to;n peri; fuvsew" Tivmaion, tou;" kalou;" Faivdrou" ejkeivnou", tou;" rJhvtora" ejkeivnou" Gorgiva", tou;" Qeaithvtou", tou;" ∆Axiovcou", tou;" loipou;" Plavtwna". Peri;; me;n ou\n tau`ta kai; ta; toiau`ta dexio;" ei\ kai; dexiwvtatov" ge aJpavntwn, w\ ∆Aqhnai`e xevne: ouj mh;n kai; gnw`sin ejmpnevein e[lace" toi`" ejk prwvth", o{ fasin, ajfethriva" pelavsasiv sou tai`" bivbloi", ka]n eij livqo" tuvcoien o[nte"... Melpomevnhn me;n ga;r kai; Kalliovphn kai; Teryicovrhn hJmei`" te ajkouvomen kai; su; peplouvthka" mou`san kai; o{sa a[lla tw`n ojnomavtwn th;n ejnneavda touvtwn sunapartivzei. Dekavth" dev tino" mouvsh" ejmpneusilovgou oujq∆ hJmei`" pote ajkhkovamen o[noma ou[te cavrin Plavtwn ejplouvthse: pw`" ga;r th`" ⁄ mhvte ou[sh" mhvte gegenhmevnh"… Ei\ta i{na se, Plavtwn, V, f. 54r paralipwvn ejpi; to;n uJbristhvn sou th`" bivblou travpwmai, kai; pro;" aujto;n ajpotenou`mai to;n lovgon. Ouj parapaivei" eu\ mavla oujde; melagcola/`", ajnqrwvpwn aJpavntwn talaiporwvtato", eij4 pantavpasin ajmelethvtw" e[cwn mh;; o{ti ge th`" kata; Plavtwna favnai filosofiva" äi{na mhv soi kajgw; sumparaferoivmhn toiau`ta lhrw`n ä, ajlla; kai; th`" kata; prosw/divan5 aujth`" ajnagnwvsew" kai; oujde; tauvth" th`" ejntribh`", e[peita to; platwniko;n ajnaptuvssei" biblivon kai; tou`to kata; kefalh`", nh; to;n oujranovn, kai; kaqizavnei" ejpi; tou` govnato" kai; to;n ph`cun ejpereivdh/6 th/` pareia/` kai; pantoivw" to;n ajnagignwvskonta schmativzh/7 , oi|" te uJpoyhvllei"8 tw; ceivlh kai; oi|" ta; blevfara xugcala`/" kai; e[oikav" ge ãaujtoi`"à toi`" ijdiwvmasi9 o{lon ajpotrwvgein to;n Plavtwna…10 Ka[n ti" prosiw;;n e[roitov se ããTiv" pote, w\ fivle eJtai`re, ajna; cei`ra" soi bivblo" platwnikhv…ÃÃ, eu\ oi\d∆ o{ti ajpokrinh/`: eij de; kai; prosqei;" ããajgaqh/` tuvch/Ãà ejpevroito ããperi; o} dev soi, w\ a[nqrwpe, tw`n platwnikw`n hJ parou`sa th`" ajnagnwvsew" provqesi"…ÃÃ, phvlino" eJsthvxh/ pro;" th;n ejrwvthsin ajndriav". ∆Alla; su; mevn, w\gaqev, tavca a]n kai; ejpitimhvsh/"11 tw/` Plavtwni e[stin ou| th`" grafh`" kai; wJ" krei`tton12 ou{tw" h] ejkeivnw" ejxenhnevcqai th;n levxin ejrei`", h[ pou kai; ajpoxevsei" me;n ta; ejkeivnou dh`qen aJmarthvmata, ajnteggravyei"13 de; ta; uJpov sou tw/` biblivw/ kainourghvmata. Kai; tau`q∆ uJpotlaivh a]n paqw;n parav sou oJ 1 Test.: V (v, o). Edd.: Podestà 1947, pp. 4-10 (ex codd. V et o). Vers.: ital. Podestà l. l., Romano 1999, pp. 327-335. 2 tou` aujtou` f. h] s. V (in mg. sn numerus appictus iq—, i. e. XIX omnium in hoc codice Prodromi contentorum operum) 3 faivdwna V: faivdona perperam Pod. (Rom.) 4 ei[per vel h[ coniecerim 5 prosw/divan V: prosw/diva" breviato male intellecto Pod. (Rom.) 6 ejpereivdh/ V: ejpereivdei" perperam Pod. (Rom.) 7 schmativzh/ V: schmativzei" perperam Pod. (Rom.) 8 uJpoyhvllei" V: ujpoyevllei" perperam Pod. (Rom.) 9 ante toi`" adiectivum ãaujtoi`"à addere possis, cl. aujtoi`" ijstivoi" ln. 76 10 interrogationis signum posui 11 ejpitimhvsh/" V: ejpitimhvvsei" coniecerim: ejpitimhvseia" Pod. (Rom.) 12 hic partuculam a[n addere possis 13 ajnteggravyei" V: ajntigravyei" perperam Pod. (Rom.) 69 tou` ∆Arivstwno" ejkei`no", oJ ∆Aqhnai`o", to; au[chma th`" presbutevra" ∆Akadhmiva", dikaivw"… 43 44 45 46 47 48 49 50 51 52 53 54 55 56 57 58 59 60 61 62 63 64 65 66 67 68 69 70 71 72 73 74 75 76 77 78 79 80 81 82 83 84 85 86 87 14 Tiv ga;r ajnohvtoi" ou{tw cersiv kai; to;; o{lon favnai makellikai`" ejmpesei`sqai hjnevsceto… ÔHmei`" de; oujc ou{tw koruvzh" ajrcaiva" ta;" rJi`na" ajnapeplhvsmeqa15 kai; th`" ajpomuttouvsh" kat∆ aujto;n ejkei`non favnai deovmeqa tivtqh", w{ste o[non me;n eij i[doimen th;n ∆Orfevw" ejpisesagmevnon luvran, h] to;n Timoqevou aujlovn, mh; a[n pote to;n o[non ∆Orfeva h] Timovqeon ei\nai uJpeilhfevnai, o}n mh; o{ti pro;" luvran a/[dein, ajlla; kai; luvran o{lw" ajkouvein tw`n ajmhcavnwn th/` paroimiva/ dokei`: se; de; to;n kumai`on o[non h] kanqhvliovn ge hJmivonon, ⁄ V, f. 54v oJphnivka tw`n platwnikw`n ti deltivwn ejpisacqeivh", kai; to; th`" filosofiva" eujqu;" sunepisavttein ajxivwma. Scolh/` a]n ejgw; triwbovlou priaivmhn toiouvtoi" katorqoumevnhn filosofivan. ∆All∆ e[rwmaiv se, w\ qeolovge, kaiv moi, w\ pro;" tw`n Lukivwn sou Provklwn, ajpovkrinai: tiv potev soi a[ra kai; bouvletai to; katevcein kata; kefalh`"16 to; biblivon, kai; o{ fasi ta; a[nw kavtw poiei`n… Povteron ouj sautw/` ma`llon h] tw/` ejxenantivon17 soi kaqizhmevnw/ peripoih`/18 th;n ajnavgnwsin… ‘H to; kai; soi;19 to;n ejgkevfalon katestravfqai kai; ejn ptevrnai" ei\nai, kata; to;n Paianieva20 , pepathmevnon ejnteu`qen ejxainivttesqai qevlei"… ‘H touvtwn21 me;n oujd∆ oJpovteron, sofwvteron dev ti paremfaivnei" tw/` schvmati kai; komyovteron… Poi`on dh; tou`to to; pro;" eJauta; sunestravfqai dhlonovti ta; kata; Plavtwna th/` pro;" to;n nou`n oijkeiwvsei kai; to;n qeovn h] kai; a[llw" th;n touvtwn gnw`sin poikivlhn ei\nai kai; oi|on sunestrammevnhn th/` perinoiva/… ∆Alla; tou`to me;;n ou[te ejstivn –aJJplou`" ga;r oJ mu`qo" e[fu th`" ajlhqeiva", eij kai;22 poikivlw" eij" tou`ton feroivmeqa a[nqrwpoi– ou[te su; kata; nou`n ejbavlou23 potev: sofwvteron ga;r h]24 kata; se; to; ejnnovhma, to; de; pra`gma pavntw" ajgnoiva" aJJmavrthma kai; ouj trovpo" oijkonomiva". Ei\don ejgwv pote kai; lucnivthn, livqon kalovn te kai; mevgan, mukth`ri coivrou paraiwrouvmenon kai; ejn daktuvlw/ piqhvkou sfendovnhn crush`n kai; porfuvran peri; sw`ma galh`" kai; ijdw;n h{sqhn te ejpieikw`" tw/` qeavmati kai; kapuro;n oi|on ejxegevlasa pro;" th;n o[yin. “Ecei" ta;" eijkovna", oJ krivqino" Praxitevlh", ejpivgnwqi to; prwtovtupon: e[cei" tou;" o{rou" oJ Phloplavtwn, ejpivqe" aujto;;" to; sumpevrasma. «H ga;r ouj geloi`o" ei\ kai; pavnu geloi`o", a[nqrwpo" gewrgo;" me;n h] nautikov" ajpov te tou` proswvpou kai; th`" a[llh" morfh`" kai; pavnta ta[lla polu; provteron eijkazovmeno" ei\nai h] lovgou mevtoco", th;n me;n skapavnhn ajpoteqeimevno" kai; th;n sminnuvhn, uJpe;r kapnou` de; th;n kwvphn kai; to; phdavlion qevmeno" ejnantivw", h] kaq∆ ÔHsivodon tovn te e{lika bou`n kai; th;n ajmfievlissan nau`n zeuvglai" aujtai`" kai; aujtoi`" ⁄ iJstivoi" perifronhvsa", meta; mevntoi tou` blautivou V, f. 55r filosofw`n kai; Plavtwna" o{lou" katapivnein ejpiceirw`n kai; ajnti; tou` gewponei`n oujranopolw`n25 … ããNaivÃÃ, fhsin, ããajlla; kai; Diogevnh" oJ kuvwn ejx ajrguramoibikh`" eij" filosofivan metevpese kai; oujk ejblasfhmhvqh para; tou`to h] ejqaumavsqh: oi|on ga;r ludiva/ tw/` logismw/` caravgmata paraxevsa" ejkatevrou" tou;" bivou", ejpei; kivbdhlovn ge ei\den o[nta kai; molibou`n to;n ajrguramoibiko;n, wJ" ejpi; cruvseon to;n filovsofon metephvdhseÃÃ. Kalovn sou, w\ filovth", to; ejpiceivrhma, kai; ouj pantavpasi nautiko;n oujde; a[krw" qunnw`de", kata; to;n Suvron eijpei`n rJhvtora, plh;n ajlla; tou`to oujk h/[sqou, devon aijsqevsqai ge pro; tw`n a[llwn, o{ti Diogevnei me;n hJ fuvsi" ka]n mevsh/ th/` ajrguramoibikh/` filovsofo" h\n: soi; de; kai; ejn mevsoi" biblivoi" ajgorai`a kai; bavnauso". “Epeita kai; Diogevnh" me;n oujk eujqu;" ejk th`" ajgora`" tw/` qeologei`n ejpeceivrhsen: h[/dei ga;r mh; ajpocrw`n ei\nai to; bouvlesqai movnon ejn toi`" ge 14 ∆Akadhmiva"… ãPw`"à dikaivw"… addere et interpungere velit D’Alessandro 15 rJi`na" ajnapeplhvsmeqa V: rJivna" ajnapeplhkavmeqa perperam Pod. (Rom.) 16 kefalh`" V (utputo): kefalhvn Pod. (Rom.) 17 ejxenantivon V: ejx ejnantivou Pod. (Rom.) 18 peripoih/` V: peripoiei`" perperam Pod. (Rom.) 19 kaiv soi; (sic) V: kaiv soi possis 20 paianieva V: paianeva perperam Pod. (Rom.) 21 touvtwn Vpc supra lineam, Pod. (Rom.): tou`ton Vac 22 eij kai; V: kai; tantum Pod. (Rom.) 23 ejbavlou V: ejbavllou Vpc 24 h[ V: h/\ Pod. (Rom.) 25 oujranopolw`n Pod. (Rom.): oujranopoiw`n vel oujranoponw`n vel oujranopolw`n V (vd. comm. ad loc.) 70 toiouvtoi", eij mh; kai; tw`n th`" gnwvsew" ajgkthvrwn kai; molibdivnwn ajpoluqeivhmen, thvn te yuch;n paraskeuavsaimen kai; to;n nou`n pro;" th;n tw`n qeiotevrwn qeamavtwn katadochvn: dia; tou`to kai; th;n dhmotikwtevran ma`llon ei{leto th;n kuvna filosofivan. Su; de; platwniko;" eujqu;" ejk kaphlikou` kai; qeolovgo" ejk bohlavtou kai; oJ cqe;" to;n ajrovthn bou`n ejpitavttwn a[gein uJpo; zugo;n h] kai; nh; to;n lovgon aujto;" zeugnuv", ã...à 88 89 90 91 92 93 94 95 96 97 98 99 100 101 102 103 104 105 106 107 108 109 110 111 112 113 114 115 116 117 118 119 120 121 122 123 124 125 126 127 128 129 130 131 132 26 thvmeron to; ããkatevbhn cqe;" eij" Peiraia` meta; Glauvkwno" tou` ∆Arivstwno"ÃÃ: kaivtoi platwnikovn se o[nta tou`to ajgnoei`n oujk e[dei to; ããmh; kaqarw/` ga;r kaqarou` ejfavptesqai mh; ouj qemito;n h\/ÃÃ. ããNaivÃÃ, fhsin, ããajll∆ ouj paralogistevon to;n poihth;n to; dokei`n ejpainevsanta, ka]n ajlhqeiva" ajph/`ÃÃ. Papaiv soi th`" ejk tw`n biblivwn, w\ a[nqrwpe, mevqh", wJ" o{la" ejxemei`" piqavkna" ejnqumhmavtwn. Plh;n ajll∆ ejgwv soi ojlivga a[tta katepav/somai tou` ejmevtou kai; i[sw" ijavsomai, misqo;" dev moi keivsqw th`" ijatreiva" mhkevti se tou` loipou` toi`" ⁄ tou` Platwvno" deltivoi" ejnubrivsai: kai; a[kouev mou h[dh th`" V, f. 55v ejpw/dh`": oujk aijei;27 kai; pa`sin oujde; pa`san eij" crh`sin ejkkei`sqai levgw ta;" gnwvma" tw`n poihtw`n kai; mavlista tw`n peri; th;n tragw/divan, ejpei; ga;r oujc eJautoi`", a} levgousin, levgousin, ajlla; skhnai`"28 kai; proswvpoi" sundiairou`si to; poivhma. Poikivlh dev ti" hJ tw`n proswvpwn diafora;, a[rrene", gunai`ke", newvteroi, palaiovteroi, th`" eujgenestevra" kai; eujtucestevra" merivdo" kai; tw`n tauvtai"29 ajntikeimevnwn -tai`" touvtwn dhlonovti poiovthsin- kai; ta;" gnwvma" paraqevmenoi krivnomen. Ta; aujta; dh; tau`ta kai; ejpi; pragmavtwn poihvsomen kai; kairw`n kai; tovpwn kai; tw`n loipw`n peristavsewn: kai; ou{tw tai`" gnwvmai" crhsovmeqa h] toujnantivon a{pan, wJ", ei[ ti gunh; kai; neva kai; mevsai" kavtoco" sumforai`" eijsavgoito levgousa, mh; tou`t∆ ejxei`nai levgein kai; ajndri; trigevronti, w/| eujdaimovnw" zw`nti kata; to;n bivon kai; ããejlpi;" hJ glukei`a ghrotrovfo" sunaorei`Ãà kata; Pivndaron, ajtavllousa th;n kardivan, w{ste oujd∆ aujtw`/ soi kata; kovsmon ejlhvfqh to; eujripivdeion, kai; a[llw" de;; kalo;n to; dovxai yeudw`", ou| kai; dovxai yeudw`" dunatovn. Su; de; tosouvtou" ejlevgcou" tou` yeu`dou" eJautw`/ sunepiferovmeno", tivni g∆ a]n kai; dokhqeivh" ei\nai filovsofo", eij mh; katav se kriomuvxh" ei[h kajkei`no"… ‘H ga;r oujk ejlevgcei se mononou; kumatomavcon hJ savrx mh;; tevleon ajpolousamevnh ããa{lmhn h{ soi nw`ta kai; eujreva" a[mpecen w[mou"ÃÃ… Ouj deivknusiv se to;n kwphlavthn hJ cei;r pacei`avn tina th;n buvrsan ejnteu`qen ejndedumevnh, ouj to;n bohlavthn hJ karbativna…30 Mevntoi ge tau`ta kai; Stevntora" o{lou" uJperfwnou`sin, w{ste ka]n ejpiv tina kolwno;n ajnabav", w\ a[nqrwpoi, mavla gennaivw" ajnakekravxh/31 : ããPlavtwno" eJtai`ro" ejgwvÃÃ, oujdei;" oujd∆ oJpwstiou`n ajkouvsetaiv sou, eu\ i[sqi, toutoisi; toi`" ejlevgcoi" probebombhmevno" ta; w\ta. ∆Apevcei", w\ filoth", th;n ijatreivan, h[dh soi oJ e[meto" teqeravpeutai, ajpovdo" moi kai; aujto;" to;n misqovn, ajpovdo" ta; ijathvria, katavqou th`" ceiro;" to; biblivon, naiv, w\ pro;" eu[ploian kai; fora;n ajnevmwn, katavqou: eij de; mh; bouvloio kataqevsqai, ka]n gou`n mh; ejpi; pollw`n, ejnuvbrize tw/` biblivw/, ajll∆ i{na to; oJmhriko;n parw/dhvsw ããsigh`/ ejpi; sei`o, i{na mh; Plavtwn ge puvqhtaiÃÃ: ⁄ h] Plavtwn V, f. 56r me;n oujdamw`", pro; pollou` ga;r aujtw/` ããhJJ yuch; ejk rJeqevwn ptamevnh, ∆Ai>dovsde bebhvkeiÃÃ, tw`nde dev32 gennaiotevrwn ejtaivrwn aujtou`, o}" kai; dusceravna" o{ti mavlista pro;" to; pra`gma, tov te biblivon ajpospavsei sou tw`n ceirw`n kai; pollou;" kata; kovrrh" konduvlou" ejntrivyetaiÃÃ. 26 sive katorqoi`" (cl. ln. 53 supra katorqoumevnhn filosofivan) sive ajnagignwvskei" vel levgei" vel aliquid simile desiderat D’Alessandro, nisi ironice ejpitavttei" a[gein subaudiendum vel potius zeuvgnu" (II pers. ind. sing.) quod aplologiae causa praetermitti poterat. 27 aijei; V: ajei; Pod. (Rom.) 28 skhnai`" V: skhnh`/ Pod. (Rom.) 29 tautai`" V: tauvth/ (sc. th/` merivdi) D’Alessandro 30 bohlavthn hJ karbativna… V: boulavthn hJ kavrdo" tinav… perperam Pod. (Rom.) 31 ajnakekravxh/ V: ajnakekravzh/ perperam Pod. (Rom.) 32 tw`nde de; V: tw`n dev ti" Pod. (Rom.) 71 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 TEODORO PRODROMO  TRADUZIONE   SAT. V  (149 Hör.)    Il simpatizzante di Platone ovvero il cuoiaio    Bene, figlio di Aristone, sei bello e sapiente e in ogni arte e forma di conoscenza sei  tra quelli più bravi e abili a parlare. Scrivi leggi, fondi città, disserti di etica, di fisica, di  teologia  e  sei  tutto  nel  grado  più  eccellente:  Musa  e  suono  piacevolissimo  per  i  musici;  prima monade per coloro che fanno conti; sole per coloro che studiano il cielo; linea retta  per i geometri; e insomma sei ciò che esista di più bello tra gli elementi di ciascuna scienza  per quelli che la praticano: Di Platone le parole, di Platone i dialoghi, di Platone tutta la  retorica distintamente e poi tutta la filosofia e la retorica filosofica unitamente e la filosofia  retorica.  Ammiro  il  tuo  Fedone  sull’anima,  resto  sbalordito  di  fronte  al  tuo  Timeo  sulla  natura, di fronte ai famosi bei Fedri, ai famosi retori Gorgia, ai famosi Teeteti, agli Assiochi,  ai restanti Platoni. Riguardo a questo e a tali argomenti sei bravo e il più bravo di tutti, o  straniero di Atene; non ottenesti, tuttavia, in sorte di ispirare anche la conoscenza a quelli  che si approcciano ai tuoi libri sin dalla prima linea di partenza, come si suol dire: se poi  per caso fossero come pietra… Noi sentiamo dire di Melpomene, Calliope e Tersicore e tu,  ,  ti  sei  arricchito  della  cultura  propria  di  una  musa  e  di  tutti  quei  nomi  che  completano il gruppo di queste nove. Ma di una decima musa che ispiri la parola noi non  abbiamo mai sentito il nome né Platone fu ricco della sua grazia; come può essere, infatti,  se quella né esiste né è mai nata? Poi, perché io tralasci te, Platone, e mi volga a colui che  offende il tuo libro, contro di lui prolungherò il discorso.     Non sei forse un bel po’ pazzo e dissennato, sventuratissimo tra tutti gli uomini?  Infatti,  pur  essendo  del  tutto  privo  di  esercizio  non  già  della  filosofia,  secondo  che  la  definisce  Platone  ‐affermo  ciò,  perché  anch’io  non  sia  traviato  insieme  con  te  in  tali  chiacchiere‐, ma persino della stessa lettura secondo gli spiriti e gli accenti ‐anzi, financo  dell’esercizio di questa‐, sfogli  26 27 28 poi il libro platonico e per giunta, santo cielo, capovolto, e ti  siedi  sul  ginocchio  e  appoggi  il  gomito  sulla  guancia  e  ti  atteggi  in  tutto  a  lettore,  sia  perché  balbetti  con  le  labbra  sia  perché  allenti  le  palpebre  e  sembri,  almeno,  divorarti  Platone intero con tutti i particolari. E se uno ti venisse incontro e ti chiedesse mai «Qual  libro platonico hai per le mani, caro amico?», senz’altro sapresti rispondere; ma se quegli  aggiungendo  «Buona  fortuna!»  ti  chiedesse  «Riguardo  a  quale  degli  elementi  della  filosofia platonica è il presente proposito di lettura?», resteresti di princisbecco (lett. come  una  statua  di  argilla)  a  questa  domanda.  Ma  tu,  caro  mio,  forse  pure  rimprovererai  a  Platone  talora  la  scrittura  e  dirai  quanto  sarebbe  stato  meglio  che  la  frase  fosse  stata  espressa in questo piuttosto che in quel modo, oppure cancellerai di certo i suoi  errori e  sostituirai le tue novità nel libro. E ti par giusto che sopporti questo, subendolo da te, il  famoso  figlio  di  Aristone,  l’Ateniese,  il  vanto  dell’Accademia  Antica?  Perché,  infatti,  tollerò di precipitare in mani così stolte e, a dirla tutta, da macellaio? Noi, per parte nostra,  non abbiamo il naso così pieno di moccio inveterato e non abbiamo bisogno della balia che  ci smoccichi, per dirla con quello, così che, se vedessimo un asino carico della lira di Orfeo  o dell’aulo di Timoteo, non supporremmo mai che l’asino sia Orfeo o Timoteo, il quale  asino  sembra  non  solo  che  canti  al  suono  della  lira,  ma  anche  che  la  ascolti  del  tutto  secondo  il  proverbio  degli  inetti;  e  invece  supporremmo  che  tu,  asino  di  Cuma  ovvero  mulo da basto, qualora ti carichi di una delle tavolette platoniche, carichi insieme pure la  dignità della filosofia. A stento comprerei per due soldi una filosofia corretta con siffatti  29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 46 47 48 72 49 50 51 52 53 54 55 56 57 58 59 60 61 62 63 64 65 66 67 68 69 70 71 72 73 74 75 76 77 78 79 80 81 82 83 84 85 86 87 88 89 90 91 92 93 94 95 96 espedienti. Ma lascia che io ti chieda, o teologo, e rispondimi, in nome dei tuoi Lici Procli:  che cosa significa mai per te il  tenere il libro sossopra e, come si suol dire, il capovolgere?  Forse non fingi la lettura per te stesso più che per chi ti è seduto di fronte? Oppure vuoi far  indovinare con quel gesto lì che anche il tuo cervello è stravolto e che si trova nei calcagni,  calpestato,  come  dice  l’oratore  del  demo  di  Peania?  Oppure  nessuna  di  queste  due?  E  invece mostri nella forma esteriore qualcosa di più saggio e di più elegante? Che è mai  allora  questo  contorcersi  su  sé  stesse,  vale  a  dire  le  cose  che  concernono  Platone,  per  l’affinità  con  l’intelletto  e  con  il  dio,  ovvero  in  altri  termini    esser  varia  la  conoscenza di queste e per così dire contorta per la comprensione? Ma né questo esiste ‐ semplice, infatti, è la storia della verità, anche se noi umani vi fossimo condotti in modo  vario‐ né tu te lo mettesti mai in mente; l’intento infatti è più saggio di quanto non sia  secondo il tuo modo di vedere, l’azione invece completamente un errore di ignoranza e  non un modo di sistemazione spaziale.    Una volta io vidi pure un rubino rosaceo, pietra bella e maestosa, appeso alla narice  di un porco, e un anello d’oro al dito di una scimmia e una veste di porpora intorno al  corpo di una gatta; e vedendo ciò mi dilettai parecchio dello spettacolo e scoppiai a ridere  molto sonoramente a quella vista. Hai le immagini, tu che sei il Prassitele d’orzo: riconosci  dunque il prototipo; hai le definizioni, tu che sei il Platone d’argilla: imponi allora tu stesso  la conclusione logica. Non sei forse infatti ridicolo, anzi molto ridicolo, tu che dal viso e  dalla restante forma e in tutto il resto sei presunto essere uomo di campagna ovvero di  mare molto prima che padrone della ragione, tu che hai messo da una parte la vanga e la  zappa  e  sul  camino  invece  hai  deposto  affrontati  il  remo  e  il  timone,  ovvero  hai  considerato attentamente il bue che va di tralice, come dice Esiodo, e la ricurva nave con  tutte le sue cinghie del timone e le sue vele; tu che tuttavia fai il filosofo con i sandali e  cerchi di  ingollarti tutti i Platoni e, invece di  lavorare la terra, ti occupi di speculazioni  celesti? «Sì», ribatte, «ma anche Diogene il cinico cambiò dalla professione di cambiavalute  alla  filosofia  e  non  fu  per  questo  oggetto  di  diffamazione  ovvero  di  stupore;  infatti,  sfregando col ragionamento ambo le vite come delle monete con pietra lidia, dopo aver  visto che quella del cambiavalute  è falsa e di piombo, passò a quella filosofica come se  fosse d’oro». Bella la tua argomentazione, caro amico, e per nulla da scaricatore di porto né  eminentemente balorda come un tonno, per dirla col retore siriaco; ma non ti sei accorto di  questo, benché dovessi accorgertene almeno prima del resto, che la disposizione naturale  in Diogene, anche nel pieno della professione di cambiavalute, era filosofica; la tua, invece,  anche  in  mezzo  ai  libri,  è  piazzaiola  e  artigianesca.  E  poi  Diogene  non  intraprese  la  teologia immediatamente venendo dalla piazza; sapeva infatti che non sarebbe sufficiente  soltanto la forza di volontà in casi siffatti, se non ci liberassimo  dai fermagli della  conoscenza, e per giunta di piombo, e non preparassimo l’anima e l’intelletto ad accogliere  le visioni più divine. Per questo preferì la filosofia cinica che è più popolare. Tu, invece, sei  diventato subito platonico da venditore al minuto che eri e teologo da bovaro; e tu, che ieri  ordinavi di condurre il bue per l’aratura sotto il giogo ovvero ‐per tutti i ragionamenti!‐ tu  stesso lo aggiogavi,  oggi la famosa frase «ieri scesi al Pireo con Glaucone  figlio di Aristone». Eppure, in quanto platonico, non avresti dovuto certo ignorare la frase  «a chi non è puro non sia affatto lecito toccare ciò che è puro». «Sì», ribatte quello, «ma non  si deve confutare il poeta con falso ragionamento, il quale loda l’apparenza, benché essa  sia lontana dalla verità».    Ohimé, che ebbrezza ti deriva dai libri, o uomo, come vomiti fuori giare intere di  ragionamenti! Ma io ti ripeterò un po’ d’incantesimi contro il vomito e forse ti guarirò; e  come ricompensa della mia cura sia stabilito che tu in avvenire non insolentisca più contro  73 97 98 99 100 101 102 103 104 105 106 107 108 109 110 111 112 113 114 115 116 117 118 119 120 121 122 123 124 125 126 127 128 i libri di Platone. Ora, dunque, ascolta il mio incantesimo: io affermo che non sempre e per  tutti né per ogni bisogno sono a disposizione le sentenze dei poeti, e soprattutto dei tragici;  poiché essi affermano quel che affermano non per sé stessi, ma per scene e personaggi che  suddividono l’opera tragica. Varia poi è a un dipresso la differenza di personaggi: maschi,  femmine, giovani, vecchi, della sorta che è più nobile e più fortunata e di quelle sorte che  si contrappongono ad esse, cioè alle qualità di codesti; e confrontando(ne) le sentenze, noi  le giudichiamo. Lo stesso faremo anche nel caso di azioni, tempi, luoghi e nel caso delle  restanti circostanze; e così ci serviremo delle sentenze, ovvero tutto al contrario .  In  tal  modo,  se  fosse  introdotta  in  scena  una  donna  giovane  e  che  parla  coinvolta  in  mezzo  a  disgrazie,  non  sia  concesso  di  dire  questo  pure  a  un  uomo  molto  vecchio:  a  lui,  quando  vive  nella  prosperità  pure  durante  la  vita  «s’accompagna  la  speranza, dolce badante della vecchiaia», come dice Pindaro, la quale gli nutre con cura il  cuore. Pertanto nemmeno da te stesso fu preso a proposito il detto euripideo ; e  d’altra parte bella la falsa opinione, là dove pure falsamente opinare sia possibile. Ma tu,  che accumuli su te stesso tante denunce di falsità, a chi almeno potresti sembrare filosofo,  se  non  fosse  anche  colui  un  vecchio  barbogio  come  te?  O  forse  non  ti  denuncia  qual  lottatore contro le onde la pelle da cui non fu lavata completamente «la salsedine che il  tergo  e  l’ampie  t’avvolgea  spalle»?  Non  ti  rivela  forse  qual  rematore  la  mano  che  per  questo s’è rivestita per così dire d’uno spesso strato di cuoio, oppure qual bovaro la scarpa  di pelle? Eppure almeno queste cose superano per voce tutti gli Stentori, cosicché anche se  salirai  su  un  colle  e  griderai  molto  nobilmente:  «signori,  io  sono  amico  di  Platone»,  nessuno  ti  ascolterà  affatto,  senz’altro,  essendo  costui  rintronato  prima  negli  orecchi  da  tutte queste denunce qui.    Amico, tu possiedi in pienezza la cura, ormai il tuo vomito è stato curato; rendimi  anche tu la paga, rendimi la tariffa delle cure, metti giù dalla mano il libro, sì,  in nome  della navigazione propizia e della spinta dei venti, mettilo giù; ma se non volessi deporlo,  oltraggia  pure  il  libro,  anche  se non  in  presenza  di  molti;  pure,  per  parafrasare  il  detto  omerico,  «in  silenzio  tra  te  e  te,  affinché  Platone  non  venga  a  sapere».  Ovvero  Platone  nient’affatto, perché a lui da lunga pezza «l’alma le membra lasciando in volo, nell’Orco  discese»; piuttosto di codesti suoi compagni uno che, prendendosela assai per la faccenda,  ti strapperà il libro di mano e ti riempirà di pugni sul mostaccio.    74 COMMENTO TESTO 149 H.  Il simpatizzante di Platone ovvero il cuoiaio tit: all’epoca di Prodromo gli studi platonici erano tornati in voga, soprattutto grazie all’opera di Psello; anche Michele Italico, uno dei maestri di Prodromo, viene definito dall’allievo stesso mimhth;" tou` Plavtwno" kai; met∆ ejkei`non Plavtwn (Miller, RHC, II, p. 771) e filosofivan de; a{pasan kai; rJhtorikhvn, kai; sundedemevnw" a[mfw kai; ajsundevtw", kai; pavnta lovgon, tovn te hJmedapo;n kai; to;n quvraqen, tivni a]n a[llw/ h] ∆Italikw/` ge kritevon… (n° 136 H., ed. Tannery 1887, p. 111 = Heiberg 1920, p. 215; entrambi i passi cit. in Gautier 1972, p. 17). CONTROLLA anche Praechter 1910 sul classicismo di un discorso di Prodromo per Isacco Comneno. Vd. su Psello anche Introduzione. Il milieu storico, sociale e culturale. 7 Ei\en, w\ pai` ∆Arivstwno": Platone era figlio di Aristone: vd. Olimpiod. Vita Plat. in Westerm. Biogr. 382 e Diog. Laert. III 1, 4, due autori ben noti a Prodromo (il primo come commentatore di Platone; il secondo in quanto biografo, del quale troviamo chiara prova di lettura, almeno per la vita di Democrito ed Epicuro, anche nella Sat. 147 H. Amaranto); vd. anche Platone stesso in Apol. 34a, Rep. I 327a, II 368a; e Sat. 141 H., vv. 36 to;n uiJo;n ∆Arivstwno", w/| klh`si" Plavtwn. Questo incipit è simile a quello del dialogo filosofico Senedemo n° 135 H., 5 Ei\en, w\ pai` ∆Aristavndrou, riferito all’interlocutore reale Senedemo, mentre qui Platone è interlocutore ideale. 9 kai; ajrivstw" a{panta: ho preferito sottintendere qui un ei\ (ovvero tugcavnei" w[n), interpretando a{panta come nominativo neutro plur., in funzione di nome del predicato, piuttosto che unire il sintagma a quanto segue («e sei in tutto e per tutto musa ecc.»; vd. Podestà «e ottimamente sei in tutto musica e ecc.» e Romano «e nel migliore dei modi sei Musa e ecc.»), interpretando a{panta come accusativo di relazione (o neutro avverbiale, che si rinviene a dire il vero maggiormente con pavnta). 10 aJrmoniwvtato": l’agg. aJrmovnio" sembra attestato a partire da LXX Sap. XVI 20 a[rton... pro;" pa`san aJJrmovnion geu`sin e vale lo stesso che aJrmovdio" nel greco classico, katavllhlo" nel greco tardo-medievalemoderno, ossia adatto e, quindi, piacevole (vd. Tgl e Demetrakos). 13 ta; e[ph: nella prosa attica e[po" generalmente non significa parola come in Omero o discorso come in Erodoto; vi si preferisce o rJh`ma o qualche perifrasi al neutro pl. (e.g. ta; tou` Plavtwno", ta; tou` Plavtwno" legovmena, ta; uJpo; tou` Plavtwno" eijrhmevna ecc.); casomai può significare verso, epos. È certo, però, che qui Prodromo si rifà all’uso omerico esteso alla prosa con un intento nobilitante e straniante, poiché sta parlando del divino Platone (come se in italiano si dicesse, con termine dantesco, di Platone i motti). Non è escluso che egli si sia fatto forte di questo significato per la prosa anche considerando l’idiomatismo prosastico wJ" e[po" eijpei`n, ut uno verbo dicam, per così dire (vd. Tgl). 13-14 hJJ pa`sa dih/rhmevnw" rJhtorikh; kai; hJ pa`sa au\qi" filosofiva kai; hJ filovsofo" sunhmmevnw" rJhtorikhv kai; hJ rJhvtwr filosofiva: Platone è il filosofo che ha concepito la filosofia come dialettica, identificazione molto apprezzata da retori filosofeggianti come Psello; negli avverbi dih/rhmevnw" e sunhmmevnw", pertanto, non mi pare fuori luogo riconoscere la teoria del Fedro secondo la quale la dialettica è l’arte di ricondurre il molteplice all’uno (sunagwghv) e nel contempo di dividere l’uno nel molteplice (diaivresi"). 15 to;n peri; yuch`" Faivdwna: i titoli dei dialoghi platonici sono nominati insieme con il sottotitolo che ne delinea l’argomento, dimostrato essere presente, almeno sin dall’età alessandrina, con l’epigramma callimacheo XXIII Pf. (suicidio di Cleombroto); vd. Carlini 1999. 18 w\ ∆Aqhnai`e xevne: probabile riferimento all’anonimo protagonista delle Leggi, dietro al quale si cela Platone stesso. 19 ejk prwvth" ajfethriva": sul modo di dire cfr. Schol. ad Ar. Eq. 1159 e Lys. 1000. 20 ka]n eij livqo" tuvcoien o[nte": la trad. di Podestà «tanto più se hanno la durezza delle pietre» non mi pare avallata dalla congiunzione ka]n eij, per quanto si adatti al senso della frase meglio di un “anche se” concessivo (che invece induce al significato contrario). La costruzione mi risulta essere questa: ka[n introduce un’apodosi con il verbo omesso; eij introduce una protasi; quindi: «se poi fossero di pietra [sc. quelli che si avvicinano alla tua filosofia], ». Sul periodo ipot. con l’ott., vd. LSJ s.v. a[n D. II. Oppure: «se poi anche/tra l’altro/oltretutto fossero di pietra...», con apodosi del tutto omessa e lasciata all’immaginazione del lettore. 28 ouj parapaivei" eu\ mavla oujde; melagcola/`": cfr. Luc. Dial. mort. [... Mcl.] 27, 9 parapaivei", w\ gevrwn, kai; meirakieuvei". Qui significa: «vuoi forse dirmi che non sei completamente pazzo, se è vero che tu fai questo e quello?». Non mi pare corretta la traduzione di Podestà «tu non te la prendi e non ti rattristi». Alla fine del periodo (quindi subito dopo Plavtwna), diversamente da Podestà (Romano) -i quali per giunta pongono punto fermo dopo ejntribh`" e scindono il lungo periodo in due frasi- ho messo punto interrogativo, 75 che mi pare conferire maggior senso; nella traduzione italiana, tuttavia, per mere ragioni di chiarezza, non ho protratto la domanda fino alla fine, ma l’ho limitata al primo periodo. 29 i{na mhv soi kajgw; sumparaferoivmhn: sumparafevromai = una transversus auferor, una abripior (Tgl) ovvero sono deviato, erro insieme con; mi pare che il verbo mantenga il significato fig. di parafevromai = perperam agor, perperam moveor, rapior, abripior, pessum eo, erro, aberro (Tgl), aggiungendo soltanto quello della prep. suvn che regge soi. Inappropriate le traduzioni di Podestà «affinché io non sia paragonato a te» e Romano «affinché non mi si paragoni a te», forse dovute a una confusione con sumfevromai (che comunque non ha propriamente il significato di sono confrontato a quale ha e.g. sumbavllomai, bensì quello di sono d’accordo, corrispondo in qualcosa con/a qcn.). kai; oujdev: si traduce, come al solito in greco, e nemmeno; la frase significa «sei privo non già dell’esercizio di lettura prosodica, che sarebbe anche troppo da pretendere da te, ma della benché minima capacità di leggere correttamente», ossia sei quasi analfabeta. Cfr. anche infra r. 105 oujk aijei; kai; pa`sin, dove oujk nega il nesso aijei; kai; pa`sin. Podestà traduce con nonché, Romano con e; ma non ho trovato esempi di significato positivo di kai; oujdev. 31 kata; kefalh`": significa a testa in giù, a capofitto e si riferisce al libro letto storto dal quasi analfabeta filoplatonico, non alla posizione di questi, seduto invece nella postura subito dopo descritta. Gli esempi del detto sintagma non provengono dall’attico standard (V-IV s. a. C.), ma da autori posteriori, specialmente ecclesiastici, che tendono all’atticismo (eccetto Plutarco e Luciano, che infatti hanno sempre ejpi; kefalh;n rJivptein ovvero wjqei`n): Dion. Hal. Ant. Rom. 19, 8, 3 e[ti de; aujtou` levgonto" oiJ tw`n kakw`n ai[tioi sullabovnte" aujto;n kata; kefalh`" ejxwqou`sin ejk tou` qeavtrou; Fl. Ios. AJ 19, 71 w\sai kata; kefalh`" lo precipitò giù; Eus. Hist. eccl. 3, 1, 2 ajneskolopivsqh [sc. s. Pietro] kata; kefalh`"; Greg. Niss. Encomium in s. Stephanum prot. PG 46, 729, 41 hjxivou [sc. s. Pietro] ga;r kata; kefalh`" kremasqh`nai uJpo; tw`n staurouvntwn; Io. Chris. Eclogae i-xlviii ex diversis homiliis [Sp.] PG 63, 811, 31-33 kai; Pevtro"... kata; kefalh`" ejkrema`to; Liban. Progymn. 12, 13, 2 ÔHraklh`" ∆Antai`on ai[rei metevwron, ai[rei de; kata; kefalh`" wjqw`n ejpi; gh`n. La conferma del significato del sintagma si trova anche in Suid. s. v. k 1109, 4 katwkavra: oiJ ∆Attikoi; uJf∆ e}n ajnaginwvskousin. ∆Aristofavnh": ei[per ejk podw`n katwkavra krevmaito. ∆Anti; tou` kata; kefalh`". To; ejpi; kefalh;n pesei`n katwkavra levgetai para;; ∆Attikoi`". kai; kaqizavnei"–th/` pareia/`: la postura qui descritta è quella tipica del pensatore, come si ricava anche da Sat. 144 H., 142-144 semnw`" te ga;r eijsevlqh/" kai; prokaqivsei" lamprw`" kai; calavsei" me;n th;n uJphvnhn, calavsh/" de; to;n aujcevna kai; schmativsh/ to;n merimnw`nta, eJkatevra// tw`n tou` qrovnou pleurw`n to;n ph`cun ejpereidovmeno". 35 ka[n ti" prosiw;n–platonikhv: simile modo d’esprimersi nel dialogo filosofico Senedemo n° 138 H., 179- 180 ajll∆ eij mh; mavthn moi ejn ceroi`nÃÃ, h\n d∆ ejgwv, ããpantavpasi to; biblico ktl.ÃÃ. 37 peri; o}–provqesi"…: provqesi" è propriamente l’atto di porre qualcosa in vista a qualcuno (esposizione di un morto, presentazione di cibo sacrificale ecc.); quindi è termine retorico per indicare quella parte del discorso in cui si presenta l’argomento, ossia si narra il fatto, di cui si vogliono successivamente addurre le prove; infine è il proposito, l’intento che uno ha in animo di compiere (vd. Tgl s.v.). Pertanto la traduzione corretta mi pare essere la mia, non quella di Podestà «intorno a cosa è la protasi [sic!] di questa tua lettura di libri platonici?» e Romano «Qual è l’argomento di questa tua lettura platonica?»; tanto più che il gen. tw`n platwnikw`n si riferisce non ad ajnavgnwsi", che si trova in posizione attributiva e quindi isolata e chiusa, ma a peri; o{. 38 phvlino" eJsthvxh/ pro;" th;n ejrwvthsin ajndriav": cfr. Sat. 144 H., 92 pro;" dev moi ta;" peuvsei" phvlino" a[ntikru" e{sthka" ajndriav". 39-41 tavca a]n–ajnteggravyei": la particella a]n può reggere anche l’ind. fut., come dimostrano non tanto i pochi esempi omerici, dove si potrebbe parlare anche di cong. a vocale breve, quanto piuttosto gli esempi, comunque isolati, di Plat. Ap. 29c wJ", eij diafeuxoivmhn, h]dh a]n uJmw`n oiJ uiJei`" diafqarhvsontai; Xen. An. 2, 5, 13 poiva/ dunavmei crhsavmenoi ma`llon a]n kolavsesqe; id. Cyr. 7, 5, 21 o{tan de; kai; ai[sqwntai hJma`" e[ndon o[nta", polu; a]n e[ti ma`llon ajcrei`oi e[sontai. Si potrebbe normalizzare il primo cong. facendone un fut. come i due seguenti, anche in considerazione del fatto che la pronuncia bizantina conguaglia h ed ei a /i/ (inequivocabile, però, il compendio per -h" di ejpitimhvsei" e la legatura -ei- di ajnteggravyei"). L’ottativo di Podestà (Romano) si giustifica forse come adeguamento rispetto all’ uJpotlaivh a]n della frase successiva, ma non si capisce perché l’emendamento non sia stato esteso anche agli altri futuri. 43 to; au[chma th`" presbutevra" ∆Akadhmiva": cfr. Sat. 141 H., v. 34 to; tw`n lovgwn au[chma (riferito ugualmente a Platone); vd. anche Luc. Macrob. [... Mcl.] 80. Il successivo dikaivw" viene tradotto da Pod. e Rom. come riferito ad au[chma («quell’Ateniese che fu detto giustamente vanto dell’antica accademia»; «che giustamente fu detto vanto ecc.»), mentre io lo intendo avverbio che modifica uJpotlaivh, posto in posizione enfatica a conclusione di frase 45 hJmei`"–tivtqh": la successione oujc–kaiv di questa frase, invece dell’attesa ouj(k)–oujdev può essere mantenuta, se si intende la negazione ampliata anche a kaiv; cfr. Kühner-Gert II, p. 291 m con i seguenti esempi: A 602 oujdev ti qumo;" ejdeuveto daito;;" ejivsh"É ouj me;n fovrmiggo" perikallevo", h}n e[c∆ ∆ApovllwnÉ Mousavwn 76 te invece che oujdev; Eur. HF 1104 ajll∆ ou[ti Sisuvfeion eijsorw` pevtronÉ Plouvtwnav t∆ oujde; skh`ptra Dhvmhtro" kovrh"; Thuc. I 23 ou[te ga;r povlei"... ou[te fugai; tosaivde ajnqrwvpwn kai; fovno". In verità questi passi sono un po’ diversi dal nostro, in cui kaiv unisce non due soli nomi retti da un verbo già negato, ma due proposizioni distinte. Per salvare il testo tràdito non trovo altra spiegazione. Sul detto dell’uomo emunctae naris, cfr. Sat. 144 H., 74 cum adn. 48 uJpeilhfevnai: significa “supporre” (bene Podestà), non “tollerare” (male Romano). 48-50 o}n–dokei`: la frase è un po’ contorta, ma comunque positiva; pessima la trad. di Podestà «esso che nonché canti al suono della lira, ma nemmeno che l’oda, sembra secondo il proverbio che riguarda gli ignoranti», perché involuta e negativa nel nemmeno, che non c’è in greco (mh; o{ti... ajlla; kaiv significa non solo... ma anche); sbrigativa quella di Romano «tollereremo [sic! v. n. prec.] che... e che sappia cantare con la lira [sic, invece che al suono di]. Esso non l’ascolta neppure, come si suol dire circa gli ignoranti». Il proverbio dice il contrario: gli ignoranti ascoltano la lira, segno non di comprensione, ma di beota stupore: o[no" pro;" luvran, o[no" luvra" ajkroathv". Cfr. anche Luc. Merc. cond. [36 Mcl.] 25 tiv ga;r koinovn, fasiv, luvra/ kai; o[nw/… Vd Suid. s.vv. o 390-391 ÃOnoj ei¹j Kumai¿ouj™e)piì tw½n parado/cwn kaiì spani¿wn. dio/ti para\ Kumai¿oij e)do/kei fobero\j eiånai o( oÃnoj. kaiì kata\ toutousiì tou\j kairou\j pa/ntej hÅsan KumaiÍoi, seismou= kaiì xala/zhj foberw¯tata eiånai to\n oÃnon h(gou/menoi. oÀti to\ e)p' oÃnou fe/rein tina\ gumno\n tw½n a)timiw½n h( megi¿sth Parquai¿oij neno/mistai. ÃOnoj lu/raj: Me/nandroj YofodeeiÍ. h( d' oÀlh paroimi¿a, oÃnoj lu/raj hÃkoue kaiì sa/lpiggoj uÂj. le/getai e)piì tw½n mh\ sugkatatiqeme/nwn mhde\ e)painou/ntwn. oÀti ¹Ammwnian%½ t%½ grammatik%½ sumbe/bhken oÃnon kekth=sqai, sofi¿aj a)kroath/n. kaiì zh/tei e)n t%½ ¹Ammwniano/j. Kanqhvlio" è detto il mulo che porta il basto con i kanqhvlia, grandi gerle per il trasporto delle merci; vd. LSJ s.v. con i passi lucianei citati; in Luc. Iup. trag. [... Mcl.] 31 significa anche testone, stupido. Vd. Suid. s.v. braduv" noh`sai. 49 kai; luvran o{lw" ajkouvein: il verbo ajkouvw qui con l’accus. è una reggenza non strana, ma certo non tipica del verbo di percezione, solitamente con il genit.; la lezione di V luvran del resto è certa (compendio finale a guisa di 6, a meno che il copista non l’abbia confuso per quello ৺ scioglientesi con -a"). 50 se; dev ktl.: riprende il ragionamento svolto nella Sat. 144 H., 25 sgg. soi; de; grammatikw/` doi`men ei\nai ktl., in base al quale non basta l’apparenza per essere a buon diritto chiamati con il titolo di una determinata categoria. 52 triwbovlou: cfr. Sat. 140 H., 75 oujde;... fronw`n ti" wjnhvsaito ka]n triwbovlou con commento. 53 e[rwmai: si tratta di congiuntivo aor. esortativo, sottinteso un verbo del tipo e[a, a[ge dhv; alla prima pers. sing. attestato con minor frequenza che alla prima plur.; non credo si tratti di scambio di w per o di V (vd. Introd. § Constitutio textus. ...) Omofonia di dittonghi e vocali secondo la pronuncia itacista, p. 41). Ipotizzare che la forma sia presente, e[romai pro ei[romai, pare meno appropriato; trattasi di formazione sul tema aoristico ricorrente probabilmente solo in Cert. Hom. et Hes. 37 m∆ e[reai genehvn (per simili esempi in Prodr., vd. Introd. § Constitutio textus. 7) Indicativi presenti formati su temi aoristici, p. 42). qeolovge: epiteto di Platone (vd. Sat. 141 H., v. 34 cum adn.), attribuito per isceda al suo sedicente estimatore. w\ pro;" tw`n Lukivwn sou Provklwn: il nome di Proclo viene ripetuto da Prodromo, e per giunta al plurale, in Sat. 147 H., 329 eu\ ge poiei`", w\ Lovgie, ta; uJpoduvskola tau`ta kai; deinw`" barbarika; ejxhgouvmeno" kavllion h] o{loi Provkloi tou;" ∆Alkibiavda" kai; tou;" Timaivou"; Sat. 148 H., 17 oiJ gavr toi Luvkioi Provkloi a[llw" th;n ajllovkoton ejkeivnhn terateivan ejpideiknuvtwsan. 54 kata; kefalh`": in V, f. 54v si legge un archetto accanto a l, non seguito da altro, difficilmente interpretabile con un singolo h ovvero con si (cfr. fhsi in V, f. 55r, ln. 2, dove l’archetto per -si porta il trema); sembra dunque mancare la consueta nota tachigrafica per -h" ( ), che compare chiara invece nel kata; kefalh`" di ln. 33 (= V, f. 54r, ln. 7). Il segno è forse dovuto a eccessiva velocità scrittoria e va sciolto per analogia con l’altro. 55 ejxenantivon: così sta scritto in V, dove non compare né spirito sopra -enan- né u in fine di parola, come invece lesse Podestà; trattasi di preposizione composta, modellata su ejxevnanti ed ejsau`qi" (q.v. in Sat. 147 H., 368). 57 to;n ejgkevfalon-pepathmevnon: cfr. Dem. Or. VII [de Alonneso] 45 ei[per uJmei`" to;n ejgkevfalon ejn toi`" krotavfoi" kai; mh; ejn tai`" ptevrnai" katapepathmevnon forei`te. CONTROLLA 59-62 poi`on–perinoiva/: in genere poi`on dh; introduce un’interr. diretta, il che presuppone la punteggiatura da me introdotta. La trad. di Podestà (Romano), invece, tratta poi`on come un oi|on, libertà un po’ eccessiva. 63-64 ou[te su; kata; nou`n ejbavlou potev: il verbo bavllomai unito a (ejn) qumw/`, ejn fresiv, ejn nw/`, eij" nou`n più un accus. compl. ogg. significa mettersi in mente, pensare qcs.; qui il sintagma kata; nou`n può essere visto come variante degli usuali complementi di luogo fig., piuttosto che significare il solito secondo il proprio desiderio, secondo il proprio gusto. 77 Intenderlo invece come variante di kata; lovgon razionalmente (per cui vd. Tgl s.v., VI col. 370D), implica ammettere che il semplice bavllomai valga lo stesso che bavllesqai ejf∆ eJautou` pensare tra sé e sé; forzatura un po’ eccessiva. 64 sofwvteron–oijkonomiva": il congiuntivo h/\ di Pod. (Rom.) non è emendamento necessario. La traduzione di Podestà presuppone però l’ h[ («il pensiero è più sapiente di quello che tu creda, e questo fatto [sc. del tenere il libro capovolto] è davvero un errore di ignoranza e non uno speciale modo di comportarsi»); quella di Romano, invece, è conforme al testo di Podestà (h/\), anche se mutila dell’ultimo pezzo («la verità è che il pensiero dev’essere per te assennato; questa cosa invece è solo un errore della tua ignoranza»). Si noti che oijkonomiva, non avendo mai, secondo quanto ricavo da Tgl, il significato di carattere che le attribuisce arbitrariamente Podestà (forse interpretando quello di humanitas, ossia offerta di vitto e alloggio a un ospite), mantiene quello di ordine e disposizione spaziale degli elementi costitutivi di un tutto, derivato chiaramente da quello originario di amministrazione, dispensazione, distribuzione, e si riferisce quindi alla distribuzione nello spazio del libro, cioè al suo capovolgimento. 67 sfendovnhn: propriamente è il castone in cui è incastonata la pietra preziosa; quindi per sineddoche può indicare l’anello stesso (errata la traduzione fionda di Pod.-Rom.); cfr. Sat. 140 H., v. 62 crusai`" de; kosmei`" sfendovnai" tou;" daktuvlou", dove peraltro Romano traduce correttamente anellini. 68 kapurovn oi|on: il costrutto dell’acc. neutr. di un aggettivo retto quasi come un ogg. interno di senso avverbiale ricorre altrove in Prodromo (e.g. Sat. 146 H., 187 paggevloion uJpestigkrwkwv"); il sintagma kapurovn (lett. “che manda il suono di un legno secco schiantato”) + gelavw ricorre in AP VII 414; Long. Soph. II 5; Alciphr. III 48. Oi|on funziona come un o{so" rafforzativo dopo un aggett. CONTROLLA COMMENTI 69 krivqino" Praxitevlh": Prassitele d’orzo, ossia Prassitele finto, taroccato, non genuino. Secondo Hermog. De ideis II 11 (= vol. III, p. 384 Walz ; vd. Tgl s.v.), l’aggettivo fu affibbiato all’oratore Dinarco: kaqo/lou te o( a)nh\r e)mfaino/menon eÃxei polu\ to\ Dhmosqeniko\n dia\ to\ traxu\ kaiì gorgo\n kaiì sfodro/n, wÐst' hÃdh ti tine\j kaiì prospai¿zontej au)to\n ou)k a)xari¿twj kri¿qinon Dhmosqe/nhn ei¹rh/kasi. Dal passo sembra di capire che l’impetuosità demostenica dello stile di Dinarco gli abbia guadagnato l’attributo di Demostene d’orzo, forse per indicare una brutta copia, un surrogato di Demostene (come dire “caffè di ceci” anziché “caffè vero”). Una tale spiegazione risulta confermata dallo scolio ad loc., posteriore a Prodromo, di Massimo Planude (vol. V, p. 560 Walz): krivqinon Dhmosqhvnhn toutevsti novqon, ouj sivtinon. 70 Phloplavtwn: il composto era l’epiteto attribuito al sofista Alessandro secondo Philostr. Vitae soph. II 5, 1 (570 Olearius). Entrambi gli epiteti sono in Psell. Poem. XXI [In monachum Sabbaitam] 93 kri¿qine r(h=tor kaiì ple/on Phlopla/twn, poema che, come s’è già visto, è riecheggiato anche nella Sat. 140 H. La nota ad loc. Sternbach 1903, p. 24 compara un passo di Seneca pater Rhet. XXVI 2 in cui hordearius rhetor significa inflatus, levis, sordidus. 71 h\ gavr: con gavr solitamente la particella interrogativa porta l’accento circonflesso; ma anche la trad. ms. di altri autori oscilla verso la grafia con acuto. Vd. ln. 116 infra e Introduzione. Constitutio textus. 2) Accenti, supra. 74 sminnuvhn: sulla grafia con n geminata, vd. Introduzione. Constitutio textus. 5) Consonanti geminate. 75 e{lika bou`n: il significato dell’epiteto è discusso: dalle corna ritorte; dal passo storto/dall’andatura ondeggiante; oppure persino nero, che sembra essere il significato accolto da Theocr. XXV 127 (tau`roi... knhmargoiv q∆ e{likev" te; cfr. Callim. fr. 290 Pf.; vd. lo stesso significato di nero prospettato da Sch. ad M 293 Erbse e{lixin: mevlasin, h] eijlou`si tou;" povda" ejn th/` poreiva/). Probabilmente Prodromo era al corrente di tutti e tre i sensi, in quanto lettore sia d’Omero, sia d’Esiodo, sia di Teocrito con i rispettivi scoli. Poiché però il passo di Esiodo da Prodromo citato è Op. 452 dh; tovte cortavzein e{lika" bova" e[ndon ejovnta", e poiché il suo scolio recita ejlikoeidw`" kai; hJmikukloeidw`" tou;" povda" eiJlou`nta" kai; sustrevfonta", scelgo arbitrariamente di tradurre qui con dal passo storto, che va di tralice. 75 zeuvglai" aujtai`": zeuvglh è la cinghia del timone (cfr. Tgl con Eur. Hel. 1552 phdavliav te zeuvglaisi parakaqiveto; Romano «con tutti i timoni e le cinghie»), non il giogo (Podestà), ché non si capirebbe qual parte della nave dovesse essere. Si noti infine il chiasmo con aujtoi`" iJstivoi". 77 Plavtwna" o{lou" katapivnein: modo di dire ricorrente anche nel dialogo filosofico Senedemo n° 135 H., 234 to;n porfuvrion meiravkion katapevpwka". Cfr. Luc. Iupp. Trag. [21 Mcl.] to;n Euripivdhn o{lon katapepwvkamen. 77 oujranopolw`n: avendo la mente intenta negli argomenti celesti, verbo lemmatizzato in Tgl, Lampe e LBG (tra gli autori, Io. Chrys. Exposit. in Psalm. LV, col. 345, 25 PG dia\ dh\ tou=to kai¿ tij sofo\j eÃlege, Tou= sofou= oi¸ o)fqalmoiì e)n tv= kefalv= au)tou=: toute/sti, tw½n ka/tw pa/ntwn a)ph/llaktai, kaiì ou)ranopoleiÍ, kaiì mete/wra fanta/zetai; Chron. Pasch. 275, 4 oJ camai; badivzwn kai; wJ" pneu`ma met∆ ajggevlwn 78 oujranopolw`n). Nel ms. mi par tuttavia di leggere una lezione che oscilla tra poiw`n e ponw`n1 : la prima non ha senso, riferendosi all’atto di creazione del cielo che più si addice a una divinità (Tgl attesta solo il sost. oujranopoiiva Diog. Laert. III 77); la seconda può essere dovuta all’eco di gewponei`n immediatamente precedente nell’orecchio del copista, ma crea una parola che, oltre a non essere attestata, mal si attaglia al contesto. 78 Diogevnh" oJ Kuvwn: cfr. Sat. 141 H., 23 Mevnippo" ejgguv", kai; (ginwvskei" to;n kuvna). 79-80 oi|on-bivou": che la pietra lidia costituisse pietra di paragone, si evince da Theocr. XII 36 sg. Ludivh/ i\son e[cein pevtrh/ stovma, cruso;n oJpoivh/É peuvqontai, mh; fau`lo", ejthvtumon ajrguramoiboiv; cfr. anche l’encomio retorico n° 145 H. (All’imperatore ovvero in favore del verde), ln. 13 ed. mia qewrhtevon oi|on ludiva/ tw/` lovgw/ tauti; paraxevsasin (noi dobbiamo osservare, dopo aver sfregato questi colori qui con il ragionamento, come con pietra lidia, ecc.). 81 molibou`n: l’agg. è attestato in autori dal I s. d.C. in poi; si spiega come derivante dalla grafia epica movlibo" per movlubdo" (compare una sola volta in Omero, L 237, stando alle edd. crr.). 83 qunnw`de": l’agg. compare in Luc. Iupp. Trag. [... Mcl.] 25, qunnw`de" to; ejnquvmhma, con lo stesso significato. Luciano è denominato per antonomasia il Siro anche in Sat. 141 H., v. 25 crh``sei ga;r hJmi`n tou`ton oJ gluku;" Suvro". 87-88 h[/dei ga;r mh; ajpocrw`n ei\nai-eij mh; ajpoluqeivhmen...paraskeuavsaimen: il periodo ipotetico ha l’apodosi nell’oggettiva (che non sarebbe sufficiente la forza di volontà), la quale quindi non può essere all’ottativo per rendere bene la simmetria con la protasi; è altresì priva della particella a[n, che in genere compare; la protasi, poi, è costituita da due coordinate per asindeto (la cornice te... kaiv intorno a paraskeuavsaimen coordina solo i due complementi oggetti). Si tratta di due mancanze sintattiche che possono parer rendere lo stile grammaticalmente inferiore rispetto al modello generico attico, mentre in realtà vanno giudicate come forma di sperimentalismo di Prodromo, imitatore non sempre pedissequo, né sempre perfettamente memore delle regole. 88 tw`n th`" gnwvsew" ajgkthvrwn kai; molibdivnwn: l’aggettivo molivbdino" (grafia con i anziché con u, ricorrente e.g. in Paul Aeg. VI 25) va riferito, a mio parere, al precedente sostantivo, di cui rafforza il significato con un kaiv con valore simile a quello di un kaivtoi (cfr. latino idque). Non preferibile, a mio parere, la traduzione di Podestà («se non ci liberiamo dalle maglie e dai pesi plumbei del ragionamento»; Romano ripete: «ma bisogna deporre i fermagli della conoscenza, e i pesi di piombo»), per la quale mi attenderei almeno un tw`n dopo kaiv. Gnw`si" connota un procedimento conoscitivo migliore, superiore a quello ottenibile tramite dovxa, perché capace di oltrepassare la mera esperienza dei sensi, al fine di giungere alla conoscenza razionale; nondimeno secondo Prodromo occorre liberarsi anche di questo per giungere alla conoscenza delle visioni divine. A meno che non si debba intendere «liberarsi dei fermagli della conoscenza» con «liberare la conoscenza dai fermagli»; ma non mi par soluzione decisiva, ché verrebbe a mancare la specificazione del tipo di fermagli. 93 thvmeron ã...à to ktl.: che manchi il verbo principale, mi pare ipotesi molto credibile; ma quale precisamente manchi, si può solo congetturare, non ricavare con certezza. L’integrazione di D’Alessandro si rifà all’atteggiamento emendativo che Prodromo attribuisce ai filosofi dell’ultim’ora, come il nostro Filoplatone, nella l. 54 scolh/` a]n ejgw; triwbovlou priaivmhn toiouvtoi" katorqoumevnhn filosofivan. Podestà aggiungeva tacitamente nella traduzione «oggi pronunci» (Romano «oggi reciti»), due verbi più generici, ma no per questo meno verosimili. Quanto alla posizione della lacuna, preferirei individuarla katevbhn, non dopo ∆Arivstwno" con D’Alessandro, a maggior ragione se il verbo caduto è katorqoi`", il cui prefisso identico a quello di katevbhn potrebbe aver causato una sorta di saute du même au même. 96 ajll∆ ouj paralogistevon to;n poihth;n: il verbo paralogivzomai può essere transitivo (inganno, confondo qualcuno con falsi ragionamenti) ovvero intransitivo (ragiono falsamente, conduco un ragionamento falso; anche mediale mi inganno con un falso ragionamento); inoltre, anche se deponente, può avere significato pass., cosicché nella forma dell’agg. verb. 2° corrisponde a un gerundivo latino, concordato con il sogg. della proposizione (nom. in principale, acc. in infinitiva). Nondimeno, a differenza del lat., il greco può usare l’agg. verb. 2° anche al neutro sing., cioè con valore impersonale di si deve fare qcs. In quest’ultimo caso, però, la 1 I dubbi generati dalla lettura sul ms. o, meglio, su stampa da mcf. da cui leggo, della parola in questione dimostrano come talora la ricostruzione della lezione originaria sia complicata, piuttosto che risolta, dall’intento di voler rimanere aderenti alla grafia del copista: qui, se la lettera poco perspicua tra l’ o e l’ w di oujranopo...w`n viene decifrata come n, esso appare vergato molto più frettolosamente degli altri n circostanti; se invece essa viene decifrata come i, esso appare avere forma diversa dagli altri contermini (del trema su i non si deve sentir mancanza ché in dittongo esso non viene quasi mai segnato, salvo che per indicar la dieresi); se infine la lettera famigerata fosse decifrata come l, ugualmente si potrebbe notare la sua dissomiglianza con gli altri l vicini. Pertanto, essendo le tre decifrazioni parimenti incerte, mi par più economico leggere quella che crea meno problemi lessicali, non quella che più soddisfarebbe la paleografia. 79 costruzione non è sempre meccanicamente traducibile; e un verbo mediale come questo può dar adito a due traduzioni del suo agg. verb. 2° impers.: sia «bisogna ingannare» sia «bisogna ingannarsi». La persona che deve compiere l’azione, poi, solitamente al dativo con il costrutto dell’agg. verb. 2° personale, può anche essere espressa all’accusativo con l’agg. verb. 2° impersonale, per analogia con la costruzione di dei`. Pertanto, in un contesto che può significare «smettila di rimproverarmi come sedicente filosofo: dice anche il poeta che è meglio apparire piuttosto che essere», le traduzioni potrebbero essere le seguenti: 1) con il verbo transitivo, rispettivamente al gerundivo personale e impersonale (le due traduzioni finiscono con il corrispondersi): «ma il poeta che loda l’apparenza, benché essa si discosti dalla verità, non deve essere ingannato con un falso ragionamento» (qui tuttavia ci vuole la costruzione al nominativo); oppure «ma non si deve ingannare con un falso ragionamento il poeta che loda l’apparenza»; 2) con il verbo intransitivo, nella costruzione impersonale: «ma non bisogna che il poeta che loda l’apparenza, benché essa si discosti dalla verità, si inganni con un falso ragionamento» ovvero «non deve darsi il caso/non può essere che il poeta, il quale ecc., ragioni erroneamente» ovvero «è necessario che il poeta, il quale ecc., non sragioni». Il problema del verbo transitivo sta forse nel significato, modificato da Podestà («ma non bisogna smentire il poeta») e Romano («non bisogna rimproverare il poeta»), senza il sostegno di adeguati paralleli, ma non senza un totale fondamento di verità, giacché «ingannare qcn. con un falso ragionamento» può essere interpretato come «dimostrare a qcn. il falso» e, quindi, «confutare qcn. con un falso ragionamento». Similmente sembra fare LBG, che lemmatizza paralogistevon con un significato parimenti non attestato ma forse derivabile man muß der Lüge bezichtigen tinav, Prodr. Sat. 8, 16 (cioè il ns. passo nell’ed. Podestà), il che corrisponde a tradurre «non bisogna incolpare di menzogna il poeta». Il problema, invece, della costruzione impersonale sta forse nel fatto che riposa su paralleli minoritari, ma non meno attici, quali Plat. Crit. 49a 4-5 {SW.} Ou)deniì tro/p% fame\n e(ko/ntaj a)dikhte/on eiånai, hÄ tiniì me\n a)dikhte/on tro/p% tiniì de\ ouÃ; («affermiamo noi forse che gli uomini non debbano commettere ingiustizia in nessun modo, oppure che in qualche modo debbano, in qualche altro no?» ovvero «affermiamo noi esser necessario che gli uomini non commettano ingiustizia in alcun modo, oppure esser necessario che la commettano in qualche modo sì, in qualche altro no?»). Da tutti questi ragionamenti ricavasi come l’agg. verb. in -tevo" esprima necessità che un dato caso si avveri o meno, non senza però un’idea di possibilità. Forse è preferibile la traduzione con costruzione impers. e verbo trans. La sentenza, infine, del poeta a cui si allude è tratta da Eur. Or. 235-236 {Or.} ma/lista! do/can ga\r to/d' u(giei¿aj eÃxei! kreiÍsson de\ to\ dokeiÍn, kaÄn a)lhqei¿aj a)ph=i, non da Androm. 184 sgg. (come propone erroneamente Podestà e ripete, senza aver verificato, Romano). 99 piqavkna": è termine attestato a partire dal III s. a.C. (Ar. Pl. 546 e Dem. Or. XXX [Contra Onetorem] 28) ojlivga a[tta katepav/somai tou` ejmevtou: il verbo è già in Plat. Gorg. 483e e Menon 80a, in entrambi i casi con l’acc.; qui sembra costruito con dat. commodi, acc. dell’ogg. interno e gen. retto da katav contro (come dimostrano i passi forniti da Tlg s.v. Greg. Naz. In pentecosten XXXVI, col. 448, 27 PG Tou=to to\ Pneu=ma -sofw¯taton ga\r kaiì filanqrwpo/taton-, aÄn poime/na la/bv, ya/lthn poieiÍ, pneuma/twn ponhrw½n katep#/donta, kaiì basile/a tou= ¹Israh\l a)nadei¿knusin «questo Spirito -esso è infatti molto sapiente e benevolo verso gli uomini- se prende un pastore, lo rende salmista, capace di incantare gli spiriti maligni, e lo rivela come re d’Israele»; riferimento alla vita di David; e Suid. k 958 hJ de; katepa/vdousa sunecw`" tou` basilevw" th;n tou` Kaivsaro" ej" aujto;n eu[noian, tacu; mavla diaqevlgousa to;n basileva toi`" lovgoi" patro;" ej" to;n ∆Ioulion diavqesin ejnevfusen tw/` basilei`. kai; meta; dotikh`"). Cfr. anche il dialogo filosofico 135 H. Senedèmo, 302 tiv a]n a[llo oijkeiovteron katepav/saimi. L’acc. se dipendente da ijavsomai si ricava dal soi precedente. 104 skhnai`"-sundiairou`si: la lettura del dat. pl. skhnai`", invece del sg. quale decifrò Podestà, mi pare suffragata sia dal confronto con il segno tachigrafico finale di parole contermini (l. 113 tai`" gnwvmai" e l. 114 sumforai`"; si tratta di un doppio apostrofo sopra l’ultima consonante precedente la desinenza) sia dal contesto; interpreto infatti il sundiairou`si come part. pres. dat. pl. concordato con i due dativi skhnai`" e proswvpoi", non come indic. pres. 3° pers. pl. (che è invece la trad. di Podestà «poiché infatti non dicono per sé quello che dicono, ma compongono il lavoro parte per parte per la scena e le maschere»; sciatta e mendosa imitazione della traduzione in Romano «non dicono, quel che dicono in apparenza, i tragici, ma scrivono per la scena e per i personaggi»). Secondo la mia proposta viene salvata la contrapposizione oujc eJautoi`"... ajlla; skhnai`": «dicono quel che dicono non per/a vantaggio di sé stessi, ma per scene e personaggi che suddividono in parti l’opera teatrale»; l’assenza nondimeno dei rispettivi articoli davanti a skhnai`" e proswvpoi" può suscitare perplessità verso la mia alternativa e, per converso, propensione per l’ind. pres. «..., ma suddividono l’opera tragica in scene e personaggi». Questo complemento distributivo, tuttavia, mi suonerebbe meglio se espresso con un katav + acc.; e mi suona inoltre poco coerente con la contrapposizione 80 non per sé stessi, ma...». La negazione non precede il verbo, ma il pronome; e anche a tradurre il sundiairevw come fa Podestà, la soluzione mi par tirata per i capelli. D’Alessandro propone di intendere i dativi non come dativi commodi, bensì come di∆ eJautw`n (per sé stessi = attraverso/tramite sé stessi), rinvenendo il punto della battuta nel fatto che gli autori tragici non parlano in prima persona, non parlano per se, ma con il tramite della scena e degli attori. Qualunque sia la traduzione, mi pare che il passo riservi sempre alquanta controversia. Poivhma nel senso di dra`ma potrebbe denotare l’ormai da tempo avvenuto passaggio della tragedia a opera di lettura, non più di rappresentazione. 110 mevsai" kavtoco" sumforai`": mevsai" , che si legge inequivocabilmente in V, con il segno tachigrafico per -ai", ricalca un modo euripideo di esprimersi alternativo a mevso" predicativo; cfr. Eur. Bacch. 259 kaqh=s' aÄn e)n ba/kxaisi de/smioj me/saij e 688 h( sh\ de\ mh/thr w©lo/lucen e)n me/saijÉ staqeiÍsa ba/kxaij e)c uÀpnou kineiÍn de/maj; ripreso poi nella prosa atticista tarda, e.g. Plut. Crass. VII 4, 3 e)n me/saij a)eiì taiÍj spoudaiÍj a)nastrefo/menoj. 111 trigevronti: stesso agg. in Sat. 146 H., 85. 112 ããejlpi;"-sunaorei`: è il fr. 214 S.-M. di Pindaro, citato da Plat. Resp. 331a; cfr. Sines. De ins. 13. 116 kriomuvxh": vd. Sat. 146 H., 77. 117 kumatomavcon: LBG s.v. Kämpfer gegen die Wogen, con cit. del solo nostro passo dall’ed. Podestà; cfr. kumatomacou`nta" in Prodr. Carm. hist. XVI 35. 117 a{lmhn w[mou": è citazione da z 225. 119 bohlavthn: compare in AP XI 176; come agg. già in Aesch. Suppl. 307; a errore paleografico va attribuita la lettura di Podestà. karbativna: LSJ (no lemma LBG) attesta karbavtino", karbativnh, karbavtinon. = di pelle (detto di casa, in Philo Mechanicus [III-II a.C.] Belopoeia ? 101, 31 Wescher); e karbavtinai, aiJ = scarpe di pelle non conciata, Xen. An. IV 5, 14; Luc. Philops. [..... Mcl.] 13 e Alex. [...... Mcl.] 39. Con l’accento proparossitono e la desinenza femminile però la parola si scosta alquanto dall’ hJ karbativna che si legge in V; a meno che esso non sia da emendare in aiJ karbavtinai ovvero hJ karbativnh. Il testo di Podestà (Romano) non è attendibile, ché il grosso punto pieno sopra il sicuro b (non quindi d) di karb ha l’aria d’essere una macchia d’inchiostro piuttosto che un o, segno tachigrafico per -o"; inoltre karb non porta accento ed è seguito prima del tivna da una lettera che assomiglia proprio ad a (così la decifrò anche Podestà, a quanto si evince dal suo apparato « kavrdo": kardoa cod. correxi»). Donde poi Podestà abbia ricavato il significato di pungolo per il suo kavrdo" (cardo, carciofo spinoso) ignoro; Romano l’ha ciecamente e pedissequamente ripreso. 124 ajpevcei" th;n ijatreivan: il preverbio non ha qui senso negativo, come insegnano gli esempi di Tgl s.v. (II col. 1303D-1304; sono esempi tratti soprattutto da Plutarco e dal Nuovo Testamento, ma risalenti indietro almeno fino ad Eschine; ripetuti anche in LSJ s.v. IV have or receive in full); in tal modo la proposta di D’Alessandro (ajll∆ e[cei") diventa meno cogente. 125-126 katavqou-katavqou: probabilmente l’imperativo katavqou veicola l’immagine dell’ammainare la vela (to; iJstivon katativqesqai) e, quindi, del vento propizio; come a dire: se vuoi continuare a navigare senza problemi, tira giù il tuo libro come tireresti giù una vela, affinché non si strappi al soverchio soffiar dei venti. 127 ka]n gou`n mh; ejpi; pollw`n, ejnuvbrize: il mhv non regge a mio parere l’imperativo, anzitutto perché in mezzo c’è ejpi; pollw`n; in secondo luogo perché l’attico suole costruire l’imperativo negativo con mhv + cgtv. aor. (mh; ejnubrivsh/"). Scorrette, pertanto, risultano le traduzioni di Podestà («almeno non oltraggiare il libro presso molti») e Romano («anche se non fra molti, non disonorare il libro»), che non si accordano altrimenti con il detto successivo. ejnuvbrize tw/` biblivw/: cfr. Sat. 146 H., 189 ejnubrivzwn tw/` cavrth/. 128 sigh/`-puvqhtai: vd. H 194 sg. tovfr∆ uJmei`" eu[cesqe Dii; Kronivwni a[nakti/ sigh/` ejf∆ uJmeivwn, i{na mh; Trw`ev" ge puvqwntai. Prodromo ha costruito, almeno nel numero di sillabe, non nella corretta quantità di ciascuna, un esametro. 129 hJ yuch;-bebhvkei: riproduce, con leggera modifica metrica (sinalefe un po’ forzata in hJ yuch; ejk) P 856 yuch; d∆ ejk rJeqevwn ptamevnh [Ai>dovsde bebhvkei, riferito a Patroclo morente. 81 82 Theodori Prodromi1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 textus VI (146 H.)1 ∆Amavranto" h] gevronto" e[rwte"2 V, f. 59v/ G. p. 427/ Th. p. 109 ª1º FILOLAOS3 Kai; mh;n e{wqevn se, w\ ÔErmovklei", ∆Aqhvnhsi periemevnomen, ejgwv te kai; Diovfanto" ouJtosiv. ERMOKLHS Nai; dh``ta kai; aujto;" h[/sqhmai, w\ Filovlew", ojyiaivtero" h{kwn h] xuneqevmhn. FIL. Pavnu me;n ou\n, w{ste dikaivw" a[n se kai; aijtiasaivmeqa th`" mellhvsew". ERM. Oujk ejmev, w\gaqev, to;n dev moi kh`pon ejkei`non, o}" eJwqinovn me thvmeron ajpolabw;n ejpi; peripavtw/, o{lou" ejlwpoduvthsev mou tou;" ojfqalmouv". FIL. Papaiv, wJ" ojxuvceirav tina tou`ton, w\ eJtai`re, levgei" to;n kh`pon kai; to; o{lon ÔErmou` ma/qhthvn, [G. 429] eij kai; aujtouv"4 soi tou;" ojfqalmou;" ejxoruvxa" e[laqe. ERM. Paivzei" e[cwn: ajta;r ejgw; th;n ajmavran e[ti periveimi kai; tou` narkivssou qiggavnw kai; tou` uJakivnqou trugw`. FIL. ÔHmei`" dev, w\ Diovfante, ejntau`qav pou ejnomivzomen eJstavnai to;n ÔErmokleva meta; Narkivsswn o[nta kai; ÔUakivnqwn. | [Th. 110] DIOFANTOS Kai; tiv tou`to kainovn, w\ Filovlew", eij mh; w]n ÔErmoklh`" ge dokei` novmw/ pavntwn o[ntwn kai; ejteh`/ mhdenov", ei[ ti mh; tou` didaskavlou ejpilelhvsmeqa Dhmokrivtou… ª2º ERM. Megavlhn o{shn soi o[flw cavrin, nh; th;n hJdonhvn, w\ Diovfante, oi|" me Dhmokrivtou ajnevmnhsa", wJ" ejgw; kai; nukto;" oujk ajgennei`" ta;" pro;" ejkei`non w[dinon ajntirrhvsei": kai; nu`n oujk a]n ajpostaivhn mh; provteron, wJJ" a]n oi|ov" te w\, to;n ejkeivnou ejxelevgxa" flhvnafon. FIL. Flhvnafo" gavr soi ta; Dhmokrivtou, w\ ÔErmokleivdion… ERM. Ma; Div∆, ouj ga;r a[llw". | [Th. 111] DIOF. Oujkou`n oujk a]n fqavnoi" eJrmhneuvswn hJmi`n kai; o{pw" soi lh`ro" devdoktai ta; toiau`ta. ERM. Ouj fqavnoim∆ a[n. FIL. Braceva mevntoi, pro;" tou` ∆Epikouvrou, favqi: kai; mh; oJpoi`a cqev" ejn ∆Aristokravtou" hJdonav" tina" kai; aujtovmata5 qama; tw/` lovgw/ pareiskuklw`n, ⁄⁄ . [V, 60r] o{te kai;/ . [G. 430] h[dh ejmhmekw;" met∆ aujth`" sou th`"6 hJdonh`" ejxhvcqh" tou` sumposivou. ERM. Aijei; tracuv" ti" h\sqa kai; ejpitimhtikov", w\ lw/`ste, ejgw; de; bracuvtera kai; tw`n sw`n7 ajtovmwn ei[poim∆ a[n. FIL. “Arxai d∆ ou\n ojye; kai; scolh/`. ª3º ERM. Eijsh/vein to; eJwqino;n ejn tw/` khvpw/ peripathvswn... FIL. “Eti ga;r memnhvsh/ th`" prasia`"… | [Th. 112] ERM. Kai; ejtruvghsa me;n ojfqalmw/` to; krivnon, o{ti leukovn... FIL. Ouj ga;r ejkbaivh" ojye; th;n aiJmasiavn… ERM. ÔEwvraka de; stovmati to; mh`lon, o{ti glukuv... FIL. “Eoikav" moi, w\ ÔErmovklei", mh; a]n thvmeron th;n rJovan h] th;n murrivnhn ajpolipei`n. 1 Test.: V. Edd.: Gaulmin 1625, pp. 426-467; Du Theil 1810, pp. 109-127; Mercati 1970, pp. 162-164 (Anacreonticos versus tantum edidit, i. e. ll. 305-320). Vers.: lat. Gaulmin 1625, pp. 427-467 (textum graecum e regione exhibens). 2 inscr. tou` aujtou` [sc. tou` Prodrovmou] ∆A. h] g. e[. V, Th. || iuxta titulum in mg. sn. numerus appictus est ka—, i. e. omnium Prodromi in V servatorum operum XXI opus: Kurou` Qeodwvrou tou` Prodrovmou diavlogo" ∆A. h] g. e[. G. 3 Filovlao" in rubricis plenis, Filovlew" in textu V, edd.; quam variationem servavi 4 post eij kai; aujtouv" add. gev edd. 5 aujtovmata V, Th.: ajkroavmata coniecit G. 6 th`" om. G. 7 sw`n om. Th. 83 ãERM.Ã8 Aijsqevsqai de; touvtwn dou;;" kai; toi`" xu;n ejmoiv -Cavrmippo" de; h\n oJ Megareuv", kai; oJ ajpo; Savmou Diovdwro" kai; e[rano" a[llo" stoa`" kai; ∆Akadhmiva"-, ka/\ta eij gluku; to; mh`lon kai; leuko;n to; krivnon puqovmeno" kai; ããNaivci, w\ ÔErmovklei"Ãà ajpokrinamevnwn ajkouvsa", ∆Epivkouron me;n ejqaumasavmhn oi|" e[gnw te kai; e[qeto ajgaqo;n eJkavstou th;n hJdo/nhvn: | [G. 433] Dhmokrivtw/ de; th`" peri; ta;" ajrca;" mikrologiva" ejggela`n oujk e[cwn o{son eijkov", to;n ejkeivnou gevlwn eij oi|ovn te h\n | [Th. 113] crh`saiv moi ejzhthsavmhn, wJ" a]n dia; bivou tou;" novmou" kai; ta; kena; kai; ta;" ajtovmou" gelw/``mi. 46 47 48 49 50 51 52 53 54 55 56 57 58 59 60 61 62 63 64 65 66 67 68 69 70 71 72 73 74 75 76 77 78 79 80 81 82 83 84 85 86 87 88 89 90 91 92 93 DIOF. Kai; mhvn, eij mh; ta; Dhmokrivtou gela`n ejpi; Dhmokrivtw/ pepauvsh/, oujk eij" makra;n oijmwvxh/ ta; ÔHrakleivtou ejpi; sautw/`: ta; ga;r Dhmokrivtou ejlevgxein ejpaggeilavmeno", ei\ta th;n me;n ejpaggellivan katenwtivsw, o{la" de;; skwmmavtwn nifavda" tou` filosovfou katecalavzwsa". FIL. ∆All∆ eij mh; pavnu mevlloite calepaivnein, eu\ mavla rJa/divw" oi\mai peivsein uJma`"9 ta; ∆Epikouvrou presbeuvein, parevnta" Dhmovkriton. ERM. Oujd∆ a]n o{lou" [Aqw", w\ lw/`ste, th`" korufh``" moi katalaxeuvoi". ª4º FIL. Teravstie Zeu`, ou|to" de; tiv" oJ spoudh/` prosiw;n wJ" hJJma`"… Oujc oJ ∆Aqhnai`o" ∆Amavranto"… Aujtovtato"10 , w\ fivlai Moi`rai, kai; hJmi`n eJktevon tou` lovgou uJpo; thlikouvtw/ diaithth/`. Cai`re, w\ lw/`ste ∆Amavrante,/ [G. 434] kai; o{pw" ejmoi; kai; toutw/i;> ÔErmoklei` ta;;" peri; fusikw`n ajrcw`n dialuvsei" ajmfisbhthvsei": Dhmokrivtou dev me pavlai maqw;n e[cei" kai; ∆Epikouvrou to;n ÔErmokleva. AMARANTOS ∆Alla; filosofiva me;n kai; diavlexi" tw/` gou`n tevw", w\ a[ndre", | [Th. 114] ajnabeblhvsqwn. ∆Egw; de; uJmi`n hJduv ti kai; a{ma geloi`on dihghsavmeno", tw/` me;n to;n ∆Epikouvreion tw/` hJdei`, tw/` de; tw/` geloivw/ tou;" Dhmokriteivou" dexiwsaivmhn. DIOF. Tou`to dev, ma; Div∆, ∆Amavrante, oujk ejn eujfovrw/ qeivmhn a[n, eij tosou`ton mukth`ra kata⁄⁄ceva" [V, 60v] hJmw`n, ÔErmoklh`" ouJJtosi; ajnevlegkto" oi[kade badiei`tai. AM. “Estai mevn soi kai; tau`ta kata; kairovn, w\ Diovfante. Nu`n de; pro;" Filivou, uJpo; tauth/i>; th/` platavnw/ deu`te kaqizhkovte", ajfhghvsomai me;n aujtov", ajkouvsesqe de; uJmei`": wJ" e[gwge, h[n me mh; ejlehvsante" ejpitrevyhte th;n ajfhvghsin, tavca a]n kai; diaragw``, oujk e[cwn o{pw" kai; katavscw to;n ajperihvghton gevlwn ejkei`non kai; o{sa ejn Stratoklevo" ei\don tou` filosovfou para; tw/` sumposivw/. ª5º ERM. To;n uJpe;r ta; ojgdohvkonta Stratokleva levgei", to;n kriomuvxhn11 … AM. Ouj ga;r a[llon, w\ ÔErmovklei".| / [G. 437; Th. 115] ERM. ∆Ata;r tivna eJorth;n a[gwn eiJstiva uJma`"… AM. Gavmou" wJJraivou", w\ lw/`ste. FIL. “H pou qugatevra tina; tw`n eJautou` h] qugatridh`n12 ejxedivdou numfivw/… AM. Oujk, w\ Filovlew": kajmoi; ga;r tau`ta ejdovkei, pri;n a]n ojfqalmw/` pisteuvsw13 to; pra`gma. To; dev oujc ou{tw" ei\cen: eJautw`/ ga;r eijshgavgeto th;n nuvmfhn. FIL. Papai; tou` ajkouvsmato": Stratoklh`" a[rti numfivo", oJ ∆Iapetov"14 , oJ trigevrwn, oJ koruzw`n… Th`" polia`" kai; th`" lhvmh"15 kai; th`" rJutivdo" oJ kronovlhro" ejxelavqeto… AM. Oujk, ajll∆ ejbavyato me;n th;n kovmhn kai; kalamivskoi" perielivxa" ejnevplexen, ejpevcrwse de; fukivw/ th;n pareiavn kai; to;n meivraka, wJ" oi|ov" te h\n, ejsofivsato. ª6º FIL. Povtnia Qevmi, tou` gevlwto": o{so" presbuvth" a[nqrwpo" kai;; filovsofo" skhnika; a[tta16 kai; kaina; ejpimorfavzetai provswpa | [Th. 116] kai; kata; ta;" flaurotevra" tw`n eJtairivdwn fukivw/ te th;n filovsofon w[cran periairei`tai kai; uJpo; katovptrw/ th;n polia;n eujqetivzetai. AM. Kai; mhvn, eij tw`n eJxh`" ejpibaivhn, pollw`/ plevon eu\ oi\d∆ o{ti gelavsesqe. 8 ãERMOKLHSà add. edd. 9 uJma`" scripsi (cfr. vers. G.): hJma`" V 10 aujtovtato" scripsi (cf. vers. G.): aujtovmato" V 11 kriomuvxhn scripsi: kruomuvxhn V 12 qugatridh`n scripsi: qugatridhvn V 13 pisteuvsw V: pisteu`sai G.: pisteuvw Th. 14 ∆Iapetov" G. (in adn.): ijatrov" V, Th. 15 lhvmh" G.: luvmh" V 16 a[tta Th.: a{tta V 84 FIL. Mh; suv ge, w\ pro;" th`" / [G. 438] teleth`" ejkeivnh" kai; tw`n gavmwn ∆Amavrante, ajll∆ a[nwqevn poqen kai; ejk prooimivwn a[rxai th`" dihghvsew": eujparakolouqhtovtero" ga;r a]n ou{tw kai; oJ lovgo" soi kai; hJmi`n oJ gevlw" probaivh. 94 95 96 97 98 99 100 101 102 103 104 105 106 107 108 109 110 111 112 113 114 115 116 117 118 119 120 121 122 123 124 125 126 127 128 129 130 131 132 133 134 135 136 137 138 139 140 141 142 143 144 145 AM. ÔW" a[smenov" soi, w\ eJJtai`re, peiqoivmhn th;n dihvghsin ajnakorufwvsasqai ajxiou`nti: su; de; tiv pote mhde;n e[ti famevnou ejxegevlasa" mavla platuv… FIL. Nh; Div∆ ejnovhsa"17 o{pw" me;n prosfevresqai e[mellen oJ ∆Iapeto;" th/` nuvmfh/ peri; th;n oJmilivan, o{pw" de; prospaivzein sardwvneiovn ti ejpigelw`n kai; perievlkein wJ" eJauto;n ajkkizomevnhn kai; ajnainomevnhn to; fivlhma… AM. Gelavsh/ me;n kai; tau`ta: nu`n de; mhv moi e[pece th`" dihghvsew" th;n oJrmhvn. FIL. Levge, w\ ∆Amavrante, wJ" e[gwge ⁄⁄ [V, 61r] a[fwnov" soi tou` loipou` ajkroath;" kaqedou`mai kai; oujde;n ajndriavnto" movnon18 ajkouvonto" dienhnocwv". ª7º AM. Sunhvqh moi ta; kata; toutoni; to;n numfogevronta, w\ a[ndre", fivlw/ te o[nti kai; tou` ejx ajgcisteiva" gevnou" ouj povrrw, kai; a[llw" de; tw`n ejn filosofiva/ touvtou diatribw`n oujk ajhdw`" katakouvsanti. Qaumasto;" ou\n tav te a[lla ejdovkei moi oJ ajnh;r kai; mavlista o{pou th`" hjqikh`" filoso/fiva" | [G. 440] peri; swfrosuvnh" tuvcoi diexiwvn, desmovn te to;n gavmon ojnomavzwn kai; pevdhn a[rrhkton kai; th`" tw`n o[ntwn qewriva" kwluvmhn kai; ããEi[qeÃÃ, levgwn, ããw\ tevkna, kai; touti; to; fortivon ajpeskeuasavmhnÃÃ, to; | sw`ma [Th. 117] uJpodeiknuv", ããi{na toi`" ou\si kaqarw`" ejpibateuvein moi ejxegevneto. Tiv de; dei` ejpi; tw/` desmw/` desmou` kai; froura`" ejpi; th/` froura/`…ÃÃ. ∆Epi; dh;19 touvtoi" polla; tw/` gunaikeivw/ dialoidorouvmeno" fuvlw/, suggenei`" te ajspivda" kai; gnhsiva" ejcivdna" tauvta" ajpokalw`n, tav ge kata; Klutaimnhvstran ajnamimnhvskwn kai; kaq∆ ÔElevnhn kai; o{sa me;n dia; Faivdran ÔIppovluto", o{sa de; Bellerofovnth" di∆ “Anteian kai; sunovlw" eijpei`n wJ" gunai`ke" dramavtwn te kai; poihmavtwn to;n bivon ejnevplhsan. Kai; tosou`to piqano;" h\n ta; toiau`ta filosofw`n, wJ" ejmev ge pisteuvonta kai; th;n mhtevra tou` loipou` kai; ta;" oJmaivmou" aujta;" uJpoblevpesqai. Tau`tav te ou\n e[lege kai; ãã∆Adikei`" me, w\ Klwqoi`ÃÃ, ejxebova, ããe[ti to; nh`ma mh; uJpotevmnousa, mhde; tw/` Aijakw/` paradidou`sa, kai; / para; [G. 442] to;n ∆Ai>dwneva pevmpousa, ajll∆ ejtwvsion a[cqo" th/` gh/` kataleivpousa kai; oi|on deutevrw/ bivw/ fulavttousa. Tiv ga;r, w\ Qeoiv, kai; ajdikhvsa" e[ti tw/` swvmati ejnteqavyomai touvtw/ kai; movno" aJpavntwn ajpoteuvxomai th`" ejnteu`qen ejleuqeriva"…ÃÃ. ª8º Tau`ta oJ me;n e[legen: ejqaumavzomen de; hJJmei`" kai; ejmakarivzomen kai; tw/` o[nti eujdaivmona ejkalou`men, th/` te didaskaliva/ tw`n w[twn oi|on ejxaiwrouvmenoi deinovtato" ga;r eijpei`n oJ ajnhvr- kai; th/` ijdeva/ pisteuvonte": h{ te ga;r uJphvnh kaqei`to mevcri kai; ejpi; govnaton20 kai; oJ travchlo" ejsimou`to kai; sunevspasto hJ ojfru`" kai; hJ w[cra perieplana`to to; provswpon kai; to; o{lon eijpei`n filovsofon aujto;n kai; toi`" ajgnoou`si to; ei\do" ejkhvrutten. ∆All∆ hJ cqev", w\ filovth", tov te dra`ma uJfei`leto kai; perieivleto th;n skhnh;n kai; to; ajlhqe;" ejxepovmpeusen. ∆Egw; me;n ga;r peri; to; uJper⁄⁄keivmenovn [V, 61v] moi tou` oi[kou kaqizovmhn dwmavtion: ajnew/vgasi d∆ ejn aujtw/` polla; quridivwn stovmata, e[xw pou peri; th;n lewfovron casmwvmena, kai; to;n para; Plavtwni ∆Axivocon ou{tw tuco;n ajnegivgnwskon kai; ejkakhgovroun me;n ta; prw`ta to;n a[ndra oi|" mikroyuvcw" a[gan kai; ajgennw`" ajpedeiliva to;n qavnaton kai; th;n | teleuth;n [Th. 118] ajnavndrw" ejmormoluvtteto.É [G. 445] ∆Eqauvmazon de; oi|" ejsuvsteron aujth;n dh; tauvthn kai; ajpeqavrshse, mavlista de; to;n Swkravthn kateplhttovmhn, tosauvthn probeblhmevnon kai; ou{tw" ajhvtthton th;n peiqwv. ª9º Tau`ta periodeuvwn tw/` nw/`, oJrw` tina" tw`n oijketw`n Stratoklevo"21 meta; Cairhvmono" tou` sumbolaiogravfou wJ" tavco" podw`n oJdeuvonta". ∆Ekathfiva de; oJ Cairhvmwn kai; ta; polla; uJpestevnazen: ejw/vkei ga;r ajgnoei`n ejf∆ w|/ kai; kaloi`to. Diaqhvkhn de; gravyein, oi\mai, katestocavzeto kajnteu`qen wJ" para; teqnhxovmenon ajpiw;n to;n ajniwvmenon uJpekrivneto, wJ" kajme; diataracqevnta pro;" th;n o[yin kai; taujto;n o} kai; Cairhvmwn uJpwpteukovta, ããÔW" e[oikenÃÃ, eijpei`n, ããhJ Klwqw; th`" 17 ejnovhsa" V: ejnovhsa edd. 18 movnon om. Th. 19 dh; V: de; edd. 20 govnata possis 21 Stratoklevo" V2 : Stratoklevou" V, edd. 85 Stratoklevo" ajra`" katakouvsasa uJpetevmetov oiJ to; nh`maÃÃ, kai; a{ma, ããFeu` th`" zhmiva"ÃÃ, hJlivkon oi||on ajnakragovta ijevnai te wJ" aujtou;" kai; puqevsqai tou` oijkevtou ta; kata; to;n filovsofon kai; o{tou ge e{neka to;n sumbolaiogravfon komivzoi. Kai; o{", ejpei; teqorubhmevnon te i[doi me kai; th;n uJpovnoian ejmplanwmevnhn e[ti toi`" proswvpoi" e[conta, ãã“Allw/ mevnÃÃ, ei\pen, ããei\pon a]n oujdevn 146 147 148 149 150 151 152 153 154 155 156 157 158 159 160 161 162 163 164 165 166 167 168 169 170 171 172 173 174 175 176 177 178 179 180 181 182 183 184 185 186 187 188 189 190 191 192 193 194 195 22 ÃÃ, hJrevma pro;" to; ou\" ejpikuvya", ããsou` de; oujk ajpokruvyomai to; ajpovrrhtonÃÃ. ããLevgeÃÃ, h\n d∆ ejgwv, ããpro;" Carivtwn, w|| ÔErmwnivdionÃÃ. Kai; o{": ããGavmou"ÃÃ, e[fh, ããthvmeron eJortavzei moi oJ despovth"ÃÃ.É ãã«H pouÃÃ, [G. 446] e[fhn, ãã∆Agamevnou" tou` uJi>dou`…ÃÃ: tou`ton ga;r h/[dein gavmou wJJrai`on. ãã∆Agamevnou"…ÃÃ, h\ d∆ o}" kai; a{ma pefulagmevnon ti kai; uJpesmugmevnon ejgevlasen. ∆Egkeimevnou dev mou tw/` lovgw/, oJ dev ããPerittovvnÃÃ, e[fh, ããzhtei`n ejx hJJmw`n, a} ojfqalmoiv se o{son oujdevpw didavxontaiÃÃ, kai; a{ma tacinwtevrou" h{kein iJkevteue -ta;" gavr moi peuvsei" uJpotevmesqaiv ti tou` kairou`kai; hJmei`" peisqevnte" eiJpovmeqa tw/` ÔErmwnivdh/ speuvdonti. ª10º ÔW" de; ejn Stratoklevo" ejlqovnte" thvn te au[leion uJperbaivhmen kai; wJ" to;n qavlamon ajnabaivhmen, pw`" soi, w\ filovth", ta; ejnteu`qen dihghsaivmhn… Kaqh`sto me;n oJ kalo;" numfivo" ejkei`no", crusw/` te o{lo" katavpasto" kai; toi`" numfikoi`" ejpiqevmasin23 , o} kai; mavlista aijscrovteron aujto;n ejdeivknu th/` paraqevsei, ⁄⁄ meta;; [V, 62r] tw`n crusivwn kataqewvmenon. ÔH pareia; de; toi`" me;n ejxesthkovsi th`" rJutivdo" kai; toi`" kurtwvmasi clwrw/` baptomevnh tw`/ fuvkei, tai`" de; eijsocai`" kai; koilivai" th`" ajrcaiva" w[cra" to; plevon ejnaposwvzousa, a{te tw/` summemukovti tw`n oijdhmavtwn | mh; [Th. 119] katadu`nai pro;" to; koi`lon th`" bafh`" o{lh" sugcwroumevnh", paggevloiovn tina mivxin ajpetevlei wjcrokokÉkivnou. [G. 449] ∆Enouvlisto de; hJ kovmh kai; ejpurriva: to; plevon de; tou` geneivou xurw/` pro;" to; perifere;" perih/vrhto kai; hJ kovrh kovclw/ diemelaivneto, tou`tov ge oujk ai[sion sullogisamevnou24 tou` filosovfou: mevlano" ga;r ejkei`qen tou` th`" lhvmh"25 uJgrou` katarrevonto", oujk eij" makra;n to; sovfisma ejxelhvlegkto26 . ª11º ∆Egw; dev, ma; to;n Fivlion, oujde; ajnaginwvskein ei\con to;n a[ndra kaiv toi pravgmata e[scon kuvklw/ tou;" ojfqalmou;" periavgwn kai; th/` o[yei to;n oi\kon diereunwvmeno", ei[ pou katamavqoimi to;n didavskalon: oJ d∆ ajlla; kai; ejggutavtw me dielavnqanen w[n. Pou`` ga;r a]n kai; dievgnwn to;n poliovn, to;n uJphnhvthn, to;n tetanovtrica, to;n me;n thlikou`ton ajposkeuasavmenon pwvgwna, xanqo;n de; th;n kovmhn kaqizhmevnon27 kai; oujlokavrhnon, o}n ejgw; geloiasthvn tina to; thnikau`ta ei\nai w/jhvqhn tw`n misqou` suniovntwn wJ" ta; sumpovsia kai; ojbolou` tuco;n h] duoi`n pwlou`ntwn sfa`" eJautouv"… Kai; tavca a]n kai; ejpuqovmhn tou28 tw`n parestwvtwn, o{qen hJmi`n euJreqeivh ou|to" oJ mi`mo", eij mh; proaisqovmeno" th;n peu`sin ejkei`no", kai; o{poi gevlwto" aujtw/` katanthvsoi to; pra`gma, prosefqevgxatov te paggevloion uJpestigkrwkwv" kaiv ããÔW" eij" kairo;n hJmi`nÃÃ, e[fh, to;n fivlon prosqevmeno": cqe;" me;n ga;r pisteuvwn tw/` pwvgwni, tou` tevknou uJpemimnhvsketo kai; to;n pai`da ejkavlei kai; to;n uiJo;n É prosefqevggeto, [G. 450] thvmeron de; tw/` geneivw/ kai; aiJ levxei" sunexurhvqhsan kai; nu`n oJ h{lix kai; oJ ajdelfo;" kai; oJ fivlo" ajnti; tw`n semnw`n ejkeivnwn kai; presbutikw`n ojnomavtwn. ª12º Tau`ta favmeno" pro;" ejme; kai; dh; pro;" to;n sumbolaiogravfon ejtravpeto kai; to; dokou`n a{pan wJ" to; eijko;" uJposhmhnavmeno" kai; ããTou` gambrou` puknovteron mevmnhsoÃà ejpeipw;n wJ" th;n nuvmfhn w/[ceto, eij tevrma oiJ ta; peri; th;n stolh;n e[coi diereunhsovmeno": kai; ejkavqhto th;n gunai`ka gewmetrw`n periergavzetov te to; provswpon kai; wJ" ouj kalw`" hJ ojfru`" bafeivh tai`" numfostovloi" ejloidorei`to kai; ajnabavptein aujto;" ejpeceivrei, th;n | bafh;n [Th. 120] aijthsavmeno", tov te peridevrraion toi`" daktuvloi" ejphvrceto kai; kata; kovsmon ejtivqeto tou;" oJrmivskou". ÔO de; Cairhvmwn kaqh`stov pou kai; aujto;" ejpiv tino" skivmpodo" camaizhvlou, proixi; kai; mnhstai`" ⁄⁄ [V, 62v] ejpadolescw`n kai; to;n gambro;n qama; tw/` lovgw/ 22 oujde;n scripsi: oujqe;n V 23 ejpiqevmasin V: eJsqhvmasin coniecerim 24 sullogisamevnou edd.: sullogisamevnh V 25 lhvmh" G.: luvmh" V 26 ejxelhvlegkto edd.: ejxelhvlekto V 27 xanqo;n d. t. k. kaqizhmevnon V: xanqo;n d. t. k. kaqizovmenon vel xanqh;n d. t. k. kaqeimevnon possis 28 tou om. Th. 86 pareiskuklw`n. ∆Epei; dev pote kai; pauqeivh ejnubrivzwn tw/` cavrth/ kai; oJ numfagwgov" te 196 197 198 199 200 201 202 203 204 205 206 207 208 209 210 211 212 213 214 215 216 217 218 219 220 221 222 223 224 225 226 227 228 229 230 231 232 233 234 235 236 237 238 239 240 241 242 29 a{ma kai; numfivo" ejxevlqoi tou` gunaikw`no", kai; dh; to; gravmma oJ Cairhvmwn ejpi; tou` sunedrivou uJpanegivnwske. Tw`n me;n ou\n a[llwn e{kasto" ejkaluvyatov te to; stovma kai; uJpo; tw/` iJmativw/ ejgevlasen, ejme; dev, ma; th;n Qevmin, kai; oJ gevlw" ejpevlipe, katanoou`nta É [G. 453] to;n Stratoklh`n, oJphnivka tou` gambrou` ajkouvseien, ejnqousiw`nta pro;" to; rJh`ma kai; bakceuovmenon, mikrou` dev pou kai; ajnistavmenon katafilh`sai th;n cei`ra tou` sumbolaiogravfou. Kajpei; movgi" ejkei`no" ajnaginwvskwn ejpauvsato, ããTiv de; diemevllomen e[ti kai; ouj pro;" to;n new;n a[pimen…Ãà favmeno" oJ numfivo", ajnevsthsev te pavnta" kai; wJJ" to; ∆Isei`on ajph/veimen, eJtevrwqen de; hJ nuvmfh kai;30 aujth; meta; th`" kaqhkouvsh" proh/vei pomph`" kai; to; o{lwn o[mma eujqu;" pro;" eJauth;n ejpespavsato: ei\ce ga;r ajperihvghtovn tina th;n w{ran to; guvnaion, o{shn th`/ fuvsei kai; hJ tevcnh prosezwgravfhsen, w{ste kai; oJ Stratoklh`" oujk e[laqev ti kai; ejzhlotuphkw;" pro;" to; pra`gma. ª13º ERM. Ei\en: ajlla; tiv" pote kai; tivnwn ou\sa to; kovrion, w\ ∆Amavrante, tw/` kronolhvrw/ toutw/i>; ejxedovqh… AM. Qugavtrion, w\ ÔErmovklei", ∆Antiklevo" tou` khpwrou``, poluolbiwtavth mevn, nh; Diva, to; kavllo", peniva/ de; kai; ejndeiva/ tw`n pro;" ajnavgkhn pepwlhmevnh to;n gavmon. ERM. ÔHravklei", ∆Amavrante, tou` kakou`. Pavnta douleuvei tw/` plouvtw, pavnta uJpevzeuktai tw/` crusw`/. Pevpratai kai; kavllo" fuvsei ejleuvqeron. ÔW" ejmoiv ge eij" davkruon ajntiperih`lqen oJ gevlw" ejnqumhqevnti pw`" me;n ajnevxetai tw`n tromalevwn ejkeivnwn periplokw``n hJ gunhv, pw`" de; É [G. 454] ta;" ajhdei`" tw`n ceilevwn ejnevgkh/ ajntemploka;" kai; koruzw`nta to;n numfivon | [Th. 121] hJ talaivpwro" ajpomuvxei. ÔW" a[ra krei`tton h\n aujth/`, tw/` patri; to;n kh`pon sumponoumevnh/, meta; tw`n uJakivnqwn pevnesqai kai; meta; tw`n muvrtwn peina`n kai;; tai`" ajhdovsi suna/vdein kai; uJpo; tai`" rJoai`" kai; tai`" murivnai"31 uJpnou`n h] meta; th`" cruseva" kovprou deipnei`n kai; tw/` ajrgurw/` borbovrw/ sugkataklivnesqai. ª14º AM. Tau`ta me;n w|dev ph/ kai; e[cei, w\ ÔErmovklei". To; thnikau`ta de; tw`n kaqhkovntwn32 th/` toiauvth/ teleth/` telesqevntwn, ejxhv/eimen tou` newv, toi`" numfivoi"33 wJ" to; eijkov" ejmpompeuvonte". ÔH me;n ou\n Muvrilla -tou`to ga;r ejkavloun th;n nuvmfhn- skuqrwphv te ⁄⁄ [V, 63r] proh/vei kai; kathfhv", wJ" a[n ti" eijkavseie th;n oujk ejpi; gavmon, ajll∆ ejpi; qavnaton steloumevnhn34 : oJ de; ∆Iapeto;" Stratoklh`" th;n nuvmfhn o{lhn eij" eJauto;n meteplavsato35 , tav" te ojfru`" ajnateivnwn kai; to;n travchlon ai[rwn kai; bracu; ta;" blefavra" ajnew/gnu;" kai; to; cei`lo" sunavgwn kai; perisfivggwn. “Anwqen de; oJ stefanivsko" th;n falavkran pericuqei;" plhsifah` th;n selhnaivan katevgrafen, w{ste oujde; katevcein e[ti to;n gevlwn oi|oiv te h\men, ajll∆ a[llo" a[llo ti mevro" tou` tovpou dialacovnte", tw`n36 kagcasmavtwn ejneforouvmeqa. ∆Emoi; de; to;n ∆Afrodivth" kai; ÔHfaivstou É [G. 457] gavmon sumba;n thnikau`ta ejpicarientivsasqai: ããOujkou`nÃÃ, ei\pen oJ grammatiko;" Dionuvsio", eujwvnumo" paraqevwn moi, ããoujd∆ ejntau`qa a]n ∆Agci`sai37 kai; “Aree" ejpilivpoienÃÃ. ª15º Tau`ta levgonta" ei\cen hJma`" oJ numfw;n kai; tou;" me;n numfivou" hJ pasta;" uJpedevceto, hJmei`" d∆ h\men pro;" th/` trapevzh/ ejskeuasmevnh/ pro;" to; aJbrovteron kai; ejneforouvmeqa me;n tw``n o[ywn, a} pollav te kai; poikivla prokevoito, ejpivnomen de; tou;" ajrivstou" tw`n oi[nwn, nhsiwvta" a{ma kai;; hjpeirwvta", ejkpwvmatav te polla; crusou` kai; ajrgurou` kai; o{sa smaravgdina kai; sapfeivrina tw/` sumposivw/ ejneparrhsiavzeto. ÔO de;; trikovrwno" numfivo" ejkei`no", oJphnivka th;n fiavlhn ejporecqeivh, ouj provteron, ouj ma; to;n...38 , h] tri;" filh`sai to; kovrion tou` oi[nou ejrrovfa. ∆En touvtoi" ejpikuvya" moi pro;" to; ou\" oJ Megareu;" | [Th. 122] 29 te scripsi: de; V, edd. 30 kai; del. Th. 31 murivnai" V: murrivnai" Th. 32 kaqhkovntwn om. G. 33 toi`" numfivoi" V, Th.: tou;" numfivou" G. 34 th;n... steloumevnhn scripsi: th;n... stelloumevnh(n) (sic) V 35 Stratoklh`" eij" th;n nuvmfhn o{lw" eJauto;n meteplavsato possis 36 tw`n om. G. 37 ∆Agci`sai Th.: ∆Agcivsai V 38 ouj ma; to;nÚ V: o. m. t. e[rwta edd. 87 ∆Aristovboulo", ãã‘H oujc oJra`/"ÃÃ, ei\pen, ãã∆Amavrante, to;n numfivon, o{pw" uJp∆ aijdou`" hjruvqrwtaiv oiJ to; provswpon…ÃÃ. 243 244 245 246 247 248 249 250 251 252 253 254 255 256 257 258 259 260 261 262 263 264 265 266 267 268 269 270 271 272 273 274 275 276 277 278 279 280 281 282 283 284 285 286 287 288 289 290 291 292 293 Kaiv: ããNai; ma; to;n...39 ÃÃ, h\n d∆ ejgwv, ããajll∆ oujk oi\d∆ o{pw" ∆Aristobouvlw/ to; fu`ko" e[reuqo" aijdou`" ejmimhvsatoÃÃ: kai; o}" ejpi; touvtw/ platu; gelavsa" ajnevsth tou` sumposivou. Qovrubo" ejpi; touvtw/ polu;" kai; uJpeblevpontov me pavnte" w{" ti geloi`on ejpi; tw/` numfivw/ eijpw;n to;n ∆Aristovboulon ajnasthvsaimi. ª16º Kai; tavca a]n pro;" kakou` ejlavqomen pareiskuklhvsante" É [G. 458] to; fu`ko" tw/` lovgw/, eij mh; Dionuvsio" oJ grammatiko;" ajnastaivh te th`" kaqevdra" eujqu;" kai; tou` kovlpou to; biblivon ejxagagw;n to;n ejpiqalavmion ajnagnwv/h. Ei\ce de; w|dev ph/ ta; ejlegei`a: Caivret∆ ajristogavmwn kallivcroa devmnia kouvrwn, tou` te Stratoklevo" th``" te Murillidivou. Cai`re gavmo" te levco" te nehlecevwn ajizhw`n: cai`re gamostolivh kai; qalamhpolivh. Oujdev s∆, “Are" ptolivporqe kai; ∆Afrogevneia megivsth, numfivo" iJmerovei" kai; nuvmfh zaqevh tavrbhqen, carivtessi fuai`" t∆ ajgaqoi`" te proswvpoi". Numfive, wJ" ajgaqo;", wJ" eju>vmorfo" e[h", xanqov", ejreuqwvdh", melanovfru", botruocaivth"40 . Kai; su; dev, w\ nuvmfh, ⁄⁄ cai`re, ajristovloce. [V, 63v] Caivret∆: ejgw; d∆ u[mmin41 qalamhvi>on u{mnon ajeivdw tovnd∆, ojligosticivh" pai`da Lakwniavdo". | [Th. 123] Tau`ta ejkei`no" ei\pen kai; ejpeufhvmhse to; sumpovsion. Kai; oJ Stratoklh`": ãã∆All∆ ajmeivyaitov seÃÃ, ei\pe, ããth`" ajgavph" oJ Fivlio", hJlivkwn a[riste DionuvsieÃÃ: É [G. 461] kai; hJma`" oJ ejpi; tw/` h{liki gevlw" mikrou` g∆ a]n kai; ajpevpnige. Kai; o{": ããOujdevn ti kainovn, w\ Stratovklei",Ãà ei\pen, ããa]n filivan presbeuvonte" ta; fivloi" kaqhvkonta ejktelw`menÃÃ: kai; a{ma kaqivsa" tou` sisamou`nto" ajpevtrwge kai; o{ te Dionuvsio" au\qi" wjrcei`to kai; ejcovreue ta; ejkpwvmata. ª17º Kai; oJ numfivo": ããPavlai moiÃÃ, ei\pen ããw\ a[ndre", ejn ajpovrw/ kei`tai pw`" pote tine;" tw`n ajnqrwvpwn, ouj tw`n ajpaideuvtwn movnon, ajll∆ h[dh kai; tou` lovgou meteilhcovtwn kai; telesqevntwn ejn toi`" maqhvmasin, eij" tou`to ajrcaiovthto" ejxetravphsan, wJ" ejn oujk ajgaqoi`"42 tiqevnai to;n gavmon, kai; ou[te politeivan ajnatrevponte" i[sasin ou[te gevnesin ajnairou`nte". ∆All∆ h[n tiv" pou kai; ejlevgcein ejpiceiroivh touvtwn tinav, to;n ∆Empedoklh` meta; tou` Neivkou" aujtivka probavlletai, tou`t∆ aujto; kataitiwvmeno" th`" genevsew" kai; oujde; tou`to | lhrei`n [Th. 124] ojknou`sin, wJ" ejpei; to; me;n Nei`ko" to;n aijsqhto;n poiei` kovsmon, Filiva dev ti" oJ gavmo", oujk a[ra gamhtevon ei[h, ajkolouvqw" ma; to;n gavmon sullogizovmenoi: oujde; ga;r kai; to; Nei`ko" aujto; Filivan pw"43 ejnovhsan ei\nai,É ajllhvlwn [G. 462] me;n ajpodii>stw`n ta; stoicei`a th/` tw`n poiothvtwn eijsovdw/, eJautoi`" de; e{kasta filiou`n kai; oi|on gavmon ejn eJkavstoi" poiou`n. Ka]n me;n ejrhvsetaiv ti" aujtouv": Ætiv pote, w\ a[nqrwpoi, to; tevleion ei\nai devndron fatev…Æ ÆTo; gennw`n o{moion eJautw/`Æ, ajpokrivnontai: a[nqrwpon de; oujk aijdou`ntai ajtelh` kataleivponte" kai; mhde; o{sa gou`n th/` davfnh/ h] th/` murrivnh/ kajkeivnw/ filotimouvmenoi… Papai; th`" ajgnoiva" o{ti mhde; tou`to ginwvskein e[cousin, wJ" dia; gavmou to; qnhtovn pw" ajqanativzetai, th/` diadoch/` fulattovmenon: wJ" ajtelei`" ejrrovntwn ou|toi kai; a[gamoiÃÃ. ª18º ããPiqano;" me;n ei\, nh; to;n GavmonÃÃ, h\n d∆ ejgwv, ããw\ didavskale. ∆Emoi; d∆, oujk oi\d∆ o{pw", desmo;" a[ntikru" to; pra`gma dokei` kai; pevdh a[rrhkto"ÃÃ, sullabw;n kai; ta\lla o{sa ejkei`no" cqiza; peri; tw`n toiouvtwn meta; th`" uJphvnh" ejfilosovfei: kai; ããOujdei;" oujdevpw peivsei me lovgo", wJ" oujk e[stin ejmpodw;n eij" filosofivan oJ gavmo", mevcri" a]n kai; touti; to; sw`ma lumainovmenon th/` quvra/ th`" ajlhqeiva" e[cw maqw;n para; Plavtwno"ÃÃ. ããSivgaÃÃ, h\ d∆ o{", ããto;n PlavÉtwna, [G. 465] o}" oujde; tou;" 39 nai; ma; to;nÚ V: n. m. t. Diva edd. 40 botruocaivth" G.: bostruocaivth" V, Th.: bostrucocaivth" possis 41 u[mmin scripsi: a[mmin V 42 ej. o. ajgaqoi`" vel ajgaqw/` scripsi: ejn oujk ajgaqou` V 43 pw" scripsi: pw`" V 88 a[rrena" hjtivmasen e[rwta"ÃÃ. | [Th. 125] ããGunai`ka" de;ÃÃ, ⁄⁄ [V, 64r] h\n d∆ ejgwv, ããta;" ejpibouvlou" eijspoihtevon a]n ei[h, didavskale, ÔElevna" kai; tau`ta kai; Klutaimnhvstra" oujk ajgnohvsanta"…ÃÃ. ããKai; mh;n ouj Klutaimnhvstra"ÃÃ, ei\pe, ããmovna", ajlla; kai; Phnelovpa" e[cei" ejk tou` e[pou" eJlwvnÃÃ. ããÔHsivodon de; pou` qhvsei"…ÃÃ, e[fhn, 294 295 296 297 298 299 300 301 302 303 304 305 306 307 308 309 310 311 312 313 314 315 316 317 318 319 320 321 322 323 324 325 326 327 328 329 ããÆToi`" d∆ ejgwvÆ, favmenon, Æajnti; puro;" dwvsw kakovn, w|/ ken a{pante" tevrpontai kata; qumovn, eJo;n kako;n ajmfagapw`nte"ÆÃÃ. ããAujtovqen oJ mavrtu":ÃÃ, h\ d∆ o{", ããejpei; ga;r a{pasi terpno;n ei\nai to; crh`ma tw/` poihth/` ajpopevfantai, pa`sin a]n ei[h pro;" ajnavgkh" oJ gavmo", ei[te flau`ron ei[te mhvÃÃ. ª19º Kai; ejn touvtoi" oJ kwmiko;" ajnivstatai Cairefw`n kaiv: ããTouvtwn me;n a{li" hJmi`n44 :ÃÃ, ei\pen, ããejgw; dev ti th`" ∆Anakrevonto" mouvsh" wJ" ejn kateunastikou` moivra/ uJpotragw/dhvsw th/` eJorth/`ÃÃ. Kai; a{ma e[lege: Qeavwn a[nassa, Kuvpri, ”Imere, kravto" cqonivwn, Gavme, biovtoio fuvlax, | [Th. 126] uJmeva" lovgoi" ligaivnw, uJmeva" stivcoi" kudaivnw, ”Imeron, Gavmon, Pafivhn. É [G. 466] Devrkeo th;n neavnin, devrkeo, kou`re: e[greo, mhvv se fuvgh/ pevrdiko" a[gra. Stratovklei", fivlo" Kuqeivrh", Stratovklei", a[ner Murivlla", i[de th;n fivlhn gunai`ka, komavei, tevqhle, lavmpei: rJovdon ajnqevwn ajnavssei, rJovdon ejn kovrai" Muvrilla. ∆Hevlio" ta; sevqen devmnia faivnei: Kupavritto" pefuvkoi sw/` ejni; khvpw/. Pro;" tau`ta diaporhvsa"45 ejkei`no" kai; oi|on uJpoflegei;" th;n yuch;n | [Th. 127] oujde; kaqarw`" duvnta h{lion ajnameivna", ajnivstataiv te mavla tacu; kai; pro;" to;n qavlamon ei[sw cwrei`, mhdevna mhvd∆ oJpwstiou`n proseipwvn. Kai; hJmi`n ejnteu`qen oJ suvllogo" dieluvqh. ª20º FIL. ∆Alla; mh; ejpileivpoievn pote, w\ qeoiv, to;n bivon toiau`ta sumpovsia, ∆Amaravntou sumposiavzonto" tou` kalou`, wJ" a]n kai; aujto;" ojfqalmoi`" trufw/vh kai; hJmi`n diakomivzoi tai`" ajfhghvsesi th;n trufhvn. 44 hJmi`n scripsi: uJmi`n V 45 diaporhvsa" scripsi: diagorhvsa" V: diaptohvsa" vel ãoujde;nà diagoreuvsa" possis 89 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 46 47 TEODORO PRODROMO  TRADUZIONE   TESTO VI  (146 Hör.)    Amaranto o amori di un vecchio  [1] FILOLAO Ah, ecco! Ti stavamo aspettando, Ermocle, ad Atene sin dall’alba, io e il qui  presente Diofanto.  ERMOCLE Sì, certo: io pure mi sono accorto, o Filocle, di essere giunto più tardi di quanto  avessi convenuto.  FIL. Proprio così: avremmo ragione a rimproverarti per il tuo ritardo!  ERM. Non devi rimproverare me, caro mio, ma quel giardino che oggi mi ha trattenuto  durante una passeggiata mattiniera e mi ha rubato gli occhi per intero.  FIL. Oh oh, un giardino mano lesta, a quanto racconti, e degno discepolo di Ermes, se è  vero che ti ha strappato via persino gli occhi, senza che tu te ne accorgessi!  ERM. Continui a scherzare; ma io sto ancora facendo il giro del fossato, toccando il narciso  e cogliendo il giacinto.  FIL. E noi, Diofanto, che pensavamo che Ermocle si trovasse qui da qualche parte, mentre  stava coi Narcisi e coi Giacinti!  DIOFANTO E che c’è di strano, Filolao, se Ermocle, pur non essendo più in mezzo a loro,  crede  di  esserlo,  dal  momento  che  tutte  le  cose  esistono  per  convenzione,  ma  nessuna  esiste realmente? O ci siamo dimenticati del maestro Democrito?  [2]  ERM.  O  santo  piacere,  ti  ringrazio  infinitamente,  Diofanto,  per  avermi  ricordato  Democrito! Io pure, persino di notte, concepivo obiezioni non assurde da muovere contro  quel filosofo! E ora non potrei ritirarmi prima di riuscire a confutare le ciarle di quello con  tutte le mie forze!  FIL. Ti paiono ciarle le teorie di Democrito, o Ermoclino?  ERM. Nient’altro che ciarle, per Zeus!  DIOF. Sbrigati dunque a spiegarci come mai ti sembrano tali!  ERM. Mi sbrigo, sì!  FIL.  In  nome  di  Epicuro,  sii  conciso;  e  non  come  ieri  a  casa  di  Aristocrate,  quando,  infilando  inaspettatamente  nel  discorso  più  e  più  volte  piaceri  ed  elementi  spontanei,  vomitasti e fosti cacciato fuori dal simposio tu e il tuo piacere!  ERM. Sei sempre stato un tipo aspro e offensivo, o mio carissimo! Ma la mia narrazione  sarà anche più breve dei tuoi atomi!  FIL. Comincia allora una buona volta e con calma.  [3] ERM. Stavo entrando, durante la mia passeggiata mattutina, nel giardino...  FIL. Ci farai ancora menzione dell’aiuola?  ERM. E colsi con l’occhio che il giglio era bianco...  FIL. Uscirai una buona volta dal muro di cinta?  ERM. Vidi con la bocca che la mela era dolce...  FIL.  A quanto pare, Ermocle, oggi non tralascerai il melograno o il mirto!  ERM.  E  feci  in  modo  che  anche  i  miei  compagni  avessero  percezione  di  essi  –c’erano  Carmippo di Megara e Diodoro di Samo e altri discepoli della Stoà e dell’Accademia– e  chiesi loro se la mela era dolce e il giglio bianco e li sentii rispondere: «Sì, Ermocle». Poi  ammirai  Epicuro  per  il  fatto  che  riconosceva  e  poneva  qual  bene  di  ciascuna  cosa  il  piacere. Non riuscendo, però, a deridere a dovere le  sofisticherie di Democrito riguardo ai  90 48 49 50 51 52 53 54 55 56 57 58 59 60 61 62 63 64 65 66 67 68 69 70 71 72 73 74 75 76 77 78 79 80 81 82 83 84 85 86 87 88 89 90 91 92 93 principî  ,  cercavo  di  vedere  se  mi  si  poteva  prestare  il  riso  di  quello  per  dileggiare a vita le leggi, i vuoti e gli atomi .  DIOF. Ebbene, se non la smetti di ridere il riso di Democrito contro Democrito, tra non  molto  verserai  le  lacrime  di  Eraclito  su  te  stesso!  Infatti  hai  promesso  di  confutare  i  principî di Democrito, ma poi te ne sei infischiato della promessa e hai scaricato tutta la  tua gragnola di beffe contro il filosofo!  FIL. Ma, sempre che non siate sul punto di arrabbiarvi, penso che vi persuaderò molto  facilmente a lasciare Democrito e a onorare le tesi di Epicuro.  ERM. Non riusciresti a scolpirmi tutti i monte Athos dalla cima, bello mio!  [4] FIL. Zeus prodigioso, chi è costui che avanza di gran carriera verso di noi? Non è forse  l’ateniese Amaranto? Proprio lui, care Moire; ed è con un tale arbitro che noi dobbiamo  proseguire  il  discorso.  Salute  a  te,  insigne  Amaranto,  e  vedi  un  po’  di  risolvere  le  controversie  mie  e  di  Ermocle  riguardo  ai  principi  naturali!  Sai  bene  che  io  sono  democriteo, Ermocle invece epicureo.  AMARANTO Rimandiamo per il momento filosofia e discussione, o signori; io, invece,  vorrei raccontarvi un fatto piacevole e ridicolo e così accattivarmi la simpatia dell’epicureo  con il piacevole e quella dei democritei con il ridicolo.  DIOF.  Ma,  per  Zeus,  questo  non  lo  riterrei  tollerabile,  o  Amaranto,  se  il  qui  presente  Ermocle  se  ne  tornasse  a  casa  non  confutato,  dopo  averci  rovesciato  addosso  le  sue  numerose derisioni!   AM.    Ebbene,  a  suo  tempo  avrai  anche  questo,  Diofanto.  Ora,  però,  in  nome  di  Zeus  protettore dell’amicizia, sediamoci qui sotto questo platano e io vi racconterò, voi invece  ascolterete; perché, se non mi accorderete la misericordia di raccontare, prima o poi potrei  scoppiare,  non  riuscendo  a  trattenere  quell’indescrivibile  riso  e  quanto  vidi  a  casa  del  filosofo Stratocle durante il simposio.  [5] ERM. Vuoi dire l’ultraottantenne Stratocle, quello sciocco caprone?  AM. Proprio lui, Ermocle!  ERM. Ma a che festa vi ha invitati?  AM. A belle e mature nozze, carissimo.  FIL. Forse ha dato in sposa una delle sue figlie o nipoti?  AM. No, Filolao: anch’io pensavo questo, prima di credere ai miei occhi. Ma le cose non  stanno così: è lui stesso che ha preso moglie.  FIL. Santo cielo, che sento! Stratocle novello sposo, il matusalemme, lo stravecchio, quello  che  ha  la  goccia  al  naso?  Si  è  dimenticato  della  canizie,  della  cispa  e  delle  rughe,  quel  chiacchierone incartapecorito?  AM. No, anzi: si è tinto i capelli, li ha arricciati e intrecciati; si è cosparso di cipria le gote e  ha contraffatto l’immagine giovanile come ha potuto.  [6] FIL. Veneranda Temis, che ridere! Un uomo così vecchio e filosofo che si foggia certe  maschere da scena e per di più mai viste e come le meretrici più fatue elimina il pallore del  filosofo con un po’ di belletto e si acconcia i capelli allo specchio!  AM. Eppure, se continuassi oltre, ridereste senz’altro ancor di più!  FIL. No, in nome di quella cerimonia di nozze, o Amaranto! Comincia piuttosto dall’inizio  e  dal  prologo  della  narrazione:  il  tuo  discorso  sarà  così  più  facile  da  seguire  e  noi  ci  sbellicheremo dalle risate!  AM. Con gran piacere, o amico, seguirò il tuo degno consiglio di risalire all’inizio della  vicenda; ma tu, perché sei scoppiato a ridere di gusto senza che io avessi detto alcunché?  91 94 95 96 97 98 99 100 101 102 103 104 105 106 107 108 109 110 111 112 113 114 115 116 117 118 119 120 121 122 123 124 125 126 127 128 129 130 131 132 133 134 135 136 137 138 139 140 141 FIL. Per Zeus, hai mica pensato a come quel matusalemme si sarà comportato con la sposa  nel giacersi con lei, come avrà scherzato col suo riso sardonico e come l’avrà tirata a sé  piena di smorfie e riluttante al bacio?  AM. Riderai anche per questo; ora, però, non mi impedire di iniziare il racconto.  FIL. Parla, Amaranto: io me ne starò zitto zitto, seduto ad ascoltarti, per tutto il tempo che  resta, né più né meno di una statua che ascolta soltanto.  [7] AM. C’è una certa familiarità tra me e il vecchio sposo, signori, perché gli sono amico e  parente  non  lontano;  e  poi  perché  ascolto  con  piacere  le  sue  controversie  filosofiche.  Quest’uomo, dunque, mi pareva straordinario tra gli altri aspetti soprattutto in quel punto  dell’etica in cui gli capitava di spiegare la temperanza: chiamava il matrimonio catena e  ceppi infrangibili, nonché impedimento alla speculazione della realtà e diceva: «Magari,  cari figlioli, potessi disfarmi di questo carico», e accennava al corpo, «così mi riuscirebbe di  compenetrare gli enti senza toccarli! Che bisogno c’è di una catena e di un carcere oltre alla  catena e al carcere già esistenti?». Oltre a questo, subissava di contumelie il gentil sesso,  appellando le donne aspidi parenti e vipere legittime; e ricordava le vicende di Clitemestra  e di Elena e quelle subite da Ippolito a causa di Fedra e da Bellerofonte a causa di Antea e,  insomma, come le donne avevano riempito la vita di eventi degni di drammi e di poemi!  Ed  era  così  credibile  nell’esporre  tali  principî  filosofici  che  io  finii  per  credergli  e  per  guardare con sospetto da quel momento in poi mia madre e persino le mie sorelle. Questo,  dunque, egli andava dicendo e gridava: «O Cloto, che torto mi fai! Non hai ancora reciso il  mio stame, né mi hai consegnato ad Eaco, né spedito da Ade, ma mi lasci qua come un  peso inutile per la terra e mi conservi come per una seconda vita! Che male vi ho fatto, o  dèi, per meritarmi di restare sepolto in questo corpo? Sarò l’unico a fallire nell’acquisto  della libertà da questo mondo?».  [8]  Questo  egli  andava  dicendo;  noi  lo  ammiravamo  e  lo  chiamavamo  beato  e  realmente felice, appesi, per così dire, per le orecchie al suo insegnamento ‐l’uomo, infatti,  era bravissimo a parlare‐ e fiduciosi nell’apparenza esteriore: la barba scendeva fino alle  ginocchia, il collo era ricurvo, il ciglio aggrottato e il pallore ricopriva il volto; insomma, la  forma declamava anche a chi non lo conosceva la sua essenza di filosofo! Ma la giornata di  ieri, o amici, ha svelato la commedia, ha eliminato la messinscena e ha buccinato il vero. Io,  infatti, me ne stavo seduto nella stanza al piano superiore di casa mia, le cui numerose  finestre si aprono fuori verso la strada, e leggevo così per caso l’Assioco che si trova tra le  opere  di  Platone;  e  vituperavo  il  protagonista  per  come  temeva  meschinamente  e  ignobilmente la morte e per come paventava non virilmente la dipartita da questo mondo.  Ammiravo  però  come  alla  fin  fine  egli  si  facesse  coraggio  proprio  di  fronte  a  questa;  e  soprattutto restavo stupito di Socrate, il quale proponeva una così grande e così invincibile  persuasione.   [9]  Mentre percorro tali pensieri con la mente, vedo alcuni schiavi di Stratocle con il  notaio  Cheremone  camminare  di  gran  carriera  per  strada.  Cheremone  era  abbattuto  in  volto e soffocava i suoi gemiti: sembrava che non sapesse per che cosa veniva convocato;  credo  che  fosse  diretto  a  scrivere  un  testamento  e  per  questo,  come  se  andasse  da  un  moribondo, simulava un atteggiamento triste; tanto che io, turbato in volto e nutrendo lo  stesso  sospetto  di  Cheremone,  dissi:  «A  quanto  pare,  Cloto  ha  ascoltato  la  preghiera  di  Stratocle  e  ha  reciso  di  nascosto  il  suo  stame»;  e  nel  contempo  come  gridavo  «Ah,  che  danno!», e andavo da loro e chiedevo allo schiavo la situazione del filosofo e perché avesse  fatto  condurre  il  notaio.  E  quegli,  avendomi  visto  sconvolto  e  incupito  in  volto  dal  sospetto, disse chinandosi un po’ verso il mio orecchio: «A un altro non avrei detto niente;  ma  a  te  non  nasconderò  il  segreto».  «Dimmelo,  Ermoniduccio,  in  nome  delle  Grazie!»,  92 142 143 144 145 146 147 148 149 150 151 152 153 154 155 156 157 158 159 160 161 162 163 164 165 166 167 168 169 170 171 172 173 174 175 176 177 178 179 180 181 182 183 184 185 186 187 188 189 ribattei  io;  ed  egli  riprese:  «Oggi  il  mio  padrone  festeggia  le  nozze».  «Forse  del  nipote  Agamene?», dissi, sapendo che era in età da matrimonio. «Di Agamene?» e accennò un  sorriso accorto e smorzato. Ma poiché io lo incalzavo con il discorso, quegli riprese: «È  superfluo  cercare  da  noi  quello  che  gli  occhi  apprenderanno  come  non  hanno  ancora  fatto».  E  pregava  di  andare  il  più  veloce  possibile,  perché  le  mie  domande  avevano  sottratto  un  po’  di  tempo.  Allora  noi  gli  obbedimmo  e  lo  seguimmo  nella  sua  corsa  frettolosa.   [10]  Quando fummo giunti a casa di Stratocle ed avemmo varcato la porta del cortile e  fummo  saliti  nel  soggiorno…  Come  potrei,  amici,  raccontarvi  il  seguito?  Quello  sposo  magnifico sedeva tutto cosparso d’oro e di ammennicoli nuziali; il che lo rendeva anche  più brutto al confronto, lui che guardava dall’alto in basso in mezzo a tutti i suoi ori. Le  guance,  un  po’  impiastricciate  di  verde  belletto  nelle  sporgenze  e  nelle  rientranze  delle  rughe, un po’ conservanti la maggior parte dell’antico pallore negli avvallamenti e nelle  cavità della pelle, poiché il belletto non riusciva a penetrare nella sua interezza nei solchi  della pelle a causa del combaciare dei rigonfiamenti, conferivano un ridicolissimo colore  misto di ocra e scarlatto. I capelli, poi, erano ricci e rossi, mentre gran parte della barba era  stata  rasa  via,  fino  a  rendere  il  viso  bello  tondo,  e  le  palpebre  erano  nere  di  bistro,  ma  senza che il filosofo avesse calcolato ciò opportunamente: poiché da lì colava giù il nero  umore cisposo, in breve il trucco era stato scoperto.   [11]  Io, per Zeus protettore dell’amicizia, non riuscivo nemmeno a riconoscere l’uomo  ed ebbi certo problemi, girando gli occhi intorno e indagando con lo sguardo la casa, se  mai riuscissi ad accorgermi del maestro; ma quegli mi stava vicinissimo, senza che io me  ne accorgessi. Come avrei potuto riconoscere il canuto, il barbuto, il capelluto in uno che si  era sbarazzato della barba così lunga e che stava seduto là biondo e riccio di capelli, che  fino a quel momento avevo creduto un buffone di quelli che frequentano i banchetti per  denaro e si vendono per uno, forse, o due oboli? E forse l’avrei chiesto anche a uno dei  presenti,  da  dove  ci  fosse  stato  pescato  questo  mimo,  se  quello,  accorgendosi  in  tempo  della  domanda  e  dell’esito  per  lui  ridicolo    della  faccenda,  non  mi  avesse  salutato,  gracchiando con suono alquanto acuto e ridicolo, e non mi avesse detto: «Sei giunto da noi  proprio al momento giusto», aggiungendovi il vocativo “amico”. Ieri, infatti, confidando  nella barba, si ricordava di usare la parola “figlio mio” e mi chiamava “bambino” e mi  apostrofava  “figliolo”;  oggi,  invece,  insieme  con  la  barba  sono  stati  rasi  via  anche  gli  appellativi e ora “coetaneo”, “fratello” e “amico” ricorrono in luogo di quei nomi solenni e  degni di un vecchio!   [12]  Dopo  avermi  detto  questo,  si  rivolse  pure  al  notaio  e,  lasciando  intendere  tutto  quello che si era deciso come naturale e aggiungendo: «Ricorda più spesso il genero!»,  si  diresse dalla sposa, per ispezionare se erano finiti i preparativi della vestizione. E sedeva,  squadrando la donna: osservava curiosamente il viso e rimproverava le ancelle del seguito  nuziale,  perché  le  sopracciglia  non  erano  state  ben  tinte;  allora  prendeva  a  ritingere  di  propria mano, chiedendo il trucco, si avventava con le dita sulla collana e applicava con  eleganza  gli  orecchini.  Cheremone  intanto  era  seduto  pure  egli  da  qualche  parte  su  un  lettuccio  basso  e  chiacchierava  di  doti  e  spose  legittime  e  infilava  frequentemente  nel  discorso  la  parola  «genero».  Dopo  che  egli  ebbe  smesso  di  infierire  sul  documento  e  Stratocle  fu  uscito  dal  gineceo,  il  quale  era  lo  sposo  e  insieme  l’accompagnatore  della  sposa, ecco che Cheremone leggeva in pubblico lo scritto davanti all’assemblea. Ciascuno  allora  si  nascose  la  bocca  e  scoppiò  a  ridere  sotto  il  mantello;  io  invece,  per  Temi,  fui  abbandonato  persino  dal  riso,  accorgendomi  che  Stratocle,  ogni  volta  che  sentiva  «genero», si entusiasmava e si invasava alla parola e per poco non si alzava a baciare la  93 190 191 192 193 194 195 196 197 198 199 200 201 202 203 204 205 206 207 208 209 210 211 212 213 214 215 216 217 218 219 220 221 222 223 224 225 226 227 228 229 230 231 232 233 234 235 236 237 mano  al  notaio.  E  non  appena  quello  ebbe  finito  di  leggere,  disse  lo  sposo:  «Che  aspettiamo ancora? Andiamo al tempio di Iside!»; e fece alzare in piedi tutti e andammo al  tempio  di  Iside.  Dall’altro  lato  procedeva  la  sposa  in  persona  con  seguito  acconcio  e  attirava a sé lo sguardo di tutti; la donna, infatti, aveva una bellezza indescrivibile, tutta  quella che l’arte aveva dipinto in aggiunta alla bellezza naturale, cosicché pure Stratocle  non poteva nascondere una certa gelosia per la faccenda.  [13] ERM. Bene; ma chi era e di chi era figlia, o Amaranto, la fanciulla che fu data in sposa  a questo vecchio decrepito qui?  AM. La figliola di Anticle il giardiniere, o Ermocle: quanto a bellezza fortunatissima, per  Zeus, ma costretta a vendersi le nozze per indigenza e mancanza del necessario per vivere.  ERM.  Per  Eracle,  che  disgrazia,  Amaranto!  Tutto  è  asservito  alla  ricchezza,  tutto  è  soggiogato all’oro. Si vende persino la bellezza, libera per natura! Come mi si è cambiato  in pianto il riso al pensiero di come farà la donna a sopportare quei tremanti abbracci, a  tollerare gli spiacevoli avvinghiamenti delle labbra e a pulire il naso la poverina a quel  vecchio pieno di muco! Quanto era meglio, certo, per lei lavorare nell’orto con il padre,  patire la povertà tra i giacinti e la fame tra i mirti, cantare con gli usignoli, dormire sotto i  melograni e i rami di mirto, piuttosto che stare a pranzo con lo sterco d’oro e giacere col  fango ricoperto d’argento.  [14] AM. Così stanno le cose, Ermocle. A quel punto, quando furono compiuti i gesti che si  devono compiere in una festa del genere, noi uscimmo dal tempio, sfilando davanti agli  sposi secondo il costume. Mirilla dunque –così si chiamava la fanciulla– procedeva cupa in  volto  e  abbattuta,  tanto  che  uno  avrebbe  immaginato  che  veniva  preparata  e  accompagnata  non  a  nozze,  ma  a  morte.  Quel  matusalemme  di  Stratocle,  invece,  si  era  trasformato  la  sposa  a  sua  immagine,  stirando  le  ciglia,  sollevando  il  collo,  aprendo  un  pochino le palpebre e contraendo e stringendo le labbra. La coroncina, poi, riversa sulla  sua calvizie, descriveva il perimetro della sua luna piena, cosicché non eravamo più capaci  di trattenere il riso, ma prendendo in sorte chi un posto, chi un altro, ci sbellicavamo dalle  risa. Poiché allora mi sovvenne di parlare piacevolmente delle nozze di Afrodite ed Efesto,  il  grammatico  Dionisio,  correndomi  incontro  da  sinistra,  disse:  «Qui  non  mancheranno  certo nemmeno uomini come Anchise e Ares!».   [15]  Finché  ci  scambiavamo  queste  battute,  noi  ci  trovavamo  nella  sala  del  banchetto  nuziale.  Gli  sposi  invece  venivano  accolti  nel  talamo,  mentre  noi  eravamo  a  tavola,  imbandita  di  delicatezze,  e  ci  rimpinzavamo  di  cibi,  che  in  grande  quantità  e  varietà  venivano  ammanniti,  e  bevevamo  i  vini  migliori,  delle  isole  e  della  terraferma;  nel  frattempo  numerose  coppe  d’oro,  d’argento,  di  smeraldo  e  di  zaffìro  parlavano  liberamente con il banchetto. Ma quella vecchia cornacchia dello sposo, ogni volta che gli  si porgeva la coppa, non prima di aver baciato tre volte la pulzella, no, ,  tracannava il vino. Frattanto Aristobulo di Megara, piegandosi verso il mio orecchio, disse:  «Non vedi, Amaranto, lo sposo, come gli si è arrossato il viso di vergogna?». Ed io risposi:  «Sì, ; ma non so come mai a detta di Aristobulo il belletto abbia imitato un  rosso di vergogna!»; ed egli, ridendo sguaiatamente, si alzò dal banchetto. A quel punto  sorse un gran baccano e tutti ebbero il sospetto su di me che avessi fatto alzare Aristobulo,  dicendo qualcosa di ridicolo sullo sposo.   [16]  E forse avremmo commesso l’errore di introdurre senza accorgercene il belletto nel  discorso, se il grammatico Dionisio non si fosse subito levato in piedi dal suo seggio e non  avesse tirato fuori dalla veste il suo libretto e letto l’epitalamio. I versi elegiaci erano più o  meno questi:  Salve, talami rigogliosi di giovani dalle nozze eccellenti,  94 238 239 240 241 242 243 244 245 246 247 248 249 250 251 252 253 254 255 256 257 258 259 260 261 262 263 264 265 266 267 268 269 270 271 272 273 274 275 276 277 278 279 280 281 282 283 284 di Stratocle e di Mirilluccia!  Salve, nozze e letto di floride persone da poco sposate!  Salve preparativo di nozze, salve cura del talamo nuziale!  Nemmeno te, Ares distruttor di rocche e Ciprigna suprema,   lo sposo desiderabile e la sposa divina  temettero con le loro grazie, figure e bei visi!  O sposo, quanto eri bello e formoso,  biondo, rossastro, scuro di ciglia, dai capelli inanellati!  E tu, salve, sposa d’insigni nozze!  Salve: io vi canto quest’inno nuziale,  figlio dei brevi carmi laconici.  Così  cantò  quegli  e  il  simposio  acclamò.  Allora  Stratocle  disse:  «Zeus  protettore  dell’amicizia  possa  ricompensarti  per  questo  gesto  d’amore  fraterno,  ottimo  coetaneo  Dionisio!»; e noi per poco non restavamo soffocati dal ridere per la parola “coetaneo”. Ed  egli disse: «Niente di strano, Stratocle, se, coltivando l’amicizia, compiamo i gesti dovuti  agli amici». E nel sedersi ingollò la focaccia di sesamo; e Dionisio, poi, si mise a ballare e  danzavano pure le coppe.   [17]  Allora  lo  sposo  disse:  «Da  tempo,  o  amici,  nutro  incertezza  su  come  mai  alcuni  uomini, non solo quelli indotti, ma persino quelli padroni del ragionamento e iniziati agli  studi,  siano  giunti  a  tanta  stupidità,  da  porre  le  nozze  tra  le  cose  non  buone,  e  non  sappiano che così stravolgono la costituzione ed eliminano la generazione. Ma se uno tenta  di mettere alla prova qualcuna di queste affermazioni, subito adduce Empedocle con la  Contesa,  imputando  a  questa  stessa  la  generazione,  e  non  si  perita  di  blaterare  questo,  ossia che, poiché la Contesa produce il mondo sensibile, mentre le nozze sono una forma  di Amicizia, non ci si dovrebbe sposare, traendo conseguentemente la deduzione, sante  nozze! Infatti non hanno pensato che la Contesa stessa è in certo qual modo una forma di  Amicizia, capace di separare gli elementi con l’introduzione delle qualità, e poi di rendere  amica ogni cosa a sé stessa e poi ancora di produrre come un matrimonio in ciascuna di  esse. E se qualcuno chiederà: “Che cosa dite che sia, uomini, l’albero perfetto?”. “Quello  che genera un albero simile a sé stesso”, risponderanno. Non si vergognano, dunque, di  lasciare  l’uomo  imperfetto  e  di  non  attribuirgli  nemmeno  quello  che  attribuiscono  all’alloro e al mirto? Che ignoranza: non conoscono nemmeno questo, ossia che attraverso  il  matrimonio  ciò  che  è  mortale  diventa  in  qualche  modo  immortale,  conservato  per  la  successione! Vadano in malora costoro, imperfetti e non sposati!».   [18]  «Sei persuasivo, sante nozze, o maestro! Ma a me, non so come, la faccenda  sembra senz’altro una catena e un ceppo infrangibile!», dissi io, riprendendo  anche  le  altre  affermazioni  che  fino  a  ieri  quell’individuo,  quando  aveva  la  barba,  esponeva  riguardo  a  tali  argomenti;  e  conclusi:  «Ormai  non  mi  persuaderà  più  alcun  discorso  del  fatto  che  il  matrimonio  non  è  d’impaccio  alla  filosofia,  finché  conservo  la  convinzione appresa da Platone che è questo corpo qui che oltraggia la porta della verità».  «Non parlarmi di Platone», ribatté quegli, «il quale non disprezza nemmeno gli amori tra  maschi!».  «Allora»,  ripresi  io,  «bisognerebbe  portarsi  in  casa,  o  maestro,  le  donne  ingannatrici, pur senza dimenticare che potrebbero essere altrettante Elene, e Clitemestre  per giunta?». «Ebbene, non solo le Clitemestre», riprese quegli, «ma ti puoi prendere anche  le Penelopi dalla poesia epica». «Ed Esiodo, dove lo metti?», incalzai io, «lui che dice:  Loro in cambio darò del fuoco un mal, di che tutti  in cuor lor gioiran, quel proprio male riamando».  95 285 286 287 288 289 290 291 292 293 294 295 296 297 298 299 300 301 302 303 304 305 306 307 308 309 310 311 312 313 «Proprio da lì viene per me la prova di quello che dico», ribatté quegli. «Poiché dal poeta è  stato  dimostrato  che  la  cosa  è  piacevole  per  tutti,  per  tutti  sarebbe  inevitabile  il  matrimonio, sia esso una cosa negativa oppure no».  [19]  In quel momento si levò in piedi il comico Cherefonte e disse: «Basta con questi  argomenti:  io  vi  reciterò  per  la  festa  qualche  verso  della  musa  di  Anacreonte,  come  un  epitalamio che invita ad andare a letto». E insieme recitava:  Delle dee signora, Cipride;  Desiderio, forza dei terreni uomini;  Matrimonio, custode della vita:  voi con le parole canto,  voi coi versi glorifico,  Desiderio, Matrimonio, Pafia.  Guarda la giovane, guardala o giovane:  svegliati, non ti sfugga la preda, la pernice!  O Stratocle, amico di Citera,   Stratocle, marito di Mirilla,  guarda la cara moglie:  ha una chioma fluente, è fiorente, brilla.  Domina la rosa sui fiori,  rosa tra le fanciulle è Mirilla.  Il sole ti mostra il tuo talamo:  il cipresso nasca nel tuo giardino.  A queste parole Stratocle cadendo in imbarazzo e come infiammato nell’animo e incapace  di attendere il coricarsi completo del sole, si levò subito ed entrò nel talamo, senza dire  alcunché ad alcuno. E noi allora sciogliemmo il raduno.  [20]  FIL.  O  dèi,  possano  simposi  del  genere  non  abbandonare  mai  la  vita,  se  il  bel  Amaranto vi partecipa, perché anch’egli faccia il voluttuoso con gli occhi e ci trasmetta la  voluttà con le narrazioni.    96 NOTE TESTO VI (146) H. AMARANTO O AMORI DI UN VECCHIO [1] 5 ∆Amavranto": dall’aggettivo ajmavranto", on che non sbiadisce, che non appassisce (e. g. Luc. de domo [10 Mcl.] 9 leimwvn ajmavranto"); fig. detto delle virtù (LXX Sap 6, 12 sofiva ajmavranto"; NT 1Pt 1, 4 klhronomiva ajmavranto" ecc.). Come nome, il maschile è proprio di persona con accento proparossitono (cfr. Herodn. cathol. pros. in GG III, 1, 222, 16 Lentz). Piuttosto raro, lo porta un singolare personaggio, comandante della nave in cui Sinesio compì un viaggio da Alessandria alla Pentapoli nel 407 d.C.; di lui si dice che è uno ∆Iapetov" (Synes. ep. 5 Garzya 2000, r. 58), ovvero un vecchio decrepito, caratteristica che in Prodromo connota non tanto Amaranto, certo non più giovanotto ma non ancora vetusto, quanto il suo maestro Stratocle. La lettera di Sinesio è una tra le più famose dell’epistolario di questo scrittore e può essere stata letta da Prodromo, al quale il nome sarà piaciuto sia per la rarità, sia per il fatto di essere nomen loquens adatto per il contrasto con gli amori stagionati e appassiti raccontati, ma anche perché appartiene alla stessa sfera semantica di kh`po" e dei vari fiori menzionati nella cornice iniziale. Anche i nomi propri di alcuni degli altri personaggi si prestano a simili giochi di parole, tipicamente comici (in Aristofane si parte con Diceopoli, a tacere di tutti gli altri): Diofanto, il democriteo, ed Ermocle, l’epicureo, hanno nel proprio nome identica iniziale a quella del nome del rispettivo maestro; il secondo, poi, richiama alla memoria oJ ∆Epikouvreio" ”Ermwn di Luc. Symp. [17 Mcl.] 6. Per Filolao, nella cui grafia ho mantenuto l’alternanza che compare in V (forse indotta da quella ricorrente, sia pur per ragioni metriche, in nomi come Menevlew"ÉMenevlao" in Eschilo e Sofocle; si tratta della metatesi quantitativa che investe i nomi della declinazione attica che passano da -a–o" a -ew"), si veda il Filolao di Plat. Phaed. 61d 5. Tra gli altri nomi scelti da Prodromo, tre terminano in -klh`": ÔErmoklh`" l’epicureo, Stratoklh`" il filosofo sposo (questo nome, già appartenuto a un famoso rJhvtwr ateniese del IV s. a.C., del demo di Diomea, figlio di Eutidemo, è adottato da Prodromo in Rhod. et Dos., e. g. 1, 473; cfr. Index in Marcovich 1992), ∆Antiklh`" padre di Mirilla. A proposito della loro declinazione, che dovrebbe seguire lo schema attico (N. -klh`", A. kleva–, G. -klevou", D. -klei`, V. -klei"), va evidenziato che il genitivo singolare compare però nella forma klevo" per 5 volte, alle rr. 76, 152, 166, 220, 265; una sola volta nell’attesa forma -klevou" a r. 146, subito corretta in interlineo in V. Non si tratta di un errore vero e proprio, bensì di un uso analogico, ricavato da Prodromo, forse per aver trovato la variante in alcuni mss. o per aver letto Erodoto, che al gen. declina questi nomi proprio in -klevo" (v. Schwyzer I, p. 580; in Omero, invece, risulta esservi il solo esempio di B 855a, citato da Strab. 12, 3, 5, p. 542 C., nel quale si riconosce che -evou" sarebbe ametrico). Anche nel romanzo, del resto, dove le ragioni metriche possono avere un peso, Prodromo conferma questo genitivo pure quando -evou" sarebbe ammissibile: Rhod. et Dos. 1, 123 toiau`ta pavscei" tou` Dosiklevo" cavrin (v. Index in Marcovich 1992); opto pertanto per mantenere la forma maggioritaria, ripristinandola anche dove compare quella attica. La declinazione, poi, dell’accusativo singolare in -klh`n anziché in -kleva alla r. 208 nasce dall’analogia con i nomi della prima declinazione in -h", che in epoca atticista classica può investire per lo più i nomi in kravth", -mevnh", -gevnh", -sqevnh", -favnh" ecc. (v. Swkravthn r. 144), per affermarsi poi nell’età tardo-antica (da Plutarco in poi), con estensione a quelli in -klh`" (cfr. Kühner-Blass I, p. 513 e Schwyzer I, p. 579; nel romanzo prodromeo, per giunta, Dosiklh`n è metri causa). Altri due nomi iniziano con ÔErm- (ÔErmoklh`" con diminutivo-vezzeggiativo ÔErmokleivdion a r. 27; ÔErmwnivdh", r. 161, con diminutivo-vezzeggiativo ÔErmwnivdion a r. 154 [anziché ÔErmwnidivdion], sul tipo degli aristofanei Dhmivdion Eq. 726, Swkrativdion Nub. 223 e molti altri ancora). Tutti danno adito probabilmente a circoscritti giochi di parole (v. n. 14-15); i nomi dei due commensali, che recitano ciascuno un brano poetico, Dionisio e Cherefonte, possono avere anch’essi una giustificazione nel loro contesto (v. ll. 263 e 319). Aristobulo di Mègara (r. 254), nome che significa chi dà il miglior consiglio, può alludere all’errata valutazione che questi fa di Stratocle. Anche in Luciano compare una certa accuratezza nella scelta dei nomi (v. Helm 1906, p. 272 s.). 7 kai; mhvn: non ho trovato nel greco fino all’età tardo-antica un uso delle due particelle ad inizio di dialogo, senza che alcunché preceda; ma credo che si possano giustificare, come se l’autore avesse registrato una conversazione già cominciata. Filolao e Diofanto hanno appuntamento con Ermocle, che indugia a venire, e forse si interrogano sul suo ritardo; non appena lo vede arrivare, Filolao richiama l’attenzione dell’amico su Ermocle con un ehi (v. Denniston 19542 , pp. 356-357, i cui esempi sono tratti dai tragici e da Aristofane); ma cfr. anche Plat. Phaedr. 227c 3 con valore di certamente, qui non fuori luogo. e{wqen–∆Aqhvnhsi: Filolao che afferma di stare a compiere una determinata azione sin dal primo mattino ricorda Fedro che riferisce a Socrate come ha passato il tempo a partire dall’alba: Plat. Phaedr. 227a 4; cfr. anche Luc. Amores [49 Mcl.] 1. Di un accordo per un incontro all’alba si parla alla fine di Plat. Theaet. 210d; e il Sofista, che si suppone essere proprio la continuazione del Teeteto, comincia con queste parole Kata; th;n cqe;" oJmologivan, w\ Swvkrate", h{komen aujtoiv te kosmivw" kai; tovnde tina; xevnon a[gomen. Il locativo ∆Aqhvnhsi esprime la volontà dell’autore di collocare l’ambientazione in un posto tipicamente platonico; equivale a dire «è da stamani che ti aspettiamo qui, ad Atene dove siamo». 12 w\gaqev: la grafia di questo vocativo varia anche nei mss. e nelle edd. di vari altri autori: in Plat. Prot. 311a 2 ajgaqev BTW: wjgaqev corr. Coisl.: w\ ∆gaqev Hirschig; w\gaqev Cobet; in Heliod. Aethiop. VII 2 ed. 97 Rattembury-Lumb, Paris, Belles Lettres 19602 , w\ ∆gaqev MCBT: w\ ajgaqev VPZA. Mi attengo pertanto a V (v. laterculum), la cui grafia è identica e. g. a quella di ps.-Luc. Charid. [83 Mcl.] 4. to;n dev moi kh`pon–peripavtw/: con un voluto pasticcio di termini filosoficamente connotati, l’epicureo Ermocle fa la sua passeggiata (perivpato" è metonimia per scuola aristotelica; cfr. e. g. Diog. Laert. Vit. 7, 173; Luc. Pisc. [28 Mcl.] 43) nel kh`po", (metonimia per epicureismo, dal luogo che secondo la tradizione Epicuro acquistò ad Atene nel 306 a. C. ca. sec. Diog. Laert. Vit. 10, 10). eJwqinovn: l’uso predicativo degli aggettivi temporali è attestato; v. Luc. Tim. [25 Mcl.] 54 toi`" eJwqinoi`" ejkeivnoi" lovgoi"; id. Laps. [64 Mcl.] wJ" proseivpoimi to; eJwqinovn (per dare il buongiorno); ps.-Luc. Philop. [82 Mcl.] 20 to; eJwqino;n cai`re; Long. Soph. Daphn. et Chl. 3, 4, 1 trofa;" eJwqinav"; similmente o[rqrio" (Ar. Lys. 59-60). L’avverbio, invece, si trova poco sotto (r. 39 to; ejwqinovn) ed è testimoniato, oltre che in Hdt. 3, 104 (una volta sola; viene però espunto nell’ ed. teubneriana di Rosén) e Hipp. Aer. 6, 5 (e passim nel corpus), in Long. Soph. Daphn. et Chl. 2, 3, 5 e 2, 5, 4. Cfr. anche ojyiaivtero" (r. 9), la cui forma comparativa negli autori greci in genere è comunque molto più ricorrente come avverbio che come aggettivo predicativo. 13 o{lou"–ojfqalmouv": l’aggettivo o{lou" va inteso come predicativo avverbiale, nel significato di ejk rJizw`n, provrrizon; Gaulm., che stampa o{sou" (forse per averlo trovato nella copia del Peiresc che avrà scambiato il l molto curvato in basso con un s) traduce «oculosque meos sibi praedam velut habuit». 14-15 Papaiv–maqhthvn: ojxuvceir è detto il neonato Ermes, ladro degli armenti di Apollo, in Luc. dial. deor. [79 Mcl.] 11, 2 (fine la traduzione di Gaulm. «tu tagacem hortum memoras», che riesuma un aggettivo latino luciliano abbastanza raro). La necessità di coinvolgere in una personificazione del giardino un po’ forzata anche Ermes è forse dovuta al gioco con il nome Ermocle: la gloria di Ermes (ÔErmoklh`") si è lasciata turlupinare dal discepolo di Ermes. 16 paivzei" e[cwn: l’idiomatismo verbo + part. pr. attivo di e[cw è frequente in attico: Ar. Nub. 509 ti; kuptavzei" e[cwn… ; Plat. Gorg. 490e fluarei`" e[cwn; Luc. Icar. [24 Mcl.] 24 paivzei" e[cwn. ajmavran: la parola (= canale d’irrigazione) ricorre anzitutto in F 259 all’interno di una similitudine, il cui illustrans implica il lavoro del giardiniere che traccia un solco per incanalare tra le piante l’acqua; molto probabilmente a questo passo pensava Prodromo (Omero e in particolare l’Iliade era lettura scolastica canonica già da molti secoli; cfr. Pontani 2005, p. 5). Non è attestato dai lessici un significato figurato quale ha a[lox nei tragici; forse non occorre intenderlo qui, poiché i giochi di parole si esplicitano più avanti. Gaulm., non si sa se per congettura o per lettura della copia mendosa di Peiresc, stampa to;n ∆Amavranton e traduce «rides: atqui etiamnum Amarantum circumire, Narcissum tangere, et Hyacintum colligere mihi videor». Il nome Amaranto, tuttavia, è proprio fuori luogo: primo perché questo personaggio non è ancora entrato in scena; secondo perché non veicola la stessa ambiguità semantica degli altri due nomi di fiore (v. n. seg.). La lezione corretta di V compare anche negli apografi v e o. 18 ÔHmei`"–ÔUakivnqwn: intravedo la prima delle insinuazioni ambigue di Filolao che insiste a cogliere nelle parole dell’interlocutore un doppio senso: tou` narkivssou qiggavnw e tou` uJakivnqou trugavw viene interpretato in senso pederotico sia a motivo dei verbi (per qiggavnw in contesto amoroso, sia pur eterosessuale, cfr. Archil. fr. 118 West [accessibile a Prodromo perché ap. Plut. Mor. (de E apud Delphos) 386d 4] w}" ejmoi; gevnoito cei`ra Neobouvlh" qigei`n; Ar. Lys. 1004-1006 oujde; tw; muvrtw qigei`n); sia a motivo dei due nomi floreali, corrispondenti a quelli di due pueri delicati per antonomasia: Narciso (v. Eitrem 1935, col. 1723 ss.) e Giacinto (solo quest’ultimo propriamente veicola l’immagine di paidofiliva, poiché fu amato da Apollo e da Zefiro; cfr. Eitrem 1914, col. 9 che tra le fonti greche del mito, tra l’altro disponibili a Prodromo, annovera Nonn. Dion. 19, 102, Nican. Ther. 902 ss. e Apollod. 1, 16-17), non di rado nominati insieme, e. g. in Luc. VH [14 Mcl.] 2, 17 e 2, 19; Saturn. [61 Mcl.] 24; dial. mort. [77 Mcl.] 5, 1; e in ps.-Luc. Charid. [83 Mcl.] 24 (§ 9 solo Giacinto). Prodromo accenna al mito di Giacinto in Rhod. et Dosicl. 6, 306. La traduzione di Gaulm. è «recte igitur, o Diophante, Hermoclem alicubi cum Narcisso ac Hyacintho esse credidimus», fondantesi sulla lettura dei nomi propri al singolare, non corrispondente al testo tràdito; se si tratta di un emendamento, non mi pare necessario, perché il plurale è generico «gente, persone come Narciso, Giacinto». 20-21 eij mh;–mhdenov": la frase mi riesce difficile da tradurre alla lettera, anche se credo di averne capito il senso. La traduzione di Gaulm., che interpreta il primo eij mh; in maniera tradizionale (= nisi), considerando poi w]n dipendente da dokei` e reggente i due genitivi come se fossero di appartenenza (ci si attenderebbe però pavntwn tw`n o[ntwn), non mi suona grammaticalmente corretta, né soddisfacente per il senso. La mia traduzione, invece, pur dovendo presupporre qualche parola sottintesa nel testo, mi pare grammaticalmente meno scorretta: eij dipende da kaino;n nel senso di qaumastovn; w]n è indipendente, significa esistere e ha valore concessivo; dokei` sottintende l’infinito ei\nai, che, pur non dovendo mancare quando significa esistere come suppongo sia qui, ritengo possa essere integrato dal precedente participio; infine interpreto i due successivi genitivi come assoluti, uno corredato del verbo, l’altro con verbo essere sottinteso, recuperabile però dall’ o[ntwn. Si capisce, comunque, che la battuta si fonda sul principio democriteo che distingue le due ajrcaiv naturali, le sole che esistano veramente (ejteh/`), da tutto il resto che da esse deriva ed esiste per convenzione (novmw/): v. Diog. Laert. Vit. 9, 44, 1-2 ajrca;" ei\nai tw`n o{lwn ajtovmou" kai; kenovn, ta; d∆ a[lla pavnta nenomivsqai; e Diog. Laert. Vit. 9, 72, 7-10 Dhmovkrito" (= fr. 68B 117 e 125 D.-K.) de; ta;" poiovthta" 98 ejkbavllwn, i{na fhsiv, Ænovmw/ qermovn, novmw/ yucrovn, ejteh/` de; a[toma kai; kenovnÆ: kai; pavlin Æejteh/` de; oujde;n i[dmen: ejn buvqw/ ga;r hJ ajlhvqeiaÆ. Si noti, infine, che il mio recupero di mh; e la mia traduzione danno adito a un rimando sia al famoso to; mh; o[n parmenideo sia alla definizione democritea del vuoto (Democr. 68 A 38 D.-K. [= Simpl. in Phys. 28, 15] Dhmovkrito" oJ ∆Abdhrivth" ajrca;" e[qeto to; plh`re" kai; to; kenovn, w|n to; me;n o]n to; de; mh; o]n ejkavlei). L’idea, poi, di descrivere come presente in un luogo chi invece è realmente in un altro (v. sopra e[ti periveimi ktl.) mi fa venire in mente il passo di Ar. Ach. 395-400, in cui il servitore ribatte a Diceopoli che Euripide è in casa, ma non è in casa. 21-22 ei[ ti mh;–Dhmokrivtou: cfr. Luc. Symp. [17 Mcl.] 4 eij mh; pantavpasin ejgw; ejpilevlhsmai Lukivnou e prima ancora Plat. Phaedr. 228a 5 eij ejgw; Fai`dron ajgnow` kai; ejmautou` ejpilevlhsmai. [2] 23 megavlhn–cavrin: la lezione di Du Theil, stampata tacitamente, normalizza il testo tràdito alla forma usuale del nesso (v. ojfeivlw in Tgl e LSJ) e può sembrare di primo acchito l’emendamento preferibile; si intenda però la forma tràdita o[flw non come congiuntivo aoristo 2° di ojfliskavnw, ma come indicativo presente (attestato, e. g., già in Dione Crisostomo). In questa forma, secondo Tgl s. v., col. 2457, ha lo stesso significato e la stessa reggenza dell’accusativo che ha ojfeivlw = sono debitore, ma per lo più nell’accezione propria giuridica sono multato a, sono condannato a, devo pagare, da cui deriva quella di incorro nell’accusa di. Tale duplice somiglianza si estende al nesso cavrin o[flein quale corrispondente di cavrin ojfeivlein come testimoniano altri passi di autori bizantini: Io. Cinnamus 77, 2 hJmei`" kai; cavrita" uJmi`n o[flomen; 104, 19 dia; dh; tau`ta cavrita" o[flwn Geitza/` Dalmativan uJpovspondon aujtw/` kaqista`n ejpeceivrei (Giovanni Cinnamo è di poco posteriore a Prodromo); Theod. Metoch. carm. IV 296 Featherstone-Sevcenko tw`n e{nek∆ o[flwn, w{" g∆ ejfavmhn a[tropovn moi. Desinenze di indicativo presente attaccate a temi verbali aoristici ricorrono anche nelle poesie storiche di Prodromo, come analizza Hörandner 1974, p. 120. Per quanto riguarda, infine, l’espressione megavlhn o{shn, si veda LSJ s. v. o{so" § 6. oi|": questo dativo neutro plurale dovrebbe avere un valore simile ad un wJJ" completivo-causale (ti ringrazio infinitamente, per quelle cose che, per il fatto che): emendarlo sarebbe agevole, se non intervenisse l’osservazione che oi|" in tal senso ricorre in tutto il testo (rr. 50, 141, 143) e altrove (Sat. 144 H., 90 = p. 304, rr. 91-92 Romano 1999 oi|" to;n me;n grammatiko;n ejpiyhfivzesqai sautw/` kai; to; ejn Dwdwvnh/ calkei`on uJperhcei`"). Posto che un errore del copista va escluso senz’altro, la soluzione potrebbe stare nell’ammettere che Prodromo ricavasse tale uso da qualche modello: cfr. Böhlig 1956, p. 186, dove si citano ricorrenze di oi|" nel significato di indem (corrispondente a un gerundio in italiano) da Psell. Or. I, 11, 5 (due volte) e 25, 20 Kurtz-Drexl; aggiungi Psell. Orat. paneg. 4, 381, p. 71 Dennis e 5, 152, p. 87 Dennis. Cfr. anche Dölger in Bachmann-Dölger 1940, p. 404 che chiosa oi|" usato da Gregorio Antioco con weil (poiché), indem (mentre ovvero gerundio), während (mentre). 24-25 wJ" ejgw;–ajntirrhvsei": il significato figurato di wjdivnw compare proprio in una citazione da Epicuro contro il maestro Nausifane, già allievo di Pirrone, in Diog. Laert. Vit. 10, 7, 10-12 (= Epic. fr. 93 Usener): ajll∆ ei[ ti" a[llo" ei\ce kajkei`no" wjdivnwn th;n ajpo; tou` stovmato" kauvchsin th;n sofistikhvn, kaqavper kai; a[lloi polloi; tw`n ajndrapovdwn ktl. Cfr. anche Plat. Theaet. 148e; Him. 44, 7. L’ wJ" iniziale si recupera leggendo bene il segno tachigrafico di V, frainteso dagli editori, che stampano kaiv. 25-26 mh; provteron–flhvnafon: la costruzione mh; provteron + participio dev’essere dispiaciuta a Gaulm. che stampa tacitamente l’infinito; avrebbe fatto meglio a emendare oujk a]n ajpostaivmhn ømh;Ø provteron, ãpri;nÃ... ejxelevgxai. In realtà il testo tràdito è corretto nel significato «senza che prima io confuti le sue chiacchiere», come se fosse un eij mh; provteron... ejxelevgxw. Una simile congettura di Gaulm. forse va riconosciuta anche a r. 84 pri;n a]n pisteu`sai (q. v.). L’offesa lanciata dall’epicureo Ermocle, in base alla quale la dottrina di Democrito (Diofanto) è bollata come flhvnafo" e lh`ro", rimanda a quanto racconta Diog. Laert. Vit. 10, 8, 10, dove si riportano i dicaci giudizi che Epicuro formulava contro gli altri filosofi, contemporanei e predecessori: ejkavlei... kai; Dhmovkriton Lhrovkriton. 32-33 cqe;;" ejn ∆Aristokravtou": cfr. e. g. Luc. Symp. [17 Mcl.] cqe;" ejn ∆Aristainevtou; v. anche sotto r. 76 o{sa ejn Straloklevo" ei\don e r. 166 ejn Stratoklevo" ejlqovnte". Si tratta del tipico costrutto attico ejn + gen., con ellissi del dativo. 33 hJdonav"–pareiskuklw`n: il riferimento esclusivo ai piaceri come caratteristica della dottrina degli epicurei fa parte dello stereotipo limitativo riassumibile con la formula oraziana Epicuri de grege porcus e frequente in Luciano: cfr. e. g. Symp. [17 Mcl.] 36 pavlin te au\ th;n hJdonh;n misou`nte" kai; tw`n ∆Epikoureivwn kathgorou`nte" aujtoi; ta; ai[scista hJdonh`" e{neka poiei`te kai; pavscete. La lezione tràdita aujtovmata che ho tradotto con principî spontanei, viene emendata da Gaulm. con ajkroavmata ciò che dà piacere a essere ascoltato, sulla base di Athen. XII 546e (= Epic. fr. 67 Usener = fr. 21, 1 Arrighetti peri;; tevlou"). La congettura non mi pare, però, adatta al passo, specificando il precedente hJdona;" senza un valido motivo perché siano tralasciate anche altre forme di piacere. Il tràdito aujtovmata si può mantenere, anche se non si tratta di un termine così tipicamente epicureo, come fa invece credere Gaulm., dal momento che i frammenti a noi pervenuti di Epicuro introducono raramente to; aujtovmaton (spontaneità casuale), cui si affianca la ajnavgkh, proprio come in Democrito, alla cui dottrina più propriamente il termine appartiene: v. Epic. fr. 34, 30, 7-15 Arrighetti 19732 , p. 352 e Democr. 68 A 69 D.-K. [= Aristot. Phys. II 4, 196a, 24, che si sa concernere l’Abderita da Simpl. in Phys. 331, 16]. Par di capire che in tali passi Epicuro 99 polemizzasse con il suddetto principio di necessità del predecessore, specialmente nelle sue implicazioni etiche, dal momento che esso coarta la libera volontà. Nel nostro contesto prodromeo probabilmente non è sottesa tutta questa polemica (tanto più se si pensa che essa ci è nota dal papiro). Più semplicemente Prodromo avrà scelto due tra i termini più caratteristici di ciascuna delle due dottrine: hJdonai; per gli epicurei e aujtovmata per i democritei; quindi li ha messi in bocca a Ermocle, che, nel suo sermone tenuto in stato di ebbrezza, avrà sproloquiato di tutto, riguardo sia alla propria dottrina, sia a quella degli avversari. Donde abbia ricavato aujtovmata Prodromo in riferimento a Democrito e/o Epicuro, è difficile giudicare: le poche occorrenze della parola registrate per Democrito derivano quasi esclusivamente dal II libro della Fisica aristotelica e dal commento ad essa di Simplicio, autori che insieme al resto della schiera dei commentatori platonici e soprattutto aristotelici tardo-antichi erano ben noti a Prodromo (tra le cui opere si annovera anche un commento ad Anal. post. II, n° 134 H., di cui è in preparazione l’ed. pr. di M. Cacouros) e ai suoi contemporanei interessati ai problemi delle dottrine presocratiche (v. Hörandner 1974, p. 381 riguardante la poesia storica XXXVIII, 75-84 che tocca il problema dell’etere, il geocentrismo e l’atomismo). Le altre occorrenze, poi, altrettanto scarse concernenti gli epicurei più che Epicuro specificatamente, provengono da Giuliano l’Apostata e da Proclo, anch’essi patrimonio di lettura prodromeo molto plausibile (v. fr. 383 Usener: 1- Iul. imp. or. 5, 3, p. 162; 2- Procl. in Tim. p. 80 = 262, 2 ss. Diehl). Non sarà inutile sottolineare la somiglianza di parole tra il passo procliano e quello aristotelico succitato, anche a significare una certa confusione dei dossografi nell’attribuire le opinioni ai rispettivi autori; forse sarà meglio parlare di intercambiabilità, dal momento che sia il luogo aristotelico sia quello procliano non rilevano differenze tra democritei e epicurei, bensì criticano negli atomisti in generale la dottrina meccanicista, nel punto in cui nega al cosmo una causa e, quindi, una sua teleologia. hJdona;"–pareiskuklw`n: il verbo ricompare a r. 204 e r. 262 e si trova in Proclo (in Plat. Parmen. p. 1055, 18 Cousin; in Plat. Tim. otto volte, e. g. 1, 31, 9 Diehl); da lì probabilmente lo ripescano autori come Psell. chron. 6a, 9, 14 Renauld (= II, p. 162 Impellizzeri), Eustath. in Iliad. 2, 471, 2 van der Valk (q. v. per altri passi eustaziani e per la valutazione del significato inopinato verba afferri et quasi provolvi), nonché il nostro e i suoi successori dal XII al XIV s. (Giovanni Apocauco, Michele Coniate, Gregorio Antioco, Niceforo Gregora, Costantino Acropolite, Giorgio Metochite, Giorgio Pachimere, Filoteo Coccino). L’avverbio qama; per ajei; è termine per lo più poetico, ma compare anche in prosa già da Plat. Phaed. 72 e Xen. Mem. 2, 1, 22. 34 ejmhmekwv": non escludo che il verbo nasconda qui il senso figurato di vomitare parole, ossia parlare a vanvera, che ben si attaglia al tono di reciproca offesa tra epicurei e democritei; è attestato in Philostr. Vit. soph. 1, 8, 491 e 2, 9, 4 Kayser (= Eunap. Vit. soph. 10, 4, 7 Giangrande) e Synes. Dio 13; la costruzione è sempre priva di accusativo, ma può sottintendere lovgonÉlovgou". Comunque sia, il senso proprio è assicurato dall’allusione a un episodio raccontato da Diog. Laert. Vit. 10, 6, 9-11 kai; mh;n kai; Timokravth" ejn toi`" ejpigrafomevnoi" Eujfrantoi`" oJ Mhtrodwvrou me;n ajdelfov", maqhth;" de; aujtou` [sc. Epicuri] th`" scolh`" ejkfoithvsa", fhsi; di;" aujto;n th`" hJmevra" ejmei`n ajpo; trufh`". 36 aijei;–ejpitimhtikov": simili espressioni in Luc. Iupp. tr. [21 Mcl.] 23 tou`ton mevn, w\ qeoiv, lhrei`n ejavswmen ajei; tracu;n o[nta kai; ejpitimhtikovn (lo dice Zeus in riferimento a Momos) e Cat. [19 Mcl.] 13 tracu;" h\sqa kai; ejpitimhtikov" (lo dice Megapente in riferimento a un cinico). 38 a[rxai–scolh`/: l’avv. ojye; significa generalmente tardi e come tale Gaulm. lo traduce «incipe igitur licet serius et lente loquere»; ma a me sembra qui avere il valore di potev, aliquando, demum, una buona volta, come risulta anche dall’uso successivo a r. 42 ouj ga;r ejkbaivh" ojye; th;n aijmasiavn; cfr. sat. 147 H. Vendita all’asta di vite di poeti e di politici r. 41 ed. mia tiv d∆ oujci; ojye; gou`n pepauvsh/ ta; diavkaina rJayw/dw`n…. Anche Tgl insegna «quum vero additur dh; vel pote;, redditur Sero tandem, Tandem aliquando, Longo tandem post tempore»; l’assenza della seconda particella non esclude a mio parere questo significato dai passi prodromei in questione. [3] 39-45 eijsh/vein–ajpolipei`n: la narrazione di Ermocle della visita al giardino (accostabile alla frase introduttiva è l’incipit di ps.-Plat. Eryx. 392a ejtugcavnomen peripatou`nte" ejn th/` stoa/`) viene interrotta da Filolao, che, come si è già detto, coglie un senso ambiguo nelle parole dell’interlocutore; Ermocle, tuttavia, nelle sue intenzioni «nihil turpius cogitabat; sed cum Magistro concludere volebat ta; krithvria th`" ajlhqeiva" ei\nai ta;" aijsqhvsei": quibus Epicurei assentiebantur, contra Democritum qui duplicem gnw`sin constituebat; primam dia; th`" dianoiva", quam gnhsivan vocabat eique to; pisto;n eij" ajlhqeiva" krivsin tribuebat; alteram dia; tw`n aijsqhvsewn, quam skotivhn appellabat, ajfairouvmeno" aujth`" to; pro;" diavgnwsin ajplanev", contra Epicureos [sic]» (Gaulm.). L’ambiguità, propriamente, sta nella parola kh`po" (v. Diog. Laert. Vit. 2, 116; Hesych. s. v.; Phot. lex. 161, 21 to; aijdoi`on gunaikei`on; Suid. s. v.; tutti autori a portata di mano di Prodromo); ma le battute di Filolao a cui essa dà adito, ossia prasiav (ricorre e. g. in h 127, nella descrizione del giardino di Alcinoo) e aijmasiav (s 359 e w 223), non sono registrate nei lessici come anfibologiche. Cionondimeno, riferendosi a parti del giardino (aiuola e muro a secco di cinta), anch’esse potrebbero continuare la metafora. Delle altre due parole di Ermocle, krivnon e mh`lon, solo la seconda elenca tra i suoi sensi figurati quello attinente alla sfera sessuale (= mastoiv): cfr. Ar. Eccl. 903; Lys. 155 (noto che i mss. a noi pervenuti di queste commedie sono il Ravennate del X s. e altri che datano a partire dal XV s., il che non significa che Prodromo non potesse avere altri esemplari, poi perduti, a sua disposizione); e Theocr. 100 27, 48, autore reperibile per Prodromo, come dimostrano i numerosi echeggiamenti nel suo romanzo, registrati nell’apparato delle fonti di Marcovich 1992). Per murrivnh e rJJoiav, parole con cui Filolao rimbecca Ermocle, non ho trovato nei lessici doppi sensi; forse la prima, però, risente del senso anatomico del suo sinonimo muvrton (v. Phot. s. v. e Suid. m 1462 to; sch`ma [scivsma ci. Guyet] tou` gunaikeivou aijdoivou ktl.; Suid. m 1461 cita anche Aristofane Lys. 1004-1006). Per il lessico osceno comico, v. Henderson 1975, p. 134. 41 ejtruvghsa–o{ti leukovn: il ritardo dell’oggettiva dopo il compl. ogg. è un costrutto che ricorda quello di LXX Gn 1, 4 kai; ei\de oJ qeo;" to; fw`" o{ti kalovn. 47 Megareuv"–stoa`": personaggi provenienti da Mègara, città presso l’istmo di Corinto, sono l’eristico Megarovqen Eujkleivdh" di Plat. Phaed. 59c 3 e Diovtimo" oJ Megarovqen di ps.-Luc. Charid. [83 Mcl.] 3; un filosofo stoico è in Luc. Symp. [17 Mcl.] 6 Zhnovqemi" h\n oJ presbuvth" oJ ajpo; th`" stoa`". 49 ejqaumasavmhn oi|" e[gnw–hJdonhvn: la diatesi media di qaumavzw è attestata in autori tardi a partire dall’età imperiale (v. LSJ s. v.: Galeno, Eliano, Proclo, Esopo, Giuseppe Flavio) e il suo uso testimonia il progressivo equivalere del medio, nel significato dell’attivo transitivo, a un semplice deponente (in questo caso forse ha influito analogicamente l’occorrenza usuale del medio nella formazione del fut. attico); in neogreco soltanto, tra le lingue indoeuropee ancora vive, è sopravvissuto il medio usato con vari significati, ma anche senza differenza accanto all’attivo (v. Schwyzer II, p. 235, in cui si cita proprio la coppia qaumavzw, -zomai «gleichgebraucht nebeneinander»); qui l’attivo ricorre a r. 143, in un costrutto molto simile a questo: ejqauvmazon de; oi|" ktl. La lezione ejqaumavsamen degli editori, se è un emendamento, non è necessario; la traduzione «admiratus sum» di Gaulm. può far pensare a un errore di stampa nel testo greco, ovvero all’interpretazione del verbo stampato al plurale come un plurale enfatico. In ogni caso, la traduzione di Gaulm. non è corretta, perché non intende oi|" = wJ", ejpeiv («Quibus auditis, Epicurum admiratus sum, tum propter ea quae novit, tum quia suam cuique voluptatem bonum esse censuit: Democriti autem subtiles circa rerum principia nugas satis ridere non potui. Itaque et risum eius insaniamque cogitabam ita ut ad vitam leges, vacuum, atomosque facilius irriderem»). Per quanto riguarda il costrutto e[qeto ajgaqo;n eJkavstou th;n hJdonhvn, cfr. a r. 288 wJ" ejn oujk ajgaqoi`" tiqevnai to;n gavmon. 51 Dhmokrivtw/–ejggela`n: la costruzione classica ejggela`n tini; (persona o cosa) è e. g. in Eur. Med. 1355 terpno;n diavxein bivoton ejggelw`n ejmoi; e Soph. El. 277 w{sper ejggelw`sa toi`" poioumevnoi"; la doppia costruzione ejggela`n tiniv tino" deridere qcn. per qcs. ha il gen. di causa confrontabile con quello di analoghe doppie costruzioni: qaumavzw tinav tino" (Thuc. VI 36) mi stupisco di qcs. in qcn.; ejpainevw tinav tino" Plut. 2, 1c lodo qcn. per qcs.; Luc. Herm. 42; calepaivnw tiniv tino" mi adiro con qcn. per qcs. (Thuc. 7, 6, 32 w|n ejmoi; calepaivnete, touvtwn toi`" qeoi`" cavrin eijdevnai). 52 to;n ejkeivnou–ejzhthsavmhn: la lezione di V crh`saiv moi è per me sicura; male la decifrarono Peiresc, i copisti di v e o e Du Th. con crhsavmeno", scambiando la desinenza formata da un o di grande formato con i inscritto arricciato con il nesso o con s inscritto, forzando poi la lettura dello svolazzo finale di m come compendio di -men- (compare e. g. in V, f. 62r, r. 19 per favmeno"; ma lì lo svolazzo di m è molto accentuato; solitamente -men-, compresa la particella, viene scritto con m sovrastata da un segno simile a < ) e tralasciando lo i dopo a e gli accenti circonflesso e acuto ben visibili (il secondo h\n di Du Th. dopo crhsavmeno" deriva da Gaulm.). Si noti che lo scriba di V usa come compendio usuale per -o" una o semplice rimpicciolita in interlineo. Accertato il testo, ho inteso il medio ejzhthsavmhn come in Long. Soph. Daphn. et Chl. praef. 3 ajnazhthsavmeno" ejxhghth;n th`" eijkovno" e come il precedente ejqaumasavmhn (q. v.); regge to;n ejkeivnou gevlwn quale complemento oggetto prolettico rispetto all’interrogativa indiretta introdotta da eij, uso quest’ultimo deviante dalla regola, che esigerebbe un povteron, ma a mio parere ammissibile se lo si considera modellato e. g. sul tipo Luc. Symp. [17 Mcl.] 1 w{ste qaumavzw ei[ ti safe;" eijpei`n ejduvnato. Per l’impersonale oi|ovn te h\n, vd. ps.-Luc. Charid. [83 Mcl.] 2 ouj ga;r oi|ovn te h\n pavntwn ajkouvein; 6 wJ" oi|ovn te braceva peri; touvtou peiravsomai dielqei`n; 19 wJ" oi|ovn te mavlista h\n. La forma accusativale gevlwn (vd. l. 75 to;n ajperihvghton gevlwn e l. 230 oujde; katevcein e[ti to;n gevlwn oi|oiv te h\men) entra nella prosa con gli atticisti tardo-antichi che la ripescano dalla poesia, secondo un vezzo a loro comune di utilizzare tutto il lessico degli autori attici, indipendentemente dal genere in cui compongono; altra occorrenza prodromea in Sat. 148 H., 93; 147 H., 266. Per quanto riguarda infine l’associazione del riso a Democrito, vd. Democr. 68A 20 (= Iul. Ep. 201bc) e 21 (= Sotion ap. Stob. III 20, 53) toi`" de; sofoi`" ajnti; ojrgh`" ÔHraklei`tw/ me;n davkrua, Dhmokrivtw/ de; gevlw" ejph/vei; Luc. Vit. auc. [27 Mcl.] 13 affianca, come qui, Democrito ridente ad Eraclito piangente. Un’altra occorrenza del motivo in Prodromo è nel carme giambico 143 H. Versi di lamento con la Provvidenza vv. 139-140 w[moi povson davkruon ejx ÔHrakleivtou,/ povso" gevlw" de; pavlin ejk Dhmokrivtou. 52-53 wJ" a]n– gelw/``mi: le congiunzioni finali wJ", o{pw" seguite da a]n (ke spesso in epica) e reggenti il congiuntivo in dipendenza da tempi principali o, come qui, l’ottativo in dipendenza da tempi storici sono già usate da Omero; cfr. Schwyzer II, p. 665. gelw/`mi: si noti che in attico solitamente le forme di ottativo presente dei verbi contratti con suffisso modale i- sono più frequenti al pl. e al duale, mentre le forme con suffisso modale -ih- sono più usate al sing. Qui, dunque, da un imitatore dell’attico si sarebbe atteso un gelw/vhn (v. ps.-Luc. Charid. [83 Mcl.] 6 sigw/vh); ma si 101 ricordi che i poeti del V s. a.C. adottano l’ott. -o-i-mi, -o-i-", -o-i quando è metricamente comodo: Aesch. Pr. 978 nosoi`m∆ a]n, Soph. OC 507 cwroi`m∆ a]n, Phil. 674 cwroi`" a]n, 895 tiv dh`t∆ ãa]nà drw/`m∆ ejgw;; Ar. Eq. 1131 poioi`"; le desinenze di ott. -oi`", -oi` per i verbi in -evw e la des. -w`i per quelli in -avw ricorrono in Platone (e. g. Leg. 664e phdw/`); -oi` in Thuc. 2, 79 e 100 dokoi` (v. Schwyzer II, p. 796 e Jebb ad Soph. Phil. 895). Per imitazione dei poeti drammatici e per analogia con le forme trovate in Platone, si giustifica l’uso di Prodromo. 53 ta;" ajtovmou": quando sottintende fuvsi", a[tomo", aggettivo a 2 uscite, è femminile, come giustamente sta scritto in V (e giustamente è stato copiato in v e o); l’articolo maschile degli editori è un errore, probabilmente attratto dalla desinenza -ou" di ajtovmou". 54-56 eij mh;–ejpaggeilavmeno": l’accostamento delle due strutture parallele, ma chiastiche nella distribuzione oggetto-verbo, ta; Dhmokrivtou gela`n ejpi; Dhmokrivtw/–oijmwvxh/ ta; ÔHrakleivtou ejpi; sautw/` rende meno plausibile un’eventuale interpretazione del primo ta; Dhmokrivtou parallela al successivo ta; Dhmokrivtou i principi di Democrito; si segua pertanto la mia traduzione. 56 katenwtivsw: ci sono due verbi ugualmente pertinenti da cui questo aor. 1° medio, 2a pers. sing. potrebbe derivare: katanwtivzomai, composto di nwtivzomai, che in senso figurato significa gettarsi alle spalle e, quindi respingere, disprezzare, trascurare, non tenere in nessun conto (occorrenze in Athan. or. contra Arianos 3, 16; Simpl. in Aristot. phys. ll. quattuor priores comm. CAG 9, p. 45, 12 Diels e passim in altri commenti simpliciani; poi nei bizantini come Eustath. in Iliad. 2, 323, 15 e 4, 479, 2 -cfr. Index della Keizer-; e serm. 5, p. 74, 84 Wirth; Nic. Chon. hist. p. 136, 22 van Dieten o{sa te ojmwvmoke tw/` basilei` kai; xunevqeto katanwtisavmeno" th;n sunhvqh pardalevhn eJautw/` perievqeto, che non va inteso nel senso proprio di mettersi sulle spalle datogli da Tgl, perché regge o{sa e non pardalevhn; varia lectio katenwtisavmeno"); oppure katenwtivzomai, registrato solo dai lessici di greco bizantino (Sophoklis e, meglio, LBG überhören, ignorieren), nonché nell’Index dell’ed. van Dieten della cronaca di Niceta Coniata (de industria non audio, neglego; v. p. 407, 69 van Dieten). Questa seconda voce, che nei mss. talora compare come varia lectio della prima (v. Nic. Chon., cit.), più spesso è lectio certa (specialmente nella forma del part. aor. katenwtisavmeno", la cui e non può essere trattata come un aumento erroneo), potrebbe essere frutto di una sovrapposizione del primo verbo con ejnwtivzomai (a sua volta usato nella koinh; vetero- e neotestamentaria e ripreso dagli scrittori cristiani e bizantini) in cui il preverbio kata; ha il senso negativo che mostra e. g. in katafronevw. 56-57 o{la"–katecalavzwsa": il verbo katacalazavw compare in Luc. Gall. [22 Mcl.] 22 katecalavzhsa" aujtw`n ajfqovnou" tou;" livqou" (idem nel lemma dello scolio, ed. Rabe, che glossa katevcea"; Mcl. non segnala varianti nella sua ed. di Luciano); è poi attestato il semplice calazavw (v. e. g. Ar Eq. 381 calaza/`, per cui la dettagliata ed. Von Velsen non segnala varianti). In Luc. Tim. [25 Mcl.] 58 c’è una 1a pers. sing. ind. pres. attivo ejpicalazw`, che per analogia con il precedente katacalazavw farei derivare da ejpicalazavw, piuttosto che da ejpicalazovw (v. Tgl, con correzione Hase-Dindorf nella mia direzione). Sulla base di questi dati una normalizzazione della lezione ben leggibile di V (e ben copiata da v e o e stampata anche dai due editori francesi) parrebbe doverosa; tuttavia non si può escludere che Prodromo, leggendo la seconda occorrenza lucianea, avesse ricavato il tema in -o-, rafforzato nella convinzione da composti in calavzo(calazobolevw ecc.) e parole in calazw- (calazwvdh"; v. Tgl); nonché dal ricorrere, sia pur non frequente, di forme verbali di calazovw, e. g. Greg. Nyss. de benef. ed. Brill, vol. 9, p. 96, 1 van Heck (= PG 46, col. 456 D) mh; calazou`n tou;" ejntugcavnonta" th/` sfodrovthti (non riversare una forte gragnola di parole sugli interlocutori che capitano). Ulteriore conferma della contrazione in -ow è Prodr. sat. 148 H. Boia ovvero medico, p. 312, r. 32 Romano o{sa tw`n noshmavtwn... hJmi`n ejpicalazou`tai. Lascerei, pertanto, il testo tràdito. Registra il verbo nella forma katacalazovw anche LBG (wie einen Hagel gießen [auf], überschütten), che oltre al nostro passo prodromeo, cita le occorrenze di Niceta di Paflagonia p. 69 Rizzo (X s.), Nic. Eug. (?), Anach. r. 106, p. 211; r. 756, p. 249; Epist. 16, 14, p. 313 Christidis (XII s.); Melet. B 91 Papadopulos (XII s.). 58 ∆All∆ eij mh;–calepaivnein: la lezione di V mevlloite è stata mal decifrata allo stesso modo sia dagli editori francesi sia dagli apografi v e o con un improbabile melevtoite. eu\ mavla–uJma`": la lezione di V, ripetuta dagli editori francesi, è inequivocabilmente hJma`", la cui facile emendazione in uJma`" è presupposta già dalla trad. di Gaulm. «atqui nisi irasci vobis placeat, ego vos facile persuasos iri existimo ut Democrito valere iusso Epicuri partes sequamini»; se Filolao avesse voluto riferirsi anche a se stesso avrebbe aggiunto per lo meno auJtouv". Per lo scambio h/u, vd. Introduzione. § Constitutio textus, 4) Omofonia di dittonghi e vocali secondo la pronuncia itacista , p. 40 supra. 59 presbeuvein–parevnta": nel senso di onorare presbeuvw si trova a partire dai tragici; non infrequente in Platone, e. g. Symp. 186b 3 (v. Ast, Lexicon Platonicum, s. v.) e poi in molti altri autori posteriori (v. Tgl s. v., VII, col. 1584 s.); per parivhmi cfr. a puro titolo esemplificativo ps.-Luc. Charid. [83 Mcl.] 6 pavnta ta\lla parevnta". 60 oujd∆ a]n–katalaxeuvoi": questa è la lezione di V, ben decifrata da Du Th.; Peiresc invece aveva copiato tiv" korufV moi katalasqeuvsa" e Gaulm. emendava in nota a p. 561 eij ajpo; th`" korufh`" moi katalaxeuvsei" traducendo «non si montem Athon a vertice statuam feceris». Si noti comunque che la congettura di Gaulm. modifica l’apodosi in protasi e le conferisce un significato del genere: , nemmeno se facessi l’impossibile. In realtà la costruzione tràdita oujd∆ a]n + ott., essendo a rigore un’apodosi della possibilità, può esser tradotta soltanto non riusciresti nemmeno a scolpire...; intendo il gen. come dipendente dal kata; del verbo, quasi esso implicasse il movimento dello scolpire dall’alto verso il basso (costruzioni siffatte, naturalmente sono più comprensibili con verbi o di movimento o presupponenti una discesa come in Luc. Amores [49 Mcl.] 41 polutelei`" de; tw`n aujcevnwn o{rmoi kaqei`ntai). Il significato della frase risulta diverso da quello presupposto da Gaulm., specialmente in considerazione dell’aneddoto a cui rimanda: Plut. Alex. 72, 6-8: morto Efestione, Alessandro, preso da incontenibile ed esagerato cordoglio, cercando il monumento più strano e dispendioso per onorare la memoria dell’amico, pensa al suo architetto preferito Stasicrate, che tempo addietro gli aveva promesso di scolpirgli un’intera montagna, impresa tanto mastodontica quanto impossibile. Dicendo allora «non riusciresti a scolpirmi tutti i monte Athos», Ermocle forse allude al fatto che il democriteo Filolao, proponendosi come sostenitore delle tesi epicuree, si dovrebbe sobbarcare a un’opera di adulazione ben più grande e irrealizzabile di quella di Stasicrate. Il vocabolo “Aqw", w, oJ, ricorre al plurale solo in un altro passo di Prodromo, 145 H. All’imperatore ovvero in favore del colore verde, p. 219, 31 Cramer kai; o{lou" “Aqw" kai; Parnasou;" ejpikulindw` th/` grafh/`. Altri detti iperbolici con un nome di monte sono in Luc. imag. [43 Mcl.] 1 w{ste qa`tton a[n ti" to;n Sivpulon metakinhvseien e in Prodromo stesso 135 H. Senedèmo, p. 206, 12 Cramer to;n “Aqw me, w\ fivl∆ eJtai`re, ajnoruvttein keleuvei". Gaulm. proponeva un secondo emendamento: “Aqw" kataleuvsa" eij" korufhvn, ricordando la Gigantomachia; probabilmente egli postulava che “Aqw" potesse essere l’accus. dell’ogg. interno di kataleuvw come se dovesse significare lanciando i monte Athos in cima, e pensava all’episodio mitico dei Giganti che tentarono la scalata dell’Olimpo, sovrapponendo il Pelio all’Ossa. Ma, a parte il fatto che tale congettura non serve, essa introdurrebbe inoltre un uso non attestato di kata-leuvw i cui significati uccido lapidando qcn. e condanno qcn. ai lavori nelle miniere contemplano solo l’accus. diretto (v. LSJ). Giusto invece tenere il verbo katalaxeuvw, che LBG spiega con behauen (digrossare) per il nostro passo, e con zerhauen (tagliare), compl. ogg. livqou", per il passo di un trattato militare bizantino (ss. VI-X), p. 36, 6 Dennis (rimanda poi alle voci di Tgl e Lampe). [4] 62 aujtovtato": la correzione, a mio vedere palmare, è già presupposta dalla trad. di Gaulm. «ipsissimus est» (cfr. e. g. Ar. Pl. 83); non trovo senso valido nella lezione tràdita, che sarà da imputare a un semplice lapsus calami, a meno che non si voglia intenderla, con evidente forzatura sintattica, è giunto da sé (ossia senza esser stato chiamato). Un passo confrontabile tra i meno lontani, anche se diverso perché corredato del verbo adatto, potrebbe essere Luc. Symp. [17 Mcl.] 12 ejkei`no to; koino;n ejpicarientisavmeno" Æto;n Menevlaon aujtovmaton h{kontaÆ (pronunciando piacevolmente quel famoso detto “Menelao arrivò da sé”). w\ fivlai Moi`rai: in un dialogo che parla di un vecchio decrepito si rivela appropriata l’interiezione rivolta alle dee preposte alla durata della vita umana; cfr. Long. Soph. Daphn. et Chl. 4, 21, 3. eJktevon tou` lovgou: la costruzione e[comai + gen. nel significato di lambavnw prehendo, afferro, mi tengo attaccato a è ben attestata (v. Tgl V, col. 2630); il traslato attenersi, essere aderente a e quindi proseguire con è attestato con espressioni molto simili a questa prodromea in autori bizantini di poco anteriori a Prodromo come Eustath. serm. 2, 20, 2 Wirth hJmi`n eJktevon tou` eujaggelivou; Ann. Comn. Alex. 9, 7, 1 kaq∆ eiJrmo;n eJktevon th`" dihghvsew"; Michael philos. in Aristot. libros de part. anim. comm. CAG 22, 2, p. 50, 11 Hayduck eJktevon tw`n ejfexh`". Cfr. anche Arist. Quint. de mus. 1, 3, 1 hJmi`n eJktevon tou` provsw (III s.; il cod. più antico a noi pervenuto è il Ven. Marc. gr. app. cl. VI 10 del XIII-XIV s., ma non si può escludere che ne esistesse una copia nella Costantinopoli prodromea); Agath. Myrin. hist. 4, 25, p. 156, 8 Keydell tou` protevrou lovgou eJktevon (VI s.; il cod. più antico a noi pervenuto è il Vat. gr. 151 del X-XI s.). 63 w| lw/`ste ∆Amavrante: è proprio lo stesso vocativo di Synes. epist. 5, 63 Garzya (cfr. introduzione alle note). uJpo; thlikouvtw/ diaithth/`: per il ruolo di arbitro rivestito da Amaranto, come già si è detto nell’introduzione, il riferimento può essere a quello stesso ricoperto dai compagni di discussione in Plut. Mor. 750a 8 (amatorius) w{sper diaithta;" eJlovmenoi kai; brabeuta;" to;n patevra kai; tou;" su;n aujtw/` paregevnonto; e da Lucino nel dialogo lucianeo Amores [49 Mcl.]. Si noti che la iunctura uJpo; diaithth/` si trova anche in Eustath. serm. 6, p. 83, 14 Wirth o{per a]n pavqoi ti" uJpo; toiouvtw/ pansovfw/ diaithth/` kai; ajkroath/`. 63-64 o{pw"–dialuvsei": il tipico costrutto attico o{pw" + fut. ind. dipende da un ellittico verbum meditandi o cavendi (e. g. o{ra, skovpei; v. Schwyzer II, p. 670). 64 ta;"–ajmfisbhthvsei": il termine ajmfisbhvthsi" appartiene alla diatriba filosofica; cfr. tra gli altri Plut. Mor. 755f 11 (amatorius). 64-65 Dhmokrivtou–ÔErmokleva: il costrutto post-omerico e[cw + participio aoristo vale come un indicativo perfetto (cfr. LSJ s. v., B IV); è ripetuto con lo stesso participio a r. 308. Dell’accusativo ÔErmokleva, per la precisione, in V la e si divina, più di quanto non si veda; ma la lettura è inevitabile, anche in confronto con il successivo Stratokleva (v. n. 5 supra). L’integrazione di Lucarini è sensata, ma ei\nai (qui sottinteso) + gen. indica possesso (cfr. e. g. 1Cor 1, 12 ejgw; mevn eijmi Pauvlou, ejgw; de; ∆Apollw`, ejgw; de; Khfa`, ejgw; de; Cristou`). 103 66 tw/` gou`n tevw": la locuzione avverbiale è doppiamente ellittica, perché deriva da un ejn tw/` tevw" crovnw/ (cinque occorrenze e. g. in Lisia), che dapprima ha perso il sostantivo (esempi abbastanza diffusi, tra cui Galeno, Eliano, Longo Sofista, Polieno), poi anche la preposizione (esempi a partire da autori tardo-antichi, soprattutto ecclesiastici, fino ai bizantini; v. TLG on-line e Tgl VIII, col. 2123d), mantenendo per lo più il significato di allora, in quel tempo; qui in Prodromo, invece, il senso sembra essere quello di interim, interea (v. Tgl VIII, col. 2122) e quindi per il momento. 67 ajnabeblhvsqwn: sec. Tgl s. v., il significato differo, cunctor è del medio ajnabavllomai, ma può esistere come qui anche il passivo differor come in Thuc. V 45 hJ ejkklhsiva ajneblhvqh e Plat. Resp. 400c 5 tau`ta... eij" Davmwna ajnabeblhvsqw. 67-69 tw/` me;n–dexiwsaivmhn: la contrapposizione tw/` me;n/tw/` de; si capisce, a mio avviso, a seconda di come si interpreta il verbo: la traduzione di Gaulm. «ita Democriti sectatorem ridiculo, Epicuri vero discipulum suavi conciliaturus» rende il verbo con un significato non propriamente attestato per dexiovomai, ossia riconciliare (come se fosse diallavttw) che induce erroneamente a intendere tw`/ me;n e tw/` de;, tra l’altro non tradotto esplicitamente da Gaulm., come dat. di vantaggio (e così riconciliare all’uno l’epicureo con il dilettevole, all’altro i democritei con il ridicolo). Questa traduzione, per quanto ci si sforzi di intendere il tw/` me;n riferito ai democritei come singolare collettivo, non funziona perché la reggenza da dexiovomai di accus. e dat. di mezzo (tw/` hJdei` e tw/` geloivw/) ammette solo il significato di accolgo qcn., tratto benevolmente qcn., invito qcn. con qcs., donandogli qcs. (v. Tgl s. v. con i passi citati di Tzetze e Basilio di Cesarea). Detto ciò, tw/` me;n/tw/` de; parrebbero adatti a significare una locuzione avverbiale come da una parte/dall’altra, attestata dal solo Tgl hoc in loco, illo in loco, hic quidem, illic autem con l’unica occorrenza di Hes. Th. 538- 540, passo uniformemente tràdito dai mss. in nostro possesso, ma variamente emendato dagli editori, compreso West che non riesce a trovare giustificazione soddisfacente per la sintassi tràdita e oltre al proprio intervento giudica intelligente quello anteriore di Guyet (th/` me;n/th/` de;). Proprio quest’ultimo emendamento parrebbe raccomandabile per il nostro passo prodromeo, insieme con quello ancor più economico to; me;n/to; de; (tipico scambio bizantino o/w, tuttavia non ricorrente in V, ma qui forse indotto dall’eco nella mente del copista del tw/` gou`n antecedente e dei due tw/` successivi). Cionondimeno, preferirei salvare anche qui il testo tràdito considerando tw/` me;n/tw/` de; anticipazione dello strumentale rispettivamente seguente (con questo, e cioè con...); nel primo caso, poi, il sostantivo è in fine di colon come , nel secondo no per ragioni di chiasmo (accusativo-strumentale/strumentale-accusativo). 69 Tou`to de;–qeivmhn a[n: la costruzione ejn eujfovrw/ tivqesqai, di cui si capisce il significato (non porrei per me ciò nella tollerabilità = non riterrei tollerabile) non sembra attestata altrove (TLG on-line non dà paralleli; Tgl cita solo il nostro passo); ma si confronti Plut. Mor. 761a 20 (amatorius) ejn yovgw/ tiqevmenoi e ibid. 756c 11 (amatorius) th;n... dovxan eij" ajmfivbolon tw`/ lovgw/ qevsqai kai; a[dhlon. Con altri verbi lo stesso complemento al dativo in Luc. Amor. [49 Mcl.] 10 ei[per h\n ejn dunatw/`; e nel nostro dialogo r. 285 ejn ajpovrw/ kei`tai. 69-70 tosou`ton mukth`ra kataceva" hJmw`n: la parola mukthvr, che propriamente significa narice, in senso figurato vale dileggio, scherno (da cui mukthrivzw prendo per il naso, prendo in giro, irrido): cfr. Luc. Prom. es [71 Mcl.] 1 o{ra mhv ti" eijrwneivan fh/` kai; mukth`ra oi|on to;n ∆Attiko;n prosei`nai tw/` ejpaivnw/, unica attestazione nel corpus di questo autore della parola metaforica, peraltro non molto diffusa (v. Eunap. Vit. soph. 16, 2, 3 Giangrande). La iunctura con il verbo katacevw si ritrova invece tre volte in Mich. Attal. 53, 21; 236, 21; 245, 7 Bekker (storico vissuto nell’ XI s.); una volta in Nic. Chon. hist. p. 207, 22 van Dieten (di poco posteriore a Prodromo); in Nic. Eug. (?), Anach. r. 755, p. 249 Christidis (posteriore a Prodromo); Niceph. Greg. hist. rom. 1, 252, 6 Schopen-Bekker (s. XIV). ajnevlegkto": tipico aggettivo filosofico, inconvictus (v. Tgl s. v.), e. g. in Plat. Gorg. 467a 2 eij dev me ejavsei" ajnevlegkton. 72 pro;" Filivou: l’invocazione a Zeus, protettore dell’amicizia, in Plat. Phaedr. 234e 2, Gorg. 500b 6, 519e 3 è un richiamo alla serietà da parte di un interlocutore all’altro, qui forse un po’ svalutato. uJpo; tauthi;> th/` platavnw/: questo è solo uno degli elementi del locus amoenus (mancano l’acqua e la brezza); in ogni caso è ovvio il riecheggiamento di Plat. Phaedr. 230b h{ te au\ phgh; cariestavth uJpo; th`" platavnou rJei` mavla yucrou` u{dato"; Aristen. 1, 3, 21, che cita letteralmente Platone, ha hJJ de; phgh; cariestavth uJpo; th`/ platavnw/ rJei` ktl., con lo stesso caso dativo del nostro Prodromo, senza dubbio lettore dell’epistolografo. In Luc. Amores [49 Mcl.] 18 compaiono alcune caratteristiche del locus amoenus: l’ombra al riparo dalla calura e le cicale; Plut. Mor. 749a (amatorius) polemizza con gli scrittori che prendono a prestito da Platone questo elemento letterario. 74-75 tavca a]n kai; diarragw`: il congiuntivo aoristo 2° passivo è scritto con una sola r in V (v e o hanno l’erroneo diaragw`n) e parimenti in Du Th.; come era doveroso, ho rettificato secondo la grafia corrente (l’unica edizione che mantiene a testo una forma del suddetto verbo al passivo con r scempia è, secondo TLG on-line, Georg. Monach. chron. breve PG 110, col. 1209, r. 43 to;n tovmon... diaragh`nai; potrebbe trattarsi di un errore di stampa del solo Migne ovvero già di E. De Muraltus, da cui Migne esemplò la propria edizione, ovvero persino dell’editio princeps, su cui De Muraltus basò la propria e che in realtà potrebbe riprodurre fedelmente la lezione dei codici; sembra comunque essere l’unico caso per ora rintracciabile di grafia non normalizzata, non ammessa nemmeno da editori di testi bizantini). Il passivo diarrhvgnumai ricorre anche in 104 Luc. Symp. [17 Mcl.] 30. Per quanto riguarda lo iato tavca a[n, noto qui una volta per tutte che si tratta di un fenomeno ben ascrivibile alla desultoria coerenza con le regole atticiste in imitatori come Prodromo: in casi siffatti, normalizzare verso la norma piuttosto che verso l’anomalia o viceversa non è certo più raccomandabile che seguire le discontinue alternanze della tradizione manoscritta (in ps.-Luc. Charid. [83 Mcl.] 13 pleivw a[n gli editori lucianei Lehmann prima e Jacobitz poi sono stati indotti a omettere il d∆ tràdito tra le due parole, forse proprio in rispetto all’anomalia). 75 diaragw`: sulla grafia con un solo r, vd. Introduzione. § Constitutio textus, 5) Geminazione e scempiamento di consonanti, p. 42. ajperihvghton: aggettivo raro della teologia negativa, compare sedici volte in Proclo (e. g. Theol. Plat. 1, 56, 18 Saffrey-Westerink, indescriptible), che lo ricava da Plat. Leg. 770b 7 (v. Ast, Lexicon Platonicum, s. v., non explicatus); riesumato dai bizantini, ricorre e. g. due volte in Ann. Comn. Alex. 3, 5, 2 e 13, 3, 1 Leib (cfr. LBG s. v.). [5] 77 to;n–kriomuvxhn: la determinazione temporale degli ottant’anni può ricordare la famosa replica di Solone fr. 20, 4 West ojgdwkontaevth moivra kivcoi qanavtou al verso di Mimnermo 6, 2 West eJxhkontaevth moivra kivcoi qanavtou, entrambi tramandati da un autore ben noto a Prodromo, Diog. Laert. Vit. 1, 60-61. L’aggettivo kriomuvxh", invece, nella lezione con u di V presenta il consueto scambio bizantino di lettere omofone (u = i = /i/), che va emendato in considerazione non solo dell’aggettivo hapax kriovmuxo" (Gal. meth. med. 6, 137 = 10, 406 Kühn in una citazione da Cercida, fr. 15 CA), ma anche di altre due occorrenze prodromee di kriomuvxh" scritto con i: nella Sat. 149 H., 116 = p. 334, rr. 124-125 Romano 1999) eij mh; katav se kriomuvxh" ei[h kajkei`no" (e in questo caso V presenta senz’ombra di dubbio la lezione kri-); nonché nella lettera 100 H. a Michele Italico, edita da Papadimitriu 1905, p. 297, rr. 25-26. Si trova inoltre in due opere di due autori posteriori a Prodromo: nel dialogo Nic. Eug. (?), Anach. r. 828, p. 253 Christidis; e nell’elogio dei capelli scritto dal patriarca cipriota, vissuto nel XIII s., Greg. Cypr. contra Synes. p. 370, 3 ed. Pérez Martin 1996. L’aggettivo, in entrambe le varianti di declinazione, significa pieno di muco come un becco (forse perché pecore e capre, ma anche vacche e cavalli, hanno sempre il naso umido di muco, come i mammiferi in genere; Tgl arietis instar mucosus, koruvzh" mesto;" th;;n rJi`na; LBG Schafskopf). Nessuno dei due editori francesi di questo dialogo aveva scoperto la fonte galenica di Prodromo; ma Gaulm., nonostante la scorretta grafia e il parallelo non palmare, era andato molto più vicino di Du Th. al vero significato. 81 “H pou–numfivw/…: ejkdivdwmi, qui all’imperfetto, è il verbo tecnico che significa il gesto del padre di dare in sposa la propria figlia al futuro marito; cfr. e. g. Luc. Symp. [17 Mcl.] 5 e ps.-Luc. Charid. [83 Mcl.] 16 e 19; gli fa da pendant subito dopo eijshgavgeto (cfr. Hdt. 5, 40 ejsavgage gunai`ka teknopoiovn; 6, 63 th;n trivthn ejshgavgeto gunai`ka). Qugatridh`n poi è una doverosa correzione di qugatridh;n tràdito da V (e v, o), scambio di accento usuale nei copisti tardo-bizantini (v. n. a r. 328), e di qugatrivdhn degli editori. 82 pri;n a]n ojfqalmw/`–pra`gma: nel greco classico pisteuvw regge solitamente il dat. di persona e cosa come sotto (r. 190) e nell’espressione a questa simile, peraltro non frequentissima, per la prima volta in Lys. or. 24, 14 Thalheim ma`llon pisteuvete toi`" uJmetevroi" aujtw`n ojfqalmoi`" h] toi`" touvtou lovgoi", variamente ripetuta nei posteriori (corpus hipp. diaet. 4, 13; Gal. de opt. doctr. 1, 49, 9 Kühn; de usu partium 3, 623, 15 Kühn); tra questi, Procop. bell. vand. 1, 7, 6 (= de bell. 3, 7, 6, vol. I, p. 341 Haury-Wirth) oujk a[lloi" tisi pisteuvein to; toiou`ton h] ojfqalmoi`" toi`" auJtou` e[gnw, sembra l’espressione per costruzione più vicina alla nostra, avendo anche un accusativo che può essere interpretato come di relazione, se si interpreta il verbo come assoluto, ovvero come oggetto di pisteuvw nel senso di concredo, affido, seguito dal dat. di termine, qui al singolare per variatio. 84 ∆Iapetov": la congettura di Gaulm., da lui né messa a testo né tradotta, è confortata dal successivo ∆Iapetov" r. 103 (q. v.) e pare molto plausibile, considerato che non si accenna mai nel testo a Stratocle come medico, bensì solo come filosofo; non viene in soccorso nemmeno l’accezione figurata di medico delle ferite spirituali che il vocabolo assume presso gli scrittori cristiani (v. Lampe 1961 s. v.) in riferimento a Dio e a Gesù. 84 papai; tou` ajkouvsmato": oltre al genitivo esclamativo dopo interiezione (di ascendenza già omerica) e dopo vocativo, come poco sotto a r. 92 (tipicamente attico, come quello isolato; spiegati entrambi come dipendenti da un ellittico verbum affectus; v. Schwyzer II, p. 134), va notato che il termine a[kousma è già in Platone due volte e, tra gli atticisti noti a Prodromo, per tacere di quelli che lo usano una o due volte, quattordici in Dionigi di Alicarnasso, diciassette in Plutarco, dodici in Luciano, nove in Temistio, venti in Giovanni Crisostomo. 85 trigevrwn: è questa la lezione tràdita di V; è aggettivo già usato da Aesch. Ch. 314 e ricorre più di una volta nell’Antologia Palatina (VII 144, 2 detto del longevo Nestore); si ritrova in Sat. 149 H., 111. Simile composto con simile prefisso in Amicitia exulans 191 trisavnoikto". koruzw`n: il verbo koruzavw è già in Plat. Resp. I 343a o{ti toi [sc. hJ titqh;] koruzw`ntav se periora`/ kai; oujk ajpomuvttei deovmenon ma in un paragone che si riferisce ai bambini (i mocciosi appunto); riferito a un vecchio, invece, è Luc. dial. mort. [77 Mcl.] 19, 2 kai; gevrontav me kai; falakro;n, wJ" oJra`/", o[nta kai; lhmw`nta prosevti kai; koruzw`nta uJperhvdonto qerapeuvonte". kronovlhro": l’aggettivo composto da krovno" (vecchio come Crono; cfr. ∆Iapetov" r. 103) e lh`ro" (chiacchiera) compare già in Plut. Mor. 13b (de liberis educandis) e Poll. 2, 16; le altre otto occorrenze fornite 105 da TLG on-line risalgono ad autori contemporanei di Prodromo, come i cronachisti Giorgio Cedreno e Giovanni Scilitze, oppure ad autori posteriori come quello del dialogo Anacarsi, Gregorio II Patriarca di Cipro, Giorgio Pachimere e Giovanni Argiropulo. 87-88 ajll∆ ejbavyato–ejsofivsato: il trucco maschile è per lo più sintomo di leziosa depravazione, come risulta anche dalla descrizione del cinedo Chelidonio (= Rondinino) in Luc. Merc. cond. [36 Mcl.] 33, che presenta molti tratti in comune con lo Stratocle prodromeo, primo tra tutti la barba rasata, contrapposta a quella lunga del filosofo Tesmopoli: kivnaidovn tina tw`n pepittwmevnwn ta; skevlh kai; to;n pwvgwna periexurhmevnwn (cfr. pro;" to; perifere;" r. 175) ...fu`ko" ejntetrimmevnon kai; uJpogegrammevnon tou;" ojfqalmou;" kai; diasesaleumevnon to; blevmma kai; to;n travchlon ejpikeklasmevnon (cfr. oJ travchlo" ejsimou`to r. 134). Tale pratica, comunque, poteva anche servire agli uomini eterosessuali, ma non meno delicati, ad apparire più attraenti agli occhi muliebri, come si evince dalla descrizione dell’eterosessuale in Luc. Amores [49 Mcl.] 9; ma la cosmesi viene stigmatizzata persino nelle donne dal Callicratida lucianeo, il quale usa termini o concetti simili a quelli di questo passo prodromeo (Luc. Amores [49 Mcl.] 40-41). Per quanto riguarda l’assetto testuale, la lezione sicura di V ejpevcrwse è comprensibile; Gaulm. stampa ejpevcrise (non so se per congettura ovvero per errore suo o di Peiresc o del tipografo), che mi ricorda la satira 140 H. Contro la vecchia lussuriosa, v. 56, p. 286 Romano 1999 kai; ta;" pareia;" tw/` fuvkei pericrivei". L’aoristo medio ejsofivsato, invece, con accus. di persona e nel senso di ingannare è attestato in autori tardi come Ios. Fl. Bell. Iud. 4, 2, 3; Anth. Pal. 12, 25, 5; Herodian. 7, 10, 7; pertanto anche qui parrebbe voler significare ingannò la ragazza, il che farebbe propendere verso l’emendazione in th;n del tràdito tovn, con ripristino di un tipico termine attico per ragazza. Nondimeno, come specifica Lobeck ap. Tgl, meivrake" con articolo maschile «per iocum et ludibrium dicuntur pathici... sed recentiores promiscue de utroque genere», ossia negli autori di età tardo-antica e bizantina accanto a hJ meivrax ragazza si trova oJ meivrax ragazzo, come esatto corrispondente di to; meiravkion. Gli esempi addotti da Lobeck (già in Boissonade ad Eunap. Vit. soph. 7, 1, 11 ed. Amstelodami 1821, p. 291) provengono da Heliod. Aethiop. 4, 19 e 10, 23; Ann. Comn. Alex. 1, 19c (= 10, 3, 6, 15 ed. Leib); Nic. Chon. hist. prooem. 2, 18 van Dieten e passim. A questo punto, quindi, ejsofivsato ha il valore, che al medio non gli è inusuale, di escogito, invento, creo ingegnosamente, fingo: cfr. Phil. Vita Apoll. 2, 6, vol. I, p. 47 Kayser oi\novn te w[regon, o}n ajpo; tw`n foinivkwn sofivzontai («che essi estraggono dalle palme» tr. Del Corno 1978); e Her. 19, 15, vol. II, p. 211 Kayser par∆ h|" [sc. th`" kovclou] oiJ a[nqrwpoi sofivzontai th;n porfuvran («da cui gli uomini ricavano la porpora» tr. Rossi 1997; «purpuram scite et ingegnose conficiunt scilicet artificiose» tr. Tgl); cfr. anche Prodr. sat. 140 H. Contro la vecchia lussuriosa, v. 32, p. 286 Romano 1999 podagriw`sa ka]n sofivzh/ th;n novson detto di una vecchia che vuol farsi passare più giovane di quello che è: tu che sei affetta da gotta, anche se escogiti la malattia (nel senso di fingi/nascondi propriamente non attestato da Tgl, ma accostabile al passo di Herm. inv. 4, 147, p. 172 Rabe deino;" ga;r ajei; sofivsasqai ta;" tevcna" kai; ajpokruvptein oJ rJhvtwr; cfr. anche il successivo to;n ajniwvmenon uJpekrivneto r. 150 interpretava la parte di, faceva le viste di quello afflitto; e sat. 149 H. Simpatizzante di Platone ovvero cuoiaio, p. 328, r. 31 Romano 1999 to;n ajnagignwvskonta schmativzh/ fai le viste di quello che legge). [6] 89 o{so"–provswpa: o{so" rafforza presbuvth" e filovsofo" usati come aggettivi (quanto vecchio uomo e filosofo). Il tràdito a{tta (propriamente atticismo per a{tina, qui fuori luogo, anche se stampato da Gaulm. e trascritto dagli apografi v e o) va corretto con Du Th. in a[tta, atticismo per tina, molto frequente e. g. in Platone; lo scambio dello spirito in questo aggettivo/pronome indefinito è comune nelle altre opere di Prodromo tramandate da V, ma comunque abbastanza isolato (sullo scambio degli spiriti in copie di manoscritti coeve a V, v. Declerck 1994, p. CV s.). Il medio ejpimorfavzetai, infine, stampato ejpimorfavzei da Gaulm., si può giustificare o sottolineando che il soggetto compie l’azione con particolare interesse a proprio vantaggio, o ammettendo semplice corrispondenza con l’attivo (v. n. seg. e ejqaumasavmhn r. 50). 92 th;n polia;n eujqetivzetai: il sost. polia; (sc. kovmh) compare anche in Luc. Amor. [49 Mcl.] 23 w|/ polia; proshvkousa kai; ghvra" marturei`. Per il medio eujqetivzomai cfr. ejpimorfavzetai n. prec.; l’attivo è attestato in passi con simile compl. ogg. (kovma" o trivca"): Aristaen. 1, 25, 6; Ael. VH 9, 9; Luc. bis acc. [29 Mcl.] 31; indoct. [31 Mcl.] 31; rhet. praec. [41 Mcl.] 11; Nic. Eug. (?), Epist. 23, r. 11, p. 324 Christidis. 93 eij tw`n eJxh`" ejpibaivhn: letteralmente se mi addentrassi nel seguito, con il genitivo tipico sin da Omero (v. Tgl s. v., IV, col. 1522b). 94 mh; suv ge–∆Amavrante: cfr. Charid. 21 mhdamw`", w\ pro;" qew`n, peraitevrw proelqei`n me biavsh/. 95 ajll∆ a[nwqevn–th`" dihghvsew": l’espressione metaforica ben comprensibile ejk prooimivwn dall’inizio è usata da autori di età cristiana, a partire da Flavio Giuseppe; molto frequentemente riccorre in Giovanni Crisostomo; è usata anche dai commentatori filosofici, non ignoti a Prodromo (v. n. 34), come Olymp. in Aristot. meteora comm. CAG 12, 2, p. 273, 25 Stüve; cfr. anche ps.-Luc. Charid. [83 Mcl.] 3 ei[ moi to;n pavnta lovgon ejx ajrch`" ajpodoivh" e 4 prooimiasavmeno" ou{tw. 96 eujparakolouqhtovtero"–probaivh: sottintendo a eujparakolouthtovtero" un ei[h, per quanto sia noto che l’attico omette solitamente le forme del verbo essere all’indicativo presente (v. Kühner-Gert II, 1 p. 40) e con gli aggettivi verbali in -tevo" piuttosto che in -tov"; di questo, poi, le occorrenze alla forma comparativa sono cinque nel commentatore aristotelico Alessandro di Afrodisia e tre rispettivamente in Tolemeo, Efestione e Niceforo Gregora, mentre abbastanza frequente è il grado normale, ma a partire da autori come Dionigi di 106 Alicarnasso (v. de Thuc. idiom. 2, 1 i{na de; eujparakolouvqhto" oJ lovgo" soi gevnetai). La congettura di Lucarini istituisce una simmetria tra i nomi del predicato, intendendo retto da probaivh anche l’aggettivo verbale. 97 th;n dihvghsin ajnakorufwvsasqai: ajnakorufovomai va tradotto a mio avviso con risalire fino alla cima, all’inizio e può esser stato foggiato su ajnakefalaiovw (Tgl s. v., fornendo il solo nostro passo, lo spiega ad finem perduco); TLG on-line aggiunge solo Prodr. (?) peri; gramm. (138 H.) p. 144, 11 Göttling kai; deivxwv soi, o{ti kai; eja;n polloi; ejntau`qa oiJ crovnoi faivnwntai, ajlla; pavnte" eij" tou;" trei`" ajnakorufou`ntai, h[toi to;n ejnestw`ta, to;n parelhluqovta kai; to;n mevllonta, in cui il verbo sembra che debba esser tradotto si riducono, si radunano, si raggruppano e quindi risalgono. 98 ejxegevlasa" mavla platuv: il nesso gelavw + platu; è molto usato dagli autori tardo-antichi, sia pagani sia cristiani, tra cui Filostrato (Vita Apoll. 7, 39, p. 293, 22 Kayser), Atanasio (contra gentes 1, 28 Thomson), Cirillo di Alessandria (una dozzina di occorrenze in TLG on-line), ps.-Dionigi l’Areopagita (eccl. hier. p. 123, 18 Heil-Ritter), Teodoreto di Cirro (hist. eccl. 251, 17 Parmentier-Scheidweiler), Isidoro Pelusiota (epist. 1574, 3 Évieux); nella variante con il composto katagelavw in Filostrato (Vitae soph. 1, 20, 2 Kayser), Eusebio (praep. ev. 2, 4, 5, 2). Tra i bizantini vanno annoverati Psello (theol. 95, 35 Gautier e orat. hag. 1a, 541 Fisher con katagelavw) e, di poco posteriore a Prodromo, Giovanni Cinnamo (epit. p. 164, 6 Meineke, con gelavw). 99 nh; Div∆ ejnovhsa"–to; fivlhma: la seconda persona sing. ind. aor. ejnovhsa" tràdita inequivocabilmente da V (e così copiata da v, o, nonché stampata da Du Th.) si può salvare se si pone punto interrogativo alla fine della frase; una simile interrogativa diretta priva di particelle interrogative è in Plut. Mor. 752a 3 ou|to" d∆ ajrnei`tai th;n hJdonhvn…. Luc. Symp. [17 Mcl.] 11 oJra/`"... to;n gevronta... o{pw" ejmforei`tai... kai;... ojrevgei... meq∆ aujtovn…; vi si noti anche la dipendenza di una subordinata introdotta da o{pw". La congettura di Gaulm., a questo punto, è evitabile. ∆Iapetov": nel senso di vecchio rimbambito è già in Ar. Nub. 994; v. anche e. g. Luc. dial. deor. [79 Mcl.] 11, 1. Stesso significato antonomastico ha in italiano l’antroponimo biblico matusalemme. 100 sardwvneiovn ti ejpigelw`n: la grafia sardovnion o sardwvnion per sardavnion (il nostro -eion è foneticamente equivalente a -ion) è già ricorrente negli autori tardi, tra cui Luc. Asin. [39 Mcl.] 24: sardwvnion gelw`nte" N: sardovnion g. Y: sardavnion g. cett., Mcl. La iunctura con ejpigelavw è in Luc. Iupp. trag. [21 Mcl.] 16 oJ Da`mi" de; to; sardavnion ejpigelw`n (g: ejpimeidiw`n P). 100-101 perievlkein–to; fivlhma: ajkkivzomai = faccio smorfie è e. g. in Alciphr. 3, 5, 2; 4 13, 15 e 14, 5 (tutti e tre usati per una donna); 4, 10, 1 (usato per un uomo); v. anche Luc. merc. cond. [36 Mcl.] 14 (ajkkismo;" in Luc. Amor. [49 Mcl.] 4 e 42). 104 oujde;n–dienhnocwv": il detto, ammesso che tale sia, si può confrontare con Luc. Symp. [17 Mcl.] ka]n pro;" kivonav tina h] pro;" ajndriavnta hJdevw" a]n proselqw;n ejkcevai pavnta suneivrwn ajpneustiv. L’avverbio movnon si capisce bene come specificazione di ajkouvonto", onde non va espunto. [7] 110-111 ããei[qeÃÖajpeskeuasavmhn: il tràdito ind. aor. va bene (cfr. Aesch. Ag. 1537 ei[q∆ e[m∆ ejdevxw; Xen. Mem. 1, 2, 46 ei[qe soi, w\ Perivklei", tovte sunegenovmhn) e non ha bisogno di essere eventualmente emendato in un ott. aor. ajposkeuasaivmhn (Gaulm. ha la vox nihili ajpeskeuavsaimen). 111-112 toi`" ou\si–ejpibateuvein: l’espressione sembra influenzata da un modo di dire, variamente utilizzato da autori neoplatonici: Procl. theol. plat. 3, 5, p. 19, 27 Saffrey-Westerink ajnavgkh dhvpou kai; tw`n qew`n tou;" me;n tw/` eJni; prosecestevrou" aJploustevrai" ejpibateuvein tou` o[nto" moivrai" (V s.; surmontent des parties plus simples de l’être tr. Saffrey-Westerink); Cyrill. Alex. de sancta trinitate, PG 77, col. 1132, r. 15 oujsiva tai`" o{lai" oujsivai" ajcravntw" ejpibateuvousa (IV-V s. d.C.; essentias omnes intaminate penetrantes tr. Aubert; ajcravntw" può aver suggerito il kaqarw`" prodromeo) = ps.-Dion. Areop. div. nom. 2, 10, p. 134, 12 Suchla = PG 3, col. 648c (V-VI s.; totis substantiis insistens impollute tr. Corderius; sostanza che incede senza contagio con tutte le sostanze tr. Turolla; sostanza che entra senza macchia in tutte le sostanze tr. Scazzoso); Max. Conf. quaest. ad Thalass. quaest. 54, p. 457, r. 239 Laga-Steel iJptavmeno" oJ lovgo" ajgnwvstw" ejpibateuvei toi`" ou\si (VI-VII s.; verbum volans in ea quae sunt incognite ingreditur tr. Scoto Eriugena). 113-117 ejpi; dh; touvtoi"–to;n bivon ejnevplhsan: manca il verbo principale che regga i tre participi; ai soggetti delle relative ÔIppovluto" e Bellerofovnth" sottintenderei e. g. e[paqen. La congettura ptwmavtwn di Lucarini al posto del tràdito poihmavtwn pare conferire miglior senso alla frase; ma la mia traduzione cerca di salvare la tradizione. Non ho accolto, infine, il facile emendamento dev degli editori, perché ritengo il dhv imputabile all’abuso prodromeo delle particelle connettive, quale si è notato nell’introduzione alle note, e. g. riguardo a kaiv; anche in ps.-Luc. Charid. [83 Mcl.] 5 il testo tràdito ha subìto lo stesso trattamento da tutti gli editori, eccetto Anastasi 1971 e Macleod IV che lo giustificano come tratto sintattico anomalo (mentre Mcl. in Lucian VIII seguiva la vulgata editoriale risalente all’ed. pr. Florentina 1496): h}n dh; [dh; codd.: de; edd.] zhtei`" aijtivan tw`n lovgwn, aujto;" h\n Klewvnumo" oJ kalov". Cfr. ibid. 21. polla;–ajpokalw`n: l’offesa al genere femminile non è una novità: si ricordi in primis Eur. Hipp. 616 w\ Zeu`, tiv dh; kivbdhlon ajnqrwvpoi" kako;nÉ gunai`ka" eij" fw`" hJlivou katw/vkisa"; ma anche quella scagliata da Andromaca, Eur. Andr. 269-273 deino;n d∆ eJrpetw`n me;n ajgrivwnÉ a[kh brotoi`si qew`n katasth`saiv tina:É o} d∆ e[st∆ ejcivdnh" kai; puro;" peraitevrw,É oujdei;" gunaiko;" favrmak∆ ejxhuvrhkev pwÉ kakh`": 107 tosou`tovn ejsmen ajnqrwvpoi" kakovn, soprattutto per la menzione della vipera. Sono poi nominate le donne rese famose dall’epos e soprattutto dalla tragedia per la loro cattiveria nei confronti dei consorti o degli uomini da loro amati: Clitemestra (Omero, Eschilo), Elena (Omero, Euripide), Fedra (Euripide), Antea (Euripide, ma nota dalla tradizione indiretta). 120-121 Klwqoi`... Aijakw/`... ∆Ai>dwneva: tre divinità diversamente preposte alla morte: la Parca (propriamente quella che fila, klwvqw, come ricorda anche Plat. Resp. 620e 2, ma qui riadattata al compito del taglio dello stame vitale); uno dei tre giudici infernali (insieme a Minosse e Radamanto; cfr. Plat. Gorg. 526) e il re degli inferi (Eaco e Ade sono nominati insieme in Luc. De luct. [40 Mcl.] 16). ∆Ai>dwneuv" per “Ai>dh" è già omerico (cfr. e. g. E 190, U 61), ma si ripete anche in Luciano: oltre al passo appena cit., Nec. [38 Mcl.] 10 e Dial. mort. [77 Mcl.] 14, 1 e 28, 1. 121 ejtwvsion–kataleivpousa: cfr. S 104 ajll∆ h|mai para; nhusi;n ejtwvsion a[cqo" ajrouvrh", citato da Luc. Icar. [24 Mcl.] 29 e Apol. [65 Mcl.] 14. 123 tw/` swvmati ejnteqavyomai touvtw/: vd. ll. 292-293. [8] 126 th/` te didaskaliva/–ejxaiwrouvmenoi: l’espressione può corrispondere in qualche modo a quella italiana pendere dalle labbra di qualcuno, anche se quella greca è più forte, perché concerne l’azione di appendere qualcuno dagli orecchi (in senso proprio, ma per la testa mozzata di un suppliziato, v. Theoph. Conf. chron. p. 442, 9-10 de Boor th;n me;n kefalh;n aujtou` ejk tw`n w[twn dhvsante" ejpi; trisi;n hJmevrai" ejn tw/` Milivw/ ejkrevmasan eij" e[ndeixin tou` laou`; trascinare qualcuno dagli orecchi Luc. Heracl. [5 Mcl.] 3 e{lkei ejk tw`n w[twn pavnta" dedhmevnou"); in senso figurato esiste già in Luc. Icar. [24 Mcl.] 3 e 4 ejk tw`n w[twn ajphrthmevnon appeso per gli orecchi, cioè lasciato in sospeso in una condizione molto disagevole. Tra gli autori immediatamente precedenti a Prodromo v. Theoph. Continuatus chron. 28, 13 Bekker wJJ" skia; tw/` ajndriavnti ei{peto ajlhqw`" kai; o{lw" h[rthto kai; ejkrevmato ejx w[twn, w{sper ti keramou`n ajggei`on, toi`" lovgoi" tou` monacou`; Psell. chron. 6, 161 wJ" dokei`n ejk tw`n w[twn th`" ejmh`" glwvtth" ejkkrevmasqai (così da sembrar pendere per gli orecchi dalla mia lingua); tra i posteriori Nic. Chon. hist. 2, 7, 6 p. 63, 4 van Dieten wJ" ejk tw`n w[twn ajnarth`sai kata; tou;" tw`n ajmforevwn diakevnou" to;n uJyhlovfrona; id. orat. 3, p. 18, 3 van Dieten ejk tw`n w[twn h/jwvrei to; ajkrowvmenon (il paragone con le anfore è simile a quello di Teofane Continuato). Sintatticamente Prodromo varia, omettendo la preposizione ejk prima di w[twn, forse perché già presente in ejxaiwrouvmenoi, verbo tra l’altro attestato solo in Hipp. artic. 70, 27 e Gal. in Hipp. librum de articulis 18, 740, 18 Kühn (v. TLG on-line). Il dat. th/` didaskaliva/ può essere di limitazione, ma per ragioni di miglior resa in italiano l’ho tradotto come se fosse il compl. di provenienza dello stare appesi. 127-128 h{ te ga;r uJphvnh–govnaton: i filosofi sono canzonati fin dai tempi di Aristofane (v. n. seg.) con la caricatura di alcune loro caratteristiche; ma la barba lunga, da sola o insieme con altre peculiarità dell’habitus sia esteriore sia morale, come ironica prova di dignità filosofica è un topos nato in età ellenistica, associato specialmente alla figura di Diogene il Cinico, filosofo scorbutico e trasandato, della cui corrente faceva parte Menippo di Gadara, l’inventore della satira menippea (v. introduzione alle note). Nella commedia nuova si ritrova presso i comici Ephipp. fr. 14, 7 K.-A. (s. IV a.C.) e Phoenic. fr. 4, 17 K.-A. (s. III a.C.); è anche il motivo per cui le raffigurazioni, specialmente scultoree, dei filosofi eseguite a partire da quel periodo sono dotate di barba. Luciano si compiace di insistere su questo tema in tono di biasimo: Iupp. Trag. [21 Mcl.] 16; Gall. [22 Mcl.] 10; Icar. [24 Mcl.] 10; ibid. 29; Tim. [25 Mcl.] 54; Pisc. [28 Mcl.] 11; ibid. 37; Bis acc. [29 Mcl.] 6; Philops. [34 Mcl.] 5; Merc. cond. [36 Mcl.] 12; ibid. 25; ibid. 33; Eun. [47 Mcl.] 9; Hist. conscr. [59 Mcl.] 17; Herm. [70 Mcl.] 18; cfr. anche alcuni altri passi nella n. seg. e il panorama sull’argomento in Mau 1897. mevcri kai; ejpi; govnaton: l’accusativo retto da ejpi; presuppone più che un movimento il risultato del movimento (sc. della barba); in prosa mevcri(") compare come avverbio anteposto a una preposizione che regge l’accusativo, come in Plat. Tim. 25b mevcri pro;" Ai[gupton; id. Criti. 118a o[resin mevcri pro;" th;n qavlattan kaqeimevnoi" (forse il passo più vicino al nostro per l’uso di kaqivemai seguito da prep. reggente l’accus.); Xen. An. 6, 4 mevcri eij" to; stratovpedon. Si ritrova in poesia ellenistica con Call. Dian. ej" govnu mevcri citw`na zwvnnusqai; Ap. Rh. IV 1403 a[cri" ejp∆ a[knhstin. Il passo di Callimaco può indurre a credere che l’accus. sing. del passo prodromeo sia coerente e ammissibile (ejn parevrgw/ sia però precisato che almeno dai tempi dell’ed. Schneider degli inni callimachei non esiste alcun loro codice anteriore o contemporaneo all’età di Prodromo). 128-129 oJ travchlo"–provswpon: gobba, occhi sbarrati e pallore sono segni di un continuo e logorante studio, in verità addotti con intento non elogiativo, bensì canzonatorio, e si aggiungono al precedente della barba lunga. Ar. Nub. 103 e 1017 è il primo a creare il denigrante topos letterario del filosofo pallido, riferendosi a Socrate e ai suoi discepoli, ossia ai sofisti in generale; diffuso poi nella commedia nuova, come risulta anche dal frammento menandreo riportato da Luc. Iupp. Trag. [21 Mcl.] 1 wjcro;" peripatw`n, filosovfou to; crw`m∆ e[cwn, fu recepito da Luciano (ib. 33; Icar. [24 Mcl.] 5; Herm. [70 Mcl.] 2), dal quale lo attinge Prodromo, che non vi rinuncia nemmeno nel dialogo filosofico 135 H. Senedèmo p. 207, rr. 1-4 Cramer kai; didaskavlwn oJ ÔErmagovra" polumaqevstato", ejk pollw`n te a[llwn kai; th`" ujphvnh" mavlista kai; th`" w[cra", th`" me;n ta; provswpa periplanwmevnh", th`" d∆ a[cri kai; ejpi; govnaton kaqeimevnh", tekmhriouvmeno" to; filovsofon. 108 Il verbo simovw è l’aggettivo simo;" generalmente indicano il naso camuso, rincagnato, schiacciato, ma possono essere impiegati anche per i piedi e le mani (Aristot. PA 693a 7 tou;" povda" sesimwmevnou" piedi corti e larghi quasi come un naso camuso; Poll. 4, 105; 9, 126), nonché per il collo e per il polpaccio (Achill. Tat. 1, 12, 3 to;n aujcevna simwvsa" [WMDGEF: gurwvsa" V] kai; frivxa" th;n kovmhn piegando in avanti il collo e drizzando la criniera, sogg. il cavallo; Heliod. Aethiop. 10, 31, 3 thvn te ijgnu;n simwvsa" kai; w[mou" kai; metavfrena gurwvsa" piegando il polpaccio e arcuando le spalle e la schiena, sogg. Teagene pronto alla lotta, con la nota di Rattenbury nell’ed. BL, III, Paris 19602 ). Questi ultimi due passi di romanzieri tardoantichi sono evidentemente il modello di Prodromo, di cui cfr. anche Rhod. et Dos. 1, 228 trivca" de; frivxa" kai; simwvsa" aujcevna. 130 w\ filovth": è un tipico vocativo attico, secondo Eustath. in Odyss. 1, 129, 36-41 ijstevon de; o{ti... ajnh;r ajttiko;" ejrei` a]n Ækai; su; filovth"Æ. ouj ga;r ajei; plh`qo" hJ filovth" dhloi`, ajllav pote kai; kata; eJnov" tino" hJ toiauvth kei`tai levxi"; ma in Platone ricorre solo in Phaedr. 228d 6, sufficiente comunque a costituire il modello prodromeo; v. anche r. 167. 131-132 ∆Egw; me;n–casmwvmena: nella Grecia classica (v. Fiechter 1912, coll. 2541-2542) la casa aveva stanze riservate per la dimora dei due sessi, l’ ajndrwvn o ajndrwni`ti" e la gunaikwni`ti", posta in genere dietro alla prima, se la casa era a un solo piano, o al piano superiore, come nella casa dell’Eufileto lisiano (Lys. or. 1), in cui il trasferimento della moglie al piano terra costituisce una scelta insolita dettata dalle necessità della crescita del neonato. Se è vero che il gineceo al piano nobile come nella casa di Eufileto non era la norma, va comunque menzionato il caso dell’Odissea, in cui Penelope appare sempre nell’atto di ritirarsi o provenire dallo uJperw/`on, una stanza rialzata. Questa disposizione riservata alle donne non è comunque più in vigore per la casa di Amaranto, che sta leggendo un libro al piano di sopra e vede cosa succede in strada dalle finestre aperte su di essa (similmente alla casa di Ar. Thesm. 797 con piano superiore dotato di finestre). 134 kai;–ajnegivgnwskon: l’Assioco è un dialogo tramandato nel corpus platonico ma annoverato tra gli oJmologoumevnw" noqeuovmenoi sin dal catalogo di Trasillo (Diog. Laert. 3, 62); cionondimeno resiste l’attribuzione platonica in Clemente d’Alessandria e in Stobeo (v. Souilhé 1930, p. 124 s.); a questi ultimi, comunque, non mi pare che Prodromo si sia accodato, perché l’espressione oJ para; Plavtwni ∆Axivoco" mi suona un po’ diversa da oJ tou` Plavtwno" ∆Axivoco" (v. laterculum) e, come presuppone la mia traduzione, sembra significare proprio il dubbio di autenticità (l’opera che si trova presso gli scritti di Platone, pur senza provenire dalla sua penna). In ogni caso il dialogo gli interessa per il contenuto, poiché affronta la paura dell’aldilà che Socrate è chiamato da Clinia a dissipare dalla mente del morente padre Assioco, durante la vita noto per il suo coraggio: questa incoerenza di comportamento, per cui una persona professa un determinato modo di vivere ma, di fronte a un evento decisivo, cambia improvvisamente idea, potrebbe esser stata scelta per l’eco con quella di Stratocle. 135 ejkakhgovroun–ejmormoluvtteto: si noti come il lettore si pone in viva interlocuzione verso i personaggi del dialogo, affermando ejkakhgovroun to;n a[ndra, come se Assioco fosse realmente presente. Le parole seguenti, poi, riassumono molto bene l’inizio del dialogo, riprendendone alcuni vocaboli (ajpedeiliva ~ wJ" ga;r ajgwnisth;" deilov" 365a 8; ejmormoluvtteto ~ diacleuavzwn tou;" mormoluttomevnou" to;n qavnaton 364b7). 137 ejqauvmazon–ajpeqavrshse: alla fine del dialogo Assioco resta convinto dalle argomentazioni di Socrate del fatto che né l’aldilà con le sue pene, né la corruzione del cadavere sono temibili, perché l’uno non esiste così come è stato dipinto dai poeti, l’altra non si percepisce, venendo meno i sensi. 138-139 Swkravthn–peiqwv: la persuasione che Socrate instilla è proprio quella dell’innocuità della morte. La lezione parabeblhmevnon presenta l’erronea desinenza femminile -hn in v e o, probabilmente per eco di aujthvn. Per la forma analogica in -hn dell’accusativo singolare di Swkravth", v. n. 5; si riscontra e. g. due volte nell’ed. Burnet di Platone (Phaedr. 236c 5; Gorg. 514d 7), contro le novantanove di quella grammaticalmente attesa -h (i nuovi editori oxoniensi di Platone non hanno ancora pubblicato i due dialoghi suddetti; Dodds, poi, nel suo commento al Gorgia non annota niente al riguardo). ejsuvsteron: la grafia congiunta, offerta da V, non è una semplice variante di quella separata della già classica locuzione ej" u{steron, il cui significato d’ora innanzi oppure di nuovo (cfr. m 126, Hdt. 5, 41, 1 e 74, 2) per il vero non si adatta bene a questo contesto; siamo davanti invece a un avverbio autonomo, il cui significato, però, corrisponde a quello dell’avverbio semplice (che significa, oltre che post, postea, serius, tardius, dopo, poi anche tandem, denique, postremo, alla fine; v. Tgl s. v.), come avviene con eijsau`qi" = au\qi" e. g. già in Ar. Eccl. 983 e poi Luc. Iupp. Trag. [21 Mcl.] 12 (Gaulm. traduce «verum postremo admiratus sum in eodem illius contemptum; Socratis praecipue invictam in persuadendo eloquentiam»). La tendenza morfologica alla formazione di avverbi temporali composti con una preposizione diventa tipica con la koinh; dei LXX e, passando attraverso i padri della Chiesa, giunge ai cronachisti bizantini (cfr. Psaltes 1913, p. 335). LBG registra solo la voce eijsuvsteron, a cui dà il significato di später, esemplificandola con i soli due passi di Greg. Nyss. PG 44, 128 A e Ioh. Philop. in Aristot. ll. de gen. et corr. comm. CAG 14, 2, p. 7, 3 Vitelli. [9] 140 tau`ta periodeuvwn tw/` nw/`: non ho trovato un simile sintagma ricercando in TLG on-line 109 141 wJ" tavco" podw`n: l’espressione wJ" tavco" da sola ricorre in Ar. Pax 1 ai\r∆ ai\re ma`zan wJ" tavco" tw/` kanqavrw/; Lys. 1187 ajll∆ i[wmen wJ" tavco"; varianti sono o{son tavco" (Ar. Thesm. 727; Eur. Andr. 1066) e o{ti tavco" (Hdt. VIII 7, 2), escludendo i casi con l’avverbio superlativo. Nel nostro passo c’è in più podw`n, che si potrebbe intendere come genitivo di specificazione, con leggera variante dell’espressione vulgata nel senso per/con quanta velocità di piedi c’era; non penso, dunque, che si debba emendare con espressioni del tipo wJ" ei\con podw`n (attestata) o wJ" tavco" podoi`n (con dativo duale strumentale); cfr. del resto Eustath. In Dion. Perieg. epist. 318 wJ" tavco" pterou`. 144 to;n ajniwvmenon uJpekrivneto: cfr. in due autori di poco posteriori a Prodromo, Nic. Chon. hist. p. 355, 16 van Dieten to;n divkaion uJpekrivneto e Nic. Eug. (?), Anach. r. 1043, p. 264 Christidis to;n ajniwvmenon uJpekrivneto. 145 taujto;n–uJpopteukovta: il neutro taujto;n con n finale va lasciato, perché presente nella tradizione ms. di autori attici (Platone, Demostene, Iperide, ecc.) come forma alternativa a quella in -o di aggettivi e pronomi personali (toiou`to(n), tosou`to(n), thlikou`to(n) i più frequenti; taujto;n in Polibio, davanti a vocale, per evitare lo iato, sec. Kühner-Blass I, p. 606). 147 hJlivkon oi|on ajnakragovta: l’espressione ha un significato del tipo gridando forte, simile a mevga bohvsa" (cfr. Long. Soph. Daphn. et Chl. 4, 21, 2); propriamente, però, i due pronomi all’accusativo neutro indicano un’esclamazione quanto, come gridando (per renderla meglio bisogna sciogliere il partic. e quanto gridavo). Sec. LSJ, hJlivko" aggettivo indefinito, in correlazione con tosou`to" ovvero da solo, significa o{so" quanto; a somiglianza di questo può rafforzare un aggettivo qualificativo: cfr. Dem. 36 [pro Phormione] 44, 1-3 e[sti d∆ ejn ejmporivw/ kai; crhvmasin ejrgazomevnoi" ajnqrwvpoi" filergo;n dovxai kai; crhsto;n ei\nai to;n aujto;n qaumasto;n hJlivkon; oppure fungere da accusativo dell’oggetto interno avverbiale, come in Men. Sam. 255 duvsmor∆, hJlivkon lalei`" (disgraziata, quanto gridi) e 553 ÔHravklei", hJlivkon kevkrage (per Eracle, quanto sbraita). Nel nostro caso, però, bisogna giustificare la presenza aggiuntiva di oi|on: da solo è già nelle espressioni omeriche oi|on e[eipe" (che enormità hai detto!; cfr. e. g. H 455) o in oi|on to; pu`r Aesch. Ag. 1256; esiste poi un uso di oi|on posposto all’aggettivo come o{so" (qaumastov" oi|o" v. LSJ s. v.). Ritengo pertanto che Prodromo abbia impiegato, sia pur in maniera pleonastica, hJlivkon rafforzato da oi|on, come a r. 23 megavlhn è rafforzato da o{shn; probabilmente un uso siffatto gli può esser stato suggerito anche da Suid. h 228 hJlivkonÚ mevga, phlivkon (anche se il passo riportato subito dopo da Suida, tratto da Polib. 3, 94, 9 a rigore mostra l’uso canonico di hJlivkon in correlazione con tosou`ton). 149-150 th;n uJpovnoian–proswvpoi": ta; provswpa è un plurale pro singulari; è dativo perché dipende dall’ejn di ejmplanavw. 150-151 hJrevma–ejpikuvya": cf Luc. Symp. [17 Mcl.] 11 ejn touvtw/ de; oJ Kleovdhmo" ejpikuvya" ej" to;n “Iwna, ÔOra/`", e[fh, to;n gevronta ktl. 151-152 levge–ÔErmwnivdion: l’imprecazione in nome delle Cariti compare per la prima volta in Plat. Theaet. 152c 8 a\r∆ ou\n pro;" Carivtwn pavssofov" ti" h\n oJ Protagovra"; ricorre poi una volta in Plutarco (Mor. 762e 8 [amatorius]), sei in Luciano accompagnata da un imperativo (Bacch. [4 Mcl.] 5; Icar. [24 Mcl.] 1; Alex. [42 Mcl.] 4; hist. conscr. [59 Mcl.] 14; Scyth. [68 Mcl.] 9; Herm. [70 Mcl.] 36) e altre poche volte (Callimaco, Temistio e Antologia Palatina). 152-153 gavmou"–despovth": la iunctura gavmou" eJortavzein è in Luc. Symp. [17 Mcl.] 47 pikrou;" a[qlio" tou;" gavmou" eJortavsa" e dear. iud. [35 Mcl.] 16 kai; eJortavzein a{ma kai; tou;" gavmou" kai; ta; ejpinivkia; v. anche Fl. Ios. Ant. iud. 11, 203, 2; Plut. Mor. 998c 11 (de esu carn.); Charit. Chaer. et Call. 3, 2, 7, 3; Zonar. epit. hist. 1, 221, 31 Dindorf; Ducas hist. turcobyz. 33, 2, 17 Grecu. È alternativa a gavmou" a[gein di rr. 80-81. 154-155 tou`ton–wJrai`on: cfr. Plut. Mor. 751d 2 (amatorius) kai; th;n ou[tw gavmwn e[cousan w{ran hJ Sapfw; prosagoreuvousa; Luc. Symp. [17 Mcl.] ouj pavnu kaq∆ w{ran gavmwn; ps.-Luc. Charid. [83 Mcl.] 17 kaq∆ w{ran h\n gavmwn. 154-155 pefulagmevnon–ejgevlasen: l’accus. dell’ogg. interno uJpesmugmevnon è un participio perfetto passivo da uJposmuvcw, bruciacchio, accendo un poco, quindi fig. infiammo, eccito un poco (v. Tgl s. v.); il verbo compare per la prima volta in Ap. Rh. 2, 445 keneai; ga;r uJposmuvcontai oJpwpaiv; si ritrova poi qualche volta negli autori cristiani (dai Cappadoci fino a Eustazio, passando attraverso i lessicografi Fozio, Esichio Aless. e Suda; una volta anche in Psello); il participio, stando a TLG on-line, ricorre solo in Nic. Eug. (?), Anach. r. 1042, p. 264 Christidis kai; ta;" aujtou` palavma" prosaravxa" toi`" govnasin ajmudrovn ti kai; uJpesmugmevnon ejx ojfqalmw`n ajpevqliye davkruon. La lezione di Gaulm. uJpesmhgmevnon (vd. anche laterculum) è voce del verbo uJposmhvcw pulisco un pochino, qui inopportuna. 157 ta;"–kairou`: uJpotevmnein e uJpotevmnesqaiv ti significa tagliare, sottrarre qcs.; cfr. Sat. 147 H., 205 infra to; plei`on uJpotevmh/ th`" w{ra" e già Aeschin. Ctes. 67, 8 kai; tou;" crovnou" uJmw`n uJpotemnovmeno" (e sottraendo [sc. Demostene] a voi il tempo necessario; cfr. ibid. 66 gravfei yhvfisma, tou;" kairou;" th`" povlew" uJfairouvmeno" con verbo simile). All’attivo è usato a r. 126 to; nh`ma mh; uJpotevmnousa; al medio a r. 152 uJpetevmetov oiJ to; nh`ma. [10] 159-160 wJ"–dihghsaivmhn…: si noti la successione di tre ottativi, i primi due accettabili perché in una subordinata, il terzo invece in proposizione principale ma privo dell’atteso a]n potenziale. I verbi di moto poi registrano alle loro dipendenze due preposizioni di uso non propriamente “purista”: un ejn con sottinteso 110 dativo (anziché un atteso eij" + acc.) e un wJ" + nome comune di cosa (anziché di persona; cfr. r. 213 wJJ" to; ∆Isei`on ajph/veimen e già gli autori tardo-antichi, come spiega Kühner-Gerth I, p. 471 s.). Gaulm. commette due errori: stampando la vox nihili dihghvsaimi e omettendo di stampare il segmento kai; wJ" to;n qavlamon ajnabaivhmen, tradotto nondimeno in latino. 160-171 kaqh`sto–ejxelhlegkto: la dettagliata descrizione del “rinnovato” Stratocle fa da contraltare alla condizione fisica di filosofo precedentemente delineata (rr. 134-136 h{ te ga;r uJphvnh–ejkhvrutten), la quale, nonostante tutti gli sforzi, tende ad affiorare ugualmente. Lo scorretto testo di Gaulm. a r. 170 (v. laterculum), forse dovuto a Peiresc, viene tuttavia ben tradotto a senso «in vultu quicquid rugarum asperum prominulumve assurgebat, recenti pigmento medicaverat»; male invece il seguente meta; tw`n crusivwn kataqewvmenon «cum illo suo auro spectandum», perché kataqeavomai ha senz’altro il consueto valore attivo del deponente, nel significato di despicio, guardo dall’alto in basso con disprezzo. Toi`"... eijsocai`" con articolo maschile di Du Th. sarà un errore di stampa; Gaulm. ha il compendio per -ai`" esattamente come V (un t sovrastato da due specie di spiriti dolci, coronati dall’accento circonflesso). Eijsoch; propriamente è un termine geografico, ricorrente in Strabone, che significa promontorio. ∆Enaposwvzousa è la lezione di V, mentre il futuro di Gaulm. sarà un errore di stampa; di questo composto di swvzw non ho trovato occorrenze né in TLG on-line né nei lessici (Boissonade ap. Tgl s. v. cita solo il nostro passo, glossando conservo). crusw/`–katavpasto": fa riferimento ai monili, come appare anche dal successivo meta; tw`n crusivwn kataqewvmenon, piuttosto che all’oro di cui possono essere trapunte le vesti, come in Luc. Icar. [24 Mcl.] 29 th;n crusovpaston ejkeivnhn stolhvn. o{–paraqevsei: la parola paravqesi" significa propriamente giustapposizione e, quindi confronto di due termini; qui a mio parere si può tradurre intendendo il confronto del presente aspetto di Stratocle ringiovanito con quello precedente di vecchio e austero filosofo. hJ pareia;–wjcrokokkivnou: la descrizione, molto attenta ai particolari anatomici, ridicolizza ancor più l’effetto mal riuscito del trucco sul viso del vecchio, le cui rughe, per dirla in breve, hanno impedito che la cipria fosse stesa in maniera uniforme sul viso. L’aggettivo composto wjcrokovkkino" non trova paralleli nei lessici e in TLG on-line; può essere una neoformazione prodromea sulla base di wjcrovleuko", wjcrovmela", wjcrovxanqo". Il verbo summuvw, infine, gode di parecchie occorrenze. ejnouvlisto–ejpurriva: sec. Tgl il verbo ejnoulivzw, oltre che nel nostro passo, ricorre in Aristaen. 1, 1, 18-19 hJ de; kovmh fusikw`" ejnoulismevnh uJakinqivnw/ a[nqei kaq∆ {Omhron ejmferhv" (dov’è riferito ad una donna); v. anche rr. 89-91. Purriavw si trova nei romanzieri tardo-antichi Ach. Tat. Leuc. et Clit. 2, 11, 3, 5 eJxh`" de; tw/` leukw/` to; loipo;n ejpurriva korufouvmenon ed Heliod. Aethiop. 3, 6, 6, 2 e[peita w{sper katadeisqevnte" to; gegono;" ejpurrivasan. to; plevon–ejxelhvlegkto: la traduzione di Gaulm. è un po’ libera ma incisiva: «barbam in orbem rasam: supercilium madida fuligine tinctum, sed mala philosophi arte, siquidem defluus lippitudinis humor brevi rem prodidit». pro;" to; perifere;": una simile costruzione per esprimere un avverbio modale è in Luc. Symp. [17 Mcl.] 15 pro;" to; glafurwvteron ejpravcqh e 34 to;n bivon rJJuqmivzoi pro;" to; bevltion; v. anche qui sotto r. 248 pro;" to; aJbrovteron. Un’altra locuzione avverbiale del genere è in sat. 147 H. Vendita all’asta di vite di poeti e di politici, r. 61 ed. mia ej" to; ajkribe;" per l’appunto, veramente. La barba rasata per bene intorno alla faccia è propria dei cinedi, come risulta da Luc. merc. cond. [36 Mcl.] 33 (cit. a n. 89-91). hJ kovrh–diemelaivneto: sec. Tgl kovclo" può significare anche antimonio, come istruisce il solo passo ivi citato (e poi ripreso da LSJ) di Eustath. in Iliad. vol. II, p. 635 van der Valk (= p. 728, 48 Stallbaum) stivmmi, o} dhloi` to;n kai; para; toi`" palaioi`" kai; para; toi`" a[rti de; colla`n, o}n kovclon hJ gunaikeiva glw`ssa filei` kalei`n. La parola non ha niente a che vedere con kovclo" conchiglia, perché, stando a LBG, deriva dall’arabo kuhl (passato anche nell’ ingl. kohl) che significa appunto Antimontrisulfid, Spießglanz, schwarze Augenschminke, cioè quella polvere scura, ricavata dai minerali contenenti quest’elemento chimico, usata per ombreggiare gli occhi e scurire le ciglia: un “parente” del bistro e un antesignano dell’odierno rimmel (cfr. Nies 1894, col. 2437 e V. Chapot in Daremberg-Saglio V, p. 593 s. v. unguentum). Dell’abitudine cosmetica prettamente femminile di scurire gli occhi siamo informati, tra gli altri autori, anche da Luc. Amor. [49 Mcl.] 39 ajggei`a... ejn oi|"... blevfara melaivnousa tevcnh proceirivzetai. Altre occorrenze del termine covclo" sono: una, fornita da LBG, in Koukoules 1950, I, p. 149 s., vicina all’età di Prodromo; l’altra, da me trovata, nella sat. 140 H. Contro la vecchia lussuriosa, v. 30, p. 286 Romano lhmw`sa, ka]n oJ kovclo" ajmfi; ta;" kovra". Il verbo diamelaivnw, infine, ha un parallelo post-prodromeo in Niceph. Callist. Xanthop. hist. eccles. PG 147, col. 400b (18, 36) ajll∆ hJ me;n kovmh tw/` qhvlei diemelaivneto, livan de; to; provswpon ejleukaivneto. tou`to–filosovfou: la lezione di V (copiata anche da v e o) sullogisamevnh si potrebbe concordare solo con kovrh, con un senso del tutto insoddisfacente; il genitivo sullogisamevnou stampato già da Gaulm. e tacitamente ripreso da Du Th. offre invece una sintassi molto migliore (v. mia trad.). mevlano"–katarrevonto": la lezione mevlano" di V, che già Gaulm. riproduceva, è con insistenza travisata da Du Th. in un improbabile mevlaino" (forse per eco di diemelaivneto?); il successivo lhvmh" (cispa, 111 congiuntivite), invece, che in V si legge luvmh" (impurità, sozzura, offesa, danno), va a mio parere necessariamente ripristinato, perché molto più logico, nonché facile errore di pronuncia bizantina (u = h = /i/). oujk eij" makra;n–ejxelhvlegkto: eij" makra;n (sub. oJdovn) è locuzione avverbiale significante a lungo; nella forma negativa è già in Aesch. Suppl. 925 ouj mal∆ ej" makravn; cfr. anche Luc. somn. [32 Mcl.] 10. ∆Exelhvlegkto è 3a persona singolare indicativo piuccheperfetto passivo, con raddoppiamento e aumento del tema; solo le persone desinenti in -m- perdono la nasale del tema ejlegc- precedente la gutturale che si sonorizza: ejxelhvlegmai, ejxelhvlegmeqa, ejxelhlegmevnoi eijsiv (se fossero attestate, anche la 1a pers. sing. e plur. e la 3a pers. plur. del ppf. seguirebbero la regola). Il testo di Du Th., pertanto, mi pare preferibile, anche se va tenuto conto che la lezione di V -lekto corrisponde a quella che nei mss. si trova per casi simili di omissione della nasale precedente la velare finale del tema: v. LSJ s. v. plavzw che all’aor. plagx- e al pf. plagcq- nei mss. di Omero si trova scritto plax- e placq-. [11] 174-177 pou`` ga;r–oujlokavrhnon… : la costruzione dell’interrogativa si potrebbe intendere in modo tale che to;n poliovn, to;n uJphnhvthn e to;n tetanovtrica siano i complementi oggetti, mentre i successivi ajposkeuasavmenon, kaqizhmevnon e oujlokavrhnon i complementi predicativi dell’oggetto. Il to;n me;n, però, se va inteso come articolo del primo participio, stranamente non è ripetuto anche prima degli altri due; credo invece che sia l’articolo di pwvgwna, anche se ci si attenderebbe una posizione del tipo thlikou`ton me;n to;n pwvgwn(a) ajposkeuasmevnon, che renderebbe più palmare il parallelismo con il tràdito xanqo;n de; th;n kovmhn kaqizhmevnon. L’aggettivo indefinito thlikou`ton va unito con pwvgwna (...riconosciuto in uno che da un lato si era sbarazzato della barba tanto lunga), per quanto la posizione predicativa ma con valore attributivo sia un po’ insolita (non credo comunque che vada unito con ajposkeuasavmenon riconosciuto in uno da un lato così giovane, che si era sbarazzato della barba); ciò farebbe propendere per l’ulteriore emendamento di xanqo;n in xanqh;n, così da aver parallelismo perfetto. tetanovtrica: cfr. Plat. Euthyphr. 2b 9-11 e[sti de; tw`n dhvmwn Pitqeuv", ei[ tina nw/` e[cei" Pitqeva Mevlhton oi|on tetanovtrica kai; ouj pavnu eujgevneion, ejpivgrupon dev. kaqizhmevnon: il tràdito kaqizhmevnon parossitono potrebbe essere solo un participio perfetto medio-passivo il cui raddoppiamento sta nello i; ma da un autore così tardo mi aspetterei che il verbo fosse percepito come intero (kekaq-), non come composto (v. LSJ). È pur vero che poco sopra (l. 139; v. anche Sat. 148 H., 106) compare l’impf. kaqizovmhn, con aumento nello i. Il pf. del verbo kaqivzw, attestato da LSJ solo all’attivo, è kekavqika; ma Prodromo ha qui (l. 71) kaqizhkovte" e nel carme giambico dialogico 153 H. L’amicizia in esilio, v. 32 kaqizhvkamen, con raddoppiamento sullo i in linea con i seguenti testimoni: ejnivzhka (sei volte in Galeno, sempre al part., e.g. 2, 691 Kühn toi`" uJpokeimevnoi" tw/` trachvlw/ musi;n ejnizhkovta [sc. ta; neu`ra]) e sunivzhka (Philostr. imag. 2, 20, 2, 10 aiJ de; tou` [Atlanto" skiai; sofiva" provsw: ouJtwsi; ga;r tou` sinizhkovto" sumpivptousiv te ajllhvlai"), forme da cui Prodromo ha analogicamente ricavato il pf. med.- pass. kaqivzhmai, come in effetti è deducibile da altri suoi esempi: Sat. 144 H., 000 ejpi; skimpodivwn kaqizhmevnwn. Con l’accento ritratto kaqizhvmenon, quale stampano gli editori francesi, non potrebbe nemmeno essere participio presente med.-pass. da un *kaqivzhmi, perché da qui si attenderebbe *kaqizevmeno" (come tiqevmeno" da tivqemai). Si potrebbe infine pensare che il tràdito kaqizhmevnon sia una forma del tutto errata, forse derivante da un incrocio tra un originario kaqizovmenon e una glossa/variante kaqhvmeno" (ma l’originale può esser stato anche un kaqhvmenon, glossato con kaqizovmenon o con un kaqizhmevnon, frutto dell’incrocio con la parola a testo). Anche sulla base di queste considerazioni, preferisco salvare il significato e che se ne stava seduto biondo e riccio in testa, piuttosto che modificare in kaqeimevnon (part. pf. < kaqivhmi) che si era lasciato cadere/ crescere la chioma (questo può esser stato scritto, secondo la pronuncia itacista, nell’equivalente kaqhmevnon, da cui poi potrebbe esser partita la trafila suesposta, dovuta a un fraintendimento con kaqhvmeno", part. pres. < kavqhmai). La congettura, comunque vale la pena di essere discussa: si parte da nessi come kaqeimevno" to;n pwvgwna in Plut. Phoc. 10 e in alcuni passi lucianei citati nella n. a r. 134. Il cambio d’oggetto dalla barba ai capelli potrebbe essere guardato come un’estensione indipendente di Prodromo, oppure facilitata da passi come Luc. Rhet. praec. [41 Mcl.] 12 ejpispasavmeno" o{poson e[ti loipo;n th`" kovmh" (lì, però, significa un affektiertes Zurückstreichen des Haares, secondo Coenen 1977, p. 70). Contro tale congettura, però, va forse il senso richiesto dal passo: se Stratocle si era sottoposto all’arricciamento artificiale dei capelli li aveva in qualche modo resi più raccolti in un cesto, mentre l’atto di lasciarli scendere sulle spalle parrebbe prevedere che siano lisci, quali egli teneva da filosofo trasandato. oujlokavrhnon: cfr. t 246 guro;" ejn w[moisin, melanovcroo", oujlokavrhno" e n. a rr. 89-91. 178 tw`n misqou`–ta; sumpovsia: è forse un’imitazione del più comune oJ ejpi; misqw/` sunwvn, che si ritrova nell’opuscolo lucianeo n° 34 Mcl., sia nel titolo peri; tw`n ejpi; misqw`/ sunovntwn (de mercede conductis potentium familiaribus), sia nel testo, § 1. Nel caso di Prodromo, il sintagma ejpi; misqw/` è sostituito con un genitivo di prezzo; al verbo suvneimi da eijmiv (sum) è sotituito suvneimi da eijmi (eo), forse per il successivo complemento di moto circoscritto wJ" ta; sumpovsia (per wJ" v. n. a rr. 166-167). 179 ejpuqovmhvn–parestovtwn: il pron. indef. tou (= tino") è tipico atticismo, e. g. platonico; sec. LSJ è raro dopo il 300 a.C. (non compare mai nella LXX e nel NT; c’è invece in Polibio, nelle iscrizioni e nei papiri), ma ritorna nei testi con gli atticisti (Dionigi di Alicarnasso, Plutarco ecc.). 112 181-182 prosefqevgxato–uJpestigkrwkwv": la costruzione tràdita può andar bene, ma poiché prosfqevggomai nel significato di rivolgere la parola a, salutare è attestato con l’accusativo di persona (cfr. Eur. Alc. 330-331; Or. 481; Anth. Pal. 7, 656, 1-2) mi parrebbe plausibile emendare in prosefqevgxatov me p. uJ. Se invece si accetta l’omissione dell’accus. di persona, intendendolo sottinteso, leggerei prosefqevgxatov ti p. uJ. per dare un accus. dell’ogg. interno al participio, come in Luc. dial. mort. [77 Mcl.] 16, 4 kai; muvciovn ti kaqavper ejx wJ/ou` neotto;" ajtelh;" uJpokrwvzwn; questo verbo però sta con il solo accus. neutro dell’aggettivo, usato avverbialmente, in Luc. Electr. [6 Mcl.] 4, 4 krwvzousin ou|toi [sc. i cigni] pavnu a[mouson kai; ajsqenev". paggevloion uJpestigkrwkwv": questo part. pf. attivo dovrebbe derivare da un pres. uJpostigkrwvzw, composto del preverbio uJpov, con il valore di poco, sommessamente + stivzw pungo + krwvzw gracchio = emetto sottovoce un suono acuto, stridulo, simile a quello del corvo, gracido sommessamente qualcosa di pungente. Krwvzw detto della cornacchia ricorre e. g. in Hes. Op. 747 e Ar. Av. 2 e 24; detto delle gru ibid. 710; detto di un vecchio id. Pl. 369 (Cremilo a Blepsidemo) su; me;n oi\d∆ o} krwvzei", che mi pare un parallelo valido, perché tratto da una commedia ben nota a Prodromo, da aggiungere a quello di Luciano (v. n. prec.), riferito anch’esso a un vecchio, Tucrito (quest’ultimo nome è anche nella satira 140 H. Contro la vecchia lussuriosa, v. 2, p. 284 Romano). Può essere che Prodromo abbia coniato il neologismo, ampliando di un elemento il lucianeo uJpokrwvzw; sta di fatto che il verbo, addirittura nella stessa iunctura paggevloion uJpestigkrwkw;", ricorre solo in uno scritto posteriore a Prodromo, stando a TLG on-line: Nic. Eug. (?) Anach. r. 986 s., p. 261 s. Chrestides. La traduzione di Gaulm. rende abbastanza bene il greco: «ineptum quidpiam et grave cornicatus me excepit ac amicum vocitans opportune advenisse dixit». ããwJ" eij" kairo;n hJmi`nÃÃ: quest’esclamazione, con cui si accoglie il nuovo arrivato ad un banchetto e che qui sintatticamente sottintende un verbo di moto, si può confrontare con Plat. Symp. 174e 4-6 eujqu;" d∆ ou\n wJ" ijdei`n to;n ∆Agavqwna, «W, favnai, ∆Aristovdhme, eij" kalo;n h{kei" o{pw" su; sundeipnhvsh/". 183 pisteuvwn tw/` pwvgwni: un simile ruolo della barba che si affianca all’agire di chi la porta è in Luc. Symp. [17 Mcl.] 27 ejqauvmazon ou\n oi|o" w]n dialavqoi aujtou;" ejxapatoumevnou" tw/` pwvgwni kai; th/` proswvpou ejntavsei. 183-184 tou` tevknou–prosefqevggeto: la costruzione presuppone rispettivamente un genitivo ejmou` e un accus. ejme; sottintesi e fa svolgere al genitivo e agli accusativi espressi e preceduti da articolo la funzione di complemento predicativo dell’oggetto; nell’attico standard quest’ultimo dovrebbe comparire privo di articolo (cfr. e. g. Plut. Alex. 72, 6-8 cit. a n. 60 supra). Si può credere che Prodromo ricavi quest’uso da una tendenza del greco tardo; Kühner-Gehrt e Schwyzer, però, registrano solo la regola generale; Psaltes 1913, invece, non ne parla, poiché non si occupa di sintassi. 185-186 ajnti;–ojnomavtwn: la lezione giusta era già stata congetturata in nota da Gaulm. (p. 564; v. anche la sua trad.) sulla base dell’ aujto;" di Peiresc, stampato a testo e poi ripetuto anche da Du Th., che pure in nota approvava la congettura di Gaulm.; si tratta di un fraintendimento di decifrazione, poiché in V si legge ajnt;, ma non lo i, che per la celerità della grafia può esser stato tralasciato dal copista, come accade in altri numerosi casi ad altre vocali (e. g. nelle desinenze -tato", -thto" manca quasi sempre la a e la h). Presbutiko;" è aggettivo che compare anche in Luc. Symp. [17 Mcl.] 30. [12] 188-189 tou` gambrou`–mevmnhso: «gener vox nequitiae... qui generum vocem nequitiae sciunt, silicernii argutiam intelligunt» (Gaulm.). Non capisco però dove sia l’allusione volgare; i lessici non ne danno riscontro. Credo che la parola, che in attico significa genero (marito della figlia), voglia significare questo: Stratocle, nello stipulare il contratto di matrimonio, insiste perché il notaio ripeta al padre della sposa il nome del genero, ossia il proprio, al fine di ottenere dal suocero una cospicua dote. Non penso, pertanto, che si debba riesumare il significato di marito che la parola gambro;" ha nella tradizione poetica eolico-dorica (Saffo e Teocrito): l’uso avrebbe sì un effetto di parodico innalzamento del linguaggio, ma troppo straniante dal resto del dialogo, in cui Stratocle viene indicato con il più comune attico numfivo". 189-193 eij tevrma–oJrmivskou": su questa intraprendenza di Stratocle v. n. a rr. 204-206. Gaulm., oltre a stampare alcune letture errate (v. laterculum), omette traduzione di kai; to; dokou`n–ejpeipwvn e di tov te peridevraion–oJrmivskou". ejkavqhto: a questa forma di impf. ind. 3a pers. sing. si alterna indifferentemente kaqh`sto (rr. 168, 202), che compare già in A 569 e poi continua in Eur. Bacch. 1102, Phoen. 1467, Plat. Resp. 328c, Is. 6, 19; v. Schwyzer I, p. 680 (Dem. or. 18 [cor.] 170 e 217 kaqh`to). periergavzhto: nel significato di osservo curiosamente ricorre a partire da autori di età tardo-antica (Giuliano, Eunapio, Zosimo; v. LSJ s. v.). tov te peridevraion–ejphvrceto: ejphvrceto è lezione sicura di V (stampata ejphvrchto da Gaulm., probabilmente per errore di lettura da parte di Peiresc del nesso -et-, in cui il t viene scambiato per h e la e in interlineo viene adattata a dare la lettura -ht-; cfr. ajnevxetai r. 226; anche Du Th. talora commette questo errore). Mi pare soddisfacente il significato di ejpevrcomai + accus. assalgo, mi avvento su (cfr. H 262 tmhvdhn aujcevn∆ ejph`lqe). peridevrraion: sulla grafia con doppio r, vd. Introduzione. § Constitutio textus. 5) Geminazione e scempiamento delle consonanti, p. 42 supra. 113 194 ejpiv tino" skivmpodo" camaizhvlou: lo skivmpou" è il parente povero della klivnh, ovvero un lettuccio leggero a un solo posto, in legno lavorato in maniera semplice; su uno skivmpou" dorme Socrate in Plat. Prot. 310c; viene menzionato come oggetto di arredamento in cui ci si siede da Ar. Nub. 254 e 709, nonché Luc. Symp. [17 Mcl.] 13 (cfr. Rodenwaldt 1927). L’aggettivo camaivzhlo" basso non di rado si associa a sostantivi indicanti mobilio in cui si sta seduti, tanto che in Plat. Phaed. 89b kaqhvmeno" para; th;n klivnhn ejpi; camaizhvlou tinov" è sostantivato; cfr. poi Plut. Mor. 150a [sept. sap. conv.] ejpi; divfrou tino;" camaizhvlou para; to;n Sovlwna kaqhvmeno". 194-195 proixi;–ejpadolescw`n: il preverbio ejpi; in genere indica che l’azione viene compiuta in aggiunta: aggiungo una conversazione a una già iniziata; qui dunque vorrebbe significare che Cheremone si intromette tra i parlanti. A proposito della ricorrenza, Boissonade ap. Tgl s. v. registra solo il nostro passo. Si confronti però un altro parallelo reperibile con con TLG on-line, ps.-Gelas. Cyzic. Hist. eccl. 3, 9, 6, 2 ed. G. Ch. Hansen, Berlin 2002 ejn mia/` de; tw`n hJmerw`n ãtw`nà paivdwn uJpov ti devndron ejpadolescouvntwn ajnagnwvsmasin, ejpistavnte" oiJ bavrbaroi katevsfaxan su;n tw/` Meropivw/ a{panta" plh;n tw`n prorrhqevntwn paivdwn Froumentivou kai; Aijdesivou: il dativo sembra dipendere dall’ ejpi; come complemento di argomento (sopra a e quindi intorno, riguardo a). Circa il significato dei due dat. proixi; kai; mnhstai`" la mia traduzione è forse la soluzione preferibile: il secondo può derivare o da mnhsthv (sc. a[loco": l’aggettivo ricorre in Omero; l’aggettivo sostantivato in Apollonio Rodio e nelle Pandette, ovvero come ricavo da TLG-E, Corpus iuris civilis, vol. 3, Novellae, 13, 622, 30 ed. Schöll-Kroll, dove significa semplicemente sposa); oppure, ma meno plausibilmente, da un dubbio mnhsthv", ou` = mnhsthvr pretendente, attestato solo in Melamp. de divin. 3, 61, 2 aujcmo;" dexio;n mevro" eja;n a{llhtai, ajgaqo;n dhloi`: douvlw/ me;n merivmna", parqevnw/ de; mnhsthvn [mnhsteivan Diels], chvra/ kovpon, stratiwvth/ ajmerimnivan. Gaulm. traduce «saepiusque dotem ac sponsam nugatus», onde l’emendamento al singolare di Lucarini. 196-197 ejpei; dev pote–tou` gunaikw`no": a mio parere la battuta di questa frase sta nell’intendere che l’intraprendenza di Stratocle lo fa passare nello stesso tempo sia come sposo, sia come accompagnatore della sposa; numfagwgo;" significa proprio colui che accompagna la futura sposa dalla casa di lei a quella del futuro sposo (Luc. dial. deor. [79 Mcl.] 20, 16). Il kai; si potrebbe giustificare come correlativo (kai; pauqeivh...kai;...ejxevlqoi); ovvero è il solito kai; sovrabbondante a cui si accennava nell’introduzione alle note. ejpei; dev: con il valore temporale che ha ejpeidh; non è infrequente: cfr. e. g. Luc. Amor. [49 Mcl.] 13, 15 e 18 (nel § 2 però è causale); per l’ott. v. r. 250. ejnubrivzwn tw/` cavrth/: una simile espressione è nella sat. 149 H. Simpatizzante di Platone ovvero cuoiaio, p. 334, r. 136 Romano 1999 ejnuvbrize tw/` biblivw/; in autori grosso modo contemporanei di Prodromo con il dat.: Const. Manass. brev. chron. r. 6371 Lampsides ejnuvbrize toi`" khpeutai`" kai; toi`" ajmpelokovmoi"; Zonar. epit. hist. (ll. 13-18) 359, 17 Büttner-Wobst tai`" iJerai`" eijkovsin ejnuvbrize; Nic. Eug. (?), Anach. r. 239, p. 219 Christidis tai`" difqevrai" ejnuvbrize; oJ numfagwgov" te a{ma kai; numfivo": la semplice emendazione di de; in te mi pare palmare, perché ripristina un sintagma comunissimo alla prosa attica (cfr. e. g. Plat. Theaet. 163c 1). 197-198 kai; dh; to; gravmma–uJpanegivnwske: sec. Tgl uJpanagignwvskw = leggo un testo frase per frase, paragrafo per paragrafo, soffermandomi tra un comma e l’altro (già in Aeschin. 2, 109, Is. 11, 4 e poi in autori cristiani e bizantini); cfr. Suid. s. v. grammateuv" (g 417). È un verbo che ben si attaglia alla funzione del notaio Cheremone. 199-200 ejme;–ejpevlipe: cfr. sat. 147 H. Vendita all’asta di vite di poeti e di politici r. 65 ed. mia th;n Klwqw; to; nh`ma ejpevleipe. 200 Stratoklh`n: v. n. 5. 204 wJJ" to; ∆Isei`on ajph/veimen: per la preposizione wJ" v. r. 166; la forma ajph/veimen presenta la desinenza post-classica identica a quella dei ppf. (v. Kühner-Blass I, p. 216 s.; cfr. r. 234 ejxh/veimen, identico in Luc. Amor. [49 Mcl.] 18; v. anche Luc. Zeux. [63 Mcl.] ajph/vein e ps.-Plat. Ax. 364d 1 h[/eimen. Iside era divinità di moda nel sincretismo religioso tardo-antico: Prodromo può averla ricavata anzitutto da Eliodoro (cit. infra), poi Luciano (Icar. [24 Mcl.] 24) e Plutarco, che ha scritto pure un opuscolo su di lei. Quanto all’accentazione properispomena data da V e da me accettata, istruttivo è il caso di oscillazione della tradizione ms. in Heliod. Aethiop. 7, 8, 6, 4 e 7, 11, 1, 2-6: gli editori Rattembury-Lumb, Paris, BL 1960 stampano entrambe le occorrenze con accento properispomeno, annotando in apparato per la prima occorrenza ijsei`on VA (-ivon M): i[seion T (-ion BPZ); per la seconda i[seion VMT (-ion PZA): i[dion B. 205 hJ nuvmfh kai; aujthv: l’omissione tacita del kai; da parte di Du Th. è indice dell’inutilità della congiunzione, che pure va mantenuta a riprova delle “sgrammaticature” del nostro autore. 205-206 kai; to; o{lwn–ejpespavsato: cfr. Heliod. Aethiop. 3, 7, 2 ÆMh; qauvmazeÆ, ei\pon, Æeij tosouvtoi" ejmpopeuvsasa dhvmoi" ojfqalmovn tina bavskanon ejpespavsatoÆ. [13] 209 ajlla; tiv"–to; kovrion… : questa semplice domanda assomiglia in parte all’informazione che il cinico Alcidamante chiede riguardo al nome della sposa del banchetto a cui partecipa in Luc. Symp. [17 Mcl.] 16 puqovmeno" h{ti" hJ gamoumevnh pai``" kaloi`to. 114 211 ∆Antiklevo" tou` khpwrou``: khpwro;" è variante di khpouro;" (cfr. e. g. l’apparato di Burnet a Plat. Min. 316e: khpourw`n A: khpwrw`n F, sed ou supra w); forse la menzione del giardino crea un nesso con quello della cornice iniziale: entrambi sono considerati luoghi di delizie. 213-214 pavnta–crusw`/: sembra una lamentela di tono filosofico, che deplora lo strapotere dei ricchi; si trova un simile concetto nel proverbio raccolto da Mich. Apost. 3, 43a ap. CPG II a{panta tw/` ploutei`n e[sq∆ uJphvkoa; oppure in id. 12, 97f ap. CPG oJ ploutov" ejsti parakavlumma tw`n kakw`n,É w\ mhvter, hJ peniva perifanev" te kai;É tapeinovn. ∆Antifavnou" 214 pevpratai–ejleuvqeron: i sostantivi astratti solitamente sono preceduti da articolo, anche se quelli di virtù, vizi, arti, scienze, mestieri, occupazioni possono restarne privi; qui bellezza può rientrare nel rango di virtù, benché indichi la concreta avvenenza corporea, non un valore spirituale come la saggezza. La frase suona come un detto, di cui però non ho trovato traccia nei paremiografi. In due romanzieri tardo-antichi, però, noti a Prodromo, nella storia di un’avvenente protagonista, venduta immeritatamente schiava, si può intravedere la riflessione sul fatto che la bellezza costituisce un pericolo per la libertà della donna che ne è dotata: Charit. Chaer. et Call. 1, 14, 8-9 to; de; peribovhton kavllo" eij" tou`to ejkthsavmhn, i{na uJpe;r Qhvrwn oJ lh/sth;" megavlhn lavbh/ timhvn. ∆En ejremiva/ pevpramai ktl.; Ach. Tat. Leuc. et Clit. 8, 5, 4 pevpratai, dedouvleuke, gh`n e[skaye, sesuvlhtai th`" kefalh`" to; kavllo". 215-216 pw`"–periplokw``n: ajnevcomai + gen. nel senso di sopportare qcs. è uso post-classico; cfr. LXX Gn 45, 1; NT Mt 17, 17 e Luc. Amor. [49 Mcl.] 38 tiv" ga;r a]n eu\ fronw`n ajnevcesqai duvnaito ejx eJwqinou` gunaiko;" wJrai>zomevnh" ejpiktevtoi" sofivsmasin…. Gaulm. stampa l’erronea lezione, che credo dovuta a scorretta decifrazione di Peiresc, ajnevxhtai (v. ejphvrceto r. 201); Du Th. stranamente non la corregge. Questo tràdito indicativo futuro sta bene con il successivo ajpomuvxei, ma non con il congiuntivo aoristo ejnevgkh/, cosicché sembrerebbe giusto normalizzare le tre lezioni o tutte al congiuntivo, o tutte al futuro; ma in entrambi i casi solo ajpomuvxei/ajpomuvxh/ si può spiegare bene paleograficamente (non ajnevxetai/ajnavschtai né ejnevgkh//oi[sei). Penso che ci si debba rassegnare a una “sgrammaticatura”, giustificabile con il fatto che nei bizantini l’indicativo futuro viene sostituito spesso e volentieri con il congiuntivo aoristo e viceversa (cfr. Hörandner 1974, p. 120). 218-221 ÔW" a[ra krei`tton–sugkataklivnesqai: la preferibilità di una vita povera ma onesta, rispetto a una ricca ma odiosa, si ritrova anche in un proverbio del LXX Pr 15, 17 kreivsswn xenismo;" lacavnwn pro;" filivan kai; cavrin h] paravqesi" movscwn meta; e[cqra". meta;–peina`n: si confronti una simile iunctura nel testo teologico di Prodromo 151 H. Contro quelli che a causa della povertà insultano la Provvidenza (= PG 133, col. 1301, 1) meta; tw`n biblivwn peina`n. uJpo; tai`" rJoai`": l’accentazione ossitona (o nei casi obliqui perispomena) di rJoa; nella grafia non dittongata – benché le sia preferita negli odierni lessici e nelle odierne grammatiche quella baritona– è testimoniata nella tradizione manoscritta, anche in quella di grammatici e lessicografi come Herodn. 1, 301, 28 ~ 2, 271, 25 ed. Lentz in GG. tai`" murivnai": sul r scempio, anziché l’atteso doppio, vd. Introduzione. Constitutio textus, ...) Geminazione e scempiamento di consonanti, p. 42 supra. [14] 222 tau`ta me;n w|dev ph/ kai; e[cei: nell’ed. di Gaulm. il testo, seppur mal stampato (v. laterculum) viene ben tradotto a senso «haec ita gesta sunt»; mi sarei aspettato comunque un impf. ei\ce. 222-224 to; thnikau`ta–ejmpompeuvonte": l’avverbio to; thnikau`ta compare in Plat. Alc. 2, 150e e significa allora, a quel punto; senza articolo, v. r. 244 infra. kaqhkovntwn: la forma compendiaria della parola la rende difficile a decifrarsi, ma sul confronto di ta;...kaqhvkonta scritto identicamente (r. 282 = f. 63v, r. 5, parola così ben decifrata anche da Du Th.) la lezione è assicurata; vd. laterculum. ejmpompeuvonte": è verbo che ricorre in Luciano tre volte con il significato di vado fiero di: cfr. de domo [10 Mcl.] 11; adv. ind. [31 Mcl.] 10; Apol. [65 Mcl.] 4. L’unica occorrenza nei romanzieri greci di età tardoantica, invece, è Heliod. Aethiop. 3, 7, 2 (v. n. 211), con un significato ben diverso, a quanto risulta dal contesto e dalle traduzioni di Maillon nell’ed. Rattembury-Lumb, BL, Paris 19602 elle a défilé devant une si grande foule, di LRG s. v. avanzare in processione, e di Bevilacqua, Torino, UTET 1987 sfilando in processione davanti a tanta gente. Ora, posto che Prodromo conosce entrambi gli autori citati, mi pare che abbia scelto il significato di Eliodoro, per avere il quale, comunque, bisogna intendere il sost. numfivoi" riferito collettivamente sia allo sposo sia alla sposa (solitamente, invece, numfivo" significa solo sposo). Se si scegliesse il significato di Luciano (e altri, v. Tgl) andar fiero, il senso mi parrebbe meno chiaro, anche considerando il dat. numfivoi" derivante da un aggettivo molto poco attestato nuvmfio" = numfiko;" (v. Tgl e LSJ) o variante grafica, ma foneticamente identica, di numfeivoi" (quindi ci gloriavamo dei festeggiamenti nuziali ?). 225-226 wJ" a[n–stellomevnhn: la fanciulla è considerata diretta verso la morte non solo figuratamente in riferimento alla sua tristezza, ma anche propriamente, poiché finisce in sposa a un vecchio prossimo alla dipartita; per lei è come sposare Ade. La lezione di V stelloumevnh, in cui si vede bene il doppio l e il nesso per ou, ma non il n finale, ha dato luogo a decifrazioni scorrette; a mio parere si tratta di un errore che sta o per il pres. o per il fut. pass. del verbo stevllw, mentre non credo che si debba supporre un non attestato presente stellevw (come rJiptevw). 115 228 ta;" blefavra": sul petaplasmo, vd. Introduzione. Constitutio textus, 6) Metaplasmi, pp. 42-43 supra. 231 kagcasmavtwn ejneforouvmeqa: in Ar. Nub. 1073 il codice Ravennate tramanda kacasmw`n da ka(g)casmov", parola non rara negli autori cristiani (cfr. Lampe 1961 s. v.); il neutro kavgcasma dev’essere un metaplasmo (Tgl s. v. cita proprio il nostro passo di Prodromo). LBG ne spiega il significato con schallendes Gelächter e, oltre al nostro passo prodromeo, cita Nic. Eug. (?) Anach. r. 1450, p. 288 Christidis; nonché un autore del XIII s., Germ. Patr. II 342, 10 Lagopates. Con TGL on-line si aggiunge un passo di un autore del XII s., Philagathus Homil. 22, 9, 3 Rossi Taibbi. Il verbo kagcavzw compare e. g. già in Luc. Amor. [49 Mcl.] 23. Il verbo ejmforevw al medio-passivo (mi riempio) è ripetuto poco sotto (r. 249). 232-233 ∆Emoi;–ejpicarientivsasqai: rimanda al celebre episodio cantato da Demodoco (q 266 ss.). Dal punto di vista sintattico sumba;n si può spiegare solo come part. neut. accus. assol. e rappresenta un’estensione ad altri verbi tipica dei prosatori bizantini dell’uso attico classico riservato a dovxan; cfr. Theod. Metoch. iudicium critica ratione probatum de laude artis duorum rhetorum et Demosthenis et Aristidis 1, 1-6 Gigante (XIV s.) e[tucon...ejn cersi;n e[cwn bibliv∆ a[tta tw`n Dhmosqevnou"...a{ma kai; a[tta tw`n ∆Aristeivdou, xumba;n d∆ ou{tw. L’infinito ejpicarientivsasqai dipendente da questo participio ha un parallelo solo in Luc. Symp. [17 Mcl.] 12 ejkei`no to; koino;n ejpicarientisavmeno" Æto;n Menevlaon aujtovmaton h{kontaÆ (pronunciando piacevolmente quel famoso detto “Menelao arrivò da sé”). Sec. TLG on-line la stringa ejpicarient- dà in aggiunta solo il sost. ejpicarientismo;" facezia, Witz in S Opp. Hal. 661 ed. Bussemaker to; eijpei`n gavla leuko;n tou`to ejpicarientismov". 234 oujd∆–ejpilivpoien: Anchise, padre di Enea, e Ares sono l’uno il marito terreno, l’altro l’amante divino di Afrodite; la battuta vuol forse significare che alla novella sposa, maritatasi con un vecchio e brutto marito, non mancheranno amanti vecchi e mortali come Anchise (il nostro Stratocle, appunto) e soprattutto giovani e immortali come Ares (i pretendenti che si faranno avanti). Anchise è noto a Prodromo da Omero (B 809 ss.; E 513) e da H. Hom. Ven. 5, 53 ss.; cfr., anche se diverso, Luc. Amor. [49 Mcl.] 16. L’accentazione ∆Agci`sai di Du Th., simile al tipo poli`tai, è conformata alla lunghezza di i che si riscontra in epica (dove peraltro il nome è sempre singolare), contro l’accento acuto tràdito (e stampato da Gaulm.; sugli accenti v. n a r. 328); ma V riporta anche soprascritta alla seconda a una e, che ha prodotto la lezione ∆Agcivse negli apografi v e o, i quali scrivono poi Are" (sic). [15] 235 Tau`ta levgonta"–uJpedevceto: il termine numfw;n compare, tra gli altri testi, in Mt 22, 10 kai; ejplhvsqh oJ numfw;n ajnakeimevnwn, ossia nella parabola delle nozze del figlio del re. ÔO pasto;" è lettura scorretta di Gaulm. e Du Th.; non si può accettare, benché la parola esista con uno tra i suoi significati corrispondente a quello di pasta;" camera da letto nuziale (v. LSJ e Chantraine 1999 s. v.), che è la giusta lezione, ricorrente anche in Soph. Ant. 1207, Eur. Or. 1371 e Theocr. 24, 46. Al posto di hJma`" poi Gaulm. ha gli erronei hJmw`n a testo e uJma`" [sic] in nota p. 565. 236 pro;" th/` trapevzh/–aJbrovteron: il costrutto dal significato avverbiale pro;" to; aJbrovteron (tavola imbandita in modo delicato) ricorda quello simile pro;" to; perifere;" di r. 175. 237 ejneforouvmeqa–o[ywn: per la iunctura cfr. Luc. Symp. [17 Mcl.] 11 oJra/`"... to;n gevronta... o{pw" ejmforei`tai tw`n o[ywn kai; ajnapevplhstai zwmou` to; iJmavtion; ma v., anche se di poco successivo a Prodromo, Nic. Chon. hist. 2, 6, 5, p. 57 van Dieten hjravsqh zwmou` ejmforhqh`nai kai; th`" tou` lacavnou scivdako" ajpotragei`n... ejgkuvya" ajmusti; kai; cando;n ejneforei`to tou` zwmidivou kai; tw/` lacavnw/ pollavki" ejnevcane. 237 a} pollav–prokevoito: l’ottativo, lezione sicura di V, disturba un po’; forse è il motivo della lezione con ind. impf. di Gaulm., che comunque cambia preverbio; preferibile, casomai, l’emendamento di Lucarini. L’ott. mi sembra tuttavia accettabile se si confronta con ejpei; a r. 155 (ejpei; teqorubhmevnon te i[doi me), a rr. 204-205 (ejpei; dev pote kai; pauqeivh...kai;...ejxevlqoi) e con oJphnivka a r. 248 (oJphnivka th;n fiavlhn ejporecqeivh); potrebbe indicare il ripetersi di un’azione nel passato. Simili parole usa Luc. Symp. [17 Mcl.] 11 pareskeuvasto poikivla. 238-239 ejkpwvmatav–ejneparrhsiavzeto: il verbo ejmparrhsiavzomai significa parlo liberamente con qualcuno + dat. nelle tre occorrenze fornite da Tgl, alle quali aggiungo Pol. 38, 12, 7 [= Cost. VII Porph. de leg. 64, 13]; Ios. Fl. ant. iud. 15, 289; Greg. Nyss. contra Eunom. 3, 2, 136; id. epist. 29, 9; Euseb. vita Const. pinax 3, 2, 1; Basil. (?), enarr. in proph. Isaiam 3, 114, 5-10; ibid. 5, 174, 35-38; Th. Stud. megavlh kathvchsi" 60, 427; Theoph. Achridensis ep. 87, 11 ed. Gautier (XI-XII s.). Probabilmente l’espressione va intesa metaforicamente le preziose coppe parlavano liberamente con il banchetto ossia erano all’altezza del ricco banchetto (cfr. trad. Gaulm. «convivium commendabant»). Riguardo infine all’aggettivo smaravgdino", esso è riferito a un tei`co" in Luc. VH [14 Mcl.] 2, 11. 240 oJ de; trikovrwno": l’aggettivo compare in Anth. Pal. proprio in riferimento a due vecchie: 5, 289, 1 e 11, 69, 1. L’aggettivo, coniato sull’esempio di altri frequenti in tri- (cfr. qui trigevrwn r. 85), si rifà a una tradizione che vede nelle cornacchie gli animali tra i più longevi, tramandata da Plut. Mor. 415c (def. orac.) che la attribuisce ad Esiodo (fr. 304 M.-W.); cfr. anche Ar. Av. 609. 240-241 oJphnivka–ejporecqeivh: questo ott. aor. pass. da ejporevgomai (il verbo ricorre soprattutto al medio) che regge un compl. ogg. potrebbe essere tollerato se si considera che la diatesi pass. vale come deponente; cfr. ejboulhvqhn, che peraltro non regge solitamente il solo compl. ogg., ma l’acc. + inf.; e ejpimevlomai in Plut. Mor. 754c 2 (amatorius) tiv kwluvei kajkeivnhn ejpimelhqh`nai tou` neanivskou…. 116 ouj ma; to;n... h]: la lezione di V sembra un dikolon ( : ) tra to;n ed h]; poco dopo, nella simile imprecazione nai; ma; to;n, tra to;n e il successivo h\n leggo una specie di virgola in linea (forse lo stesso dikolon precedente, vergato più velocemente?). È strana questa omissione del nome di divinità, poiché in tutto il resto del testo compare: cfr. ma; Diva r. 28, r. 70; ma; to;n Fivlion r. 179; ma; th;n Qevmin r. 208; nh; Diva r. 103, r. 222. Gaulm. integra tacitamente, seguito da Du Th., per la prima imprecazione e[rwta (non impossibile se si considera nh; th;n hJdonh;n r. 23 e ma;; to;n gavmon r. 293; nh; to;n gavmon r. 303; cfr. Luc. Amor. [49 Mcl.] 1 nh; tou;" sou;" e[rwta"), per la seconda Diva (ma Gaulm. traduce per entrambe «per Iovem»). L’imprecazione senza nome alcuno è anche nel dialogo filosofico 135 H. Senedèmo p. 204, r. 28 Cramer (confermo per collazione diretta dei mcfr. dei mss. V, Barocc. 165 e 187). 241-242 tou` oi[nou ejrrovfa: il gen. è partitivo, mentre il verbo ricorre spesso in Aristofane nel significato di trangugiare avidamente, sp. una minestra, con compl. in acc. o usato assol.: v. e. g. Ach. 278 (altri passi in Eq., Vesp., Pax). 245-246 ajll∆ oujk oi\d∆–ejmimhvsato: il senso secondo me è «non capisco come mai Aristobulo abbia scambiato il belletto (sc. di Stratocle) per rosso di vergogna». Si noti che qui il belletto è rosso, mentre prima (r. 169) era clwrov". platu; gelavsa": vd. ln. 98. 247 qovrubo"–poluv": cfr. ps.-Luc. Charid. [83 Mcl.] 2 qoruvbou pollou` genomevnou. uJpeblevpontov–ajnasthvsaimi: con questo testo che leggo in V, compresi gli accenti, la traduzione non è immediatamente chiara: anzitutto il verbo uJpoblevpomai al medio significa guardo qcn. con sospetto, sospetto (guardo minacciosamente qcn. solo all’attivo e per lo più con avv. come in Plat. Phaed. 117b taurhdo;n uJpoblevya" pro;" to;n a[nqrwpon; o acc. dell’ogg. interno, come in Luc. vit. auct. 7 ajpeilhtikovn ti kai; colw`dh" uJpoblevpei); quindi mi guardavano con sospetto tutti, mi sospettavano tutti. La subordinata che segue con wJ" + ott., però, crea qualche problema, perché parrebbe una causale all’ott.; una finale è da escludere perché non si attaglia al contesto; una consecutiva vorrebbe piuttosto l’infinito, essendo il sogg. identico nella principale e nella subordinata. Gaulm. la traduce con una comparativa-condizionale: «ortus inde tumultus, singulique in me defixi haerebant, quasi ridiculos in sponsum iocos struens, Aristobulum convivio excitassem»; ma ci vorrebbe un w{s(per) eij. La battuta che mi attenderei sarebbe: mi guardavano con aria di sospetto, che cosa avessi detto di ridicolo da far alzare Aristobulo; per tale traduzione però al posto di w{" ti ci vorrebbe almeno un o{ti ovvero o{ ti interrogativo (la costruzione sarebbe proprio attica: che cosa dicendo, avessi fatto alzare, con ott. obliquo; cfr. e. g. Luc. Amor. [49 Mcl.] 23 ti; ga;r paqovnte"... di∆ ojligoriva" parapevmpete). L’anticipazione tanto andrebbe integrata nel testo; infine bisognerebbe presuppore per uJpoblevpomai il valore non attestato di mi chiedo con sospetto (non aiuta molto il confronto con verbi simili, quali uJpopteuvw + acc. e inf. ovvero + mh; timendi sospetto che qcn. faccia/abbia fatto/farà qcs.; ovvero uJforw`mai). [16] 250 eij mh; Dionuvsio"–ajnagnwv/h: il personaggio che si alza in un banchetto per recitare i versi di un epitalamio ricalca senza dubbio l’Istieo lucianeo, grammatico e autore di distici come il nostro Dionisio (la scelta del nome è casuale o rammenta quello del grammatico Dionisio Trace?): Luc. Symp. [17 Mcl.] 40-41.; cfr. anche ibid., 17. Per quanto riguarda ajnagnwv/h, si tratta di una forma di ott. aor. per ajnagnoivh, modellata probabilmente sugli ottativi pres. sing. iJdrwv/hn, rJigwv/hn (i quali, a loro volta, pur essendo temi in o, contraggono in w e w/ anziché in ou e oi). Simili ott. aor. sono aJlw/vhn e biw/vhn; cfr. Plat. Phaed. 87d 8 biw/vh BW, stampato da C. F. Hermann: biw/` T, stampato da Burnet, nella vecchia ed. oxoniense, e da Strachan in quella nuova (v. anche Schwyzer I, p. 795). 253-264 caivret∆–Lakwniavdo": in questo epitalamio la menzione di Ares e Afrodite è ancora omerica (v. r. 244); ma si potrebbe aggiungere anche l’epitalamio saffico fr. 111, 5-6 Voigt gavmbro" Ê(eijs)evrcetai i[so" “AreuiÉ ajndro;" megavlw povlu meivzwn che Prodromo potrebbe aver letto o in Heph. Poëm. 7, 1, p. 70 Consbruch (codd. AHIC), o in Demetr. de eloc. 148 (cod. P), o in Arsen. 51, 83 p. 460 Walz = Apostol. 17, 76a (2, 705 Leutsch-Schnw.). ajristogavmwn...kouvrwn: l’aggettivo ajristovgamo" di cui non ho trovato altre attestazioni nei lessici (LBG cita solo il nostro passo, traducendolo zur Ehe bestens geeignet) e in TLG on-line, è comunque comprensibile come facile neoconiazione prodromea sul modello dei numerosi composti in ajristo- (molti dei quali sono antroponimi; v. il risemantizzato ajristovloco" poco sotto). kallivcroa devmnia: come nome proprio in Prodr. Rhod. et Dosicl. 2, 101 c’è Kallicrovh; l’aggettivo invece risale, a quanto pare, agli scrittori crisitani come Joh. Chrys. (?) in praecursorem Domini, PG 59, 489, 57 goeroi`" mevlesi to; kallivcroon e[ar shmaivnei; Ephrem Syr. in vitam beati Abrahamii et neptis eius Mariae, p. 365, 12 Phrantzoles kai; to; provswpon aujtou` ejgevneto eujqale;", wJ" kallivcroon a[nqo" (IV s.); Theod. Stud. megavlh kathvchsi", 106, p. 777, 4 Papadopulos-Kerameus tou` de; to; koukouvllion ajnempavlwton kai; kallivcroon kai; mh;n kai; baquvtaton (VIII-IX s.); Const. Manass. brev. chron. r. 3810 Lampsides to; davpedon makavroi" kallicrovoi" (XII-XIII s.); Nic. Eug. (?), Anach. r. 784, p. 250 Christidis kallivcroun katidw;n skiagravfhma (XII-XIII s.); LBG aggiunge un passo da Ideler I, 304, 7 e da Tzetzes, Antehomerica, 85 ed. Bekker 1816 (s. XII). Il significato dal bel colore e quindi florido, giovane, nel pieno del vigore, analizza la seconda parte come in aggettivi del tipo ajllovcroo" (Eur. Hypp. 175, d’un altro colore), a[croo" ed eu[croo" (Ippocrate, Aristotele e 117 Galeno, incolore e dal bel colore e quindi di bell’aspetto), leukovcroo" (Opp. Cyn. 3, 371), melanovcroo" (Opp. Cyn. 2, 148; 2, 451; 3, 43), poluvcroo" (tre volte in Plutarco; Opp. Cyn. 1, 348 e 4, 406) e vari altri composti consimili. tou`–Murillidivou: Stratoklevou" stampano gli edd., mentre V (e gli apografi v e o) ha Straloklevo", che ho mantenuto perché fornito da V in tutte le occorrenze del dialogo; cfr. n. 5. Murillivdion è diminutivovezzeggiativo di Muvrilla (v. r. 331), che a sua volta è nome femminile già presente in Prodr. Rhod. et Dos. 7, 166 (v. Index in Markovich 1992). nehlecevwn aijzhw`n: di questi due aggettivi, il primo sembra essere una neoformazione di Prodromo, a partire da esempi come nehgenhv" (e. g. d 336, r 127; usato da Prodromo e. g. anche in carm. hist. VIII, 111), nehqalhv" (Eur. Ion 112), nehtovko" (Nonn. Dion. 25, 553), per la prima parte; per la seconda parte, invece, gli esempi costituiscono spesso degli a{pax legovmena, che Prodromo può aver incontrato e annotato nelle sue letture: ghlechv" (Call. hymn. IV in Del. 286 Pfeiffer, che dorme per terra), camailechv" (Anth. Pal. 7, 413, che dorme per terra), qereilechv" (Nic. Ther. 584, per dormirci sotto d’estate, plavtano"), ojreilechv" (Emp. fr. 20, 10 D.-K. ap. Simpl. in Phys. 1124, 9; fr. 127, 5 D.-K. ap. Ael. NH 12, 7, che dorme sui monti, levonte"), ajgcilechv" (Antim. Coloph. fr. 66 Bergk = 107 Wyss ap. Herodian. pros. cath. 3, 1, 81 GG, vicino al letto), aijnolechv" (Orph. Arg. 878 e 1175, infelicemente sposato), deinolechv" (Orph. Arg. 906, dalle nozze infauste), koinolechv" (Soph. El. 97, amante; Eustath. in Iliad. 1, 655, 20 e 2, 354, 23 van der Valk), monolechv" (Plut. Mor. 57d 8 [quomodo adulator ab amico internoscatur]; mounolechv" Anth. Pal. 5, 9, 4; 12, 226, 6; Anth. Pal. App. II, epigramm. sepulchr. 378, 6 Cougny), iJppolechv" (Paus. 8, 42, 6, che ha dato vita a un cavallo), ajpeirolechv" (Ar. Th. 119, non sposato), ijsolechv" (Apollon. Soph. Lex. Hom. 1, 8 Bekker, compagno di letto), prwtolechv" (Opp. Hal. 4, 197, che genera per la prima volta), eujlechv" (Anth. Pal. 7, 649, 1 che porta felicità al matrimonio). Il secondo aggettivo, poi, che qui intendo sostantivato, deriva da aijzhov" (detto di uomini vigorosi che lavorano: E 92, R 520, Y 432; Hes. Th. 863 e Op. 441). gamostolivh-qalamhpolivh: il raro sostantivo gamostoliva deriva dall’altrettanto infrequente aggettivo gamostovlo" = che prepara le nozze (gavmo" + stevllw), a sua volta foggiato su consimili aggettivi dal medesimo suffisso (e. g. nauvstolo" navigante, veleggiante; naustoliva navigazione, cioè l’atto di preparare le navi; v. Kretschmer 19773 , pp. 426-427). Attestazioni sono in Dioscorus poeta Aphroditensis, fr. 22, 8 Heitsch (VI s.); Cosmas Vestitor, laudationes III in s. Zachariam, 1, 2, 29, p. 254 Halkin (VIII-IX s.); Greg. Antioch. Laudatio Patriarchae Basilii Camateri, r. 376 Lukaki; cfr. anche il simile per significato numfostoliva di Psell. poem. 2, 20 Westerink e di Basil. (?), de vita et miraculis sanctae Theclae libri II, 1, 1, 48 e 2, 21, 7 Dagron. Il sostantivo qalamhpoliva, invece, non ha paralleli, mentre ricorre parecchie volte l’aggettivo qalamhpovlo" (in Omero è sostantivato e indica la serva che si occupa del talamo nuziale) e il verbo -levw. Dei due sostantivi, LBG traduce il primo con un semplice Hochzeit, il secondo con Dienst im Brautgemach. oujdev s∆–proswvpoi": la ben leggibile forma passiva del verbo intransitivo tarbevw temo, con desinenza omerica -en di 3a pers. pl. per -hsan, non è testimoniata e per di più disturba perché passiva, a meno che non vada interpretata eccezionalmente come deponente (cfr. ejporecqeivh r. 253). Si potrebbe anche emendare nell’aor. att. senza aumento tavrbhsan, metricamente identico. Ptolivporqo" è aggettivo epico riferito anzitutto ad Odisseo. xanqo;"-botruocaivth": i quattro aggettivi, che concernono le caratteristiche dei capelli (biondo-rossicci; v. ejpurriva r. 175) e delle ciglia, sono il primo tipicamente epico, epiteto formulare e. g. per Menelao; il secondo privo di paralleli (LBG cita solo il nostro passo), derivante dal verbo ejreuvqw (ma non nell’accezione transitiva iliadica arrosso, bensì in quella intransitiva ippocratica sono rosso, per cui sembra attestata anche la variante ejreuqevw in ps.-Luc. Nero [84 Mcl.] 7 ejruqro;" w]n ejreuqei` ma`llon; v. LSJ s. v.) con tipico suffisso produttivo -wdh" (per cui v. Kretschmer 19773 , pp. 255-261); il terzo a{pax legovmenon. Il quarto, infine, tràdito bostruocaivth", vox nihili (registrata però da LBG che la ricava dall’ed. Du Th.), andrebbe emendato per lo meno in bostrucocaivth" dai capelli ricci, per dare un composto di bovstruco", ricciolo; poiché però né questo né altri composti con tale prefisso sono attestati, eccetto botrucoeidhv", ho preferito il tacito emendamento di Gaulm. nella direzione di un composto di bovtru", grappolo d’uva -prefisso di pochi ma esistenti aggettivi-, che Prodromo può aver letto nell’unico passo che lo tramanda Anth. Pal. 9, 524, 2, definito dallo Stadtmüller ad loc. «epitheton exquisitius quam Nonnianum botruovento" (45, 25) vel Orphicum botruovkosmon (h. 52, 11)». Il verso epigrammatico compare anche negli Scholia Genevensia X 396 (Nicole I, p. 176), tratti dal cod. Genev. gr. 44, manoscritto dotto del XIII s. La scelta prodromea è forse un po’ avulsa dal contesto di partenza, in cui il riferimento a Dioniso, dio del vino dai capelli come grappoli d’uva, è l’unico calzante; ma non escludo che si possa intendere per traslato con il significato di riccio, poiché acini d’uva e boccoli si rassomigliano. Senza dubbio la ricercatezza nella scelta va riconosciuta a Prodromo. Cfr. anche l’epico kuanocaivth", epiteto formulare di Poseidone, e melanocaivth" in Theognostus Protospat. canones sive de orthographia, II, 85, 11, n° 478 [UOH.] Cramer; melavnofru" in autori grammaticali come Erodiano, Arcadio gramm., Esichio Aless., e ipomnematici come S Theocr., Eustazio di Tessalonìca; cfr. anche il teocriteo kuavnofru". 118 ajristovloce: a parte l’antroponimo e il fitonimo (attestato e. g. in Gal. 12, 622, 9 Kühn; ma potrebbe essere varia lectio per ajristolovceia, ajristolociva, ajristolovcion), ajristovloco" come aggettivo vero e proprio compare in Anth. Pal. App. III, epigr. demonstr. 162, 6 Cougny cersi;n qh`kan ajristolovcoi" (l’epigramma era già in Cramer, Anecd. Par. IV, p. 280 e Piccolos, Supplément à l’Anthologie grecque, Paris 1853, p. 129, attribuito a Giovanni Geometra, s. X; l’aggettivo viene tradotto da LBG per il passo epigrammatico der trefflichen Gebärerin, a cui, però preferirei la traduzione di Cougny optime-natis, essendo esso riferito alle mani dei figli di chi parla; per il passo prodromeo für die Ehe vortrefflich, che mi pare un senso adattabile anche al precedente ajristovgamo"). Caivret∆–ajeivdw: molto simile al v. 7 dell’epitalamio del succitato passo lucianeo a[mme" d∆ au\q∆ uJmi`n tou`ton qalamhvi>on u{mnonÉ xuno;n ejp∆ ajmfotevroi" pollavki" aj/sovmeqa; probabilmente, però, al posto della 1a pers. plur. dat. del pronome pers. a[mmin (forma eolico-epica che ricorre in Omero, come il nom. a[mme") bisognerebbe scrivere la corrispondente 2a persona u[mmin: suona meglio che il poeta dica canto a voi piuttosto che canto a noi (cfr. uJmi`n di Luciano). Si noti che il verso lucianeo ha lo stesso aggettivo qalamhvi>o" di Prodromo, ricorrente in Hes. Op. 807 qalamhvia dou`ra i legni del letto nuziale, e Ap. Rhod. 4, 1130 qalamhvion eujnhvn letto nuziale. ojligosticivh"–Lakwniavdo": il sostantivo ojligosticivh (ionismo) compare solo in Anth. Pal. 4, 2, 6 (Filippo), dove significa epigramma; qui vuol forse giustificare la brevità dell’epitalamio, tanto più che è associato all’aggettivo spartano, laconico, sinonimo antonomastico di conciso (cfr. Plat. Prot. 343b braculogiva ti" Lakwnikhv; Leg. 641e 6 Lakedaivmwna... bracuvlogon e 721e 4; Thuc. 4, 17, 2; Demetr. eloc. 7; Diod. Sic. 13, 52, 1; Sext. Emp. adv. math. 2, 21; S Pind. Isthm. 6, 87a Drachmann). La forma femminile Lakwnia;" non ha paralleli in TLG on-line e Boissonade ap. Tgl cita solo il nostro passo prodromeo; forse si tratta di una variante di Lakwniv", aggettivo feminile attestato a partire da h. hom. Apoll. 410 soprattutto in poesia. 265 ejpeufhvmhse to; sumpovsion: cfr. A 22 (= 376) e[nq∆ a[lloi me;n pavnte" ejpeufhvmhsan ∆Acaioiv. 266 ajll∆ ajmeivyatov–th`" ajgavph": il genitivo ajgavph" è facilmente deducibile dall’ ajgavp scritto senza il consueto compendio per h" nell’interlineo di V, probabilmente per dimenticanza nella celerità di scrittura. Il costrutto ajmeivbomai + acc. pers. e gen. rei si trova raramente, secondo LSJ, e. g. in Luc. somn. [32 Mcl.] 15 ajmeivyomaiv se, e[fh, th`sde th`" dikaiosuvnh". Il termine ajgavph nel senso di amore è tipico della koinh; vetero- e neotestamentaria. hJlivkwn a[riste: ritengo che si tratti di un superlativo preceduto da genitivo partitivo come in sat. 147 H. Vendita all’asta di vite di poeti e di politici r. 109 ed. mia a[riste poihtw`n; nonché nel testo teologico 113 H. Commento al versetto di Lc 1, 17 “camminerà davanti a lui con lo spirito e la potenza di Elia” (= PG 133, 1302, 5) kavllistev moi fivlwn. Non va pertanto seguita la traduzione di Gaulm. che intende il gen. pl. dipendente da Fivlio": «istius erga nos amicitiae mercedem tibi, optime Dionysi, tribuat aequalium amicitiae custos Iuppiter». 267 oJ... gevlw"–apevpnige: cfr. ps.-Luc. Philop. [82 Mcl.] 22 wJ" ajpopnigevnte" uJpo; tou` gevlwto". 268-269 a]n–ejktelw`men: questo a[n è una delle tre contrazioni attiche (a–) di eij a[n, frequente in Platone (e. g. Phaed. 61b; cfr. LSJ s. v.). 269 tou` sisamou`nto" ajpevtrwge: shsamou`", shsamou`nto", ovvero shsamovei" plakou`" è una focaccia cosparsa di semi di sesamo, quasi mai assente dai banchetti: Ar. Ach. 1092 e Th. 570 ma anche, fra gli altri, Luc. Symp. [17 Mcl.] 27 e 38. Il costrutto è gen. part. come tou` oi[nou ejrrovfa (r. 249) e Nic. Chon. hist. 2, 6, 5, p. 57 van Dieten (= p. 132 Maisano) hjravsqh... th`" tou` lacavnou scivdako" ajpotragei`n. Sulla grafia itacista, vd. Introduzione, p. 40 kai; o{ te Dionuvsio"–ejkpwvmata: cfr. Luc. Symp. [17 Mcl.] 15 h[dh de; kai; ej" tou;" a[llou" sunecw`" periesobei`to hJ kuvlix kai; filothsivai; Athen. 11, 49, 475a mnhmoneuvei de; tw`n karchsivwn kai; Sapfw; ejn touvtoi" (fr. 141, 4-6 Voigt) kh`noi d∆ a[ra pavnte"É karchsiva ãt∆à h\conÉ ka[leibon: ajravsanto de; pavmpan ejsla; tw/` gambrw/`. [17] 271 ejn ajpovrw/ kei`tai: variante del classico ejn ajpovrw/ ei\nai (cfr. e. g. Thuc. 3, 22, 6; e 1, 25, 1 ejn ajpovrw/ ei[conto qevsqai to; parovn), la iunctura si ritrova tre volte, stando a TLG on-line: Phil. Iud. de Abrahamo 175, 5 Cohn o{sa ejn ajmecavnw/ kai; ajpovrw/ kei`tai; Euthym. Torn. orat. 2, 8, 4 Darrouzès ejn ajpovrw/ kei`tai moi ta; tou` pravgmato" (XII-XIII s.); Man. Holob. orat. in imp. Mich. Palaeol. 2, p. 80 Treu toiu`ton keivmenon ejn ajpovrw/ (XIII-XIV); v. anche ejn eujfovrw/ qeivmhn a[n r. 70. 272 tou` lovgou–maqhvmasin: l’espressione tou` lovgou meteilhcevnai usata per indicare l’uomo dotato di senno e razionalità, ovvero della parola, non è frequentissima e ricorre a partire da Eliano (e. g. NA prooem. 1; 6, 16), per poi passare a Eusebio, Teodoreto di Cirro e, con un salto temporale, a Eustazio di Tessalonìca (serm. 6, p. 82, 5 Wirth); con gli altri tempi del verbo metalambavnw unito a lovgou ricorre invece la diversa espressione significante prendere la parola, come in Plut. Galb. 15, 2. L’espressione telesqevnai ejn toi`" maqhvmasin non sembra avere paralleli; il complemento di limitazione espresso qui con ejn + dat. si può forse comparare con il dat. semplice di Hdt. 4, 79 ejtelevsqh tw/` Bakcei`w/ e Xen. Symp. 1, 11 toi`" tetelesmevnoi" touvtw/ tw/` qew/` (altrove si trova invece l’accus.: Ar. Ran. 357 bakcei`∆ ejtelevsqh; Plat. Phaedr. 249c teleta;" telouvmeno"; Luc. Catapl. [19 Mcl.] 22 ejtelevsqh ta; ∆Eleusivnia). 119 273 eij" tou`to ajrcaiovthto" ejxetravpesan: il sostantivo ajrcaiovth" è qui usato nell’accezione di stoliditas (cioè stupidità, ingenuità al pari degli uomini antichi e arretrati), di cui Tgl dà come unica attestazione Alciphr. epist. 3, 28, 1 Schepers (= 3, 64 Hercher) uJp∆ ajãgÃnoiva" kai; ajrcaiovthto" trovpou. 274 wJ"–to;n gavmon: la lettura sicura di V ajgaqou` non fornisce un buon senso e sembra raccomandare la mia correzione ajgaqoi`" (cfr. Gaulm. «eo dementiae venire, ut Nuptias boni nomine non censeant»); a meno che non si intenda «così da porre le nozze in casa di un uomo dappoco», che però non mi pare migliore. L’emendazione di Lucarini è classicheggiante. Cfr. anche l’espressione a r. 49 e[qeto ajgaqo;n eJkavstou th;n hJdonhvn. 274 kai; ou[te politeivan–ajnairou`nte": la riflessione di Stratocle sul fatto che l’eliminazione del matrimonio corrisponde alla morte dell’umanità ricorda le argomentazioni che nelle Leggi vengono dedicate alle unioni eterosessuali, una delle preoccupazioni primarie di Platone per garantire la sopravvivenza dello stato ideale: Leg. 721b 6-c1 gamei`n dev, ejpeida;n ejtw`n h\/ ti" triavkonta, mevcri tw`n pevnte kai; triavkonta, dianohqevnta wJ" e[stin h/| to; ajnqrwvpinon gevno" fuvsei tini; meteivlhfen ajqanasiva", ou| kai; pevfuken ejpiqumivan i[scein pa`" pa`san. 276 to;n ∆Empedoklh`–probavlletai: si riferisce alla dottrina empedoclea, in base alla quale i principi opposti e complementari, su cui si fonda la generazione continua nel cosmo, sono Filiva e Nei`ko": cfr. Emp. fr. 17 D.K. tramandato da Simpl. in Phys. 9, 158 Diels nei suoi 31 vv., ma i cui vv. 7-8 a[llote me;n Filovthti sunercovmen∆ eij" e}n a{panta,É a[llote d∆au\ divc∆ e{{kasta foreuvmena Neivkeo" e[cqei sono citati ben altre sette volte dallo stesso autore (altre quattro nel commento alla Fisica e altre tre nel commento al de caelo aristotelici, opere che a buon diritto potevano far parte della formazione filosofica di Prodromo; cfr. n. 21), nonché da Plut. vit. Hom. 99 e Stob. I 10; dei vv. 17-20 pu`r kai; u{dwr kai; gai`a kai; hjevro" a[pleton u{yo",É Nei`ko" t∆ oujlovmenon divca tw`n, ajtavlanton ajpavnth/,É kai; Filovth" ejn toi`sin, i[sh mh`kov" te platov" te:É th;n su; novw/ devrkeu, mhd∆ o[mmasi h|so teqhpwv" sono tramandati da Plut. Mor. 756d 19-20 (amatorius) i vv. 19-20, mentre da Sext. Emp. adv. mathem. 9, 10 i vv. 17-19. La conoscenza prodromea di Empedocle affiora anche nel carme giambico 153 H. L’ amicizia in esilio vv. 48 ss. 281 ajpodi>istw`n ta; stoicei`a: il sogg. è to; Nei`ko" e il part. pres. attivo neut. di i{sthmi (e dei suoi composti) dovrebbe essere iJsta`n; ma la lezione ben leggibile di V pare esemplata sulla forma collaterale iJstavw, già attestata in Erodoto, ma diffusa specialmente nel greco tardo e modellata sui temi in -aw (v. LSJ s. v.). 281-282 eJautoi`" de; e{kasta filiou`n: questo part. pres. attivo neut. deriva dal verbo filiovw rendo amico + dat., che compare, al passiv., in LXX Ps 107, 10 ejmoi; ajllovfuloi ejfiliwvqhsan ed è frequente negli autori di età tardo-antica. 285 mhde; o{sa–filotimouvmenoi: non sarà casuale il riferimento a due piante sacre ad Afrodite in un discorso che elogia l’unione eterosessuale, di cui la dea è patrona; ma si confronti anche Plut. Mor. 757e 25 (amatorius) ejgw; me;n ga;r oujde; druo;" oujde; moriva" oujd∆ h}n {Omhro" ÔhJmerivda∆ semnuvnwn prosei`pen ajkallevsteron e[rno" oujde; faulovteron hJgou`mai futo;n a[nqrwpon. 286 wJ" dia; gavmou–ajqanativzetai: l’argomento per cui l’amore eterosessuale è superiore a quello omosessuale, grazie alla sua capacità di garantire la nascita di un nuovo individuo e quindi la sopravvivenza della specie umana, era già stato addotto da Dafneo in Plut. Mor. 752a 1 (amatorius) ajlla; loidorei` kai; prophlakivzei to;n gamhvlion ejkei`non kai; sunergo;n ajqanasiva" tw/` qnhtw/` gevnei, sbennumevnhn hJmw`n th;n fuvsin au\qi" ejxanavptonta dia; tw`n genevsewn. Ricompare poi in Luc. Amor. [49 Mcl.], dialogo incentrato sulla diatriba tra amore omosessuale e amore eterosessuale. 287 wJ" ajtelei`"–a[gamoi: Gaulm. stampa al posto dell’imper. tràdito l’errore di decifrazione euJrovntwn e traduce «itaque illi imperfecti caelibesque sunto». [18] 291 Oujdei;"–gavmo": secondo la punteggiatura che fornisco, il testo significa che Amaranto non resta convinto dalle nuove argomentazioni del maestro, ma si attesta sulle vecchie posizioni misogine e antimatrimoniali di quello; pertanto oujk oi\d∆ o{pw" è parentetica e la traduzione di Gaulm. va respinta «verum nihil in posterum mihi persuadebit, nuptias philosopho non convenire», perché significa proprio il contrario. 292-293 mevcri"–Plavtwno": il riferimento sarà alla famosa contrapposizione sw`ma/sh`ma di Plat. Crat. 400c e Gorg. 493a. Si noti ancora la costruzione e[cw maqw;n per memavqeka (v. r. 65). th/` quvra/ th`" ajlhqeiva": delle quattro occorrenze che TLG on-line offre del sintagma quvra th`" ajlhqeiva" questa mi pare la più confrontabile: Procl. in Platonis Alc. I 281, 9 e[cousi [sc. aiJ yucaiv] ga;r ejn auJtai`" ta;" th`" ajlhqeiva" quvra" katakecwsmevna" uJpo; tw`n ghi>vnwn kai; ejnuvlwn eijdw`n; le porte della verità sarebbero l’accesso che ha l’anima alle realtà intelligibili, contrapposte alle realtà sensibili. V. anche in un autore di poco posteriore a Prodromo, Mich. Chon. ep. 166, vol. II, p. 330, r. 18 Lambros ejgw;; de; ouj para; quvran, oi\mai, th`" ajlhqeiva" ajfivxomai. 293 ããSivga to;n Plavtwna–e[rwta"ÃÃ: in realtà Platone avversa le unioni omosessuali in Leg. I 636 b ss. come conseguenza di intemperanza interiore e fonte di ulteriore disordine sociale, riconoscendo nei ginnasi e nelle palestre il fomite della perversa abitudine: cfr. 636c 2-7 ejnnohtevon o{ti th/` qhleiva/ kai; th/` tw`n ajrrevnwn fuvsei eij" koinwnivan ijouvsh/ th`" gennhvsew" hJ peri; tau`ta hJdonh; kata; fuvsin ajpodedovsqai dokei`, ajrrevnwn de; pro;" a[rrena" h] qhleiw`n pro;" qhleiva" para; fuvsin kai; tw`n prwvtwn to; tovlmhm∆ ei\nai 120 di∆ ajkravteian hJdonh`". Cfr. anche 838e-839a e Luc. Amor. [49 Mcl.] 9, che tratta allo stesso modo le palestre: h\n [sc. il pederasta Callicratida] de; kai; to; swvmati gumnastikov", ouj di∆ a[llo tiv moi dokei`n ta;" palaivstra" ajgapw`n h] dia tou;" paidikou;" e[rwta"; e 20-28, ossia tutto il discorso omofobo di Callicle. 294 ããGunai`ka" de;–eijspoihtevon a]n ei[h: il verbo eijspoievw significa propriamente porto nuove persone in, introduco e si usa specialmente per l’adozione di figli; qui si intende l’introduzione di certe donne nella vita privata degli uomini; si confronti anche la traduzione di Gaulm. «itaque, subieci ego, pessimas mulieres nobis etiam insidiantes ducendas putas». Il senso figurato di Luc. hist. conscr. [59 Mcl.] 9 kai; dia; tou`to eijspoiou`si kai; to; ejgkwvmion ej" aujth;n [sc. iJstorivan] introducono l’encomio nella narrazione storiografica non mi pare calzante in questo contesto. 295 ÔElevna"–oujk ajgnohvsanta"…: in attico kai; tau`ta assume il valore di una congiunzione concessiva (pur, sebbene); la trasposizione di Lucarini sembra rendere più fluido l’andamento della frase. Nella posizione tràdita, invece, si dovrebbe dare al kai; tau`ta il senso non attestato di un avv. del tipo e per di più, inoltre. 297 ããÔHsivodon–ajmfagapw`nte"ÃÃ: sono i versi di Hes. Op. 57-58, ovvero l’introduzione della storia di Pandora, la prima donna dell’umanità, creata da Zeus a danno dell’uomo, a risarcimento del benefico furto del fuoco operato da Prometeo; una citazione da Esiodo, anche se di un altro passo (Op. 696-699), è in Plut. Mor. 753a 5 (amatorius). In Luc. Amor. [49 Mcl.] Prometeo viene menzionato esplicitamente due volte con tono di maledizione misogina, perché gli è attribuita la responsabilità personale della creazione della donna: 9, 29 tw`/ de; pro;" to; qh`lu mivsei polla; kai; Promhqei` kathra`to; e soprattutto 43, 8-22 con citazione di dieci versi menandrei (fr. 718 K.-Th. = 535 Kock), tra cui gunai`ka" e[plasen [sc. Promhqeuv"]... e[qno" miarovn: tale versione del mito, benché riferita dal solo Menandro nel IV-III s. a. C., può vantare un’antichità pari se non addirittura superiore rispetto a quella esiodea (v. Eckhart 1957, col. 697). Come creatore del genere umano tout court, invece, Prometeo appare nell’invettiva che Zeus gli lancia in Iupp. Trag. [21 Mcl.] 1 e in de salt. [45 Mcl.] 38. 301 ããAujtovqen oJ mavrtu"–ei[te mhvÃÃ: Stratocle usa il verso di Esiodo come prova non della malignità della donna e quindi dell’opportunità di scansarla, bensì dell’inevitabilità del matrimonio eterosessuale, a causa proprio della piacevolezza della donna (terpno;n to; crh`ma; la trad. di Gaulm. è un po’ libera ma efficace: «illo ipso carmine utor, infit Stratocles; nam si omnibus placent [sc. mulieres], ideo necessarias seu bonae seu malae sint quis neget?»). L’espressione avverbiale pro;" ajnavgkh" va confrontata con pro;" kakou` r. 262. [19] 304 oJ kwmiko;"–Cairefw`n: il nome Cherefonte è abbastanza diffuso in greco antico; si ricorda in particolare l’ateniese amico di Socrate (v. Ar. Nub. 104, 144; Vesp. 1408; Av. 1296, 1564 ecc.; Plat. Apol. 21; Xen. Memor. 1, 2, 48; cfr. Tgl s. v.); Luciano ha questo nome due volte (rhet. praec. 13, 4; Hermot. 15, 21). 305-306 wJ"–th/` eJorth/`: propriamente platonico è il sintagma ejn + gen. + moivra/, talora preceduto da wJ" come qui, per indicare nell’ordine di, in qualità di, come un. Kateunastikov" è l’epitalamio, perché invita gli sposi ad entrare nel talamo (eujnavzw mando a letto, ma qui non per dormire); cfr. Men. Rhet. de demnostr. 405, 24 e[sti ga;r oJ kateunastiko;" protroph; pro;" th;n sumplokhvn, all’interno di un capitolo intitolato peri; kateunastikou`, dedicato all’insegnamento di come si fa a scrivere un discorso prosastico del genere, sulla base degli esempi poetici (425, 19 oiJ me;n ou\n poihtai; dia; tou` parorma`n ejpi; to;n qavlamon kai; protrevpein proavgousi ta; kateunastika; poihvmata). 307-322 Qeavwn–khvpw/: i versi anacreontici, diffusi nella lirica arcaica ionica e legati al poeta di Teo, che ha dato loro il nome, sono dimetri ionici anaclomeni, cioè caratterizzati da una interversione del quarto e quinto elemento (+ + - + - + - -); quelli bizantini, però, portano i segni di una mutata prosodia, non più classica, ma tipica del periodo tardo-antico, tale per cui le vocali a, i, u valgono come dicrone; cfr. il primo verso qeavwn in cui l’ a lunga per natura vale in realtà come breve, e il settimo con neavnin (q. v.). Nei dimetri l’ultima sillaba è indifferens e l’accento cade sul quarto e settimo elemento; nei quattro trimetri, accoppiati in distico (koukouvlion) alla fine di ognuna delle due strofe (oi\koi), si riscontrano qui due schemi: quello puro nell’ultimo verso (+ + - - + + - ⁄⁄ - + + - -) e quello con sostituzione del primo dimetro ionico a minore con un coriambo negli altri tre dimetri (- + + - + + - ⁄⁄ - + + - -). Gli accenti cadono sulla sesta e sull’undicesima sillaba, mentre la cesura cade dopo la settima sillaba (v. in breve Mercati I, p. 158; cfr. anche il suo apparato dettagliato segnalante molti errori di stampa e alcune varianti dei vari editori dei versi anacreontici; e v. Ciccolella 2000). Qeavwn–Pafivhn: cfr. Prodr. Rhod. et Dosicl. 9, 203 tou;" ga;r “Erw" te Povqo" te kai; ∆Afrogevneia Kuqhvrh. devrkeo–kou`re: la grafia neavnin parossitona di V va mantenuta: nei casi di vocali visivamente dicrone (a, i, u) i manoscritti coevi a V mostrano scambi di accento grave per acuto e viceversa, cosicché il criterio del rispetto del testo concordemente tràdito si impone alla normalizzazione, specialmente in sede metrica, dove è sicura la lunghezza del piede: questa oscillazione dei copisti può riflettere l’abitudine dello stesso autore, forse non più in grado di percepire finemente l’alternanza quantitativa, anche per l’influsso dei manoscritti a lui coevi da cui leggeva i testi greci, nei quali lo scambio di accento grave/acuto appare anche su vocali visivamente brevi e lunghe (e/h, o/w) e su dittonghi. Hörandner rispetta il suddetto criterio, per esempio, nell’esametro Prodr. carm. hist.. VIII, 99 H., in cui stampa mu`qo", così tràdito dai mss. (Par. 2831 e V), avvertendo che va misurato con u breve; e in VIII, 196 H., in cui stampa il tràdito a[to", avvertendo che l’ a 121 breve è metricamente corretta, ma prosodicamente contraria alla lunga naturale. Così nel nostro caso; se invece V avesse tramandato nea`nin, si sarebbe dovuto avvertire che l’ a conta come breve nella sesta sede del dimetro ionico a minore1 . A seconda dell’esigenza metrica, Prodromo alterna a neavnin la forma accusativale neavnida (carm. hist. XLIIId, 13 oJ nevo" th;n neavnida, to;n nevon hJ neavni" quest’ultima con a metricamente lunga ma graficamente breve, come in carm. hist. XIV, 34 H. triseugeni;" to;n eujgenh`, to;n nevon hJ neavni"). Kuqeivrh": ho preferito mantenere la lezione di V, anziché normalizzarla: si sa che nella tradizione ms. essa foneticamente equivale a Kuqhvr-, di cui quindi potrebbe essere la corruzione; come varia lectio è in Opp. Cyn. 1, 39 e 238 (v. LSJ, s. v. e apparato ad locc. dell’ ed. di Oppiano a c. di Papathomopoulos, Monachii et Lipsiae, Teubner 2003, che comunque stampa a testo la lezione con h); in Luc. Symp. [17 Mcl.] 41 compare Kuqevrh; in Prodr. cit. (v. n. 315) l’apparato di Marcovich 1992 registra: Kuqhvrh Gaulm., Hercher: kuqerw; H2 : kuqevrw V: kaqara; UL). komavei–lavmpei: «matura viro est, wJrai`a gavmou» (Fischer). rJovdon–ajnavssei: sec. Gaulm. in rJovdon è insita un’ambiguità oscena (rJovdon = aijdoi`on gunaikei`on Pherecr. fr. 113, 29 K.-A. ap. Athen. 6, 268d hJbulliw`sai [sc. hJbw`sai] kai; ta; rJovda kekarmevnai). ∆Hevlio"–khvpw/: Gaulm. si diffonde in una serie di spiegazioni inutili per questi versi, al fine di giustificare la menzione del sole; Du Th. le tronca recisamente, riferendosi solo al fatto che il vecchio è bramoso di giacersi con la fanciulla prima ancora del tramonto. Per l’immagine del sole che illumina cfr. Prodr. carm. hist.. LVIb, 12-13 H. toi`" meta; bh`ma q∆ iJJero;n kai; ajglaa; dwvmat∆ ajnavktwnÉ ∆Hevlion kat∆ a[nakta faeivnetai ktl.. Per l’immagine del cipresso nel giardino cfr. Theocr. 18, 30 h] kavpw/ kupavrisso" con il commento di Gow, il quale ricorda come nell’antichità il cipresso fosse una pianta ornamentale fatta crescere volontariamente nei campi e nei giardini come segno di confine. Esso è poi legato al culto dei morti, perché connesso al mito del bel giovinetto amato e mutato in cipresso da un dio, impietosito dal continuo lamento funebre del fanciullo per la morte del suo cervo preferito (cfr. Tambornino 1924, col. 51); onde qui la battuta sottintesa nell’augurio «o Mirilla, possa presto crescere un cipresso nel tuo giardino» potrebbe significare «il tuo vecchio marito possa presto morire e lasciarti libera per giovanili amori». Si confronti anche uno dei due epitafi di Cristoforo di Mitilene (XI s.) alla sorella Anastaso 75, 19 Kurtz kupavritto" kaqavper ejnqavde kei`sai. Non si può escludere infine anche un accenno a uno degli elementi topici nella letteratura erotica: la comparazione dell’amata con oggetti naturali (cfr. lo stesso Prodr. Rhod. et Dos. 6, 292 hJ kupavritto" th`" kalh`" hJlikiva"). 323 Pro;" tau`ta–proseipwvn: il soggetto di questa frase può essere solo Stratocle, indicato da ejkei`no"; tuttavia il diagorhvsa" tràdito (ben leggibile in V) crea due problemi: uno meno grave, riguardante la grafia che presuppone un non attestato *diagorevw/*-avw, o piuttosto un errore o adattamento di scrittura rispetto all’atteso diagoreuvsa"; l’altro più fastidioso riguardante il significato di diagoreuvw: tra quelli registrati dai lessici, qui non se ne adatta nemmeno uno, a mio parere (dichiaro, assevero; ordino, comando; espongo dettagliatamente; parlo di qcn. + avv.; tutti pretendono un accus. che qui manca). Mi attenderei un significato simile a quello dato dalla traduzione a senso di Gaulm. (che comunque leggeva lo stesso nostro testo) «ad haec nihil Stratocles respondens, uti qui arderet, Solisque occasum minus exspectare posset, surrexit thalamumque festinus irrupit, omnibus insalutatis; atque ita discessimus». Tra le congetture, allora, la meno lontana mi pare diaporhvsa" essendo in difficoltà, in cui l’atteso periv ti è sostituito da pro;" tau`ta. Si potrebbe pensare a qualcosa come poiché Stratocle cedette a questo invito (sc. quello dell’epitalamio): un ajpagorhvsa" per ajpagoreuvsa" dicendo addio, rinunciando, lasciando (cfr. ajpagoreuvw pro;" strateivan Plut. Cor. 13) implicherebbe o che Stratocle abbandona i precedenti propositi di non sposarsi (ma di essi non si è più parlato da un bel pezzo), oppure che egli lascia, abbandona, pianta in asso i versi ovvero i compagni; se invece significa vengo meno, mi illanguidisco, mi indebolisco (in senso assoluto è attestato in Platone e Luciano) può voler dire a queste parole sentendosi venir meno le forze (sc. per la passione amorosa). Un diafwnhvsa" (sono in disaccordo; diserto, muoio; cfr. LSJ) non va bene; un diagrhgorhvsa" di cui sarebbe caduta la sillaba -grh- per aplologia, nel suo significato di restar sveglio, potrebbe riferirsi al fatto che Stratocle, dopo l’epitalamio kateunastikov", non va proprio a dormire. uJpoflegei;" th;n yuchvn: il nesso ricorda quello registrato da W. Dindorf ap. Tgl s. v. uJpoflevgw «Niceph. in Walzii Rhet. I, 502, 31» (= Pignani 1983, 38, 38) ejpi; touvtoi" uJpoflevgomai th;n kardivan, con passivo e accus. di relazione. Non sarebbe questo il primo segnale rivelatore della tendenza di Prodromo a mutuare dal maestro di retorica suo contemporaneo Basilace espressioni e temi; cfr. Hörandner 1974, p. 68 e Pignani 1983, p. 17 n. 16. Altri due passi da retori, rintracciati con TLG on-line, sono rhet. anon., peri; tw`n ojktw; merw`n tou` rJhtorikou` lovgou, III, 602, 19 Walz eja;n th;n geu`sin th`" trofh`" th`" uJpoflegouvgh" th;n fuvsin; Theod. Hexapt. 5, 38 Hörandner oJ ga;r lampadou`co" e[rw" kai; uJpoflevgwn (XII-XIII s.). In attinenza con la sfera semantica erotica v. anche Prodr. Rhod. et Dosicl. 3, 491 uJpoflevgonto" tou` pavqou" 1 Non giustificata metricamente e, quindi, a mio parere non incondizionatamente condivisibile la scelta di Declerck 1994, pp. CVII-CVIII di stampare nel testo in prosa da lui edito gli accenti tràditi muvqo", khlivda, neavnin (accento acuto su vocali visivamente dicrone, ma tradizionalmente lunghe per natura). 122 th;n kardivan; un secolo abbondante dopo Prodromo, Man. Philes Expositio de elephante, v. 164-165 ed. Dübner ap. Bucolici et didactici 1862 ajlla; tosou`ton eujreqe;n to; qhvrionÉ “Erw" oJ deino;" ajkratw`" uJpoflevgwn. 325 mhdevna mhd∆ oJpwstiou`n: cfr. Prodr. 151 H. Contro quelli che a causa della povertà insultano la Provvidenza (= PG 133, 1292, 5) oujd∆ oJpwstiou`n ajpodevcomai. 326 oJ suvllogo" dieluvqh: cfr. W 1 lu`to d∆ ajgwvn. [20] 327-329 ∆Alla;–trufhvn: la conclusione del dialogo è affidata al Filolao che l’aveva aperto, ma con totale abbandono delle discussioni filosofiche atomistiche iniziali; è tuttavia probabile che un nesso con l’epicureismo sia istituito in riferimento alla dottrina edonistica, chiaramente storpiata in pura lascivia, poiché qui si manifesta il trionfo della trufhv. L’aggettivo kalo;" aggiunto solo qui alle caratteristiche di Amaranto, sembra un po’ forzato, poiché in precedenza non si è mai esplicitata tale sua qualità; in Platone si dice che un interlocutore è bello in Phileb. 13d 7, Symp. 174a 9 (Apollodoro lo dice di Agatone), Alc. I 113b e Prot. 316a 3-5 (detto di Alcibiade), Hipp. ma. 281a 1 (detto di Ippia); v. anche Plut. Mor. 749c 7 (amatorius) e ps.-Luc. Charid. [83 Mcl.] 5. La chiusa di quest’ultimo dialogo, poi, ha una vaga somiglianza con quella del nostro nel dichiarare felice chi ha partecipato ad un simposio e ha raccontato agli assenti quanto è avvenuto. ELENCO DELLE VARIE LEZIONI2 linea V Gaulm. o, v Du Th. 12 w\gaqev w\ ∆gaqev - w\ ∆gaqev 13 ajpolabwvn ajpolauvwn - ajpolabwvn " o{lou" o{sou" - o{lou" 16 th;n ajmavran to;n ∆Amavranton th;n ajmavran th;n ajmavran 18 eJstavnai iJstavnai - iJstavnai 19 narkivsswn... uJakivnqwn Narkivssou...ÔUakivnqou - Narkivsswn... ÔUakivnqwn 20 mh; mh;n - mh;n 23 o[flw ojfeivlw - ojfeivlw 24 wJ" kai; - kai; 25 provteron parovntw" - provteron 29 soi lh`ro" ejpilh`ro" - soi lh`ro" 31 fqavnoim∆ a[n fqavnoi ka[/n - fqavnoim∆ a[n 50 ejqaumasavmhn ejqaumavsamen - ejqaumavsamen 52 eij oi|ovn te h\n crh`saiv moi ajnivan te h|/ crhsavmeno" h\n eij oi|ovn te h\n crhsavmeno" eij oi|ovn te h\n, crhsavmeno" h\n, 53 ta;" ajtovmou" tou;" ajtovmou" ta;" ajtovmou" tou;" ajtovmou" 58 mevlloite melevtoite melevtoite melevtoite 60 th`" korufh`" moi tiv" koruf∆ moi - th`" korufh`" moi 2 Ho relegato in questa tabella sinottica tutte le varianti che si la leggono nell’ed. Gaulmin o Du Theil; trattandosi per lo più di errori di stampa o di decifrazione ovvero di tacite normalizzazioni, esse non hanno valore per la costituzione del testo, ma rendono pur sempre conto dello stato ecdotico della satira prima di questa edizione. 123 katalaxeuvoi" katalasqeuvsa" katalaxeuvoi" 66 tw`/ gou`n tevw" ta; g. t. tw`n g. t. tw`/ gou`n tevw" 70 ∆Amavrante w\ ∆A. - w\ ∆A. ″ qeivmhn ejqevmhn - qeivmhn 72 Diovfante" (cfr. correctum desinens in V, i. e. l. 18 et 23) Diovfante - Diovfante 73 tauth/i>; th/` p. tauvth/ th/` p. - tauth/i>; p. 75 tavca a]n kai; diaragw` tavca d∆ a]n kai; diavrata oujk e[cwn (in textu): t. d. a. nh; Diva rJa`/sta o. e[., (Tuder, in adn.) tavca a]n kai; diaragw`n tavca a]n kai; diaragw` 78 kruomuvxhn kriovmuxin - kruomuvxhn 82 qugatridhvn qugatrivdhn qugatridhvn qugatrivdhn 84 eijshgavgeto ejxhgavgeto - eijshgavgeto 87 trigevrwn trivgero" (in textu): trigerhvnio" (in adn.) - trigevrwn 89 ejbavyato e[baye ejbavyato 90 ejpevcrwse ejpevcrise - ejpevcrwse 93 skhnika; a{tta koinika; a{tta s. a{tta skhnika; a[tta ″ ejpimorfavzetai ejpimorfavzei - ejpimorfavzetai 94 th;;n f. w[cran to;n f. wjcrei`an - th;;n f. w[cran 97 tw`n gavmwn tw`n gavmwn - tou` gavmou 98 a[nwqen a[nw mevn - a[nwqen 100 probaivh prosbaivh - probaivh 101 peiqoivmhn puqoivmhn - peiqoivmhn ″ ajnakorufwvsasqai ajnakorufhvsasqai - ajnakorufwvsasqai 103 nh; Div∆ ejnovhsa" nh; Diva ejnovhsa - nh; Div∆ ejnovhsa" 105 perievlkein wJ" eJauto;n ajkkizomevnhn perielkei`n wJ. eJ. ajkizomevnhn perievlkein eJauto;n ajkkizomevnhn 112 touvtou touvtwn - touvtwn 116 ajpeskeuasavmhn ajpeskauvsaimen - ajpeskeuasavmhn 117 dh; de; dh; de; 119 dialoidorouvmeno" ejxaloidorouvmeno" dialidorouvmeno" dialoidorouvmeno" 121 Fai`dran Fai`dran - Fai`dran 132 w[twn o[ntwn - w[twn 134 govnaton gonavtwn govnaton govnato" 139 kaqizovmhn kaqezovmhn - kaqizovmhn 140 to;n para; Plavtwni to;n Plavtwno" - to;n para; Plavtwni 145 parabeblhmevnon parabeblhmevnon parabeblhmevnhn parabeblhmevnon 146 Stratoklevou" (m1 ) Stratokleo" (m2 ) Stratoklevou" - Stratoklevou" 124 147 wJ" tavco" podw`n wJ" tavca podw`n - wJ" tavca podw`n 149 gravyein gravfein - gravyein ″ wJ" wJ" - w{sper 153 ajnakragovta ajnakravxa" - ajnakragovta 156 toi`" proswvpoi" tou` proswvpou - toi`" proswvpoi" 157 oujqevn ouj mevn - oujqevn 158 Carivtwn Carivtwn Carivtwna (o) Carivtwn 159 ÔErmwnivdion Ermhnivdion - ÔErmwnivdion ″ moi mou - moi 160 uJi>dou` uJi>dou`" - uJi>dou` 162 uJpesmugmevnon uJpesmhgmevnon - uJpesmugmevnon 164 tacinwtevrou" tacinwvteron - tacinwtevrou" 167 dihghsaivmhn dihghvsaimi - dihghsaivmhn 168 crusw/` crusou` - crusw/` 170 hJ pareia; de; toi`" me;n ejxesthkovsi para; de; t. m. ejx. - hJ p. d. t. m. eJsthkovsi 177 mevlano" mevlano" - mevlaino" 179 toi dh; - toi 184 xanqo;n d. t. k. kaqizhmevnon xanqo;n d. t. k. kaqizhvmenon xanqo;n d. t. k. kaqizhmevnon xanqo;n d. t. k. kaqizhvmenon 186 ejpuqovmhvn tou ejpuqovmhn tovn ejpuqovmhn tou` ejpuqovmhn 190 prosqevmeno" proelovmeno" - prosqevmeno" 193 ajntiv ajnti; (in adn.) aujto;" (in textu) - ajnti; (in adn.) aujto;" (in textu) 197 eij tevrma ei\qa pw`" - eij tevrma 198 gewmetrw`n gewmetrovn (in textu) gewmetrw`n (in adn.) - gewmetrw`n 199 tai`" numfostovloi" ta;" numfostovlou" - tai`" numfostovloi" 201 ejphvrceto ejphvrchto - ejphvrceto 203 proixi; kai; mnhstai`" p. de; k. m. - p. te k. m. 214 proh/vei pomph`" proeipomevnh" - proh/vei pomph`" 215 eJauthvn eJautouv" eJauthvn eJauthvn 216 tevcnh tevcnh - tuvch 226 ajnevxetai ajnevxhtai - ajnevxhtai 228 ajpomuvxei uJpomuvzei - ajpomuvxei 231 murivnai" murivnai" - murrivnai" 233 w|dev ph/ oujde;ph - w|dev ph/ 234 kaqhkovntwn om. kaqhevntwn kaqestovtwn ″ telesqevntwn telesqevntwn teleuqevntwn telesqevntwn ″ newv newv - new` 237 th;n... th;n... stellomevnh th;n... th;n... stellomevnh/ 125 stelloumevnh(n) kekaloumevnh 238 o{lhn o{lw" o{lhn 246 ∆Agcivsai ∆Agcivsai ∆Agcivse ∆Agci`sai 248 hJ pastav" oJ pastov" - oJ pastov" 250 prokevoito prosevkeito - prokevoito 253 ejporecqeivh ejporevcqein ejporevcqei ejporecqeivh 264 ajnagnw/vh ajnagnwvh/ - ajnagnwh/ 267 Stratoklevo" Stratoklevou" Stratoklevo" Stratoklevou" 270 oujdev s∆, “Are" ptolivporqe oujde; ga;r ej" ptolivporqai(in textu) kai; su; g∆ “Are" ptolivporqe Gaulm. (in adn.) - oujdev s∆, “Are" ptolivporqe 272 carivtessi fuai`" carivtessi fuai`" cavrite" ijfuai`" carivtessi fuai`" 274 bostruocaivth" botruocaivth" botruocaivwn v; -cevwn o bostruocaivth" 280 ajpevpnige ajpevpnige - ajnevpnige 282 kaqhvkonta proshvkonta - kaqhvkonta 283 sisamou`nto" shsamou`nto" - shsamou`nto" ″ ejcovreue ejcovreuse ejcovreue 286 movnon keimevnwn - keimevnwn 291 tou` neivkou" tou` ajeikou`" - tou` neivkou" ″ probavlletai, tou`t∆ aujto; kataitiwvmeno" probavllontai tou` tauto; kataitiwmevnou - probavlletai, tou`t∆ aujto; kataitiwvmeno" 292 ejpei; to; me;n nei`ko" ejpei; to; me;n nei`ko" ejpei; to; me;n eijkon ejpei; to; me;n nei`ko" 294 to; nei`ko" to;n eijko;" (sed cfr. eius vers.) to; nei`ko" 295 ajpodiistw`n tav ajpodiistw`n ta ajpodiistw`n tav (ajpodiisw`n tav o) ajpodustw`nta 296 eJkavstoi" eJkavstoi" - eJkavstai" 298 gennw`n gennou`n - gennw`n 299 h[ kaiv - h[ 300 mhdev mhdev - mhv 302 ejrrovntwn euJrovntwn - ejrrovntwn 304 oujk oi\d∆ o{pw" desmov" oujc oi|on dokei` pw`" desmav - oujk oi\d∆ o{pw" desmov" 305 kai; ta\lla k. ta[lla - de; ta[lla 308 maqwvn maqei`n - maqwvn 309 to;n Plavtwna kai; t. P. - to;n Plavtwna 311 didavskale, ÔElevna" didavskei ejkeivna" - didavskale, ÔElevna" 313 pou pou` - pou` 321 ejn kateunastikou` moivra/ ejnkateunastikw`" moivria uJpotragw/dhvsa" ejn kateunastikw` moivria ejgkateunastikou` moivria 126 uJpotragw/dhvsw th/` eJorth`/ th;n eJorth;n (in textu); ejn kateunastikou` moivra/ uJpotragw/dhvsa" th/` eJorth`/ (in adn.) uJpotragw/dhvsw th/` eJorth`/ uJpotragwdhvsw th/` eJorth/` 328 neavnin nevan - nea`nin 329 mhv se mhv se - mhvqe 330 Kuqeivrh" Kuqeivrh" - Kuqeivrh" (in adn.) Kuqerivh" (in textu) 333 komavei koma/` (in adn.) kovma" (in textu) - komavei 334 ajnqevwn ajnavssei a[nqo" ajnapnevei (in adn.): ajnqevwn ajnaneuvei (in textu) - ajnqevwn ajnavssei 337 pefuvkoi pevfuken - pefuvkoi 339 duvnta h{lion ajnameivna" duvnatai h{lion ajnameivnein - duvnta h{lion ajnameivna" 342 ejpileivpoien ejpileivpomen - ejpileivpoien 127 Theodori Prodromi1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 textus VII (147 H.)1 Bivwn pra`si" poihtikw`n kai; politikw`n2 V, f. 64r; Th. p. 129 ZEUS To;;n me;n tovpon, w\ ÔErmh`, kai; ta; bavqra kai; th;n loiph;n tou` pwlhvtrou diaskeuh;n cqe;" eu\ poiou`nte" teteuvcamen kai; oujk a]n deutevra" hJmi`n dehvsei paraskeuh`". Nai; mevntoi oujde; tw/` khvrukiv soi polla; boa`n pro;" ajnavgkh" ejsei`tai3 , kalevsonti tou;" wjnhsomevnou": ajpevcrhse ga;r aujtoi`" to; cqizo;n ejpavggelma ajnti; tou` khruvgmato" kai; h[dh sunivasin o{ti polloiv. Loipo;n dei`4 tou`to kai; ou}" ajpokhruvttomen bivou" ajneipei`n toi`" ajgorastai`": oiJ me;n ga;r pro;" th;n cqe;" ajfewrakovte" ejpaggelivan ajgoraivou" wjnhvsasqai bivou" sunelhluvqasi, ⁄ V 64v wJ" e[k te tou` zwvsmato" kai; tw`n sandavlwn kai; th`" ajsbovlh" kai; tou` aujcmou` tekmhvrasqai e[peisin: hJmi`n de; Æpoihtikoi; kai; politikoi;Æ to; ajpokhrucqhsovmenon. ERMHS Kai; pw`" a[n, w\ pavter hJJmevtere, dunaivmhn pro;" ou{tw" ajgroivkou" kai; ejpieikw`" skapaneva" poiei`sqai to; khvrugma, ÔErmh`" te w[n… Pw`" de; kai; tw`n mevtrwn ou|toi sunhvsousin, oJpoi`a polla; uJpo; sou` keleuvomai rJayw/dei`n ejpi; toi`" khruvgmasin… ZEUS Oi\da", w\ ∆Argeifovnta, tiv pote poiei`n ejpetravph" pro;" tou;" ajgroikotevrou" qew`n, oJphnivka sunekklhsiavzein hJmi`n ajnavgkh ejkeivnou", oi|on to;n “Anoubin kai; th;n Bendi`n5 kai; to;n ÔRovdion Kolossovn: ejpikataneuvei" gavr, oi\mai, wJ" ta; polla; th/` ceiriv, oiJJ d∆ ejnteu`qen tou`` poihtevou6 aijsqavnontai. Tou`to de; kajntau`qa poivei, ejpiseivwn th;n ceivra kai; dianeuvwn wJ" to; ÉÉ Th. 130 eijkov", e[sti de;; a} kai; ejpikhruvttwn: sunelhluvqasi ga;r wJ" oJra`/" kaiv tine" ÔEllhvnwn ajmfi; toutoi>; to; koinwvnhma, oi{ sou kai; tou` khruvgmato" ejpaisqhvsontai. ERM. Bivou" poihtikou;" kai; politikou;" ajpokhruvttomen, w\ a[ndre" ”Ellhne", thvmeron: pavresqe ajgaqh/` tuvch/ wjnhsovmenoi. ZEUS ÔIkanw`" kekhvruktai. Loipo;n ejpishmhvnasqai dei` se kai; th/` ceiri; ta; kaqhvkonta pro;" tou;" ajgoraivou": eu\ ge: ajpelhluvqasi gavr. ERM. Poi`on ou\n, w\ devspota, bouvlei prw`ton katavgwmen7 … To;n eujgevneion ejkei`non to;n ejk tou` buzantivou h] to;n skuqrwpo;n toutoni; to;n ∆Iwnikovn… ZEUS Ouj me;n ou\n oujd∆ oJpovteron, ajll∆ ejkeinoni; to;n tuflo;n, to;n ÔEptavpolin, to;n ejpi; tw`n muvqwn. ”Hghsai dev oiJ kai; th`" oJdou`, eij mh; a[ra mavthn aujtw/` kai; hJgemovnio" ejpikevklhsai. ERM. ”Epou moi, w\ gevron, kai; sauto;n ejmpavrece toi`" wjnhsomevnoi". OMHROS ÔHgou`, Maiva" uiJev, diavktore ∆Argeifovnta: ejgw; dev soi kai; praqhsovmeno" e{yomai a[smeno": ouj gavr tina moi`ran fhmi; pefugmevnon e[mmenai a[ndra. ERM. ”Epou tavcion, ouj ga;r diatrivbein kairov". OM. Mh; tou`tov ge mavn, ∆Eriouvnie: bivh gavr moi levlutai, calepo;n dev me gh`ra" iJkavnei: hjpedano;" dev moi qeravpwn, bradeve" dev moi i{ppoi. ÉÉ Th. 131 ERM. Tiv d∆ oujci; ojye; gou`n pepauvsh/ ta; diavkena8 rJayw/dw`n… 1 Test.: V Edd.: Du Theil 1810, pp. 129-150; Podestà in Sanfilippo 1951-53, pp. 101-106 (sectio tantum a l. 314 su; de; oJ ajlazwvn usque ad l. 376 a[pite ajgaqh/` tuvch/) Vers.: italica Sanfilippo 1951-53, pp. 101-106 (sectio tantum supra dicta) Bibl.: Sanfilippo 1951-53, pp. 99-110; Malato-Marsili Feliciangeli 1962, pp. 49-60; Kazhdan 1984, pp. 43-51 2 inscr. tou` aujtou` [sc. tou` Prodrovmou] b. p. p. k. p. V || iuxta titulum in mg. dx. numerus appictus est kb— i. e. omnium Prodromi in V servatorum scriptorum XXII 3 ejsei`tai V: e[setai Th. 4 loipo;n dei` V: loipo;n dhv D’Alessandro 5 th;n Bendi`n scripsi: to;n Bevndin V 6 tou` poihtevou V: to; poihtevon Th. 7 katavgwmen scripsi: katavgomen V 127 OM. Tevknon ejmo;n poi`ovn se e[po" fuvge e[rko" ojdovntwn…46 47 48 49 50 51 52 53 54 55 56 57 58 59 60 61 62 63 64 65 66 67 68 69 70 71 72 73 74 75 76 77 78 79 80 81 82 83 84 85 86 87 88 89 90 91 92 93 94 95 96 Pw`" d∆ a]n e[peita lovgoio ejgw; qeivoio laqoivmhn o}" pevri me;n novon ejsti; brotw`n, pevri d∆ iJra; qeoi`sin ajqanavtoisin e[quse, toi; oujrano;n eujru;n e[cousin… AGORASTHS Tivna tou`ton a[gei" deuri; to;n tuflovn, w\ ∆Eriouvnie… ERM. Bivo" ou|to" oJ sofwvtato" aJpavntwn kai; qewrhtikwvtato". Tiv" to;n pantoi`on wjnei`tai… OM. ∆Epivmixon, w\ ÔErmh`, kaiv tina tw`n ejpw`n. ERM. ’O" e[gnw tav t∆ ejovnta tav t∆ ejssovmena prov t∆ ejovnta. AG. Kai; mh;n pollou` dehvsei qewrhvmwn9 tw`n ejsomevnwn ei\nai, w|/ mhde; tw`n o[ntwn ta; ejn posi;n ejxevstai oJra`n tuflwvttonti ⁄ ej" to; e[scaton: V, f. 65r wJ" eij mh; su;; aujto;n uJpesthvrize", th;n laia;n uJpoqeiv", tavca a]n oiJ kai; to; kranivon sumpodisqevnti katevagen. ERM. Eujfhvmei, w\ a[nqrwpe, mh; kai; lavqh/" a[gwn kata; th`" eJautou` kefalh`" ta; palamnaiovtata tw`n kakw`n, thlikou`ton eujergevthn qew`n blasfhmw`n: o}}" tw/` Dii; me;n ejkeivnw/ th;n aijgivda kai; to;n kerauno;n ejcarivsato, ejmoi; de; ta; ptera; tau`ta kai; th;n rJavbdon kai; ta;; cruvsea pevdila, ta;" leuka;" wjlevna" th/` ”Hra/, to;n de; kesto;n th/` ∆Afrodivth/, th/` de; ∆Aqhna``/ tou;" glaukou;" ojfqalmouv", th;n de; trivainan tw/` ∆Enosigaivw/ kai; ta; o{pla ÉÉ Th. 132 tw/`` “Arei>. ÔW" eij mh; ou|to" ajgaqh/` tuvch/ hJmi`n eu[nou" h\n, ejdiyw`men a]n kai; ejlimwvttomen ej" to; ajkribev", mhvte th`" ajmbrosiva" to; pollosto;n mhvte mivan kotuvlhn tou` nevktaro" e[conte": oujd∆ a]n ou[te oJ Ganumhvdh" ejw/nocovei ou[te oJ Puvqio" e[cra, para; touvtou daneizovmeno" tou;" crhsmouv", ou[te th;n thlikauvthn ajspivda tw/` ∆Acillei` oJ ”Hfaisto" ejtektaivneto, o{ te ”Hlio" ejpevzeuen a]n kai; th;n Klwqw; to; nh`ma ejpevleipe kai; oJ Cavrwn oujd∆ o{lw" wjbolostavtei. AG. Ei\ta oJ plousiwvtato" aJpavntwn ou|to" kai; megalodwrovtato" pro;" toi`" a[lloi" kai; th/` ∆Aqhna//` glaukou;" ejdwrhvsato ojfqalmouv", eJauto;n de; tuflo;n ou{tw periora/` kai; ajovmmaton… ERM. Eijkovtw", w\ xevne: kata; nou`n ga;r ou|to" kai; ouj kat∆ ai[sqhsin proh/vrhtai zh`n: wJ" eja;n oJra`n ejbouvleto10 , povsou" ojfqalmou;;" e[cein oi[ei to;n “Argou" o{lou" ojmmatou`nta pantacovse tou` swvmato"… jAfivhmi ga;r levgein, wJ" ajloifai`" tisi kai; botavnai" ajnakaqaivrein oi\de to; ojptiko;n, wJ"11 rJa/divw" diaginwvskein poiei`n hjme;n qeovn hjde; kai; a[ndra. AG. ÔHravklei": govhtav moi levgei" tina; kai; qaumatourgo;n a[nqrwpon. ERM. Kaivtoi to; mevgiston ou[pw ajkhvkoa". Ei[seai ga;r ajkouvsa" oi{hn ejk rJakevwn oJ gevrwn12 ejpigounivda faivnei. Ou|to" to;n ÔEllhniko;n ejkei`non sunaghvgerke nauvstaqmon kai; th;n i{ppon ejkeivnhn kai; tou;" basileva" ejkeivnou" kai; Troivan o{lhn ei|le movno": kai; to;n koruqaivolon aujto;" ajpektonw;" ”Ektora, tw/` th`" Qevtido" ejpigravfetai th;n megalourgivan. Toiou`to" de; w]n oujde; tou;" novmou" o{mw" ajgnoei` tou`" sumpotikouv". ∆All∆ oJte; me;n ejk passalovfin th;n ligei`an ajravmeno" fovrmigga, kleva ajndrw`n a[/dei, oJte; de; meta;; cei`ra" th;n perikalleva qevmeno" kivqarin, ajmf∆ “Areo" filovthto" eju>stefavnou t∆ ∆Afrodivth", moushgetei` kai; th`/ moivra/ eujqu;" ejpirayw/dei`: wJ" a[ra tou`ton ojfqalmw`n ÉÉ me;n a[merse, divdou de; glukeivan ajoidh;n. Th. 133 Ouj tau`ta de; movnon, ajlla; kai; puvkth" ejsti; kai; palaistriko;" kai; diskeuvein deh`san gumnastikwvtato": h]n de; kai; th;n ⁄ ∆Afrodivthn V, f. 65v ejporchvsasqai dehvsh/ tw/` povtw/, ejntau`qa oujd∆ a]n ÔErmh`" ejgw; peri; proagwgeiva" ejrivsai dunaivmhn tajndriv, o{sw/ kai; th;n gohteivan e[cei tou` e[rgou sunantilambanomevnhn aujtw/`. ’On me;n ga;r cruso;n poihvsei terastiwvtata, metameivya" th;n fuvsin, kai; ejpi; to;n kovlpon kaqhvsei th`" ejrwmevnh", o}n de;; tau`ron ejrgavsetai kaiv oiJ ejpi; tou` nwvtou... 8 diavkena Th.: diavkaina V 9 qewrhvmwn scripsi: qewrhvmasi V: qewrhmatikwvtato" Th. 10 ejbouvleto V: bouvlhtai Th. 11 wJ" V: kai; Th. 12 oJ gevrwn V: eJtevran Th. (fort. verbum perperam interpretatus) 128 ZEUS Sivga, w\ ÔErmh`, ta; toiau`ta, mh; kai; lavqh/" taujta; peisovmeno" tw/`` Tantavlw/, dia; th;n tw`n ajporrhvtwn eij" ajnqrwvpou" koinologivan. 97 98 99 100 101 102 103 104 105 106 107 108 109 110 111 112 113 114 115 116 117 118 119 120 121 122 123 124 125 126 127 128 129 130 131 132 133 134 135 136 137 138 139 140 141 142 ERM. Kai; mhvn, w\ Zeu`, oJ gevrwn ou|to" ejmou` a]n ei[h polu; dikaiovtero" ta;" eujquvna" uJpevcein, o}" ouj movnon to;n tau`ron kai; to;n crusovn, ajlla; kai; tou;" ajetou;" kai; tou;" kuvknou" kai; tou;" satuvrou" aujtoi`" toi`"13 rJJavmfesi kai; toi`" kevrasin uJpo; tai`" eJautou` difqevrai" ejnevgrayen. AG. Ei\en. ∆All∆ ejfei`tai, w\ ÔErmh`, kai; puqevsqai ti tou` govhto" touvtou h] oujd∆ ajpokrinei`sqai ajxiwvseien a[n, thlikou`to" w[n… ERM. ∆Efei`tai, nhv Diva, kai; polupragmonei`n. ÉÉ Th. 134 AG. “Age ou\n, w\ gevron, eijpev. Povqen e[fu" kai; tiv soi gevno" kai; tiv" hJ patriv"… OM. Ou[ toi ajpokrinou`mai ajrayw/dhvtw/14 ejovnti. AG. Su; de; ajlla; pro;" tou` e[pou" divdaxovn me, pw`" kai; ejcrh`n ejrhrothkevnai. OM. Tiv" povqen ei\" ajndrw`n… povqi toi povli" hjde; tokh`e"… ãAG.Ã15 Kai; dh; novmison ou{tw gev sou puqevsqai kai; o{qen e[fu" eijpev. ãOM.Ã16 ÔEpta; povlei" mavrnanq∆ iJerh;n dia; rJivzan ejmei`o: Smuvrna, Civo", Kolofwvn, ∆Iqavkh, Puvlo", “Argo", ∆Aqhvnh. AG. Pou` de; ejpaideuvqh"… OM. Kalliovph me divdaxe Dio;" tevko" ajrgikerauvnou. ÉÉ Th. 135 AG. ÔOpodapo;" de; th;n diavlekton ei\… OM. Pantodapov". ERM. ∆Hdivkhsa" to; e[po", a[riste poihtw`n, tou`to th`" ajpologiva" ajpolipw;n ajrayw/vdhton.17 OM. Su; de; ajllav moi to; ejllei`pon ajnaplhrwvsai"18 , lovgio" uJp∆ ejmou` ge wjnomasmevno", kai; wJ" tai`" pevnte dialevktoi" crw`mai martuvrai". ERM. Nu`n me;n tauvth/, nu`n d∆ ejkeivnh/ kai; eJkavsth/, wJ" ejpikaivrw". Tiv" gou`n h] ∆Empedoklh`" moi tou` e[rgou sunavrhtai19 , levgwn: h[dh gavr te genou`20 kourov" te kovrh21 te qavmno" t∆ oijwnov" te kai; eijn aJli; nhvcuto" ijcquv"ÃÃ… AG. Poi`on dev soi to; o[noma… OM. Kivklhskovn me ”Omhron path;r kai; povtnia mhvthr. AG. Ei\ta {Omhro" w]n ejlelhvqei" hjma`", ejgw; dev se mikrou` kai; ejpi; th/` muvlh/ a]n ejpriavmhn, i{n∆ ejkto;" th`" kaluvptra" ajlhvqh/" aujtovtuflo" w[n. ERM. Kai; mh;n oujde;; ajlhvqein soi; e[ti pro;" ajnavgkh" ejsei`tai, to;n a[riston toutoni; priamevnw/: rJa/diwvtata ga;r h] ej" tou;;" Kuvklwpav" se ajpagagwvn, a[sparta kai; ajnhvrota ejsqiven paraskeuavsei h] Oujlumpovnde ajnabibavsa" o{pou makavrwn e{do" ajsfale;" aijevn, a[fqiton, ou[te ciw;n22 ejpipivlnatai, ou[te o[mbrw/ deuvetai, tou` nevktarov" se potivsei kai; ejpisitivsei th`" ajmbrosiva". ⁄ V, f. 66r Eij de; kai; crusivou ejra`/", tavca kai; o{lou" soi Paktwlou;;" ejpi; ÉÉ Th. 136 th;n oijkivan uJdragwghvsei. To; de; dh; friktovn te kai; deinw`" teravstion, diav tinov" se nekuva"23 zwo;n ej" to;n Plouteva katavxei kai; fivlwn yuca;" katateqnewvtwn kai; aujth`" mhtro;" uJpodeivxetai kajkei`qen ta; ajpovrrhta telesqevnta kai; tw/` Qhvbhqen xuggenovmenon Teiresiva/ pavlin uJpe;r gh`" ajnagavgh/. AG. Eujkta; me;n kai; tau`ta: kai; tiv ga;r a[llo h] poihtika; ajgaqav… Plh;n ajll∆ ejgwv se, w\ qespevsie ”Omhre, tou`to pro; tw`n a[llwn ejroivmhn a[n: tiv potev soi to; poikivlon tou` mevtrou bouvletai kai; e[stin ou| mh; pro;" eJauto; sunw/dovn… ÔW" ejgw; 13 toi`" om. Th. 14 ajrayw/dhvtw/ V (etiam metri causa probandum): ajrrayw/dhvtw/ Th. 15 personae notam add. Th. 16 personae notam add. Th. 17 ajrayw/vdhton V (analogiae causa cum superiori probandum): ajrrayw/vdhton Th. 18 ajnaplhrwvsai" V: ajnaplhrwvsei" Th. 19 sunavrhtai V: xunavrhtai Th. 20 genou` scripsi: gevnou V 21 kovrh Th.: kouvrh V 22 ciw;n scripsi: cio;n V 23 nekuva" V: nekuiva" coniecerim 129 oujk e[stin o{sa kai; ejkkekwvfwmai24 uJpo; tw`n ajlastovrwn grammatikw`n, lagarouv" tina" kai; prokefavlou" kai; tou;", oujk oi\d∆ ei[ tine" 143 144 145 146 147 148 149 150 151 152 153 154 155 156 157 158 159 160 161 162 163 164 165 166 167 168 169 170 171 172 173 174 175 176 177 178 179 180 181 182 183 184 185 186 187 188 189 190 191 192 25 a]n kai; ei\en, meiouvrou" yucrologouvntwn. OM. Ouj ma; ga;r ∆Apovllwna Dii; fivlon, ouj sunivhmi tiv pote a[ra kai; levgousi ta; ojnovmata. AG. Paivzei" e[cwn: to; mevntoi Trw`e" d∆ ejrrivghsan, ejpei; i[don aijovlon o[fin: h\26 mh;;n kai; diovmnuntai meivouron ei\nai oiJ gennaiovtatoi tw`n grammatikw`n. OM. Ai] ga;r Zeu` te pavter kai; ∆Aqhnaivh kai; “Apollon: eij meivouron e[gnwka mh; ou\ro" ejmoi; foro;" a[oi: plhvqei d∆ ejmpelavwn ejsqlouv" te kakouv" te nohvsei". AG. OiJ de; th`" hJmevra" davktuloi kai; ta; pevpla povqen oiJ me;n rJodovente", ta; de; soi krokoventa ejxefavnhsan, th;n tw`n crwmavtwn ajntilhptikh;n e{xin ajnenevrghton e[conti, dia; th;n aijsqhvtrou27 phrovthta… OM. Ouj gavr moi brefovqen dnoferh; nuvx o[sse kavluyen: hjevlion t∆ e[drakon kai; rJododavktulon hjw`. ÉÉ Th. 137 AG. Ei\en. Povsou tou`ton, w\ ∆Argeifovnta, tima/`… ERM. Povsou me;n levgein to;n uJpevrtimon oujk ejcrh`n… Pevnte de; o{mw" lavbe talavntwn. AG. Pollou` fh/v", eij mh; kai; to;n hJghsovmenon aujtw/` th`" ojdou` xunewnh`sqai ajnavgkh. ERM. Ouj gavr: su; de; fanerw`" kimbikeuvh/ to;n plousiwvtaton privasqai ajxiw`n, mhde; tou`to xunieiv", wJ" pevnte movnwn talavntwn to;n pantoi`on ejwvnhsai, o}n kai; strathgo;n a]n scoivh" ejpi; polevmou: ajspi;" a[r∆ ajspivd∆ e[reide, kovru" kovrun, ajnevra d∆ ajnhvr. kai; dorufovron de; kai; toxovthn dev: ei{leto d∆ a[lkimon e[gco" ajkacmevnon ojxevi> calkw/`, tovx∆ w[moisin e[cwn ajmfhrefeva te farevtrhn: kai; trapezokovmon de; kai; oijnocovon dev: si``ton d∆ aijdoivh ⁄ tamivh parevqhke fevrousa, V, f. 66v ei[data povll∆ ejpiqei`sa, carizomevnh pareovntwn, kou`roi de; krhth`ra" ejpestevyanto potoi`o: kai; kiqarw/do;n de; kai; ijatro;n dev: oJ d∆ ajnebavlleto kalo;n ajeivdein: ejpi; d∆ h[pia favrmaka pavssen: h]n de; kai; sumbouleuvein dehvsh/, to;n eujfradevstaton: tou` kai; ajpo; glwvtth"28 mevlito" glukivwn rJeven aujdhv: h]n de; kai; khruvttein, to;n eujfwnovtaton: kevklutev meu, Trw`e" kai; eju>knhvmidh" ∆Acaioiv: h]n de; kai; basileu`sin ejpitima`n aJmartavnousi, to;n eujkardiwvtaton: ouj crh; pannuvcion eu{dein boulhfovron a[ndra, w|/ laoiv g∆29 ejpitetravfatai kai; tovssa mevmhlen. Eij de; kai; tevlo" aJmartovnta tinav soi tw`n oijketw`n kai; h] ojsta` paraqevnta kekalummevna th/` pimelh/` h] ta; ajpovrrhta ejkkaluvyanta h] ejrasqevnta th`" Crusoqrovnou kolavsai bouvloio ajnalovgw", oujkevti to;n ÉÉ dhvmion Th. 138 ajnayhlafhvsei": aujto;" ga;r ou|to" kai; ejpi; tou` Kaukavsou phvxetai to;n stauro;n kai; to;n guvpa metakalevsetai kerou`nta to; h|par kai; eij" mevshn wjqhvsei th;n livmnhn ejfj∆ ou{tw plousivoi" toi`" u{dasi diyhsovmenon kai; to;n livqon uJpe;r korufh`" aijwrhvsei kai; ejpi; tou` trocou` katadhvsetai. Tau`ta ouj pevnte soi tima`tai talavntwn… AG. Pavnu ti kai; wjnou`mai h[dh aujto;n tosou`tou. 24 oujk e[stin o{sa kai; ejkkekwvfwmai V: oujk e[stin ãeijpei`nà o{sa kai; ejkkekwvfwmai possis 25 oi\d∆ ei[ tine" V: oi\da tina" Th. 26 h\ scripsi: h] V 27 aijsqhvtrou V (cfr. pwlhvtrou l. 5): aijsqhthrivou Th. 28 glwvtth" V: glwvssh" Th. 29 g∆ V: t∆ Th. 130 ERM. ∆Aphmpovlhtai30 , w\ Zeu`, oJ ÔEptavpoli".193 194 195 196 197 198 199 200 201 202 203 204 205 206 207 208 209 210 211 212 213 214 215 216 217 218 219 220 221 222 223 224 225 226 227 228 229 230 231 232 233 234 235 236 237 238 239 240 241 ZEUS Povsou, w\ ÔErmh`… ERM. Pevnte talavntwn. ZEUS Tiv" oJ priavmeno"… ERM. ÔErmagovra" oJ ∆Aqhnai`o". ZEUS Gravfe tou`ton ejpi; th`" kuvrbew". ÔUmei`"31 me;n ou\n a[pite ajgaqh/` tuvch/, navrqhko" polu; prw`ton pacevo" ÔOmhvrw/ ajnadoqevnto", oJpoi`o" ejpi; tai`" Dionuvsou pompai`" uJpereivdei to;n Seilhnovn: a[topon ga;r a]n ei[h kai; ejpieikw`" ajcavriston qew`n mhdevna navrqhki gou`n ajmeivyasqai, eujwvnw/ pravgmati, to;n thlikouvtoi" dwvroi" hJma`" filofronhsavmenon. Su; dev, w\ ÔErmh`, to;n ∆Iwniko;n ejkei`non kavlei to;n ejpi; tw`n qraumavtwn. ERM. Katavbhqi, w\ suv, kai; toi`" ajnakrinou`sin ejmpavrece seautovn, plh;n o{pw" mh;, polla; kai; su; kata; to;n tuflo;n ejkei`non lhrw`n, to; plei`on uJpotevmh/32 th`" w{ra" tw/` prathrivw/. To;n koinwfelevstaton bivon pollw`n:33 swth;r ou|to" tw`n ajnqrwpivnwn ejsti; swmavtwn. AG. Papaiv, oJpovsh" ajpovzei th`" rJhtivnh" oJ a[nqrwpo". Tiv" de; w]n tugcavnei… ÉÉ Th. 139 ERM.34 Kw/`o" me;n th;n patrivda, th;n de; diavlekton “Iwn. Ta; de; a[lla touvtou aujtou` puqevsqai kavllion. AG. Mh; provteron, w\ ÔErmh`, pri;n to; ou\" uJpoqevnta" ajkou`sai, tiv pote kai; yavllein e[oiken uJpo; to;n ojdovnta. IPPOKRATHS ÔOkovsoisin nevoisin ejou`sin... AG. ÔHravklei": ∆Iwniko;" ajkribw`" oJ ajnhvr. ∆Alla; fevre, eijpev moi, makrev, poi`on tiv soi to; kata; tevcnhn ejnevrghma… IPP. ∆En ajllotrivh/si sumforh`/sin ijdiva" karpou`mai luvpa". ⁄ V, f. 67r AG. Kai; dh; sumpaqevstato" w]n hJma`" ejlelhvqei", ejpei; ajpov ge tou` kauth`ro" ejkeivnou kai; toutoui>; tou` xurivou, makellikwtevrw/ ma`llon ejw/vkei". IPP. Toutevoisi, xei`ne, pevpona farmakeuvw kai; kinevw mh; wjmav. AG. Kai; mh;n ou[pw ti kata; to;n Loxivan, w\ Kw/`e, ajposafei`": oi|" me;n ga;r provteron e[fhsqa, wJ" peri; sumpaqou`" tino" ejdivdw" dianoei`sqai sautou`, tov gev toi deuvteron foivbasma farmakeva sev tina ma`llon kai; sklhro;n parivsthsin a[nqrwpon, w{st∆ oujk oi\d∆ oJpotevrw/ a]n kai; qeivmhn35 tw`n ojnomavtwn, wJ" ejp∆ ajmfibovlw/ soi saleuvwn kai; nu`n me;n pollou` se timw`meno" dia; th;n sumpavqeian, nu`n de; dia; th;n farmakeivan tou` mhdenov". ÉÉ Th. 140 IPP. ∆Alla; th`" rJayw/diva" gou`n oujk a]n duvnaio mh; oujci; xunievnai oJkoi`on tou`to ajpofhnamevnh" peri; eJmou`: ijhtro;" ajnh;r pollw`n ajntavxio" a[llwn. AG. “Estw soi tau`ta. Dunaivmhn dev, w\ pollw`n ajntavxie, kai; aujto;" th;n ijatrikh;n36 telesqh`nai, h]n privwmaiv se, i{{n∆ ou{tw" ejxevstai kajmoiv pollw`n a[llwn ajntaxivw/ ei\nai… IPP. ÔW" polu; tou`to fh/;" kai; toi`si pleovnessin ajnqrwvpoisin oujci; ajkatovrqwton movnon, ajlla; kai; ajnevlpiston kai; ajnepiceivrhton: oJ me;n ga;r bivo" bracuv", hJ de; tevcnh makrhv, oJ de; kairo;" ojxuv", hJ de; pei`ra sfalerhv, hJJ de; krivsi" calephv. ”Omw" mevntoi toi`si polloi`si tw`n nu`n ijhtrw`n ejmfereva se poievein ouj calepovn: th`" me;n ga;r ejn toi`si sfugmoi`sin ajkribologivh" kai; toi`si ou[roisi diakrivsio" kai; toi`si puretoi`si diaforh`" pantavpasin ajmelhvsh/":37 pantodapw`n dev soi melhvsei xurivwn kai; dia; glwvtth" a[gein ta; plei`stav mou tw`n grammavtwn, qrasuvnesqaiv te pro;" tou;" pareovnta" kai; stwmuleuvesqai, xhrovthtav" te kai; yucrovthta" kai; u{la" kai; ei[dea kai; poiovthta" kai; posovthta" kai; ai[tia kai; sumptwvmata kai; 30 ajphmpovlhtai V2 : ajpempovlhtai V 31 uJmei`" Th.: hJmei`" V 32 uJpotevmh/ V: uJpotevmh/" Th. 33 utrum pollw`n an pwlw`n difficile lectu in V: pwlou`men Th. (vd. adn. ad lineam) 34 personae notam huc postposuit Th.: ante tiv"–tugcavnei habet V 35 kai; qeivmhn V: peiqoivmhn Th. 36 ijatrikh;n V: ijhtrikh;n Th. perperam 37 ajmelhvsh/" V: -sei" Th. 131 cumou;" kai; pavqh kai; tou;" tritaivou" kai; hJmitritaivou" kai; tou;" sunecei`" kai; tou;;" kauvsou" kai; sunovlw" ta; toiau`ta tw`n ojnomavtwn qama; tw/` lovgw/ pareiskuklevein. ‘Hn de; kai; metaklhqeivh" peri; nosevonta, th`" te cero;" a{yeai kai; ejn toi`si splavgcnoisi kaqhvsh/" 242 243 244 245 246 247 248 249 250 251 252 253 254 255 256 257 258 259 260 261 262 263 264 265 266 267 268 269 270 271 272 273 274 275 276 277 278 279 280 281 282 283 284 285 286 287 288 289 38 th;n dexia;n kai; peri; tou` splhno;" yucrorrhmonhvsh/"39 kai; ajperantologhvsh/"40 peri; tou` pneuvmono" kai; a{ma levgwn ejgkataseivsei" tw/` lovgw/ th;n kefalhvn. Flevba" mevntoi temei`" ajdew`", h[n te devh/ temei`n, h[n te kai; mhv: ejn de; th/`si tarach/`si th`" koilivh"41 kai; toi`sin ejmevtoisi to; prostuco;n ejnerghvsei", ejn toi`si te wjmoi`si kai; toi`si pepovnessin ajparathrhvtw" crhvsh/ th/` farmakeiva/: movnon ajpereuvgou ⁄ V, f. 67v ta; plei`sta mou tw`n ajforismw`n, ajparivqmee de; kai; ta;" ejpigrafa;" ÉÉ Th. 141 tw`n biblivwn. Ka]n hJ fuvsi" uJgiavshtai to;n nosevonta, sfetevrisai to; e[rgon kai; ejpi; tw/` pravgmati kovmpason: h]n de; hJJ sh; ajtecnivh polla;" ajnqrwvpwn yuca;" “Ai>di proi>avyh/, qavrsee: uJpo; ga;r qanou`si toi`sin ejlevgcoisin oujk a]n diagnwsqhvseai, oJkoi`o" h\sqa th;n ajmaqivhn. ãAG.Ã42 Qaumasta;; tau`ta fh/;" kai; ejpieikw`" eu[pora, wJ" wjnhvswmaiv se touvtwn ge e{neka. Povsou tou`ton, w\ ∆Argeifovnta, tima`/`… ERM. Mnw`n, w\ Podaleiriavdh, tettavrwn43 . AG. “Ecw tosouvtou labwvn. ERM. To; mevntoi xurivon kai; kauthvrion ouj sunaphmpovlhtai, tw/` ∆Asklhpiw/` pro;" eJspevran ajpacqhsovmena, ouj mevtria peri; touvtwn hJmi`n ejnoclhvsanti. AG. Mhdamw`", w\ ÔErmh`, wJ" eja;n tau`tav ge ajfevlh/", scolh/`` kai; tw`n duei`n priaivmhn to;n ijatrovn. ERM. Sunapeilhvfqwn44 kai; tau`ta, w{ste h[dh a[pite: a[llou" katabh`nai kairov". Katavbhton, u{mme, oJ kwmiko;" su; kai; oJ tragiko;" ejkei`no": su; de; prw`to", oJ kwmikov" ajlla; kai; to;n gevlwn ajpovrriyon kai; ta; skwvmmata kai; to; tracu; kai; to; au[qade". Tiv" ga;r a]n swfronw`n geloiasth;n oijkevthn kai; paivkthn privaito kai; sunovlw" ejpivtrimma ajgora`"… ARISTOFANHS ÔW" ajrgavleon pra`gm∆ ejstivn, w\ Zeu` kai; qeoiv, dou`lon genevsqai... ÉÉ Th. 142 ‘Hn ga;r ta; bevltisq∆ oJ qeravpwn levxa" tuvch/ dovxh/ de; mh; dra`n tau`ta tw/` kekthmevnw/, metevcein ajnavgkh to;n qeravponta tw`n kakw`n. AG. Kai; mh;n oujdeno;" e[ti ejx ejmou` metevsce"45 kakou`. AR. ∆Alla; metavscw ge: sklhro;n ga;r ejk tou` proswvpou fantavzomaiv se: oi\mai dev, nh; to;n oujranovn, kai; ywlovn se ei\nai. AG. Metavsch/" mevntoi, toiau`ta lhrw`n... AR. Ouj gavr me tupthvsei" stevfanon e[contav ge. AG. Kai; th`" aijwvra" de; uJperanarthvsw, i{na mavqh/" drapevth" w]n mh; a]n despovtou ejmparoinei`n. AR. Kevcoda tw/` devei, kevcoda. AG. Su; de; ajll∆ e[rre46 , miaro;" w[n: kavllion ga;r oi\mai tou` kla/vonto" ejkpuqevsqai touvtou. EURIPIDHS Pa/` bw`… Pa/` stw`… Pa/` kevlsw… AG. Drapevtou tau`ta ta; rJhvmata. EU. Oujk e[sti deino;n w|d∆ eijpei`n e[po" oujde; pavqo" oujde; xumfora; qehvlato", h|" oujk a]n a[roit∆ a[cqo" ajnqrwvpou fuvsi". AG. Tiv" ga;r se kateivlhfen, w\ a[nqrwpe, ⁄ sumforav… V, f. 68r 38 kaqhvsh/" V: kaqhvsa" Th. 39 yucrorrhmonevsh/" V: -sa" Th. 40 ajperantologevsh/" V: -sa" Th. 41 koilivh" V: koiliva" Th. 42 personae notam add. Th. 43 bis sententia repetitur in V 44 sunapeilhvfqwn V: -fqw Th. 45 metevsce" V: metevcei" Th. 46 e[rre Th.: e[re V 132 EU. Prw`ta mevn me tou[noma290 291 292 293 294 295 296 297 298 299 300 301 302 303 304 305 306 307 308 309 310 311 312 313 314 315 316 317 318 319 320 321 322 323 324 325 326 327 328 329 330 331 332 333 334 335 336 337 338 339 340 341 qanei`n ejra`n tivqhsin, oujk eijwqo;" o[n: ÉÉ Th. 143 e[peit∆ i[sw" a]n despotw`n wjmw`n frevna" tuvcoim∆ a[n, o{sti" ajrguvrou m∆ wjnhvsetai. ”Osti" ga;r oujk ei[wqe geuvesqai kakw`n fevrei mevn, ajlgei` d∆ aujcevn∆ ejntiqei;" zugw/`: qanw;n d∆ a]n ei[h ma`llon eujtucevstero" h] zw`n: to; ga;r zh`n mh; kalw`" mevga" povno". AG. Qavrrei tou`to to; mevro": i[sa gavr se kai; toi`" filtavtoi" ajgapwv/hn a[n. EU. «W pagkavkista cqovnia gh`" paideuvmata. AG. ÔOra`"… Oujk ajgaqa;" ajgaqw`n ajntidivdw" ta;" ajpokrivsei". EU. Fuvsei ga;r ejcqro;n to; dou`lon toi`" despovtai". AG. ∆Egw; gou`n oujk ej" tosou`ton Melitivdh" a]n ei[hn kai; Kovroibo", wJ" eJautw/` polevmion privasqai, eij mh; kaq∆ eJautou` th;n mavcairan ejxeurivskein mevlloimi, kata; th;n ai\ga th`" paroimiva", w{ste sautw/` oi[mwze tou` loipou`. ETEROS AG. ∆All∆ e[gwge, w\ ÔErmh`, to;n a[cri" ãtouvtouà uJmi`n47 a[praton wjnhvsomai tou`ton, kataqrhnhvsontav mou tou` qugatrivou mikrou` pro; tauvth" hJmerw`n ejk mevswn tw`n nunfwvnwn ajnhrpasmevnou. ÉÉ Th. 144 ERM. Nh; Diva kai; aujtov soi th`" filtavth" to; ei[dwlon uJpe;r kefalh`" parasthvsonta, levgon h{kein nekrw`n keuqmnw`na kai; skovtou puvla" lipovn. ãET.à AG.48 AG. Povsou tou`ton ajpokhruvttei"… ERM. Mnw`n duei`n. ãET.à AG.49 AG. Kai; mh;n ejmoi; ma`llon e[dei doqh`nai ta;" mna`" ejx uJJmw`n tautasiv, tou` Æai] ai]Æ kai; tou` Æw[ moiv moiÆ kai; tou` Æijw; ijwvÆ kai; tw`n a[llwn tw`n toiouvtwn uJma`" ajpallavxonti. ”Omw" e[cw tosouvtou labwvn, ei[ moi movnon to; ei[dwlon parasthvsein ejpaggevlletai th`" paidov". ERM. ÔRa/vdion tou`tov ge kai; parevpetaiv soi o{son oujdevpw to; kovrion, gumnh/` th/` yuch/`, kruvptous∆ a} kruvptein o[mmat∆ ajrsevnwn crewvn. ∆All∆ h[dh a[pite kai; oi[koi aujto;n ajnavkrine ta; loipav. Su; de; oJ ajlazwvn, oJ ajpo; th`" ÔRwvmh", katavbaine. Bivo" ou|to" oJ dikaiovtato" kai; politikwvtato". Tiv" wjnei`tai to;n nomoqevthn… Tiv" eujdokimei`n ejpi; dikaspoleivwn ejqevlei… AG. Kai; tiv se, w\ ÔRwmai`e, eijdevnai fai`men…50 POMPWNIOS Levge.51 AG. ∆All∆ ejgw; h[dh ei\pon, se; de; loipo;n ajpokrinei`sqai kairov". ERM. Ouj ga;r th`" fwnh`", w\ xevne, sunh`ka", ”Ellhn w[n. ÔO dev soi novmon eijdevnai fhsivn: novmo" ga;r to; ÆlevgeÆ para; ÔRwmaivoi". AG. Eu\ ge poiei`", w\ lovgie, ta; uJpoduvskola tau`ta kai; deinw`" barbarika; ejxhgouvmeno" kavllion h] o{loi Provkloi tou;" ∆Alkibiavda" kai; tou;" Timaivou". Pw`" de; kai; kalei`sqaiv se ajxiwvsomen, w\ nomoqevta… ÉÉ Th. 145 PO. Pompwvnih novmhne. AG. Fevre, w\ ejxhghtw`n gennaiovtate, ajposavfei kai; ta; loipa; tou` Loxivou. ERM. Pompwvniov" soi ⁄ V, f. 68v kalei`sqai fhsiv: ÔRwvmh" de; qugavthr hJ klh`si". AG. Favqi dhv, w\ Pompwvnie: tiv moi priamevnw/ se crhsimeuvsei"… ]H ma`llon aujto;" ajpovkrinai, ∆Argeifovnta, th;n levxin metafevrwn ej" to; ÔEllhnikovn, kata; to;n novmon to;n eJrmhnevwn. ERM. Qavrrei: kai; ∆Attikh`" ga;r oujk ajpaivdeuto" Mouvsh" oJ nomoqevth", ajlla; braculogiva" cavrin th;n ÔRwmai>vda metadiwvkei kai; a{ma sevbwn ta; pavtria. ÉÉ Th. 146 AG. Tiv moi gou`n crhsimeuvsei", w\ pantoi`e suv, kai; tiv soi crhsaivmhn ejwnhmevno"… PO. Perivblepton mevn se poihvsw th`/ povlei: crusivon dev soi porivsw pavnu poluv. AG. Povqen, w\ eJJtai`re, penevsth" w[n… Eij mh;52 par∆ ÔErmh`/ toutw/i>; th;n kleptikh;n ejtelevsqh"... 47 a[cri" ãtouvtouà uJmi`n addidi emendavique: a[cri" hJmi`n V 48 e{tero" add. 49 e{tero" add. 50 fai`men V: faivhmen Th. 51 levge V, Podestà: levge" vel levgem Th. (in adn. dub.) 133 PO. Kai; mh;n pollou`` klwpiteuvein dehvsei tw``/ tou;" poinivmou" novmou" qemevnw/ kata; kleptw`n kai; peri; th`" fouvrti ta; eijkovta filosofhvsanti. Su; de; skwvptei" ajnafanda; kaivtoi dedievnai e[dei, mhv se kai; famovssou 342 343 344 345 346 347 348 349 350 351 352 353 354 355 356 357 358 359 360 361 362 363 364 365 366 367 368 369 370 371 372 373 374 375 376 377 378 379 380 381 382 383 384 385 386 387 388 389 53 grayaivmhn para; toi`" krivnousi. ERM. ∆All∆ oujd∆ hJmei`" ajxuvnetoi novmwn, w\ nomoqevta, wJ" douvlw/ pisteuvein lalou`nti kata; despovtou, eij mh; a[ra kai; basanivsanta" crh; prw`ton, e[peita mevntoi to; kathgovrhma paradevcesqai. PO. Nh; Div∆, ojnaivmhn a]n th`" nomoqesiva", eij kai; mavstiga" uJpevcein mevlloimi kata; drapetivskon aJlwvnhton.54 AG. Su; de; ajll∆ eijpev moi, tivna55 dh; kai; ejnerghsavmeno" ejn eujporiva/ tou` tosouvtou genoivmhn crusou`… PO. ÔW" pavnu safh` kai; eu[pora kai; mikrav. Prw`ta me;n ga;r ejkmavqh/" ÉÉ Th. 147 a[tta dh; tw`n kaq∆ hJma`" oJnomavtwn, oi|on th;n bevrbi", th;n konsevnso, to;n56 kondiktivkion kaiv tina" a[lla" tw`n ajpo; ÔRwvmh" fwnw`n, touv" te kouravtwra" kai; tou;" prokouravtwra" kai; tou;" ijmfavnti kai; tou;" poubertavti, tou;" ajpeleuqevrou" e[ti ge mh;n kai; tou;" pavtrwna": kai; meta; tw`n toiouvtwn o{plwn ejpi; dikaspolei`a cwrhvsei". Memnhvsh/ mevntoi kai; libevllwn kai; o{rkwn kai; tou` proceirotavtou touvtou th`" ejkklhvtou ojnovmato". Kai; tau`ta, eu\ i[sqi, crusou` mevn soi plivnqou" o{la", wJ" tw/` Puqivw/, parevxetai kai; stola;" kai; oi[kou" kai; i{ppou" kai; hJmiovnou" kai; ejn ajkarei` Kroi`sovn se a[llon h]57 Mivdan ajnti; toutoui>; tou` penomevnou ejrgavsetai. Movnon hJJ ajnaiscuntiva prohgeivsqw kai; eJpevsqw hJ fluariva kai; sumparomarteivtw hJ stwmuliva kai; fqevgma tracu; kai; a[ntikru" melagcolw`nto"58 katavsthma kai; ejmbau>vzein tw/` sunedrivw/ kai; o{la" aJmavxa" loidoriw`n katacei`n tou` ajntidikou`nto": ejnivote de; kai; ejmphda`n tw`/ prosdialegomevnw/ kata; proswvpou, wJ" aJrpavsantav oiJ to; provsqion th`" rJJino;" kai; ou{tw nika`n dokei`n kai; ajpievnai meta; fushvmato". Tau`ta me;n ou\n toiau`ta: ta; ga;r dh; krufiwvtera th`" tevcnh" kai; mustikwvtera, o{sa peri; misqwvsewvn te kai; ⁄ V, f. 69r ejkmisqwvsewn kai; pravsewn kai; koinwniw`n douvlwn te aijtivwn... AG. Tau`ta me;n ej" tou[mprosqevn me, w\ nomoqevta, mustagwghvsei". Th;n mevntoi peri; w|n e[fh" douvlwn aijtivwn didaskalivan, ajnavgkh mh; uJperqevsqai tanu`n, i{na polu; provteron ejpi; sou`59 toi`" didacqei`sin ajpocrhsaivmhn kai; mh; a[n se povrrw nomikh`" ajkribologiva" ajnakrinoivmhn. ERM. “Ea tau`ta kai; labw;n ajnavkrine oi[kade, wJ" ejavn ti tw`n novmoi" ajpeirhmevnwn aijtivwn nosoivh Pompwvnio", ejxei`naiv soi mevcri kai; tou` ejsau`qi" prathrivou, fulokrinou`nti to;n a[nqrwpon, ei\ta eij" hJma`" poiei`sqai palivmpemton, mhde;n ejnteu`qen prokrimatizomevnw/. AG. Kai; dh; povsou tou`ton tima/`… EMR. Mna`" pro;" th/`` hJJmivsei mia`". AG. “Ecw labwvn, plh;n o{pw" kai; ta; uJpeschmevna fulavxaio. ÉÉ Th. 148 ERM. “Apite ajgaqh/` tuvch/. ÔO rJhvtwr katavbhqi. Bivo" ou|to", w\ a[ndre", dhmwfelh;" kai; politiko;" kajdelfo;" ta; pavnta tw`/ nomoqevth/, plh;n o{pw" ouj mixevllhn ejsti; kat∆ ejkei`non, ajlla; kaqarw`" ∆Attiko;" kai; mevno" pnevwn ∆Aqhnaivou purov". AG. Tiv" de; dh; tugcavnei w]n kai; tivsi tou`ton e[cei" ajposemnuvnein… ERM. Polivth" me;n ∆Aqhnaivwn60 kai; tou` dhvmou Paianieuv", drimuvtato" de; dikavsasqai kai; piqanwvtato" sumbouleuvsasqai, tw`n te eJautou` ejcqrw`n kathgorh`sai baruvtato" kai; eJautw/` ta; pavnsemna ejpimartuvrasqai ajoknovtato". Ouj mevtria de; kai; th;n patrivda, ta;" ∆Aqhvna", wjfevlhken: ejk ga;r th`" Eujboiva" oJ basileu;" ejxhlavqh Fivlippo" toi`" me;n o{ploi" uJp∆ ∆Aqhnaivwn, th/` de; politeiva/ kai; 52 post mhv coniunctionem kaiv add. Th. 53 famovssou V: famwvssou Th., Podestà in adn. 54 aJlwvnhton Th.: ajlwvnhton V 55 tivna V: tiv Podestà 56 tovn V2 : thvn V 57 h] V: kai; Th., Podestà 58 melagcolw`nto" V, supra cuius litterae w accentum, parvissimum compendium pro ou scriptum manet 59 sou` V2 , Th.: soi; V1 60 ajqhnaivwn V: ajqhnai`o" Th. 134 toi`" yhfivsmasi, ka]n diarragw`siv tine", uJp∆ aujtou`. ∆Alla; kai; oJ bohqhvsa" toi`" Buzantivoi" kai; swvsa" aujtou;" kai; kwluvsa" to;n ÔEllhvsponton ajpallotriwqh`nai kat∆ ejkeivnou" tou;" crovnou" oujk a[llo" h] ou|to", oJ th/` povlei levgwn kai; pravttwn kai; gravfwn kai; aJplw`" auJto;n eij" ta; pravgmata ajfeidw`" didouv". Kai; hJ povli" de; di∆ oujdevna ejstefavnwtai a[llon, suvmboulon levgw kai; rJhvtora, h] dia; tou`ton. Eij de; kai; prevsbun aujto;n oJ dh`mo" ceirotonhvsei, oujdeno;" a]n tw`n aJpavntwn 390 391 392 393 394 395 396 397 398 399 400 401 402 403 404 405 406 407 408 409 410 411 412 413 414 415 416 417 418 419 420 421 422 423 424 425 426 427 428 429 430 431 432 433 434 435 436 437 438 439 61 kataprovhtai to; filovpatri kai; th;n tw`n ∆Aqhnaivwn ejleuqerivan oujd∆ a]n o{lou" aujtw/` qhmw`na" crusivou62 fevrwn didoivh Fivlippo". Blasfhmei` de; oJ levgwn peri; aujtou`, wJ" siwpa/` me;n labwvn, boa`/ d∆ ajnalwvsa": movli" ga;r kai; touti; to; faskwvlion crusivou plh`re" labei`n ejpeivsqh, dovnto" tou` Makedovno". AG. Papaiv, ajkatadouvlwtovn ti levgei" to; crh`ma kai; deinw`" ejleuvqeron: oJ de; a[ra crusou`" ouJtosi; stevfano" tiv pote aujtw/` bouvletai th;n kefalh;n perikeivmeno"… ÉÉ Th. 149 DHMOSQENHS ÔH povli" ejstefavnwsev me, Dionusivwn ajgomevnwn, Kthsifw`nto" tou` Lewsqevnou" ∆Anaflustivou dovnto" th;n gnwvmhn: ããÔW" a[ra dei`` stefanw`sai Dhmosqevnh63 Dhmosqevnou" Paianieva ⁄ V, f. 69v ajreth`" e{neka kai; eujnoiva", h|" e[cwn diatelei` ei[" te tou;" ”Ellhna" a{panta" kai; to;n dh`mon tw`n ∆Aqhnaivwn ajndragaqiva" cavrin, kai; o{ti diatelei` pravttwn kai; levgwn ta; bevltista tw/` dhvmw/ÃÃ: tauvth/ moi oJ stevfano" devdotai. Kalw` de; tou;" qeou;" a{panta" kai; aJpavsa" kai; to;n dh`mon tw`n ∆Aqhnaivwn64 kai; to;n ∆Apovllw to;n Puvqion, o{" patrw/`ov" ejstin ∆Aqhvnhsi, kai; ejpeuvcomai pa`si touvtoi", eij me;n ajlhqh` tau`ta pro;" se; ei\pon, eujtucivan moi dou`nai kai; swthrivan: eij de; toujnantivon a{pan, pavntwn tw`n ajgaqw`n ajnovnhtovn me poih`sai. AG. Gennai`a sou tau`ta, w\ rJh`tor, kai; ejpieikw`" ajndrikav. ERM. Tiv dev… ÔOpoi`o" tiv" ejsti ta; polemika; ajgnoei`". AG. Pavnu me;n ou\n. ERM. ∆All∆ eu\ i[sqi to;n ajlkimwvtaton wjnouvmeno" stratiwvthn, o}" kai; aujth;;n ajporrivya" th;n ajspivda, pro; tw`n loipw`n tacu; ta;" th`" povlew" puvla" ajnaptuvxeien a[n. AG. Cavrien tou`to levgei", ei[per, leipotaxivou to;n a[ndra grafovmeno" kai; deinw`" rJivyaspin ojnomavzwn, e[peita tw`/ tou` stratiwvtou aujto;n ajposemnuvnei" ojnovmati kai; touvtou ge tou` ajlkimwtavtou. ÉÉ Th. 150 ERM. Ouj ga;r hjkroavsw aujtou` pro;" th;n povlin ajndrei`a a[tta gnwmologou`nto", wJ" a[ra ããpevra" me;n a{pasin ajnqrwvpoi" ejsti; tou` bivou qavnato", ka]n ejn oijkivskw/ ti" auJto;n65 kaqeivrxa" thrh/`. Dei` de; tou;" ajgaqou;" a[ndra" ejgceirei`n me;n a{pasin ajei; toi`" kaloi`", th;n ajgaqh;n proballomevnou" ejlpivda, fevrein d∆ o{ ti a]n oJ qeo;" didw/` gennaivw"ÃÃ. Tau`tav soi ouj megalovyuca kai; hJrwi>ka; kai; ajtecnw`" “Areo" rJhvmata… AG. Pavnu ti. ∆Egw; d∆, oujk oi\d∆ o{pw", oujk eu[kolov" eijmi peivqesqai lovgoi" to;n stratiwvthn ceirotonei`n, mhde; a]n ceiri; kai; tovlmh/. Povsou de; o{mw" ajpokhruvttei" to;n stratiwvthn… ERM. ÔOpovsou ge kai; to;n nomoqevthn. AG. Katabavllw kai; lavmbane. DHM. «W dhmokrativa kai; novmoi66 , periairei` mou th`" kefalh`" th;n stefavnhn oJ iJerovsulo", di∆ h|" oJ dh`mo" ejstefavnwsev me kai; hJ boulh; ejn Dionusivoi". ÔHravklei", w\ a[ndre" ∆Aqhnai`oi, wJ" sunafairei`tai kai; to; faskwvlion. AG. ‘W th`" ajnaiscuntiva", touvtou" ejkeivnou" ajnaboa/`", ou}" tosouvtou Filivppw/ prodevdwka"… DHM. Nh; Div∆, ou}" ejxeswsavmhn Filivppou. ZEUS Tau`ta, w\ Dhmovsqene", ∆Aqhvnhsiv se dikomacou``nta levgein ejcrh`n, nu`n de; h[dh ga;r pevprasai, uJpeikavqein a[n soi kavllion ei[h tw/` priamevnw/, w{sq∆ uJmi`n67 me;n 61 aJpavntwn Th.: aJ....wn V, atramenti maculae causa 62 qhmw`na" crusivou Th., quae verba rasurae causa vix legi possunt in V 63 Dhmosqhvnh V: -hn Th., Demosthenis mss. secutus 64 post hoc verbum ajndragaqiva" cavrin recte secl. scriba 65 auJtovn scripsi, Demosthenis mss. secutus: aujtovn V 66 w|-novmoi post personae notam traieci: ante p. n. habet V 67 uJmi`n Th.: hJmi`n V 135 ajpiteva tw`n ejnqadiv. ÔHmei`" de;, w| ÔErmh`, ajnivwmen h[dh para; to;n “Olumpon, th`" ajmbrosiva" ajpotragou`nte" kai; tou` nevktaro" ejkrofhvsonte". To;n mevntoi clidw`nta tou`ton to;n eujpavrufon, to;n ejpi; tw`n muvrwn, w|/ Kuvkukno" 440 441 442 443 444 68 toujpivklhn, dia; dh`qen to; mousiko;n eij" nevwta fulavxasqai a[meinon, toi`" ajgoraivoi" bivoi" sunempolhqhsovmenon. 68 kuvkuvkno" (sic) V 136 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 46 47 Traduzione di 147 H.  Vendita all’asta di vite di poeti e politici    ZEUS Ieri, Ermes, abbiamo allestito con cura il luogo, gli scanni e tutti gli altri preparativi  del mercato; pertanto non ci servirà un secondo preparativo. Già, neanche a te, che fai il  banditore,  toccherà  per  forza  gridare  molto,  chiamando  gli  acquirenti:  è  bastato  loro  l’annuncio  di  ieri  al  posto  del  bando  e  ormai  lo  capisce  il  maggior  numero  di  persone.  Resta questo da fare: notificare agli acquirenti le vite che vendiamo all’asta; essi, infatti,  sono venuti qui insieme a comprare vite di mercanti, tenendo sotto gli occhi l’annuncio di  ieri,  come  viene  in  mente  di  dedurre  dalla  cintura,  dai  sandali,  dalla  fuliggine  e  dal  sudiciume. Il nostro imminente bando di vendita sarà “vite di poeti e di politici”.  ERMES E come potrei, o padre nostro, proclamare il bando a contadinotti tali e piuttosto  villici, io che sono Ermes? Come faranno questi a capire i metri poetici, che io devo per tuo  ordine recitare in quantità ai bandi?  ZEUS Tu sai, o Argifonte, cosa mai ti fu affidato di fare verso gli dèi più villici, quando ci  tocca convocarli alla nostra assemblea, dèi come Anubi, Bendi e il colosso di Rodi: tu fai  per lo più cenni aggiuntivi con la mano e quelli da lì afferrano al volo cosa va fatto. Fa’  dunque  lo  stesso  anche  qui,  scuotendo  la  mano,  mandando  cenni  convenienti  e  anche  proclamando  qualcosina.  Come  vedi  sono  accorsi  anche  alcuni  Greci  intorno  a  questo  raduno qui: essi comprenderanno il tuo bando.  ERM. Oggi, cari clienti greci, mettiamo all’asta vite di poeti e di politici: venite a comprare!  Che la fortuna vi assista!  ZEUS  Bene:  il  bando  è  sufficiente.  Ti  resta  da fare  un  po’  di  segnalazioni  adatte  con  la  mano alle vite dei mercanti. Ecco, così va bene; se ne sono andate.  ERM.    Chi  vuoi  dunque,  o  padrone,  che  facciamo  scendere  per  primo?  Quell’uomo  di  Bisanzio dalla bella barba o questo Ione qui abbattuto?  ZEUS No, anzi: nessuno dei due; ma via, facciamo quel cieco lì, il Settecittà, il segretario  preposto  ai  racconti  mitici.  Guidalo  per  la  strada;  se  no  lui  ti  ha  chiamato  “guida”  per  niente.  ERM. Seguimi, vecchio, e presentati agli acquirenti.  OMERO     Guidami, figlio di Maia, messaggier Argifonte:   io ti seguirò di buon grado, sia pur per esser venduto:         ché niun de’ mortali, il dico, il fato suo fuggì.  ERM. Seguimi più veloce: non è tempo d’indugiare!  OM. No, questo no, o Soccorritore!         Ché mi si sciolse la possa e dura vecchiezza mi giunge,         lasso è il mio pallafrenier, pigri son li miei corsieri!  ERM. La vuoi smettere una buona volta di poetar versi vani?  OM.            Qual ti fuggì, figliolo, de la chiostra de’ denti motto!      Come io poscia divina potrëi parola oblïare,      che sulla mente mortale s’erge e compì sacrifici      agl’immortali numi, che l’ampio tengono cielo?  MERCANTE Chi è ’sto cieco che conduci qui, o Soccorritore?  ERM.  Questa  è  la  vita  più  saggia  di  tutte,  la  più  speculativa!  Chi  comprerà  l’uomo  di  multiforme ingegno?  OM. Mescola un po’, Ermes, qualche verso!  ERM.      Il qual conobbe il presente, il futuro ed il passato!  137 48 49 50 51 52 53 54 55 56 57 58 59 60 61 62 63 64 65 66 67 68 69 70 71 72 73 74 75 76 77 78 79 80 81 82 83 84 85 86 87 88 89 90 91 92 93 94 95 MER. Mi pare ben lungi dallo speculare il futuro uno a cui non riesce di vedere nemmeno  quello che ha fra i piedi, cieco come una talpa qual è! Perché, se tu non l’avessi sorretto,  mettendogli  sotto  la  sinistra,  forse  si  sarebbe  spaccato  pure  la  zucca  coi  suoi  piedi  impacciati!  ERM.  Taci,  uomo,  e  bada  di  non  attirare  sul  tuo  capo  i  mali  più  scellerati,  senza  accorgertene, vituperando un sì gran benefattore di dèi! Egli infatti elargì a Zeus, quello là,  l’egida e il fulmine, a me queste ali, il caduceo e gli aurei calzari, ad Era le bianche braccia,  ad Afrodite il cinto trapunto, ad Atena gli occhi azzurri, allo scotitor della terra Posidone il  tridente,  ad  Ares  le  armi;  tanto  che,  se  costui  non  fosse  stato  per  fortuna  benevolo  nei  nostri confronti, saremmo morti di sete e di fame per l’appunto, senza la benché minima  porzione di ambrosia e senza nemmeno una tazza di nettare; e neppure Ganimede sarebbe  coppiere,  né  Apollo  Pizio  vaticinerebbe,  prendendo  in  prestito  i  vaticini  da  costui;  né  Efesto avrebbe fabbricato ad Achille sì bel brocchiere; e il Sole sarebbe andato a piedi e lo  stame  avrebbe  abbandonato  Cloto  e  Caronte  non  avrebbe  affatto  soppesato  a  usura  gli  oboli!  MER. E dunque costui, che è il più ricco di tutti e il più munifico verso gli altri e che ha  elargito persino occhi azzurri ad Atena, tollera di essere egli stesso cieco e senza vista?  ERM. Naturalmente, straniero: costui ha preferito vivere secondo intelletto e non secondo  percezione sensibile; cosicché, se volesse vedere, quanti occhi pensi che avrebbe colui che  ha fatto occhiuti in tutte le parti del corpo tutti gli Argo? Per non parlare, poi, di come  sappia ripulire la vista con certi unguenti e piante, di come faccia riconoscere facilmente  un nume e pure un uomo.  MER. Per Eracle: tu me lo presenti come un mago e un uomo miracoloso!  ERM. Eppure non hai ancora udito la qualità più prodigiosa! Saprai, infatti, per sentito  dire,         qual coscia il vecchio mostri di sotto i propri cenci!   Costui radunò quella famosa flotta e quella famosa cavalleria e quei famosi re e distrusse  da solo Troia intera; e dopo aver ucciso di propria mano d’eccelso elmetto agitator Ettorre,  ascrive la coraggiosa impresa al figliuol di Teti. Queste sono le sue caratteristiche; ma egli  non ignora nemmeno le regole del simposio: ora stacca dal chiodo la sonora cetra e canta le  gesta degli eroi; ora tenendo in mano la bellissima lira         gli amori di Gradivo e di Ciprigna bella corona  guida le Muse come un Apollo e subito recita una raspodia sul destino; ché se lui         delle luci privò, diedegli invece il dolce canto.  Ma non c’è solo questo: è un pugilatore e un ginnasta di palestra e, se occorre lanciare il  disco,  il  più  atletico  in  assoluto;  e  se  bisogna  che  anche  Afrodite  danzi  durante  il  banchetto,  allora  nemmeno  io  che  sono  Ermes  potrei  contendere  con  quell’uomo  in  seduzione,  tanta  è  la  malìa  del  gesto  che  gli  viene  in  aiuto!  L’oro  che  produrrà  miracolosamente, scambiando la natura, e lascerà cadere in grembo all’amata; e il toro che  fabbricherà e sul dorso...  ZEUS  Taci,  Ermes,  questo:  che  non  ti  capiti  di  far  la  stessa  fine  di  Tantalo  senza  accorgertene, a furia di intrattenerti con gli uomini su argomenti segreti!  ERM.  Eppure  sarebbe  molto  più  giusto  che  fosse  questo  vecchio  a  venire  alla  resa  dei  conti,  non  io;  egli  che  ha  registrato  nelle  sue  carte  non  solo  il  toro  e  l’oro,  ma  anche  le  aquile e i cigni e i satiri con i loro becchi e i loro corni!  MER. Bene. Ma è permesso pure chiedere qualcosa a questo mago o non si degnerebbe  nemmeno di rispondere, importante com’è?  ERM. Per Zeus, certo che è permesso curiosare!  138 96 97 98 99 100 101 102 103 104 105 106 107 108 109 110 111 112 113 114 115 116 117 118 119 120 121 122 123 124 125 126 127 128 129 130 131 132 133 134 135 136 137 138 139 140 141 142 MER. Su, dunque, vecchio, parla! Donde vieni? Qual è la tua stirpe? E la tua patria?  OME.      Mai responso darotti, se non me lo chiedi in verso!  MER. Ma insegnami tu, in nome del verso, come bisognava chiedere.  OM.       Donde sei tu di tra gli umani? Dove parenti e cittade?  MER. E allora tieni conto che io ti abbia così interrogato e dimmi da dove vieni!       Sette città si contendon la mia sacra radice:        Smirne, Chiòs, Colofone, Itaca, Pilo, Argo, Atene.  MER. E dove fosti educato?  OM.       Calliopé mi istruì, prole di Zeus balenante.  MER. E quanto a dialetto, di che regione sei?  OM. Di tutte.  MER. Hai fatto torto al verso, ottimo poeta, lasciando questa parte di difesa non recitata!  OM. Colmami tu quel che manca, che fosti da me appellato facondo, e testimonia che mi  servo di cinque dialetti.  ERM.  Or  di  questo,  or  di  quello,  or  d’ognuno,  come  è  giusto.  Chi  dunque  se  non  Empedocle dovrebbe assistermi nell’opera, il quale dice:               ormai sii fanciullo e fanciulla        pruno e uccello e nel mare pesce che nuota tra i flutti?  MER. Qual è il tuo nome?  OM.       Chiamanmi Omero il padre e la veneranda madre.  MER. E noi non ci siamo accorti che sei Omero! Pensa: poco mancava che ti comprassi per  metterti alla macina e farti macinare senza la benda, tu che sei cieco di natura!  ERM. Eppure non sarai più costretto a macinare, tu che compri quest’ottimo uomo qui; o  conducendoti  facilissimamente  lontano  nella  terra  dei  Ciclopi  ti  procurerà  da  mangiare  cibi non seminati né arati; oppure, facendoti salire sull’Olimpo,         ov’ è de’ beati il seggio sempre inconcusso        né la neve il ricuopre   né piova il bagna, ti disseterà con il nettare e ti pascerà d’ambrosia. E se hai pure un debole  per l’oro, in un batter d’occhio ti devierà tutti i Pattòli in casa. Poi, cosa che fa davvero  rabbrividire  e  appare  terribilmente  prodigiosa,  con  una  evocazione  dei  morti  ti  farà  scendere vivo fino a Plutone e ti mostrerà le anime dei cari defunti, persino della tua stessa  madre;  e,  dopo  averti  iniziato  ai  misteri  segreti  e  fatto  incontrare  il  tebano  Tiresia,  da  laggiù ti riporterà in superficie.  MER. Anche questo è desiderabile; ma che altro è se non una bellezza poetica? Tuttavia  vorrei  chiederti questo anzitutto, divino Omero: che mai significa la varietà del tuo metro  e la sua non concordanza con sé stesso in alcuni punti? Infatti non si può dire quanto io sia  stato assordato dai maligni grammatici, che discutono freddamente su certi versi smilzi o  con una sillaba in più in testa o con una sillaba in meno in clausola –non so nemmeno se  possano anche esistere.  OM.       Oh, per Apòlline caro a Zëus, ïo non capisco   nemmen che senso hanno i nomi!  MER. Continui a scherzare; il verso        e i Teucri s’irrigidiro, poi il serpe vider gaetto  certo i più nobili tra i grammatici giurano che abbia una sillaba in meno in clausola.  OM.       Volessero Zeus padre e Apòlline ed Atena,        che s’io il meiur sapessi, spirassemi mal vento:        al numero appressandoti, saprai e i buoni e i tristi.  139 143 144 145 146 147 148 149 150 151 152 153 154 155 156 157 158 159 160 161 162 163 164 165 166 167 168 169 170 171 172 173 174 175 176 177 178 179 180 181 182 183 184 185 186 187 188 189 MER. E le dita del giorno? E i pepli? Come mai le une si sono manifestate rosate, gli altri  crocei  a  uno  che  ha  inattiva  la  percezione  dei  colori,  a  causa  della  cecità  della  sede  del  senso visivo?  OM.      Non dal materno seno gli occhi coprì cupa notte;        ma il sole vidi e l’aurora che dita tiene di rosa.  MER. Bene; a che prezzo lo metti questo, o Argifonte?  ERM.  Non  bisognerebbe  dire  “quanto  viene  l’inestimabile”?  Comunque  prenditelo  per  cinque talenti.  MER. Un prezzo alto; a meno che non sia inevitabile comprare insieme anche quello che lo  precederà sulla strada.  ERM. No, no: è chiaro che fai il taccagno, perché ritieni giusto acquistare il più ricco e non  capisci questo, che cioè hai comperato per soli cinque talenti l’uomo molteplice: potresti  averlo come stratego in guerra:      brocchiere a brocchier poggiava, elmo ad elmo, uomo ad uomo;  e come lanciere e come arciere:        brandì la forte lancia, affilata, d’acuto bronzo,        l’arco in ispalla tenendo e il tutto chiuso turcasso;  e come scalco e come coppiere:        e i cibi la veneranda dispensiera portò e dispose,        molte vivande posando, elargendo quanto c’era;        e i giovani coronarono i crateri di vino;  e come citaredo e come medico:            ed egli intonò il canto;        e sopra sparse medicamenti lenitivi;  e se hai bisogno di un consiglio, l’avrai come il più eloquente:        e dalla sua favella voce più che miel dolce scorse;  e se vuoi istituire un bando, l’avrai come il più stentoreo:        Teucri, uditemi,  e Danai che begli avete schinieri;  e se vuoi rimproverare i re che sbagliano, lo avrai come il più animoso:        non s’addice al consigliante uom dormire tutta notte        cui son affidate genti, stanno a cuore tante cure.  Se poi, infine, volessi punire per contrappasso uno dei tuoi schiavi che ha sbagliato o che  ha presentato ossa coperte di zirbo o che ha rivelato i segreti o che si è innamorato della  dèa dal trono d’oro, non cercherai più attentamente il boia: costui in persona pianterà in  cima  al  Caucaso  la  croce  e  farà  venire  l’avvoltoio  a  lacerargli  il  fegato  e  lo  spingerà  in  mezzo alla palude, perché muoia di sete con l’acqua così abbondante che gli lambisce la  gola, e farà pendere il masso dalla cima e lo legherà alla ruota. Questo, dunque, non vale  cinque talenti?   MER. Senz’altro; lo prenderò a questo prezzo.  ERM. Il Settecittà è stato venduto, Zeus.  ZEUS A quanto, Ermes?  ERM. A cinque talenti.  ZEUS Chi l’ha comprato?  ERM. Ermagora di Atene.  ZEUS Scrivilo sulla tavoletta. Voi, invece, andate pure: buona fortuna! Una canna robusta  è stato dato ad Omero molto prima, quella che sostiene Sileno nelle processioni di Dionìso;  sarebbe  strano,  infatti,  e  abbastanza  ingrato  che  nessuno  degli  dèi  ricambiasse  con  una  140 190 191 192 193 194 195 196 197 198 199 200 201 202 203 204 205 206 207 208 209 210 211 212 213 214 215 216 217 218 219 220 221 222 223 224 225 226 227 228 229 230 231 232 233 234 235 236 237 canna, oggetto a buon mercato, colui che con tanta benevolenza ci elargì sì gran doni. Ma  tu, Ermes, va’ a chiamare quel famoso uomo ionico, quello addetto alle ferite.  ERM. Scendi, tu, e presentati agli esaminatori; ma bada di non far perdere agli acquirenti  la  maggior  parte  del  tempo  in    molte  chiacchiere,  come  quel  cieco  là.   la vita più utile tra molte: questo è il salvatore dei corpi umani.  MER. Accidenti, come puzza di resina l’uomo. Chi è?  ERM. Viene da Cos e parla ionico; il resto è meglio che glielo chiedi tu.  MER. No: prima, Ermes, accostiamo l’orecchio e ascoltiamo che cosa sembra battere sotto i  denti.  IPPOCRATE A chenti e quali giovini sono...  MER. Per Eracle: è proprio ionico. Suvvia, di’ un po’, lungo: qual è l’effetto della tua arte?  IPP. Nell’altrui disgrazie mi procaccio doglianze particulari.  MER. Certo, non ci eravamo accorti che partecipi del dolore altrui, perché, a giudicare da  quel cauterio e da questo rasoio qui, assomigliavi piuttosto a un macellaio!   IPP. Con codesti stromenti, forestiero, purgo umori maturi e stimolo quelli non maturi.   MER. Eppure, uomo di Cos, non spieghi ancora niente, come il Lossia; infatti, con le parole  che hai detto per prime, hai dato da intendere di te stesso come di uno partecipe al dolore,  mentre il tuo secondo responso ti presenta piuttosto come un cerusico e un uomo duro.  Sicché non saprei a quale dei due nomi rimettermi, perché ondeggio sulla tua ambiguità e  ti valuto ora molto per la tua partecipazione al dolore, ora niente per la tua pratica con gli  intrugli.  IPP.  Ma  un  verso  che  palesi  qual  è  codesta  mia  valentìa  ti  sarebbe  impossibile  di  non  capirlo:           un medico val molte altre persone.  MER.  Sia  come  dici.  Potrei,  allora,  o  uomo  che  ne  vali  molti,  essere  iniziato  anch’io  ai  misteri  della medicina, se ti compro, affinché sia possibile anche a me avere il valore di  molti altri uomini?  IPP. Gran fatto dici e non sol a la maggioranza de li uomini non riuscito, ma anco difficile  a sperare e intraprendere; breve è, infatti, la vita e longa l’arte; celere il tempo, insicura la  pruova, arduo il giudizio. Cionondimeno non sarà difficile ti far simigliante a la maggior  parte de i medici d’ancoi: non darti cura veruna de l’esattezza ne’ polsi, de la distinzion  nelle urine e de la differenza nelle febbri; tua cura saran, di contro, tutti i tipi di rasoj e  l’esser  dimestico  a  parole  colla  maggior  parte  dei  miei  scritti,  far  lo  sfrontato  e  il  linguacciuto coi presenti, infilar a più riprese nel discorso secchezze, freddezze, materie,  forme, qualità, quantità, cause, sintomi, umori, dolori, febbri terzane e semiterzane, febbri  persistenti  e  febbri  remittenti  e,  insomma,  nomi  di  tal  fatta.  E  se  tu  fussi  chiamato  al  capezzal  d’  un  malado,  toccheraigli  la  mano  e  farai  scendere  la  destra  su  le  viscere  e  intorno a la milza parlerai freddamente e chiacchiererai senza fine intorno al polmone e,  mentre parli, scuoterai il capo. Taglierai vene senza tema alcuna, debbiasi o no tagliarle;  ne’ disturbi de l’intestino e nei casi di vomito farai quel che capita; userai a casaccio gli  intrugli nei casi di umori maturi e in quelli di umori non maturi: pensa solo a vomitare la  maggior parte dei miei aforismi, enumera i titoli dei libri. E se la natura farà star meglio il  malado,  appropriati  dell’opera  e  vantati  del  fatto;  ma  se  la  tua  inettitudine  molte  anzi  tempo all’Orco generose travolga alme d’uomini, abbi fidanza: ché qual tu era per la tua  ignoranza non sarai riconosciuto, colle pruove defunte.    È sorprendente quello che dici e abbastanza accessibile: ti comprerò proprio per  questo. Quanto me lo valuti questo, o Argifonte?  ERM. Quattro mine, o figlio di Podalirio.  141 238 239 240 241 242 243 244 245 246 247 248 249 250 251 252 253 254 255 256 257 258 259 260 261 262 263 264 265 266 267 268 269 270 271 272 273 274 275 276 277 278 279 280 281 282 283 284 285 MER. Me lo prendo a questo prezzo.   ERM. Ma il rasoio e il cauterio non si vendono insieme, perché verso sera vanno riportati  ad Asclepio, che ci ha piantato non so quante grane per questo.  MER. Nient’affatto, o Ermes: ché, se gli togli questi, non lo comprerei nemmeno per due  mine.  ERM. E si prendano insieme anche questi, allora; ma adesso andate, perché è tempo che  altri scendano. Scendete, voi due, tu, comico, e tu, tragico laggiù: tu per primo, comico; ma  metti  da  parte  il  riso,  gli  scherni,  l’acredine  e  la  tracotanza.  Chi  sarebbe  così  saggio  da  comprare uno schiavo saltimbanco e giullare, insomma un avanzo di piazza?  ARISTOFANE      Faccenda dolorosa, Zeus e gli altri dèi,          schïavo diventare...          Se dir gli capita il suo meglio al famulo,           ma a chi ’l possiede ei sembri già non farglielo,          del male il servo ha parte per necessità.  MER. Eppure non hai ancora ricevuto alcun male da me.  AR. Ma ne ricevo: dal viso ti figuro duro; e credo, per il cielo, che tu sia pure recutito.  MER. Ne riceverai senz’altro con queste fesserie...  AR.         Me redimito il capo non vorrai colpir!  MER.  Ti  appenderò  alla  gru,  così  imparerai  a  non  insultare  il  padrone,  tu  che  sei  un  fuggiasco!  AR. Me la son fatta sotto dalla paura, me la son fatta sotto!  MER. Ma va’ alla malora, svergognato; meglio fare domande a questo qui che si lamenta.   EURIPIDE       Ove deggio andar, ristar o volgermi?  MER. Queste sono parole di un fuggiasco!  EUR.         Non evvi motto a dirsi sì terribile,           né sofferenza né divina perdita,          di cui natura umana il pondo alzar non sa!  MER. Qual sciagura ti prese, uomo?  EUR.             Anzitutto il nome a me          la morte amare fece, contra il solito.          Poi, forse di crudel signori l’animo          incontrerei, chi a prezzo me si comprerà.          Chi già non uso i mali fue ad assaggiar          sopporta sì, ma duolsi il collo a soggiogar;          e morto quei  sarebbe più felice ognor          che vivo: male vivere gran pena fu.  MER. Sta’ tranquillo per questo: potrei volerti bene al pari dei miei affetti più cari.  EUR.         O terra, che allevasti me crudissima!  MER. Vedi? Non rispondi a tono alle buone domande!  EUR.         Il servo per natura odiato è dai padron!  MER.  Ma  io  non  potrei  fare  il  Melitide  o  il  Corèbo  fino  a  tal  punto  da  comprarmi  un  nemico! A meno che io non stia per trovarmi il pugnale contro me stesso, come la capra  del proverbio; perciò piangiti addosso da solo d’ora in poi!  MER. 2 Lo comprerò io, Ermes, questo qui che vi è rimasto invenduto fino ad ora, perché  pianga il rapimento della mia figliola, avvenuto poco prima d’oggi dal bel mezzo della  sala nuziale.  ERM.  Sì,  per  Zeus,  e  perché  ti  metta  in  testa  l’immagine  della  carissima,  che  afferma  d’esser giunta, dopo aver lasciato il recesso dei morti e le porte del buio!  142 MER. <2> A quanto lo metti all’asta? 286 287 288 289 290 291 292 293 294 295 296 297 298 299 300 301 302 303 304 305 306 307 308 309 310 311 312 313 314 315 316 317 318 319 320 321 322 323 324 325 326 327 328 329 330 331 ERM. A due mine.  MER. <2> Bisognava piuttosto che voi deste queste mine qui a me, che vi sto liberando  dagli “ahi, ahi”, “ohimè”, “ah, ah” e da tutte le altre esclamazioni del genere! Comunque,  me lo prendo a questo prezzo, se solo mi promette di mettermi accanto l’immagine della  figliola.  ERM. Questa donzella dall’anima nuda ti seguirà più facilmente che mai, lei che nasconde  ciò che bisogna nascondere agli occhi dei maschi. Ma ora andate e tu giudicalo a casa per il  resto. Tu, invece, millantatore romano, scendi un po’: questa vita è la più giusta e la più  civile. Chi compra il legislatore? Chi vuole acquistar fama nei tribunali giudiziari?  MER. Che cosa dobbiamo dire che sai, o Romano?  POMPONIO Giure.1 MER.  Ma giuro di averti già fatto la domanda; ora tocca a te rispondere!  ERM.  Non  hai  capito  la  parola,  straniero,  perché  sei  greco.  Egli  afferma  di  conoscere  il  giure, cioè la legge; in latino, infatti, legge si dice “giure”.  MER.  Fai  bene,  o  facondo,  a  spiegare  queste  parole  alquanto  ostiche  e  terribilmente  barbare, meglio di quanto fecero tutti i Procli con gli Alcibiadi e i Timei. Ma come sarà  giusto che noi ti chiamiamo, o legislatore?  POM. Nòmomi Pomponio.  MER. Su, nobilissimo interprete, spiega anche le altre parole del Lossia.  ERM. Ti sta dicendo che si chiama Pomponio: il nome è figlio di Roma.  MER. Di’ un po’, Pomponio: in che cosa mi sarai utile se ti compro? Anzi, rispondi tu,  Argifonte, traducendo la frase in greco, secondo l’uso degli interpreti.  ERM. Non ti preoccupare: il legislatore non ignora nemmeno l’attica musa; ma va dietro  alla lingua latina per brevità di linguaggio e nel contempo in onore alle patrie tradizioni.  MER. In che cosa mi sarai utile, dunque, o molteplice, e come potrei usarti, se ti compro?  POM. Ti renderò insigne tra i cittadini: ti procurerò molto, molto denaro.  MER. Da dove, o  compagno, visto che sei  un poveraccio?  A meno  che tu non  sia stato  iniziato all’arte furtiva da questo Ermes qui...  POM.  Certamente  colui  che  detta  leggi  punitrici  contro  i  ladri  e  argomenta  con  verisimiglianza riguardo al furto sarà ben lungi dal rubare! Tu, invece, ti prendi gioco di  me apertamente, pur dovendo aver timore che io ti citi in tribunale per diffamazione.  ERM. Ma nemmeno noi siamo così incapaci di capir le leggi, o legislatore, da credere a uno  schiavo  che  parla  contro  il  padrone;  a  meno  che  non  dobbiamo  prima  torturarlo  e  poi  ammettere l’accusa.  POM. Per Zeus, un bel guadagno dalla mia opera di legislatore, se dovessi passare sotto la  frusta come un fuggitivo comprato a vil prezzo.  MER. Allora, dimmi un po’, che dovrei fare per guadagnarmi tanto denaro?  POM. Cose del tutto chiare, facili e insignificanti. Anzitutto dovresti imparare un po’ dei  nostri  termini  come  la  parola  verbis,  consenso,  condicticius  e  alcune  altre  parole  latine,  i  curatores e i procuratores, gli infanti e i pubertati, i liberti e i patroni; e con queste armi andrai  in tribunale. Ricordati anche dei libelli e dei giuramenti e di questo nome che più di tutti è  a portata di mano: l’appello. E questo, bada bene, ti procurerà mattoni interi d’oro, come ad  Apollo Pizio, e abiti e case e cavalli e mule e in un istante ti farà diventare un altro Creso o  un altro Mida, al posto del povero che sei ora. Pensa solo a farti guidare dall’impudenza,  seguire dalla chiacchiera, accompagnare dalla sfrontatezza, nonché da una voce aspra e  1 Così ho reso il giuoco di parole greco. 143 332 333 334 335 336 337 338 339 340 341 342 343 344 345 346 347 348 349 350 351 352 353 354 355 356 357 358 359 360 361 362 363 364 365 366 367 368 369 370 371 372 373 374 375 376 377 378 379 dalla disposizione di chi è totalmente pazzo; e abbaia all’assemblea e riversa carrate intere  di contumelie contro l’avversario; di quando in quando salta sul mostaccio a chi ti disputa  contro, così da dare l’impressione di voler strappargli la punta del naso e in tal modo di  vincere e andartene sbuffando. Ecco tutto, allora; ma i segreti e i misteri dell’arte, quanto  cioè  concerne  le  ricompense,  i  prestiti,  le  vendite,  le  compartecipazioni  in  società,  gli  schiavi colpevoli...  MER. Questo me lo insegnerai nella prossima iniziazione ai misteri. Per quanto riguarda,  invece, l’insegnamento degli schiavi colpevoli di cui parlavi, non bisogna rimandarlo per  ora,  perché  io  possa  abusare  molto  prima  contro  di  te  degli  insegnamenti  e  possa   sottoporti a giudizio a rigor di legge.  ERM. Lascia perdere questo: prenditelo ed giudicatelo a casa, in modo che, se Pomponio  risultasse malato di una di queste colpe vietate dalle leggi, ti sarebbe concesso esaminare  l’uomo  e  rispedirlo  indietro  da  noi  fino  alla  prossima  vendita,  senza  averlo  punito  preliminarmente per questa colpa.   MER. E a quanto me lo valuti?  ERM. A una mina e mezza.  MER. Me lo prendo; ma bada di mantenere le promesse.  ERM. Andate e buona fortuna! Tu, invece, retore, scendi. Questa vita, o uomini, è utile al  popolo, civile e sorella in tutto al legislatore, eccetto che non è un ibrido greco come quello,  ma un attico purosangue, che spira forza di fuoco ateniese.  MER. Chi è e quali motivi hai per esaltarlo?  ERM. È un cittadino ateniese e del demo di Peania, acerrimo nell’intentare cause e molto  persuasivo  nel  deliberare,  gravissimo  nelle  accuse  contro  i  propri  nemici  e  sveltissimo  nell’addurre eccellenti testimonianze in proprio favore. Ha portato, poi, incommensurabili  vantaggi alla sua patria, Atene: il re Filippo fu certo scacciato dall’Eubea con le armi dagli  Ateniesi, ma con la politica e con i decreti da costui ‐e crepino pur di rabbia alcuni. E non  fu  altri  che  costui  quello  che  soccorse  gli  abitanti  di  Bisanzio  e  li  salvò  e  impedì  che  l’Ellesponto  passasse  in  mano  nemica  in  quei  tempi,  quello  che  per  la  città  parlò,  agì,  scrisse e insomma offrì sé stesso con abnegazione per la causa. E la città porta una corona  di gloria per merito di nessun altro, intendo dire consigliere o retore, diverso da lui. E se il  popolo lo eleggerà ambasciatore, non potrebbe abbandonare l’amor di patria e la libertà  degli  Ateniesi  per  nessuno  di  tutti questi  motivi,  neanche se  Filippo  venisse a  portargli  mucchi interi di denaro. Bestemmia, poi, chi dice a suo riguardo che se prende tace, se  spende  grida;  a  fatica  infatti  si  sarebbe  lasciato  persuadere  a  prendere  questa  saccoccia  piena di soldi che gli offriva il Macedone.  MER. Accidenti, tu parli proprio di un essere per nulla asservito e terribilmente libero; ma  questa corona d’oro qui che gli cinge il capo, che cosa significa?  DEMOSTENE La città mi ha coronato, durante le Dionisie; Ctesifonte di Anaflisto, figlio  di Leostene, ha avanzato la proposta: «che bisogna conferire la corona a Demostene figlio  di Demostene, del demo di Peania, per la sua virtù e la sua benevolenza, che continua ad  avere  nei  confronti  dei  Greci  tutti  e  del  popolo  ateniese  per  la  sua  probità,  e  perché  continua a fare e a dire il meglio per il popolo»; per questo mi è stata conferita la corona.  Invoco allora gli dèi tutti e le dee tutte e il popolo ateniese e Apollo Pizio, che è protettore  di Atene, e prego tutti questi di accordarmi la fortuna e la salvezza, se tutto quel che ho  detto è vero; se, invece, è tutto il contrario, di non farmi godere nessuno di questi beni.  MER. Sono nobili le tue parole, o retore, e abbastanza coraggiose.  ERM. E che dire? Non sai com’è negli affari di guerra.  MER. Proprio non lo so.  144 380 381 382 383 384 385 386 387 388 389 390 391 392 393 394 395 396 397 398 399 400 401 402 403 404 405 406 ERM. Ebbene, sappi che ti stai comprando il più baldo soldato che, gettato via lo scudo,  aprirebbe subito le porte della città prima di tutti.  MER.  Che  lepidezze  vai  dicendo,  se  realmente  lo  accusi  di  diserzione  e  lo  chiami  crudelmente  getta‐via‐lo‐scudo  e  poi  lo  esalti  con  il  nome di  soldato, e  per  di  più  assai  baldo.  ERM. Non l’hai sentito sentenziare con coraggio verso la città, quando affermava che «Per  tutti  gli  uomini  il  limite  della  vita  è  la  morte,  anche  se  uno  si  chiude  in  casa  a  farsi  la  guardia.  Bisogna  che  le  persone  oneste  intraprendano  sempre  tutte  le  azioni  giuste,  mettendo avanti la buona speranza, e sopportino coraggiosamente ciò che il dio gli dà».  Non ti paiono queste parole piene di coraggio e di eroismo, insomma degne di Ares?  MER.  Oh,  senz’altro;  ma  io,  non  so  come,  non  sono  pronto  a  lasciarmi  persuadere  da  parole anziché da azioni coraggiose ad alzare la mano per il soldato; comunque, a quanto  me lo metti all’asta?  ERMES A quanto ti ho messo il legislatore.  MER. Io ti verso la somma e tu prendila.   DEM. O democrazia, o leggi! Quel sacrilego mi toglie dal capo la corona, con cui il popolo  e l’assemblea mi hanno omaggiato durante le Dionisie. Per Eracle, o Ateniesi! Vedrai come  si porterà via insieme anche la saccoccia.  MER.  To’,  che  sfrontatezza;  chiami  a  gran  voce  quelli  che  hai  consegnato  a  tradimento  a  Filippo a prezzo di tanto denaro?  DEM. Per Zeus, volevi dire che ho salvato da Filippo.  ZEUS Demostene, questo dovevi dirlo ad Atene nel dibattito giudiziario, ma oramai sei  stato venduto; per te sarebbe meglio arrenderti all’acquirente, così che ve ne andiate da  qui. Noi, invece, Ermes, saliamo sull’Olimpo, a divorar l’ambrosia e a tracannar il nettare.  Questo effeminato qui, con l’abito vistoso, addetto ai profumi, che si chiama Cicicno di  soprannome, sarà meglio conservarlo per l’anno prossimo proprio per via di quella sua  tendenza musicale: lo venderemo insieme con le vite dei mercanti.  145 NOTE TESTO 147 H. Vendita all’asta di vite di politici e di poeti Tit.: questo dialogo si profila sin dal titolo come imitazione di quello omonimo lucianeo Bivwn pra`si" [27 Mcl.], rispetto al quale vuole narrare il secondo giorno di asta pubblica. Vi si ricollega, prendendo quasi alla lettera le sue ultime parole eij" au[rion parakalou`men: ajpokhruvxein ga;r tou;" ijdiwvta" kai; banauvsou" kai; ajgoraivou" bivou" mevllomen; quasi, perché in realtà l’asta cambia oggetto di vendita, riguardando vite non di privati cittadini, vili meccanici e mercanti, bensì di poeti e politici o, meglio, uomini utili alla città. Omero occupa circa metà del dialogo prodromeo, figurando come poeta poco verosimile; segue Ippocrate, bistrattato come rappresentante di una categoria non molto amata da Prodromo, come risulta anche dalla Sat. 148 H. Dhvmio" h] ijatrov"; poi Euripide e Aristofane, dipinti come queruli e volgari drammaturghi; quindi il giurista Pomponio, simbolo della contorta burocrazia bizantina; infine Demostene, politico corrotto. Tutti, tranne Aristofane, vengono venduti, ma a prezzi diversi: Omero per cinque talenti, Ippocrate per quattro mine, Euripide per due mine, Pomponio e Demostene per una mina e mezzo ciascuno; segno che, pur nella generale condanna delle categorie rappresentate da questi figuri, Omero, il letterato per antonomasia, eccelle comunque di gran lunga sugli altri, come comprovano del resto anche le preferenze di Prodromo. La scelta di mettere alla berlina questi celebri personaggi e non altri risiede quasi certamente nel fatto che essi sono figure della branca a cui rispettivamente afferiscono; d’altro canto tutti eccetto Pomponio costotuiscono in sostanza gli autori scolastici canonici e, quindi, ben conosciuti anche da Prodromo, indipendentemente dal giudizio negativo su di loro. La conclusione della satira, infine, riprende esattamente quella di Luciano, rimandando all’anno venturo la vendita delle vite di mercanti. 7 ta; bavqra: sono le panche, su cui si devono sedere gli acquirenti; cfr. Luc. Vit. auc. [27 Mcl.] 1 su; me;n diativqei ta; bavqra kai; paraskeuvaze to;n tovpon toi`" ajfiknoumevnoi" (così interpretato anche da Tgl); per questo è meglio non intendere la parola come i piedistalli per gli schiavi in vendita, per quanto sia ovvio che essi lì stanno, come risulta dall’ ordine di scendere imposto a chi sta per essere venduto: Luc. Vit. auc. [27 Mcl.] 2 katavbhqi e il nostro l. 29 poi`on... bouvlei prw`ton katavgwmen. tou` pwlhvtrou: pwvlhtron è forma sincopata per pwlhthvrion (cfr Tgl s. v., che la attesta solo per il nostro passo; v. anche l. 155 infra aijsqhvtrou pro aijsqhthrivou); la forma piena, invece, è e. g. in Luc. Vit. auc. [27 Mcl.] 1 h[dh parei`nai pro;" to; pwlhthvrion, verso che Macleod sospettava essere un giambo di qualche comico) ossia luogo in cui si mettono in vendita le merci, agorà, foro; suo sinonimo è prathvrion (v. r. 205). Stando a TLG on-line la stringa pwlhtr- è attestata solo due volte, ossia per la parola pwlhvtria, venditrice: Poll. III 125; Nic. Chon. Hist. II 6, 5 p. 57 van Dieten (= p. 132 Maisano) to; truvblion... tai`" cersi; th`" pwlhtriva" ojcouvmenon. I nomi in -thvrion (ricca lista in Kretschmer 19773 , pp. 166-167) sono formati sul modello di ejgasthvrion e dikasthvrion e, come il neologismo aristofaneo frontisthvrion, inizialmente indicano luoghi in cui si trova un certo tipo di persone (nell’officina gli artigiani, nel tribunale i giudici, nel pensatoio i sapienti), poi per traslato anche sedi in cui si trovano gli organi del corpo (nella parte sensoria i sensi; cf. Tgl. s. v. aijsqhthvrion sensorium, domicilium sensuum, sedes sensoria). 10 ejsei`tai: si tratta di una forma del fut. semplice di eijmiv sum, alternativa a quella attica regolare e[stai e molto usata dagli autori bizantini (ripetuta a l. 128 infra); benché lo Schwyzer I, p. 678 non ne faccia menzione, essa compare già in Eur. IA 782 (Diggle la mantiene a testo e Stockert la giustifica come forma epica e dorica; a rigore però l’omerico ejssei`tai presenta sempre s geminato), seguito da Diog. Laert. I 113 (all’interno della lettera di Epimenide Cretese a Solone) e Lib. Decl. XL 2, 2 (= IV 584 Reiske; F. Morel stampava nella propria ed. e[setai). Fino all’XI sec. pare che non sia più stata riutilizzata (ma si può sempre pensare che gli editori su cui TLG on-line si fonda abbiano normalizzato la forma che probabilmente nei mss. compare). In Prodromo ricorre anche nei Tetrasticha, Ex 41, b, 4 Papagiannis e Lc 250, b, 4 Papagiannis (in clausola). TLG on-line rivela molte altre occorrenze negli autori immediatamente anteriori, contemporanei o posteriori a Prodromo, come Anna Comnena (e. g. Alex. 2, 8, 2, 13), Eustazio di Tessalonìca (e.g. in Il. I 38, 4), Giovanni Tzetze (e.g. Chil. 9, 278, 676; ep. 7, 16, 7), Niceta Coniata (e.g. hist. I 13, 4, p. 35 Van Dieten); vd. anche Tommaso Magistro (XIIIXIV s.) Ecloga nom. et verb. Att. e, 117, 18 e[stai kai; e[setai: ejsei`tai de; poihtikovn. La lezione di Du Theil e[setai o è scorretta lettura di V, o è tacito emendamento sulla base di un altro ben attestato omerismo. La costruzione dat. + v. essere + infinito corrisponde a una perifrastica passiva con il significato di dovere. 11 o{ti polloiv: in attico sarebbe o{ti plei`stoi, com’è del resto in Luc. Vit. auc. [27 Mcl.] 1 kai; o{ti pleivstou" ejpavxontai; cfr. anche Sat. 148 H., 147 prosepeuergetou`sin o{ti pollav. Prodromo sa comunque anche attenersi alla norma: cfr. Sat. 149 H., 8 o{ti mavlista. Non è escluso, però, che qui l’autore avesse in mente l’uso di wJ" con gli avv. e agg. positivi (vd. LSJ s.v. Ab III 2a). 146 loipo;n dei`: l’assenza di particelle connettive non deve ormai stupire in Prodromo: cfr. l. 29 e 319 infra; intelligente, comunque, l’economicissima congettura di D’Alessandro. 12 ajpokhruvttomen: sull’uso attico di tt al posto di ss v. Macleod I, p. XI «Lucianum tt fere semper, ss raro tum praesertim cum historicos deridere vellet, scripsisse codicum testimonio apparet». th;n cqe;" ejpaggelivan: è quella con cui si conclude la Bivwn pra`si" lucianea (vd. n. tit.). 14 tou` zwvsmato": sulla grafia zw``sma per zw`ma, cfr. Moeris, ∆Attikisthv", ed. J. Pierson, Lugduni Batavorum 1759, p. 168 s. v. zw`ma ∆Attikoiv, zw`sma {Ellhne"; secondo l’uso di questo lessicografo vissuto probabilmente nel III s. d.C., si contrappone la “corretta” voce attica alla corrispondente forma della koinhv ellenistica (vd. E. Degani, La lessicografia, in Cambiano-Canfora-Lanza II, p. 520 n. 58). 15 e[peisin: in genere e[peisin + dat. + inf. = vien in mente a qcn. di fare qcs.; ma qui manca il dat.: o si integra supponendo che sia caduto per aplologia prima del successivo hJmi`n, o si sottintende. Si potrebbe anche tentare l’emendamento, peraltro poco economico, e[xesti. Æpoihtikoi; kai; politikoivÆ: ho posto questo nominativo tra virgolette, intendendolo come il grido dei venditori, sintatticamente dipendente da to; ajpokhrucqhsovmenon (le parole del nostro bando saranno: poeti e politici); la frase è ellittica e sottintende qualcosa come bivoi p. k. p. pwlou`ntai. 16 w\ pavter hJmevtere: continua nel verso omerico Kronivdh u{pate kreiovntwn (Q 31 = a 45 = a 81 = w 473). 17 ejpieikw`" skapaneva": l’avv. ejpieikw`" modifica il grado della parola che segue; Tgl traduce valde, raccomandando però piuttosto un satis. Per skapaneuv" vd. Luc. Timon [25 Mcl.] 7 ti; paqw;n ou\n toiou`tov" ejstin, aujcmhrov", a[qlio" kai; skapaneu;" kai; misqwtov", wJ" e[oiken, ou{tw barei`an katafevrwn th;n divkellan…; Luc. Vit. auctio [27 Mcl.] 14 plh;n eij mh; skapaneva ge kai; uJdrofovron aujto;n ajpodeiktevon; Prodr. Sat. 148 H., 39 h]n dev ti" ajpoduvsa" i[dh/, skapanei`" eijsi kai; bafei`" kai; skutodevyai. 17 ÔErmh`" te w[n: il te solitario può unire due frasi; qui una principale con verbo dunaivmhn e una secondaria con verbo w[n; cfr. Denniston 1954, p. 498-503, sp. p. 500 g (esempi da Tucidide, in cui il te è riassuntivo di quanto precede). Si potrebbe tradurre «e per di più essendo io Ermes», una specificazione con cui Ermes vorrebbe sottolineare lo spreco della propria azione ufficiale nei confronti di villici. In Luc. Iupp. Trag. [21 Mcl.] il costrutto nome + part. pres. del verbo essere con valore di «e per giunta essendo» compare e. g. al § 2 ajnia/` se Diva o[nta; 9 kai; tau`ta Poseidw`no" o[nto"; e 11 ÔHlivw/ te o[nti kai; thlikouvtw/ to; mevgeqo", dove il te è però in correlazione con kaiv. Non è necessario emendare in ge, come ppure potrebbe parere agevole, con il significato di «essendo io, comunque, almeno Ermes». tw`n mevtrwn: qui Prodromo ha in mente il bando di Ermes di Luc. Iupp. Trag. [21 Mcl.] 6, eseguito una seconda volta per ordine di Zeus proprio in esametri, dopo un primo bando in prosa semplice. Tra i due testi, quello lucianeo e quello prodromeo, ricorrono poi le stesse parole: khvrugma, rJayw/dei`n sunevrcomai. 21 sunekklhsiavzein: sunekklhsiavzw = partecipo alla stessa assemblea: Plut. Sol. 18 qh`te", oi|" oujdemivan ajrch;n e[dwken a[rcein, ajlla; tw/` sunekklhsiavzein kai; dikavzein movnon metei`con th`" politeiva"; negli autori cristiani significa faccio parte della medesima Chiesa. Nella trentina di esempi forniti da TLG on-line, quasi tutti provenienti da autori ecclesiastici e bizantini fino a Giorgio Scolario (XV s.), il verbo appare sempre intransitivo unito a un dat. o usato in maniera assoluta. Cionondimeno qui nel nostro passo, citato anche da Boissonade in Tgl s. v., ma senza alcuna spiegazione, il verbo è senz’altro transitivo come può essere il semplice ejkklhsiavzw nel senso di raduno (vd. LSJ s. v. II con gli esempi di Aen. Tact. 9, 1 ejkklhsiavsanta tou;" auJtou` stratiwvta" h] polivta"; Diod. Sic. 21, 16, 4 ejkklhsiavsa" to;n laovn; LXX Le 8, 3 kai; pa`san th;n sunagwgh;n ejkklhsivason ejpi; th;n quvran th`" skhnh`" tou` marturivou). 21-27 oi\da"–ejpaisqhvsontai: i gesti di Ermes servono a comunicare con i non ellenofoni: in Luc. Iupp. Trag. [21 Mcl.] 13 egli mette a tacere gli dèi sciti, persiani, traci e celti (e non «chiama a raccolta gli dèi barbari», come par di capire qui dalle parole di Prodromo, che senz’altro approssima citando a memoria; anche in Deor. conc. [52 Mcl.] 9 ricompare il tema degli dèi oujk eJllhnivzonte"); qui raduna gli acquirenti stranieri. 23 “Anoubin–Kolossovn: le divinità considerate rozze sono barbare, cioè straniere, sia perché provengono da luoghi al di fuori della Grecia sia perché non appartengono al pantheon classico omerico: Anubi (Egitto), Bendi (Tracia), identificata con Artemide, e il colosso di Rodi. Questo motivo deriva a Prodromo dalla lettura di Luc. Iupp. Trag. [21 Mcl.], in cui Ermes bandisce un concilio degli dèi per ordine di Zeus, chiamando a raccolta anche i nuovi numi: 8 hJ Bendi`" de; au{th kai; oJ “Anoubi" ejkei`no" kai; par∆ aujto;n oJ “Atth" kai; oJ Mivqrh" kai; oJ Mh;n oJlovcrusoi kai; barei`" kai; polutivmhtoi; 11, passo in cui interloquisce Kolosso;" JRovdio", che si proclama essere il dio Sole e thlikou`to" to; mevgeqo", ma a cui Zeus non sembra proprio riconoscere importanza e precedenza sugli altri numi. Anche nel dialogo Deorum concilium [52 Mcl.] 9-10 vengono nominate molte divinità straniere, specialmente egizie e orientali; Anubi, di cui pure non si esplicita il nome, è detto w\ kunoprovswpe kai; sindovsin ejstalmevne Aijguvptie. Secondo Coenen 1977, p. 57 lo scherno rivolto 147 da Luciano contro gli dèi stranieri è abbastanza deviante dal pensiero religioso della sua epoca, in cui il sincretismo culturale ha reso Attis, Mitra e altre divinità, specialmente l’egizia Iside, molto venerate. Se dunque la satira di Prodromo è senza dubbio slegata dalla contemporaneità, quella di Luciano, nondimeno, pur toccando oggetti del proprio tempo, si riserva di trattarli sotto una luce molto personalizzata. ∆Epikataneuvei" indica il parlare per gesti, espediente naturale con persone di lingua diversa, nonché stilema tragico. Il colosso di Rodi viene nominato anche in Dione Crisostomo controlla A proposito, poi, della mia correzione th;n Bendi`n, essa è una normalizzazione, sulla scorta di Luciano, di quella di V to;n Bevndin, in cui sono discutibili sia l’articolo (quella di Prodromo appare l’unica occorrenza al maschile del teonimo), sia l’accento, sul quale invece non vige certezza totale: inequivocabile è l’istruzione di Herod. GG III 1, 1 p. 107, 21 Lentz eij de; eij" i–n– e[cousi th;n aijtiatikhvn, perispw`ntai, Bendi`", Moli`", Toti`", ∆Atargati`". Anche G. Dindorf in Tgl s. v. lamentava l’errore prosodico in Prodromo, attribuendone però la colpa solo al librarius, ossia Du Theil, dalla cui edizione egli leggeva il testo. In realtà Du Theil si atteneva semplicemente al manoscritto (di cui pure riconosceva la stranezza, poiché commentava il to;n con un sic), come avviene in Procl. in Platonis Rempublicam, I 18 Kroll 1899 (3 occorrenze consecutive) e in S Plat. in Rempublicam 327a-bis ed. Greene 1938 (1 occorrenza), dove l’accento è stampato parossitono. Greene, nondimeno, specifica in apparato «de accentu vocis Bevndi" (sic ATW [cioè i codd. platonici] et Procli codd. ut videtur [come sembra, perché Kroll non annota niente al riguardo] cfr. Chandler, Greek Accentuation, § 604, qui Bendi`")». Il passo di Proclo, poi, che a sua volta tramanda un verso orfico, è diversamente stampato dagli editori degli Orphica: in Abel 1885 (fr. 184) con il teonimo parossitono, in Kern 1922 (fr. 200) perispomeno (questi rimanda a Lobeck I, p. 545, il quale scrive il teonimo con accento parossitono, ma annota, oltre al passo dello scolio platonico nell’ed. di Bekker 1823 con teonimo parossitono, un passo di Teognosto, grammatico del IX s., nell’indice di Bekker III, p. 1343, col. b = GG III 1, 1 p. 374, 32 con teonimo properispomeno ejfuvlaxe ga;r to; d— th`" Bendi`do" genikh`", e rimanda poi ad Arcadio, grammatico forse del IV s., de acc. p. 36, 17, che corrisponde al passo succitato di Erodiano). 24 wJ" ta; pollav: corrisponde a wJ" ta; pleivw, wJ" ejpi; to; poluv; cfr. Thuc. V 65. 26 ajmfi; toutoi>; to; koinwvnhma: il neutro toutoiv> per toutiv è attestato nella tradizione ms. di alcuni autori, tra cui concordemente in Iul. Misop. 342d Spanhemius (= p. 16, 14 Prato, che stampa però il canonico toutiv ripristinato da Hertlein) toutoi;> yucavrion. Tale forma alternativa, di cui né KühnerBlass né Schwyzer fanno menzione, sarà nata autonomamente sull’analogia dei casi obliqui (e.g. toutouiv), ma ha un precedente “nobile” in Ar. Th. 1127 (verso che però a rigore è in greco storpiato perché pronunciato da un persiano). Comunque sia i Bizantini la riutilizzano (cfr. Ign. Diac. Epist. XLVI 4 Efthymiadis-Mango; Ann. Comn. XIV 8, 4 Leib toutoi>; to; par∆ {Ellhsin a[rrhton; Tzetz. Epist. VI 10, 12 Leone toutoi>; to; cwrivon; Nic. Chon. Hist. p. 641, 12 van Dieten toutoi>; to; duspravghma). 29 pavresqe–wjnhsovmenoi: cfr. Luc. Iupp. Trag. [21 Mcl.] 6 kai; parevstwsan a{pante". 30 iJkanw`" kekhvruktai: cf. Luc. Iupp. Trag. [21 Mcl.] 7 ZEUS Eu\ ge, w\ ÔErmh`: a[rista kekhvruktaiv soi. loipo;n–ajphleluvqasi gavr: ciò che resta da fare è mandar via le vite dei mercanti, che, come accenna la conclusione del dialogo, saranno messe all’asta l’anno successivo. 32 poi`on–katavgwmen: la correzione mi pare palmare; cfr. anche, sia per il congiuntivo sia per l’affinità contenutistica, Luc. Vit. auc. [27 Mcl.] 2 ERM. Tivna prw`ton ejqevlei" paragavgwmen… ZEUS Toutoni; to;n komhvthn to; ∆Iwnikovn, ejpei; kai; semno;" ti" ei\nai faivnetai; Iupp. Trag. [21 Mcl.] 14 bouvlei... ajnarrayw/dhvsw. Stesso errore di V in Prodr. n° 145 H., 82-83 ed. mia in preparaz. bouvlei soi kakei`no th`" grafh`" ejxetavsomai V. 32 to;n eujgevneion ejkei`non to;n ejk Buzantivou: il Bizantino barbuto può essere un contemporaneo non meglio definito di Prodromo, piuttosto che un antico scrittore proveniente da quella città: passarne in rassegna alcuni, non porta alla ribalta nomi significativi per Prodromo e soprattutto per questa battuta. Nel dialogo filosofico 135 H. Senedèmo, 5 ed. mia si parla di un certo Teoclle di Bisanzio. Aristofane di Bisanzio (gramm. III-II a.C); Aglais Byzantius (poet. med. IV a.C.); Parmeno Byzantius (iamb. III a.C.); Philo Byz. (mech. III-II a.C.); Leo Byz. (hist. IV a.C.?); Theodosius Byz. (gramm. ?); Maximus Byz. vel Epirota (rhet. IV d.C.?); Philo Byz. (parad. IV-VI d.C.?); Steph. Byz. (gramm. VI d.C.); Dionys. Byz.; Hero Byz. 34 ouj me;n ou\n: è senza dubbio questa la lezione da stampare, anche se V e Du Th. hanno rispettivamente le erronee grafie unite ou[menoun e oujmenou`n. Essa riproduce un sintagma usuale soprattutto negli scambi di battuta sia in poesia sia in prosa per significare no di certo, anzi, al contrario (lat. immo vero; cf. Denniston 1954, p. 475 con gli esempi, a cui si possono aggiungere, oltre al paio di quelli Demostene, che costituiscono prosa continua non dialogica, la sfilza che si rinviene in 148 Luciano). La negazione che segue, però, non compare altrove negli autori classici e atticisti; TLG-E fornisce solo un passo quasi coevo a Prodromo di Mich. Attal. Hist. 236, 18-21 [ed. I. Bekker CSHB, Bonnae 1853] oi|a filei` tou;" pollou;" poiei`n tw`n stratiwtw`n… ouj me;n ou\n oujd∆ ei\dev tiv" pote Micah;l to;n Botaneiavthn polivtou katepairovmenon. Il pronome oJpovtero", infine, qui non è interrogativo (non è sottinteso un non so, per esempio), ma vale come semplice e{tero" ovvero un uterque o alteruter, l’uno e/o l’altro dei due; cfr. LSJ s. v. I. 3 as indef., either of two. Preceduto dalla negazione oujd∆, dunque, significa oujdevtero" neuter, nessuno dei due. Preferisco qui mantenere la grafia staccata di V, come avviene nella Sat. 149 H., 60 h] touvtwn me;n oujd∆ oJpovteron, anche se quella unita è fornita sia da LSJ nell’unico esempio da lui registrato di Hero Dioptr. 37 oujdopovteron secondo l’ed. Schoene, TB 1903; sia da TLG on-line nell’occorrenza di Massimo il Confessore ed. CChr, a cui va aggiunto l’avverbio oujdopotevrwse di Dositeo 40, 27, così stampato anche dall’ultimo ed. Bonnet. to;n ÔEptavpolin: per il significato dell’epiteto v. n. a rr. 108-109. Il composto è attestato secondo TLG on-line solo come toponimo di una zona dell’Egitto detta anche ÔEptavnomo" o ÔEptanomiva (Dion. Per. 251 con relativi scolio, commento di Eustazio e sinossi geografica di Niceforo Blemmida, tutti consultabili nell’ed. Geographi Graeci minores, II, ed. K. Müller, Parisiis 1861, rist. an. Hildesheim 1965 (l’ed. più recente di Dion. Per. è però K. Brodersen, Dionysios von Alexandria. Das Lied der Welt, Hildesheim 1994). Esiste poi il nome proprio di una musa tra le sette dell’elenco attribuito al comico Epicarmo fr. 39 K.-A., nome che suona ÔEptapovlh o -povrh secondo i mss. degli scoli ad Hes. Op. 1 che tramandano la notizia. Il nostro epiteto, invece, non risulta mai riferito antonomasticamente ad Omero oltre che in questo passo prodromeo, come conferma anche la voce di Boissonade nel Tgl. to;n ejpi; tw`n muvqwn: è parodia di un’espressione burocratica, e. g. di oJ ejpi; tw`n ejpistolw`n (lat. libertus ab epistulis). 35 h{ghsai dev oiJ kai; th`" oJdou`: per la costruzione con dat. di pers. e gen. di cosa (essere guida di qcn. in qcs.), vd. LSJ s.v. I 2; il kaiv è pleonastico. aujtw/`–ejpikevklhsai: per il dat. d’agente con l’indic. perf. pass. vd. Schwyzer II, p. 150, § 2. L’epiteto hJgemovnio", poi, riferito ad Ermes (guida delle anime verso l’Ade) non si trova in Omero, bensì in Ar. Pl. 1159; l’epiteto omerico, o meglio odissiaco, che più si avvicina a questo significato è diavktoro", messaggero (solo, però, con w 1 si palesa la funzione di psicopompo); è Luciano a dargli il valore di conduttore d’anime nel composto xundiavktoro" (Contempl. [26 Mcl.] 1 kai; tau`ta eJtai`ro" kai; suvmplou" kai; xundiavktoro" w[n). 37 sauto;n ejmpavrece toi`" wjnhsomevnoi": cfr. l. 204 infra toi`" ajnakrinou`sin ejmpavrece seautovn (cfr. Luc. Symp. [17 Mcl.] 28 oujd∆ a]n ejmparascei`n eJauto;n toiouvtw/ tiniv). La forma abbreviata tipicamente attica sa–ut- (e a–uJt-) convive in età classica accanto a quella piena seaut- (e eJa–ut-), la quale ultima prende il sopravvento nella koinhv per motivi di chiarezza. 38 ÔHgou`–∆Argeifovnta: queste parole formano un esametro, che anziché spondaico si può intendere dattilico se si scrive con dieresi ∆Argei>fovnta, proprio come nei passi epici in cui la parola compare, spesso in iunctura con diavktoro": nell’Iliade una decina di volte, di cui ben 6 in W; nell’Odissea 6 volte; l’epiteto, per il cui significato rimando ai commenti omerici, ricorre al vocativo solo in Hymn. Hom. Vest. XXIX 7; Luc. Tim. [25 Mcl.] 32; e Orph. 28, 3 proprio in clausola con diavktore, come qui. Altri versi epici che Prodromo può aver avuto in mente nella creazione del suo esametro sono q 335 ÔErmeiva, Divo" uiJev, diavktore dw`tor ejavwn; Hymn. Hom. Merc. 514 deivdia, Maiavdo" uiJev, diavktore, poikilomh`ta; rispetto a quest’ultimo Prodromo si scosta dalla tradizionale iunctura epica (frequente soprattutto negli inni omerici) Maiavdo" uiJov" sostituendovi la forma, peraltro inusuale all’epica, del genitivo Maiva", da Mai`a. 39 praqhsovmeno": questo fut. pass. nelle sue limitate occorrenze è attestato a partire da Dinarco e ha vita nella koinhv, soprattutto nei LXX (8 volte), lettura basilare di Prodromo; al participio, significativo è l’uso del romanziere erotico Xen. Eph. I 13, 2, 3, autore letto dal nostro. Errata la forma prasqhsovmeno" stampata da Du Th. 39-40 ouj gavr–a[ndra: Prodromo ha qui rimescolato, distruggendo l’esametro, le parole di Z 488 moi`ran d∆ ou[ tina fhmi; pefugmevnon e[mmenai ajndrw`n, verso tra l’altro abbastanza citato dagli antichi. 41 tavcion: questo comparativo al posto dell’attico qavsson è condannato dai grammatici atticisti Frinico Eclog. 52 ed. Fischer, Berlin 1974 (= ecl. 58, p. 149 ed. Rutherford 1881) e ps. Erodiano Philet. 18 ed. Dain, Paris 1954 (= p. 436/395 ed. Koch, in appendice a ed. Pierson-Koch di Moeris, Lipsiae 1830-1831, rist. an. Hildesheim 1969). Prodromo tuttavia lo ritrovava frequentemente nella koinhv (LXX, NT, Giuseppe Flavio ecc.) e in scrittori atticisti come Dionigi di Alicarnasso, Plutarco e Diodoro Siculo (vd. LSJ s. v. tacuv" C). 42 ∆Eriouvnie: epiteto d’Ermes, di valenza dubbia; mi sono attenuto a quella suggerita dai lessicografi antichi (e.g. E. M. 374, 21 oJ mevga wjfelw`n), perché presente alla mente di Prodromo, piuttosto che a 149 quella solo formulata non prima del Novecento sulla comparazione col cipriota (gran corridore; vd. Chantraine, DE, s.v. ed Edwards ad U 34-35). 43-44 bivh–i{ppoi: gli esametri, ammesso che tali siano nell’intenzione di Prodromo, zoppicano; sono esemplati su Q 103-104 sh; de; bivh levlutai, calepo;n dev se gh`ra" ojpavzei:É hjpedano;" de; nuv toi qeravpwn, bradeve" dev toi i{ppoi, con evidenti semplificazioni o, per lo meno, varianti di lezioni (moi anziché toi). 45 Tiv d∆ oujci; ojye; gou`n pepauvsh/ ta; diavkaina rJayw/dw`n: ojyev come in Sat. 146 H., 38 a[rxai d∆ ou\n ojye; kai; scolh`/ (q. v.), vale ojye; dhv, ojyev pote. L’agg. diavkaino", invece, non è attestato né da Tgl né da TLG on-line, i quali registrano solo il mediogreco diakainhvsimo" [sc. eJJbdomav"] septimana renovationis. L’aggettivo comunque si potrebbe accettare come neoconio prodromeo e capire nel senso di strano, quale ha kainov" (vd. LSJ s. v. II). Non si può cionondimeno negare che la congettura diavkena fatuo, vano di Du Th., paleograficamente palmare (solito scambio di e con ai pronunciato /e/ alla bizantina), restituisce un aggettivo ben attestato; inoltre la locuz. avv. dia; kenh`" è frequente da Demostene in poi nel senso di mavthn. 46-49 tevknon–e[cousin: parodia di a 64-67 Tevknon ejmo;n poi`ovn se e[po" fuvge e[rko" ojdovntwn…É pw`" d∆ a]n e[peita ∆Odush`o" ejgw; qeivoio laqoivmhn… É o}" pevri me;n novon ejsti; brotw`n, pevri d∆ iJra; qeoi`sinÉ ajqanavtoisin e[dwke, toi; oujrano;n eujru;n e[cousin. Parodia perché ciò che in Omero è riferito ad Odisseo qui viene detto della parola di Omero, che egli autodefinisce infallibile; si potrebbe parafrasare «Come ti permetti, Ermes, di pensare che io dica cose strane/inutili, poiché le mie parole sono oro colato, superiori a quelle di tutti gli altri uomini e capaci di omaggiare gli dèi stessi meglio di chiunque compia un qualsiasi sacrificio?». A chi sembra strano che il lovgo" omerico compie sacrifici, rispondo che va inteso nel gioco parodico, non tanto in una interpolazione che completa arbitrariamente con i due versi originali i primi due volutamente deformati da Prodromo. 53 ejpivmixon–ejpw`n: per l’espressione simile sintatticamente, non però contenutisticamente, cfr Luc. Iup. tr. [21 Mcl.] 6 oujkou`n, w\ ÔErmh`, tw`n ÔOmhvrou ejpw`n ejgkatamivgnue ta; polla; tw`/ khruvgmati. Inutile la congettura tw`n ejpaivnwn di Du Th., perché la richiesta di Omero a Ermes ingiunge proprio di mettere in mostra qualche verso, a riprova della qualità della merce in vendita; tina dunque è accusativo neutro plurale, non maschile singolare. 54 o}"–ejovnta: cfr. A 70 o}" h/[dh tav t∆ ejovnta tav t∆ ejssovmena prov t∆ ejovnta; Hes. Th. 38 ei[rousai tav t∆ ejovnta tav t∆ ejssovmena prov t∆ ejovnta. 55 kai; mh;n pollou` dehvsei qewrhvmasi tw`n ejsomevnwn ei\nai: la desinenza di qewrhvmasi in V sembra sicura, anche sul confronto con simili altre desinenze (cfr. e. g. quella di pantavpasi in V, f. 52r, l. 19 = Sat. 144 H., l. 97 supra; oppure gravmmasin in V, f. 56r, l. 10 = Sat. 148 H, l. 13). La sintassi, nondimeno, resta comunque insoddisfacente, poiché la costruzione attesa parrebbe essere pollou` dehvsei + nominativo + ei\nai; per questo Du Th. stampa qewrhmatikwvtato" (egli però non fa capire se sia una sua congettura o una lettura forzata del testo); onde io proporrei un qewrhvmwn, paleograficamente meno distante dalla parola tràdita, attestato in Choerobosc. Orthographia ed. Cramer II, p. 220, 15 qewrhvmwn: para; to; qewrov" e quindi contemplativus (vd. Tgl s.v.). L’infinito ei\nai non può dipendere da ejsomevnwn, ché ci si aspetterebbe piuttosto un mellovntwn a reggerlo. Si potrebbe pensare anche a ejn qewrhvmasi ei\nai, con una costruzione modellata su quelle del tipo ejn ajporiva/ ei\nai. 57 uJpesthvrize": uJposthrivzw = sostengo, puntello è verbo della koinhv: LXX Ps. XXXVI 17 uJposthrivzei de; tou;" dikaivou" kuvrio"; Ps. CXLIV 14 uJposthrivzei kuvrio" pavnta" tou;" katapivptonta"; ma soprattutto Luc. VH [13 Mcl.] I 32 th;n me;n nau`n uJpesthrivxamen; VH [14 Mcl.] II 1 eij mhv ti" canovnto" aujtou` uJposthrivxeien tou;" gomfivou"; Hist. conscr. [59 Mcl.] 7 oJ de; e[palxin uJposthrivzwn; vicino al senso del nostro passo, benché il preverbio cambi, è Philops. [34 Mcl.] 13 h] skivpwna e[cwn ejkei`no" ejpesthrivzeto. th;n laia;n uJpoqeiv": laiav (sc. ceivr) è la mano sinistra, dall’agg. laiov" sinistro (cfr. lat. laevus, Chantraine 1999 s. v.). I prosatori ellenistici, tardo-antichi e cristiani (per nominarne soltanto alcuni Polibio, Giuseppe Flavio, Filostrato Imag. 871, 10 ed. Kayser 1871, Eusebio di Cesarea, Libanio) lo attinsero dalla poesia (Tirteo, Eschilo, Euripide, Apollonio Rodio) e da loro passò poi ai bizantini come sinonimo ricercato e desueto di ajristerov" ed eujwvnumo"; nonostante questo recupero nel greco medio-bizantino, la parola rimase tuttavia nella lingua degli eruditi e non sopravvisse nel neogreco. 57-58 to; kranivon katevagen: kranivon è parola non molto frequente nel greco classico (V-IV s.), ma già usata fin dai tempi di Omero; si afferma poi per lo più come termine scientifico nei medici. In unione con il verbo katavgnumi la si ritrova in Prodromo nell’epigr. 54b, 2 Papagiannis, dialogo tra due Egiziani colti dalle tenebre della nona piaga mosaica d’Egitto: w[ moi ejgwv: katevaga to; kranivon. In questa associazione Magnelli 2003, p. 196 vede un debito prodromeo diretto nei confronti dell’euripideo Cycl. 683-684 Ku. kakovn ge pro;" kakw/`: to; kranivonÉ paivsa" katevaga; il che implicherebbe che quel dramma satiresco, facente parte della raccolta alfabetica dei drammi di Euripide, fosse noto a Prodromo. Quest’ulteriore uso prodromeo, che conferma senz’altro la predilezione del nostro autore per la locuzione, può anche rafforzare l’ipotesi di Magnelli, il quale vede 150 nell’acc. di relazione l’argomento più cogente per sostenere la ripresa diretta da Euripide. A sfavore di tale ipotesi, cionondimeno, possono giocare due elementi non secondari: a) il fatto che to; kranivon è non solo acc. di relazione rispetto a katevagen, ma anche compl. ogg. di paivsa", participio ricorrente nel solo verso euripideo; e ci si chiede, pertanto, perché Prodromo l’abbia omesso (per l’esametro del tetrastico si può pensare che fosse in più rispetto alla sistemazione del verso; per il passo in prosa, però, non c’è scusante metrica); b) il ricorrere, raro ma esistente, notato già da Magnelli, dell’espressione in esame, nella stessa forma prodromea o con qualche variante, in autori che Prodromo leggeva: Luciano (Tim. [25 Mcl.] 48 a[nqrwpoi, katevaga tou' kranivou uJpo; tou' ajcarivstou), Alcifrone (3, 18, 1 katevaga to; kranivon) e Leone Diacono (X sec., hist. 7, 8 p. 125 Hase = PG 117, 840A kateagei;" to; kranivon). Io aggiungo anche varianti più lontane dalla nostra espressione prodromea, che rappresentano pur sempre testimonianze più accessibili a Prodromo del passo euripideo (il quale deve pur sempre essere stato per qualcuno, come i Settanta, la fonte primaria): LXX Jud A 9, 53 kai; e[rriyen gunh; miva klavsma muvlou ejpi; th;n kefalh;n Abimelec kai; sunevqlasen to; kranivon aujtou`, ripetuta in Iohann. Damasc. PG 95, 1316, 20 (con la variante sunevklasen), in Georg. Mon. Chron. 149, 12 e 200, 16 (con la variante sunevtriye), Psell. Or. for. I 2081 Dennis ou{tw to; kranivon paivsa" hjlovhsa". Esiste infine un detto di Democrito, riferentesi alla morte di Eschilo e tramandato da Simpl. in Physicam p. 330, 14 (= Democr. A 68 D.-K.) tou` de; katagh`nai tou` falakrou` to; kranivon to;n ajeto;n rJivyanta th;n celwvnhn: non può essere passato inosservato a Prodromo, lettore di Aristotele e dei suoi commentatori. Sulla diffusione dei drammi di Euripide nella Bisanzio dopo il Mille, vd. alcune ipotesi nel comm. a Sat. 140 H., 6 cum adn. 5. sumpodisqevnti: il verbo sumpodivzw ricorre a partire da Platone (e. g. Resp. 488c 5 to;n de;; gennai`on nauvklhron mandragovra/ h] mevqh/ h[ tini ajllw/ sumpodivsanta"), in senso proprio e figurato, e non è una rarità. 59 mh; kai; lavqh/"–kakw`n: l’espressione sembra essere stata influenzata da quella di Anna Comn. Alex. II 2, 1 levlhqen eJauto;n oJ geralevo" a[dikav te kai; ajxuvmfora diaskopouvmeno" kai; kata; th'" eJautou' kefalh'" tektaivnwn kakav, per la somiglianza sia di significato, sia di sintassi. TLG-E, poi, fornisce altre simili espressioni presenti in Giovanni Crisostomo: De virginitate 21, 40 ed. H Musurillo B. Grillet, SChr, Paris 1966 oJ th;n ijsavggelon tauvthn diabavllwn politeivan povshn ojrgh;n ejpispavsetati kata; th`" eJautou` kefalh`"…; In epistulam ad Romanos (homiliae 1-32), ed. PG LX 522, 39 ouj ga;r trofa;" proivetai, ajlla; rJhvmata loidoriva", u{brewn, polevmwn, qanavtwn, murivou" a[nwqen kata; th`" eJautou` kefalh`" e{lkonta keraunouv"; In annuntiationem deiparae [Sp.], ed. PG LXII 768, 73 ou[te ga;r to;n UiJo;n ajdikhvsei" kai; kata; th`" eJautou` kefalh`" ajnavyei" th`" geevnnh" to; pu`r. Attirare su di sé le disgrazie con offese o maledizioni rivolte ad altri... CONTROLLA!!! 64-70 o}"–wjbolostavtei: vengono qui elencate alcune divinità che, secondo la visione di Ermes, avrebbero tratto beneficio dalla poesia omerica: essa, cantandone le lodi con una serie di epiteti, ne ha messo in rilievo alcune caratteristiche, quasi come se gliele avesse attribuite di bel nuovo; e Omero diventa così benefattore degli dèi perché ne garantisce l’onore da parte degli uomini in merito a quella determinata caratteristica da lui esaltata. Questo effetto è quasi ovvio per la poesia omerica, che, essendo la prima testimonianza letteraria greca, rappresenta anche la prima forma di codificazione del materiale mitologico. Prima però di elencare alcuni passi che possono aver ispirato Prodromo, vorrei ricordare, se mai ve ne fosse bisogno, che il nostro autore bizantino non fa sottili differenze tra Iliade e Odissea da una parte e le altre opere spurie aggiudicate per tradizione al gran nome di Omero, come gli Inni e la Batracomiomachia, tanto per dirne alcune: tutto rientra nel gran calderone, comprese talora persino reminiscenze di Esiodo e di Luciano. Di Zeus si ricordano l’ègida e il fulmine (riferimento ad aijgivoco" e terpikevrauno"); di Ermes gli aligeri aurei calzari e il caduceo (riferimento a crusovrrapi" di e 87 e a versi che descrivono la vestizione del dio come W 340-343 aujtivk∆ e[peiq∆ uJpo; possi;n ejdhvsato kala; pevdilaÉ ajmbrovsia cruvseia, tav min fevron hjme;n ejf∆ uJgrhnÉ hjd∆ ejp∆ ajpeivrona gai`an a{ma pnoih`/" ajnevmoio:É ei{leto de; rJavbdon, th/` t∆ ajndrw`n o[mmata qevlgei); di Era le bianche braccia (riferimento a leukwvlhno"); di Afrodite il cinto (riferimento all’episodio di X 214-215 h\ [sc. Afrodite] kai; ajpo; sthvqesfin ejluvsato kesto;n iJmavntaÉ poikivlon, e[nqa dev oiJ qelkthvria pavnta tevtukto; ma anche a vari passi lucianei come Gall. [... Mcl.] 14; Dear. iud. 10; Syr. dea [... Mcl.] 32; Dial. deor. [... Mcl.] 11, 3; per il significato della parola, agg. in Omero e sostantivo solo negli autori tardi come appunto Luciano influenzati dai mitologisti romani, rimando ai commenti iliadici di Leaf e di Janko); di Atena gli occhi celesti (riferimento a glaukwvpi"); di Posidone il tridente con cui il dio scuote la terra (riferimento a M 27 aujto;" d∆ ejnnosivgaio" e[cwn ceivressi trivainan (sul n scempio di ejnnosivgaio" vd. Introduzione. § Constitutio textus 5) Geminazione e scempiamento delle consonanti, p. 42); di Ares le armi (riferimento a ajndrovfono" e brotoloigov", nonché a tutti gli episodi di guerra in 151 cui Ares è implicato, come l’aristìa di Diomede); di Ganimede il suo ruolo di coppiere (U 234 to;n [sc. Ganimede] kai; ajnhreivyanto qeoi; Dii; oijnocoeuvein); di Apollo l’arte mantica (può riferirsi e. g. al vaticinio di Calcante riguardo alla peste nell’accampamento acheo A 69-72 Kavlca" Qestorivdh" oijwnopovlwn o[c∆ a[risto"É o}" h/[dh tav t∆ ejovnta tav t∆ ejssovmena prov t∆ ejovntaÉ kai; nhvess∆ hJghvsat∆ ∆Acaiw`n ‘Ilion ei[sw h}n dia; mantosuvnhn, th;n oiJ povre Foi`bo" ∆Apovllwn); di Efesto la fabbricazione dello scudo di Achille (riferimento al noto episodio di S); di Helios il fatto che viaggia su un a{rma trainato da qoai; i{ppoi (secondo LIMC s.v. Helios, V 1 Addenda, le prime fonti letterarie che parlano della divinità Helios sono Hes. Th. 371-374 e Hymn. Hom. Dem. II 26; in connessione al carro, poi, Hymn. Hom. Merc. IV 68-69; Hymn. Hom. Min. XXVIII 13-15 i{ppou" wjkuvpoda"; Hymn. Hom. Sol. XXXI 14-16); di Cloto lo stame, il filo della vita (in realtà Omero non parla mai della sola Cloto, bensì delle Moire insieme e, con riferimento all’azione di filare il destino, esclusivamente in h 197-198 a{ssa oiJ ai\sa kata; Klw`qev" te barei`aiÉ geinomevnw/ nhvsanto livnw/, o{te min tevke mhvthr; per ulteriori informazioni rimando al commento a questo passo di Garvie 1994. Vanno comunque menzionati almeno i verbi ejpiklwvqw ed ejpinevw, con cui Omero indica lo svolgersi di un destino già stabilito da tempo. Altri autori successivi sono in ogni caso più espliciti. Per il costrutto th;n Klwqw; to; nh`ma ejpevleipe cfr. Prodr. Sat. 146 H., 200 ejme; de;... kai; oJ gevlw" ejpevlipe); di Caronte il suo ufficio di nocchiero infernale (questo personaggio non è nemmeno nominato da Omero; la sua fama comincia a partire da Eur. Alc. 255; in Luciano egli è interlocutore rispettivamente di Menippo e di Ermes in Dial. mort. [77 Mcl.] 2 e 14 e protagonista del dialogo Cavron h] ejpiskopou`nte" [26 Mcl.]). ejdiyw`men a]n kai; ejlimwvttomen: il motivo per cui le divinità avrebbero patito la fame e la sete, se Omero con la propria poesia non avesse spinto gli uomini a onorarle, fa riferimento alla credenza diffusa, e non solo nel sentimento religioso greco, per cui gli dèi sopravvivono grazie ai sacrifici degli uomini: si ricordi il mito di Prometeo, che inganna gli dèi con il sacrificio di grasso, anziché di carne; ma anche la storia di Nefelococcigia negli Uccelli aristofanei, in cui gli dèi vengono presi per fame da Pisetero, poiché i fumi degli olocausti umani sono intercettati dalla nuova città. Si aggiungano poi i passi lucianei, specialmente il dialogo Iupp. tr. [21 Mcl.], incentrato sul pericolo per cui gli dèi morirebbero di fame senza sacrifici, se tra gli uomini si radicasse l’ateismo (in particolare v. § 15 in cui Zeus si lamenta della meschinità di un uomo, che scioglie un voto agli dèi con un ben magro e povero banchetto; § 22, in cui Momos affronta il problema delle timai; che agli dèi provengono dagli uomini tramite i sacrifici). Proprio in questo dialogo Timocle, avvocato degli dèi, adduce al confutatore ateo Damide prove dell’esistenza della divinità citando passi omerici (vD. § 39). Oltre che con i sacrifici, però, gli dèi sopravvivono anche con un cibo e una bevanda esclusivamente divini, elargiti loro dall’invenzione omerica: l’ambrosia e il nettare; forse Prodromo ricorda anche, più per la somiglianza lessicale che per quella contenutistica, il passo di Luc. Deor. conc. [52 Mcl.] 14 in cui Momos, recitando un decreto, lamenta che l’afflusso di nuovi dèi barbari nel pantheon greco ha provocato lo scarseggiare di ambrosia e nettare (ejpelevloipe de; hJ ajmbrosiva kai; to; nevktar, w{ste mna`" h[dh th;n kotuvlhn ei\nai dia; to; plh`qo" tw`n pinovntwn). In Luc. Bis acc. [29 Mcl.] 1 oujk a]n hjma`" tou` nevktaro" h] th`" ajmbrosiva" ejmakavrizon ÔOmhvrw/ pisteuvsante" ajndri; tuflw/` kai; govhti Omero viene da Zeus addotto come esempio di millantatore di un’inesistente beatitudine degli dèi, i cui segni più evidenti sarebbero appunto nettare e ambrosia. Limwvttw (-ssw) è verbo della koinhv, al posto del classico peinavw, a partire da Filone, Giuseppe Flavio e poi Plutarco. ej" to; ajkribev": è locuzione avverbiale, non molto frequente e di diffusione tardo-antica, che dal significato principale di alla perfezione (cfr. Luc. Harm. [66 Mcl.] 1 aJrmovsasqai to;n aujlo;n ej" to; ajkribev") passa a quello derivato di ajkribw`", esattamente, per l’appunto, ma nel senso di komidh/`, ajlhqw`", veramente, per davvero; Tgl cita in proposito Thuc. VI 82 kai; ej" to; ajkribe;" eijpei`n (ma vd. anche altri passi lucianei); talora compare nella forma pro;" to; ajkribev". Prodromo mostra predilezione per questo tipo di locuzioni avverbiali formate da una preposizione che regge un agg. neutro sostantivato; cfr. Sat. 146 H., 169 pro;" to; periferev" in tondo e ibid. ln. 236 pro;" to; aJbrovteron in maniera delicata. ejw/nocovei: il verbo oijnocoevw è già omerico, e. g. D 3 nevktar ejwinocovei, secondo la lezione accolta dall’ultimo editore West I, p. XXVII (cfr. S ad loc.; T. W. Allen stampava invece ejoinocovei), evidentemente la stessa che leggeva Prodromo nel suo manoscritto omerico. Si tratta di un aumento simile agli altri omerici ejwvikei, ejwvlpei, cioè di verbi che cominciavano per Û e il cui aumento era dunque sillabico, non quantitativo: ej(Û)o(i)- ovvero, come propone West, * hj(Û)o(i)- > ejw(i)-, con metatesi quantitava. wjbolostavtei: il verbo ojbolostatevw significa etimologicamente peso gli oboli, ma nei pochissimi passi in cui è attestato assume il valore traslato di presto a usura: e. g. Luc. Necyom. [38 Mcl.] 2 e i lessicografi come Fozio; già comunque in Ar. Nub. 1155 esiste il sostantivo ojbolostavtai, usurai. Per Caronte direi che Prodromo ha recuperato il significato etimologico di soppesare nel senso di ricevere gli oboli in cambio del traghettamento; infatti prestare non si addice al nostro passo; casomai ci si 152 aspetterebbe un misqoforevw, dal momento che Caronte riscuote l’obolo dai morti che devono essere traghettati nell’Ade. 71 megalodwrovtato": megalodwvro" che elargisce grandi doni, cfr. Ar. Pax 393 w\ filanqrwpovtate kai; megalodwrovtate daimovnwn (detto in tono adulatorio dal Coro a Ermes); Pol. X 5, 6; ma soprattutto Luciano (4 usi dell’agg. nel corpus pervenuto, e. g. Tim. [25 Mcl.] 21 oJ Plouvtwn ajpostevllei me par∆ aujtou;" a[te ploutodovth" kai; megalodwvro" kai; aujto;" w[n, detto di Pluto, la Ricchezza). 73 ajovmmato": secondo TLG on-line l’agg., peraltro ben comprensibile, compare solo una dozzina di volte, a partire da autori di età tardo-antica come Epifanio di Salamina, fino ai bizantini, antichi, come Pisida (Hexaem. 1303) o contemporanei o posteriori a Prodromo, quali Tzezte (Chiliades), Niceta Coniata, Michele Coniata, Manuele II Paleologo (Dialogi cum mahometano); vd. anche LBG s.v. In età classica è attestato solo ajnovmmato" in Soph. Ph. 856, ripreso da Nonn. Paraphr. Ev. Ioann. IX 8, Olimpiodoro e Proclo. 74 kata; nou`n–zh`n: con il verbo proairevw la frase assume un colore filosofico, essendo la proaivresi" una deliberata scelta di vita che porta alla professione filosofica di determinati principi. 75 eja;n–ejbouvleto: in greco classico ejavn sta solo con il congiuntivo pres. o aor. nella protasi del periodo ipotetico dell’eventualità (onde si spiega la congettura di Du Th.); ma già in greco tardo ejavn rimpiazza eij e, scendendo fino al neogreco, si trova persino a[n (= ejavn) per introdurre le protasi non solo dell’eventualità, ma anche della realtà e dell’irreltà (cfr. Schwyzer II, p. 685). Psaltes 1913 non dice niente in proposito, perché non contempla la sintassi. 76 ojmmatou`nta: ojmmatovw nel senso di fornisco d’occhi Diod. Sic. IV 76 (detto a proposito di statue); ma negli autori ecclesiastici a partire dall’età tardo-antica fino tutti i bizantini il verbo, che compare una quarantina di volte, significa l’azione di ridare la vista a un cieco. Qui mi pare ben comprensibile il recupero del significato primario (come per ojbolostatevw); risulta poi un riuscito gioco letterario far menzionare a Ermes Argifonte proprio l’esempio di Argo. Di quest’ultimo nome il numero plurale si può giustificare con il tono proverbiale della frase, come in Sat. 146, 60 oujd∆ a]n o{lou" [Aqw", w\ lw/`ste, th`" korufh``" moi katalaxeuvoi". 76 wJ" ajloifai`"–to; ojptikovn: anche se la parola ajloifh; compare 10 volte nei poemi omerici, essa non è mai connessa a un episodio in cui qualcuno ridona la vista a qualche altro spalmando sui suoi occhi accecati unguenti o erbe, sul modello di episodi biblici (vd. e.g. Tobia in LXX Tob XI 11 sgg., sui cui occhi il figlio cosparge il fiele di un pesce; oppure il cieco di NT Mc 8, 22 sgg. sui cui occhi Gesù sputa; il cieco nato di NT Io 9, 6 sui cui occhi Gesù applica un po’ di fango formato con il proprio sputo; l’apostolo Paolo in NT Act IX 18 sui cui occhi, accecati dalla visione di Gesù sulla via di Damasco, Anania impone le mani, facendogli cadere come delle scaglie e restituendogli la vista). Nell’Iliade invece mi torna alla mente solo il caso di Macaone, figlio di Asclepio, che cura una ferita nella coscia di Menelao, estraendo da essa un dardo conficcatovisi e cospargendola di h[pia favrmaka (L 218; vd. l. 176 infra). wJ" rJadivw": la lezione sicura di V wJ" si può tollerare, ritenendola ripetizione del precedente con ellissi di oi\de; Du Th. stampa tacitamente kaiv, forse per chiarezza. 78 hjme;n–a[ndra: ancora un “esametro ametrico”; il rimando è a E 128 o[fr∆ eu\ gignwvskh/" hjme;n qeo;n hjde; kai; a[ndra, episodio in cui Atena soccorre Diomede, dissipando dai suoi occhi la caligine che generalmente impedisce ai mortali di distinguere gli dèi (non dunque quella che un dio può riversare sugli occhi di un eroe che sta inseguendo un suo protetto, come e. g. fa Posidone con Achille per salvare Enea in U 321 e 341 ss.). 79 govhta–qaumatourgovn: la prima parola è già in Erodoto, ma Prodromo deve averla in mente senz’altro da passi platonici (e. g. Symp. 203d), demostenici (e. g. Or. XVIII [De cor.] 276) e soprattutto lucianei, tra i quali Gall. [22] 4 govhtav fasi kai; teratourgovn e Alex. [42 Mcl.] 25 govh" a[nqrwpo" kai; terateiva/ fivlo", Dial. mort. [77 Mcl.] 20, 8 govh" kai; terateiva" mesto;" offrono una coppia sinonimica molto simile alla nostra; cfr. anche Bis acc. [29 Mcl.] 1 ÔOmhvrw/ pisteuvsante" ajndri; tuflw/` kai; govhti. I due aggettivi hanno chiaramente senso ironico. 81 oi{hn ejk rJakevwn oJ gevrwn ejpigounivda faivnei: citazione letterale di s 74, che è l’apprezzamento di uno dei proci verso Odisseo, presentatosi sotto mentite spoglie come un vecchio mendicante e sfidato alla lotta dall’accattone Iro. Si cita proprio questo verso forse per il gioco verbale ”Omhro" = oJ mhrov" (la coscia), che Prodromo trovava in Heliod. Aeth. III 14 (cfr. RE s.v. Homeros, col. 2199). 82 to;n–nauvstaqmon: secondo Tgl s. v. il significato usuale di questa parola, che tra altro si trova anche al genere neutro, è navium statio, porto, come risulta da numerosi passi, appartenenti soprattutto agli storici (compare a partire da Tucidide, passando per il Reso, e viene frequentemente usata nella koinhv: Plutarco, Strabone, Dione Crisostomo, Cassio Dione, Diodoro Siculo). Tra gli autori bizantini, soprattutto tra gli storici, il significato si estende per sineddoche a flotta (sinonimo, dunque, di 153 nautikovn). Illuminante al riguardo, riferito proprio alla flotta achea, è Eustat. In Iliad. 2, p. 203 e[nqa de; kai; to; nauvstaqmon kai; oJ ∆Acaiw``n limh;n kai; to; ∆Acaiko;n stratovpedon, passo in cui mi pare evidente la differenza tra nauvstaqmon flotta e limhvn porto o, meglio, ormeggio delle navi; vd. anche Suid. s. v. h] o{ti oJ nautiko;" strato;" nauvstaqmo" kalei`tai. Altri usi prodromei di questa parola in tale accezione sono Carm. hist. XXX 121 Hörandner oJ de; th;n tou` Sikelikou` levge naustavqmou ptw`sin (l’affondamento della flotta siciliana, ossia normanna, giunta fino al Corno d’Oro ma accerchiata da quella bizantina nel 1149) e XLIV 90 Hörandner kai; purpolw`n to;n nauvstaqmon kai; bavllwn tou;" summavcou" (Alessio, il figlio appena nato del sebastocratore Andronico, viene paragonato ad Achille, pronto a fronteggiare il nuovo Ettore di turno, minacciante di bruciare le navi, proprio come narra Omero in H). 83 koruqaivolon: è epiteto formulare del solo Ettore (in Iliade soltanto e sempre in clausola). 86 ejk passalovfin–fovrmigga: sono le azioni dell’aedo Demodoco alla corte di Alcinoo: q 67 ka;d d∆ ejk passalovfi krevmasen fovrmigga livgeian e 73 Mou`s∆ a[r∆ ajoido;n ajnh`ken ajeidevmenai kleva ajndrw`n. 87 meta; ceivra"–kivqarin: cf. le azioni che concernono l’aedo Femio tra i proci in a 150 sg. kh`rux d∆ ejn cersi;n kivqarin perikalleva qh`keÉ Fhmivw/. 88 ajmf∆ “Areo"–∆Afrodivth": è il famoso pezzo degli amori adulterini di Ares e Afrodite cantato da Demodoco e così introdotto in q 266-267 aujta;r oJ formivzwn ajnebavlleto kalo;n ajeivdeinÉ ajmf∆ ‘Areo" filovthto" eju>stefavnou ∆Afrodivth", ricordato anche in Sat. 146 H., 253 sgg. (1° brano poetico). 89 moushghtei`: Tgl s. v. fornisce solo il nostro passo e traduce «Musis citharae pulsu praeiens». Il verbo, benché non attestato per gli autori fino all’età tardo-antica, si può capire come denominativo di moushgevth" che in senso proprio è epiteto di Apollo in qualità di capo delle Muse (non frequentissimo, ma ricorrente, fra gli altri autori, in Platone, Pausania, Plutarco e Luciano); onde il significato del verbo guidare le Muse; poiché poi Apollo è spesso rappresentato con la cetra, la sua guida consiste nel suonarla e il verbo, dunque, può semplicemente significare suonare la cetra. Tra i 5 passi forniti da TLG on-line per moushghtevw, quello di Io. Damasc. Passio magni martyris Artemii 52 [ed. P. B. Kotter, Die Schriften des Ioh. von Damaskos, vol. 5, Patr. Texte und Studien 29, Berlin-New York 1988] eJstw`tiv te meta; cei`ra" h\n hJ kiqavra, moushgetou`ntav tina ejkmimoumevnw/ viene tradotto da Lampe «conduct a choir». Forse è uno scritto anteriore a Prodromo, ma di paternità dubbia; più chiaro il passo di ps. Zon. Lex. (s. XIII; ed. Tittmann, Leipzig 1808) s. v. moushgetw`n: kiqarivzwn. Vd. anche gli altri passi citati da LBG s.v. μουσηγετέω Anführer der Musen sein, die Kithara spielen: Sym. II 1197B, Mich. Chon. Ep. CIII124; anstimmen: τὸν ὑμνητήριον Ηοlob. Or. II 78,11). ejpirayw/dei`: per il r scempio, vd. Introduzione. § Constitutio textus. 5) Geminazione e scempiamento delle consonanti, p. 42. 90 ojfqalmw`n–ajoidhvn: è q 64, salvo glukei`an, varia lectio rispetto a hJdei`an, tràdita concordemente per il verso omerico, come sembra lecito ricavare dal silenzio delle edd. crr. da me consultate (specialmente quelle circostanziate di La Roche e Ludwich), che non forniscono variante alcuna; si tratta probabilmente di un lapsus memoriae di Prodromo, che cita a mente. Spigolando, però, con l’aiuto di TLG nella tradizione indiretta, si nota che anche Eustazio di Tessalonica, tra le varie occorenze del verso suddetto, ne presenta due con la modifica parafrastica dello stesso aggettivo offerto da Prodromo: In Iliad. vol. I, p. 460, 25-26 ajlla; kai; th`" w/jdh`" ejstevrhsen, ajpenantiva" eJtevroi", ou}" ojfqalmw`n me;n a[merse qeo;" kata; th;n poivhsin, e[dwke de; glukei`an ajoidhvn; e vol. III, p. 838, 34 kajkeivnw/ [sc. tw/` Dhmodovkw/] ga;r qeo;" to; me;n e[dwke, to; d∆ ajnevneusen, ojfqalmw`n me;n ajmevrsa", dou;" de; glukei`an ajoidhvn. Van Der Valk non annota niente in proposito, forse perché la variante proviene da un lapsus ovvero dall’esegesi di Eustazio. Mentre in q 64 il soggetto dei verbi è la Musa, qui in Prodromo sembra essere hJ moivra (ripreso dal dat. preced., che non credo possa essere interpretato come un sinonimo di ejn mevrei. 92 th;n ∆Afrodivthn–tw/` povtw/: benché il significato sia comprensibile, la sintassi è un po’ strana, ché ci si attenderebbe un para; povton, peri; povtou"; al massimo ejn tw/` povtw/; in ogni caso si può intendere il dativo retto dal preverbio. Il significato mi pare essere «se occorre che l’amore si accompagni all’allegria data dal vino nel banchetto»; un tipico accostamento simposiale. Ermes si dichiara inferiore in seduzione, egli che sa contrastare con antidoti le malie di Circe (vd. k 302) e condurre le anime a suo piacimento. CONTROLLA 94 sunantilambanomevnhn: il verbo sunantilambavnw è della koinhv; uno tra i primi esempi è NT Rm VIII 26 to; pneu`ma sunantilambavnetai th/` ajsqeneiva/ hJmw`n; continua poi il suo impiego, sia pur con moderazione, tra gli autori ecclesiastici e bizantini in genere. Mi attenderei auJtw/` (eJautw/`): o sbaglio? CONTROLLA 154 95-96 o}n me;n ga;r cruso;n–tou` nwvtou: la frase allude a due famose scappatelle di Zeus: quella con Danae, conquistata tramite la metamorfosi in pioggia d’oro, in seguito alla quale nacque Perseo; e quella con Europa, rapita dopo la di lui trasformazione in toro. Due episodi di cui, a rigore, Omero non ci tramanda niente (eccetto il minimo cenno in X 319-322), ma da Prodromo attribuitigli “novellisticamente”. La sintassi della seconda frase resta, se non erro, sospesa dall’interruzione di Zeus, timoroso di essere scoperto, nonché un po’ asimmetrica rispetto alla prima: si potrebbe pensare a mutare lo oiJ in w|/ oppure in oi[sei, benché ci si possa sforzare di accettare così il testo tràdito. 97-98 mh; kai; lavqh/"–koinologivan: allude al mito di Tantalo, tràdito da l 582-592. 100-103 to;n tau`ron–ejnevgrayen: vuol dire che Omero cita nel proprio epos vari oggetti; per le aquile, diversi sono i passi, tra cui e. g. Q 247 aujtivka d∆ aijeto;n h|ke teleiovtaton petehnw`n; per i cigni cfr. B 460 (= O 692) chnw`n h] geravnwn h] kuvknwn doulicodeivrwn; i satiri invece non compaiono nei due poemi omerici; ma cfr. TLG on-line con ricerca della stringa in ordine cronologico difqevra nel senso di libro già in Hdt. V 58. 106 povqen–patriv": questa è la tipica domanda che da Omero (vd. v. seguente nel testo) fino alla poesia drammatica si pone a un personaggio appena giunto; cfr. anche Ar. Th. 136 podapo;" oJ guvnni"… Tiv" pavtra… Tiv" hJJ stolhv…, a sua volta parodia di un passo tragico. 107 ajrayw/dhvtw/: a parte il solito motivo del parlare in versi, già visto all’inizio di questo dialogo, va detto che l’aggettivo verbale è un’intelliggibile neoconiazione prodromea, formata sul modello di ajtivmhto" o qualcosa di simile; se dunque rJayw/devw significa recito in versi (cfr. anche Luc. Iupp. tr. [21 Mcl.] 22 bouvlei ou\n w\ ÔErmh`, to; ÔOmhriko;n ejkei`no prooivmion ajnarrayw/dhvsw pro;" aujtou;"…), l’agg. verb. primo significa irrecitato; qui però in riferimento a una persona andrà meglio tradotto all’attivo = che non ha recitato in versi, quindi non istruito nel recitare in versi (come in lat. incenatus = che non ha pranzato). La lezione con r scempia qui va senz’altro mantenuta anche metri causa; LBG s.v. (= der Rhapsodie unkundig) ha quella con doppio r, per derivazione dall’ed. Du Theil. Il verso, poi, è un esametro di completa confezione prodromea. 109 tiv"–tokh`e": è a 170, domanda di Telemaco ad Atena, giunta alla casa di Odisseo sotto mentite spoglie. Lascio l’accento circonflesso su questa forma verbale di eijmiv, perché conforme alla possibiltà di trovarlo anche nella tradizione ms. di Omero (sul problema vd. Chantraine I, p. 286 con nota). 111-112 eJpta;–ajqhvnh: questo famoso epigramma, con varianti testuali rispetto alla versione prodromea, viene attribuito nell’Antologia Palatina XVI 297 ad Antipatro di Sidone: eJpta; ejridmaivnousi povlei" dia; rJivzan ÔOmhvrouÉ Kuvmh, Smuvrna, Civo", Kolofwvn, Puvlo", ‘Argo", ∆Aqh`nai; ibid. 298 eJpta; povlei" mavrnanto sofh;n dia; rJivzan ÔOmhvrouÉ Smuvrna, Civo", Kolofwvn, ∆Iqavkh, Puvlo", ‘Argo", ∆Aqh`nai. Si può aggiungere, con Du Theil, anche un passo di Heracl. All. Hom. 76 (tenendo conto anche della presenza di questa opera proprio in V, f. 190r e Vat. gr. 871) ajllav toi Plavtwn me;n {Omhron ejkbevblhke th`" ijdiva" povlew", oJ de; suvmpa" kovsmo" ÔOmhvrou miva fhsi;n ei\nai patriv": Poiva", gou`n, ajsto;n {Omhron ajnagraywvmeqa pavtrh", kei`non ejf∆ w|/ pa`sai cei`r∆ ojrevgousi povlei", exovcw" d∆ ∆Aqh`nai, aiJ Swkravthn me;n ajrnhsavmenai polivthn mevcri farmavkou, mivan d∆ eujch;n e[cousai dokei`n ÔOmhvrou patri;" ei\nai…. Nota è la gustosa recensione ai Prolegomena di Wolf, satireggiante la sua teoria analitica: Sieben Städte zankten sich drum, ihn geboren zu haben;/ Nun da der Wolf ihn zerriss, nehme sich jede ihr Stück (Goethe V1 , 243 Weim.). Per il sing. ∆Aqhvnh = ∆Aqh`nai cfr. h 80; è la forma rimasta nella dimotikì. 114 Kalliovph–ajrgikerauvnou: Omero si proclama allievo diretto di Calliope, la musa della poesia epica, nome peraltro mai ricorrente né in Iliade, né in Odissea. Il verso pare una creazione prodromea; vi sono comunque vari prestiti: a) Hymn. Hom. in Solem 1 ”Hlion uJmnei`n au\te, Dio;" tevko", a[rceo Mou`saÉ Kalliovph; b) per il sintagma me divdaxe nella stessa posizione metrica vd. Bion Buc. X 13 (= Stob. IV 20a, 26) o{ssa d∆ ‘Erw" me divdaxen ejrwtuvla pavnta didavcqhn; Nonn. Dion. XVI 321 ai[qe pathvr me divdaxe telessimavgou dovlon oi[nou; XX 372 ai[qe pathvr me divdaxe meta; klovnon e[rga qalavssh"; XXXVIII 60 levxw d∆ w{" me divdaxen ejmo;" dafnai`o" ∆Apovllwn; Dio;" tevko" è frequente in Omero e negli inni in questa posizione del verso (e. g. A 202 e verso succitato); c) ajrgikevrauno", uno degli epiteti omerici di Zeus, è abbastanza raro in clausola, come risulta dalle poche occorrenze, disponibili alla lettura di Prodromo: un verso orfico (fr. VI, 9-42 Hermann Orph. p. 457 ap. Eus. Praep. Ev. 3, 9, 2 = Porph. peri; ajgalmavtwn III 6 = Stob. I 1, 23 = Io. Philop. Aet. mun. 179 = Procl. in Tim. I 313) Zeu;" prw`to" gevneto Zeu;" u{stato" ajrgikevrauno"; un verso dell’inno di Cleante ap. Stob. I 12, 34 ajlla; Zeu` pavndwre, kelainefev", ajrgikevraune; un verso di Pap. Derv. 155 col. XIX, 10 (= fr. 14, 4 Bernabé ap. ps. Arist. de mun. 401b 5 = fr. 31, 7 Bernabé) Zeu;" basileuv", Zeu;" d∆ a[rco" aJpavntwn ajrgikevrauno". 115 oJpodapov"–ei\: nell’antichità mettere in rilievo nell’epos omerico un dialetto piuttosto che un altro sembrava portare prove a favore della corrispondente cittadinanza del poetà.1 Cfr. anche ps.-Plut. De Hom. II 8 levxei de; poikivlh/ kecrhmevno" tou;" ajpo; pavsh" dialevktou tw`n ÔEllhnivdwn carakth`ra" ejgkatevmixen. CONTROLLA 117 ajpologiva": ci si sarebbe atteso un ajpovkrisi", ajpavnthsi" risposta; sarà forse una svista del copista di V? 119-120 lovgio"–wjnomasmevno": in realtà l’epiteto riferito a Ermes non è omerico; vd. invece Tgl s.v. che cita Luc. Pseudol. [51 Mcl.] 24, Merc. cond. [... Mcl.] 2; Synes. Epist. CI 68, CLIX 15, Dion XVIII 19; vd. anche ln. 326 infra. 120 pevnte dialevktoi": probabile sovrapposizione di due dati: l’uso da parte di Omero di quattro dialetti (cfr. ps.-Plut. de Hom. II 9-13) e la suddivisione di alcuni grammatici della lingua greca in cinque dialetti (ajtqiv", dwriv", aijoliv", ijwniv", koinhv; cfr. e.g. i vari commentaria in Dion. Thracis Art. Gr. in GG I 3); vd anche il trattato di Gregorio di Corinto. CONTROLLA martuvrai": per questo aor. asigm. ottativo attivo o si ipotizza un athesauriston martuvrw (esiste infatti il solo deponente martuvromai; anche LBG non ha il lemma), oppure bisogna emendare con un martuvraio (che purtroppo non ci si può sforzare di leggere in V, perché il s è ben evidente nel f. 65v, l. 19, identico a quello di tevko" ln. 16). Martuvromai nel senso di marturevw, -omai attesto, dichiaro, testimonio (vd. anche Prodr. Sat. 148 H., 97-98 tiv ga;r e[dei kai; ajpistei`n presbutikw/` ou{tw" ajnqrwvpw/, pollhvn tina th;n pei`ran suneilhcevnai marturoumevnw/ th/` polia/`), e non nel senso classico di chiamo a testimone qcn. di qcs., è slittamento semantico tipico della koinhv, come risulta anche da NT Gal 5, 3 martuvromai pavlin panti; ajnqrwvpw/ peritemnomevnw/ o{ti ojfeilhvth" ejsti;n o{lon to;n novmon poih`sai. CONTROLLA 121 nu`n–ejpikaivrw": la risposta ha un andamento da tetrametro trocaico. 122 tiv"–sunavrhtai: il costrutto tiv" h] anziché tiv" a]llo" h] non pare ricomparire in Prodromo; vd. invece subito dopo a l. 137 tiv ga;r a[llo h] poihtika; ajgaqav e dialogo filos. 135 H., 302 tiv a]n a[llo oijkeiovteron katepav/saimi h] oJpovte kai; oJ kwmw/do;" Mevnandro" ktl. Sunavrhtai è morfologicamente cgtv. aor. asigm. medio; il suo valore può essere dubitativo (anché se per questo tipo di cgtv. ci si attenderebbe di più un costrutto del tipo tiv dravsw, tiv poihvsw, mentre con il nostro pronome e verbo sarebbe preferibile avere qcs. come tiv" a]n a[llo" h] ∆Empedoklh`" moi tou` e[rgou sunavraito…). 123-124 h]dh–ijcquv": cfr. Emped. fr. 117 D.-K. (ap. Diog. Laert. VIII 77 e Hippol. Ref. I 3 [A 31 I 289, 4]) h[dh gavr pot∆ ejgw; genovmhn kou`rov" te kovrh teÉ qavmno" t∆ oijwnov" te kai; e[xalo" e[llopo" ijcquv". Ma le varianti con cui compare qui il secondo verso ne denuncia la provenienza da Olymp. In Phaed. X 3, 17-18, p. 141 Westerink (il primo è invece, a parte l’adattamento al contesto che comporta l’omissione del sogg. ejgwv e il cambio di persona e modo nel verbo, corrisponde alle altre tradizioni) qavmno" t∆ oijwnov" te kai; eijn aJli; nhvcuto" ·e[xalo" a[morfo"‚ ijcquv", che noi oggi leggiamo solo nel Marc. gr. 196 Z, del sec. X. Ermes, parlando in nome di Omero, usa i versi empedoclei riferiti alle metamorfosi del filosofo agrigentino per ironizzare sul pantodapov" appena detto da Omero. 126 kivklhskon–mhvthr: anche questo esametro, zoppicante nella metrica (iato me {O- e consonante in più -ron pat-), sembra un’invenzione prodromea su materiale preesistente: i 366 sg. OuÅtij e)moi¿ g' oÃnoma, OuÅtin de/ me kiklh/skousi/ mh/thr h)de\ path\r h)d' aÃlloi pa/ntej e(taiÍroi. Il verbo in apertura ricorre in H. Hom. (Dem.) II 327 kivklhskon kai; polla; divdon perikalleva dw`ra; Ap. Rh. I 230 kivklhskon mavla pavnta", ejpei; Minuvao qugatrw`n; A. P. II 316, 2 kivklhskon, deurou` pri;n qanavtoio tucei`n. Path;r kai; povtnia mhvthr è clausola che ricorre 12 volte nei poemi omerici, 1 Cfr. anche quanto affermava G. B. Vico, Scienza nuova, l. III Della discoverta del vero Omero, Napoli 17302 , capov. 790 «la contesa delle greche città per l’onore d’aver ciascuna Omero suo cittadino, ella provenne perché quasi ogniuna osservava ne’ di lui poemi e voci e frasi e dialetti ch’eran volgari di ciascheduna» (citato da G. Cerri nell’Introduzione a A. Ercolani, Omero, Roma 2006, p. 16). 156 riutilizzata un paio di volte da Gregorio di Nazianzo e una da Nonno di Panopoli; compare anche in un verso citato dal solo ps.-Plut. cons. Apoll. 117b 3 duvsmoro", oujd∆ a[ra tw/` ge path;r kai; povtnia mhvthrÉ o[sse kaqairhvsousin; ma il verso che più rassomiglia nel significato a questo prodromeo è AP II 459, 6 ÔHrovfilon d∆ ejkavloun me path;r kai; povtnia mhvthr. 127 o{mhro" w[n: affiora il noto gioco di parole tra il nome proprio del poeta e la sua analisi pseudoetimologica oJ mh; oJrw`n, diffusa nell’antichità almeno sin dalle Vitae Homeri (cfr. RE s.v. Homeros, col. 2199). mikrou`: non è gen. di prezzo, bensì gen. dipendente da un sottinteso dei`n, come se fosse ojlivgou (dei`n), costrutto che si ritrova in Sat. 146 H., 201 [= 12, 16 Migliorini 2007] mikrou` dev pou kai; ajnistavmenon katafilh`sai th;n cei`ra tou` sumbolaiogravfou e [= 16, 19 Migliorini 2007] mikoru` g∆ a]n kai; ajpevpnige. {Omhro"–ejlelhvqei": cfr. la stessa espressione sotto l. 213 kai; dh; sumpaqevstato" w]n hJma`" ejlelhvqei". 128 ejkto;" th`" kaluvptra": la prep. ejktov" nel senso di a[neu, cwriv" è già classica. Omero, già cieco, non ha bisogno della benda per girare la mola come gli asini, affinché non siano sviati e non soffrano di vertigine; la pena di macinare al mulino è minacciata anche alla serva di Lys. Or. I. ajlhvqh/": il verbo ajlhvqw per ajlevw compare da (ps.-)Ippocrate in poi (vd. LSJ s.v.). aujtovtuflo": neoconiazione prodromea sul modello di e.g. aujtovmato"; LBG s.v. (= völlig blind) registra il solo nostro passo. 130 ej" tou;" Kuvklwpav" se ajpagagwvn: è l’episodio di Polifemo i 106 ss. (sp. 109 e 123 per le parole successive). 131-133 Ou[lumpovnd∆–deuvetai: z 41-46 hJ me;n a[r∆ w}" eijpou`s∆ ajpevbh glaukw`pi" ∆AqhvnhÉ Ou[lumpovnd∆, o{qi fasi; qew`n e{do" ajsfale;" aijei;É e[mmenai ou[t∆ anevmoisi tinavssetai ou[te pot∆ o[mbrw/É deuvetai ou[te ciw;n ejpipivlnatai, ajlla; mavl∆ ai[qrhÉ pevptatai ajnnevfelo", leukh; d∆ ejpidevdromen ai[glh:É tw`/ e[ni tevrpontai mavkare" qeoi; h[mata pavnta. Nota in Prodromo la lectio facilior o{pou al posto di o{qi e la variante makavrwn per qew`n, forse riaffiorata alla mente di Prodromo a partire dal v. 46. 135 o{lou" soi Paktwlou;": ancora un plurale di nome proprio generalmente al singolare (vd. n. 76 ojmmatou`nta); il fiume lidio Pattòlo era così celebre nell’antichità per i sedimenti d’oro trasportati dalle sue acque giù dalle montagne donde esso nasceva, al punto che era divenuto un topos frequente nella letteratura, specialmente poetica, per indicare la ricchezza. Nell’oratoria bizantina dell’XI e XII s. questo nome compare molto spesso, come annota Bachmann nel passo di Georg. Antioch. Or. in Sebast. Const. Angelum p. 376, r. 13 Bachmann-Dölger w] ceiro;" phgazouvsh" a[llou" crusou` Paktwlouv". 136 uJdragwghvsei: il verbo uJdragwgevw aquam duco (v. Tgl s. v.), stando a TLG on-line, è usato una volta da Esichio (wjcevteuen: uJdragevgei) e cinque volte da autori bizantini; in Prodromo compare nei Carm. hist. XL 21 Hörandner tou` th;n a[nudron uJdragwgh`sai tevw"; poi Georg. Antioch. Or. in Sebast. Const. Angelum, p. 383, 10 Bachmann-Dölger tavca ga;r kai; skalivsin oJplivzonte" ta;" cei`ra" ojcethgoi`" ejpi; sfa`" aujtou;" uJdragwgou`si ta; ejpithvdeia. Nella letteratura pre-bizantina il verbo pare che si trovi solo come varia lectio nel tardo Strab. XIII 1, 67, p. 614 Casaubon (u{dwr uJdragwgei`tai anziché to; uJdragwgei`on pepoivhtai, lezione peraltro registrata solo nell’ed. Kramer 1842 come variante dell’Aldina, ma non nell’apparato dell’ultimo ed. S. Radt). 136-137 to; de; dh; frikto;n–ajnagavgh/: si tratta della nevkuia di l, di cui vale sempre la pena sottolineare che non si tratta di una catabasi come quella di Enea con la Sibilla nell’Averno, bensì di un’evocazione dei morti (le anime dei compagni di spedizione, della madre Anticlea e dell’indovino tebano Tiresia); pertanto le parole ej" to; Plouteva katavxei e uJpe;r gh`" ajnagavgh/ non sono propriamente corrette. Costruzioni identiche a ta; ajpovrrhta telesqevnta sono l. 231 th;n ijjatrikh;n telesqh`nai e l. 341 th;n kleptikh;n ejtelevsqh"; con variatio quella di Sat. 146 H., 223 [= 17, 3 Migliorini 2007] telesqevntwn ejn toi`" maqhvmasin (q.v. cum adn.). Per ajnagavgh/ congiuntivo in mezzo a futuri, vd. Introduzione p. 40. Plouteuv", evw" non è teonimo molto frequente e compare in età tardo-antica (in Luciano solo Pod. [69 Mcl.] 13 e[dei kolavzein ejn dovmoisi Ploutevw"). 141 qespevsie ”Omhre: il tipico aggettivo epico, che indica qualcosa di veramente divino, insieme ad Omero non è usuale; una ricorrenza può essere Them. Or. 15 [in Theodos.] 187b 4. 141-145 tiv pote–yucrologouvntwn: l’accenno alle particolarità dell’esametro omerico ci offre un minimo assaggio delle discussioni dei metricisti antichi; e la risposta poco successiva di Omero, che confessa di non averne mai sentito parlare, fa trapelare un certo disprezzo di Prodromo per gli studi troppo microscopici, che con i loro freddi calcoli (yucrologiva) foniscono col rovinare la bellezza della poesia in sé. Il verbo yucrologevw e il sostantivo corrispondente sono coniati dagli autori tardo-antichi: 157 Luciano, Galeno, Epitteto, vari padri della Chiesa, Giuliano l’Apostata, ecc., e il suo uso si estende, passando per Niceta Eugeniano, fino a Gennadio Scolario; i lessici spiegano il sostantivo come sinonimo di ajkairologiva e yeudologiva, Tgl di yucrovth". È freddo chi usa argomenti speciosi e cavillosi. oujk e[stin–ejkkekwvfwmai: la sintassi tràdita si può capire traducendo non c’è un quanto io sia stato assordato = infinitamente sono stato (con il solito kai; ipercorrettistico). ejkkekwvfwmai: LSJ distingue un ejkkwfevw rendo ottuso, spuntare (detto di lame in genere) da ejkkwfovw rendo sordo; ma la tradizione ms. di alcuni testi oscilla tra i due verbi: Eur. Or. 1288 ej" to; kavllo" ejkkekwvfhtai [B: ejkkekwvfwntai B1 vel 2 et Ar. Byz. ap. S ] xivfh; Plat. Lys. 204c ejkkekwvfwke [BT, Burnet: ejkkekwvfhke T2 ] ta; w\ta; Luc. Tim. [25 Mcl.] 2 kai; ta; w\ta ejkkekwvfhsai [codd., Mcl.: ejkkekwvfwsai W]; tace l’apparato al passo Luc. Nav. [73 Mcl.] 10. In questo nostro caso mi pare che si possa accettare senza problemi la lezione tràdita che, a prescindere dalla reale distinzione semantica delle due forme offerta da LSJ, è comunque attestata. ajlastovrwn: come annota Tgl s. v. «per catachresin autem, inquit Eust. p. 1213, 44, dicuntur etiam simpliciter oiJ aJplw`" fau`loi ejcqroiv… pernicies, internecio, pestis»; cfr. Dem. Or. XVIII [De cor.] 324 a[nqrwpoi miaroi; kai; kovlake" kai; ajlavstore". lagarouv"–meiouvrou": secondo la dottrina metrica antica (cfr. S B in Hephaest., pp. 288-290 Consbruch; echi sono presenti anche in Athen. XIV 32, 632d; Plut. Mor. 397d [de Pythiae oraculis]), esistono alcuni e[ph cwlav, ossia esametri dattilici zoppi, caratterizzati da sei pavqh, tre kat∆ e[ndeian (difetto di una mora rispetto alle quattro regolari di ogni metron: ajkevfalo" se manca nel primo metron; meivouro" se manca nell’ultimo, lagarov" o sfhkiva" se manca in uno mediano) e tre kata; pleonasmovn (eccesso di una mora: prokevfalo" se c’è nel primo metron; prokoivlion “ventruto” se c’è in uno mediano; dolicovouro" dalla coda lunga se c’è nell’ultimo). Di queste sei definizioni, Prodromo ne cita a caso tre, due della prima classe, una della seconda. Un esempio di verso lagarov" lasco, smilzo è k 60 bh`n eij" Aijovlou kluta; dwvmata: to;n d∆ ejkivcanon; oggi si ritiene che l’ o di Aijovlou si allunghi eccezionalmente per posizione davanti a l (ma c’è chi corregge Aijovloo). Prokevfalo" dalla testa sporgente è d 682 h\ eijpevmenai dmw/h`sin ∆Odussh`o" qei>voio, dove la prima sillaba si legge in sinalefe con la seconda (ma c’è chi corregge eijpei`n). Meivouro" dalla coda più breve (meivwn, ovvero con coda di topo se si volesse leggere muvouro" da mu`"; si consideri che la pronuncia bizantina eguaglia i suoni di ei e u a /i/) è M 208, esempio prontamente citato poco dopo anche da Prodromo, perché tipicamente manualistico; si giustifica sostenendo l’allungamento di o davanti a f, consonante che, se pronunciata come, chiuderebbe la sillaba precedente. La menzione dei metri da parte di Prodromo va affiancata alle polemiche metricistiche di Eustazioe e Tzetze, per cui vd. Jeffreys 1974, pp. 150 (M.J. Jeffreys, The Nature and Origines of the Political Verse, «DOP» 28 (1974), pp. 141-195). 146: un esametro di invenzione prodromea, con a di ∆Apovllwna lunga; quest’accus., al posto di ∆Apovllw, compare per la prima volta in Plat. Leg. 624a e s’impone nel greco successivo. L’atteggiamento di Omero è simile a quello dell’Omero lucianeo nel II libro di HV, il quale resta sorpreso del fatto che alcuni filologi gli espongano dei versi. 147 tiv pote–ojnovmata: ancora un sogg. neutro plurale con verbo plurale. 149 Trw`e"–o[fin: è M 208 eccetto lo iato ejpei; i[don, in Omero evitato con o{pw" i[don (sempre che Prodromo non avesse coscienza della presenza del Û in i[don; tal lettera venne a rigore scoperta in Omero da Bentley, pur essendo già nota ai grammatici greci come lettera “eolica”, benché comune alle iscrizioni di diversi dialetti greci, dalle cui parlate correnti era nondimeno sparita al più tardi nel 400 a.C. 151-153 ai[ ga;r–nohvsei": questo tristico di creazione prodromea è composto da un’invocazione, che riprende alla lettera quella omerica (9 volte in tutto, e.g. B 371), seguita da un periodo ipotetico, in cui vige il gioco di parole meivouronÉmh; ou\ro" (ei ed h = /i/); l’apodosi riecheggia versi come g 176 w\rto d∆ ejpi; ligu;" ou\ro" ajhvmenai, 183 qeo;" proevhken ajh`nai [sc. to;n ou\ron]; si noti in questo secondo verso la correptio attica di e[gnwka, solitamente non ammessa nell’epica, nonché la violazione del ponte di Hermann (legge registrante la tendenza a evitare fine di parola dopo il primo breve del dattilo costituente il 4° metron). Il terzo verso, infine, con un facile indovinello, invita il lettore a contare il numero di sillabe (ovvero morae) dei versi, per scoprire quali sono canonici, quali no. ejmpelavwn: è verbo poetico (e. g. Hymn. Hom. Merc. 523; Soph. Tr. 750; Nic. Th. 186, Dion. Per. 742), ripreso dai prosatori tardo antichi come Temistio e Sesto Empirico; il presente ejmpelavw anziché ejmpelavzw è rifatto su pelavw (cfr. Nic. Alex. 498). ∆Esqlouv" si misura con e breve, come se fosse scritto ejslouv". 158 154-156 oiJ–phrovteta: il mercante allude agli epiteti omerici dell’aurora rJododavktulo" hjwv" (27 volte in Omero, sempre in clausola) ed hjw;" krokovpeplo" (4 volte), scorgendovi il paradosso che siano stati creati da un poeta cieco. ∆Antilhptikh; e{xi" è lessico filosofico... Ai[sqhtron è forma sincopata per aijsqhthvrion, come pwvlhtron per pwlhthvrion (vd. n. 7 supra) 157-158 ouj–hjw`: il primo di questi due versi, creati da Prodromo, contiene tre particelle in apertura, che non è raro trovare in Omero (e. g. D 48 = W 69; E 523; W 743; e 141; k 73); segue la parola brefovqen, foggiata su avverbi del tipo thlovqen, oujranovqen e della quale TLG on-line (vd. anche LBG = von Kind auf) registra venticinque occorrenze, di cui una è dello stesso Prodr. Carm. hist. XXX 360 Hörandner brefovqen th;n tou` Manouh;l th;n ejk th`" kolumbhvqra", le altre invece provengono da autori, che la usano almeno una volta, contemporanei di Prodromo (XII s.), come Eustazio di Tessalonìca (sette volte), Costantino Manasse, Giorgio Tornice, Gregorio Antioco (cinque volte), o posteriori (XIII-XIV s.), come Eutimio Tornice, Michele Coniata, Giorgio Pachimere, Giorgio Metochite (due volte), Teodora Raulena Cantacuzena Paleologina. L’emistichio dopo la cesura pentemimere maschile è formato da un aggettivo, che con nuvx si associa solo 2 volte in Omero (n 269 e o 50) ma non in questa posizione metrica, e dalla clausola o[sse kavluye, in Omero sempre preceduta da skovto". Prodromo avrà inoltre avuto in mente anche versi quali E 310 (= L 356, N 580, C 466) ajmfi; de; o[sse kelainh; nuvx ejkavluye; X 438-439 tw; dev oiJ o[sseÉ nu;x ejkavluye mevlaina. Il secondo verso è ametrico, perché dopo la pentemimere maschile manca una sillaba lunga; ma anche emendando (hjdev al posto di kaiv, ovvero kai; dhv)v, l’esametro non rispetterebbe la tendenza di evitare fine di parola alla fine del 3° metron. 160-161 pevnte–talavntwn: una grossa cifra, se si considera che il talento era l’unità di misura più alta sia per i pesi (di cereali in genere), sia per le monete; in età classica il talento d’argento di Egina, Eubea, Attica e Corinto valeva approssimativamente 26 kg (non si tiene conto della differenza tra talento come moneta e talento come unità di misura commerciale). Prodromo ne ha conoscenza oltre che dagli autori classici, storici e oratori, anche dai LXX, che con questa parola hanno tradotto la corrispondente unità di misura più alta del sistema di pesi degli Ebrei, nonché dal NT (vd. parabola dei tre servitori). Un talento vale 60 mine: cfr. il prezzo degli altri venduti. CONTROLLA 162 to;n hJghsovmenon–xunewnh`sqai: intende lo stesso Ermes che l’ha accompagnato fino al luogo di vendita. 163 kimbikeuvh/: il verbo kimbikeuvomai è denominativo da kivmbix, sinonimo di smikrolovgo", aijscrokerdhv", taccagno, meschino, avaro (poi, per traslato, minuzioso nel descrivere particolari); l’agg. è riferito al lirico Simonide da Senofane secondo S Ar. Pac. 697e Holwerda, ovvero da Cameleonte secondo Athen. XIV 656d (Xenoph. fr. 21 Gentili-Prato = 21 D.-K.; Cham. fr. 33 Wehrli), due passi alla portata di Prodromo, che comunque ritrovava la parola nel frequentato Arist. EN 1121b 22, MM 1192a 9, EE 1232a 14. Secondo una ricerca con TLG on-line, altri autori che usano il raro verbo in questione sono Nic. Chon. Hist. p. 364, 5 Van Dieten eij peri; th;n diarkh` diaivthsin kimbikeuvetai; ibid., p. 538 Van Dieten kai; mavlisq∆ o{ti kimbikeuovmeno" oJ ∆Alevxio"; Greg. Antioch. Or. in Sebast. Const. Angelum p. 375, r. 16 Bachmann-Dölger proairevsei de; ptwceuvonta kimbikeuomevnh/ kai; feidwlw/`. 166 ajspi;"–ajnhvr: comincia con questo verso (N 131 = P 215; aggiungi, fra le varie citazioni di questo verso, quella famosa in Cert. Hom. Hes. 196 Allen) la dimostrazione delle varie attitudini di Omero, come se esse fossero da lui realmente possedute soltanto perché menzionate nei suoi poemi. Era idea diffusa questa? CONTROLLA 168-169 ei{leto–farevtrhn: per il primo esametro cfr. K 135 (= X 12, O 482, a 99, o 551, u 127; primo emistichio = G 338, r 4); per il secondo solo A 45. 171 si`ton–povtoio: tipici versi odissiaci: per i primi due cf. a 139-140, d 55-56, h 175-176, k 371-372, o 138-139, r 94-95 e 259, senza il secondo verso; per il terzo, già in I 175, cfr. a 148, g 339, f 271. 175-176 oJ d∆ ajnebavlleto–pavssen: il primo emistichio (ma in Omero suona non oJ d∆, bensì oJ formivzwn) è detto di Femio in a 155, di Demodoco in q 266; il secondo va ricondotto a L 515 e 830, che però terminano rispettivamente con un infinito e con un imperativo; Prodromo ha adattato al proprio contesto l’imperfetto senza aumento. 178 tou`–aujdhv: è A 249, eccetto la grafia con doppio tt di glwvtth", che Du Th. ha rispistinato indebitamente sul confronto delle edizioni omeriche. 159 CONTROLLA 180 kevklute–∆Acaioiv: cfr. G 86 (= G 304, H 67). 182-183 ouj crh;–mevmhlen: cfr. B 24-25 e 61-62; V ha g∆ anziché t∆, che Du Theil ha indebitamente ripristinato. 184-190 eij–katadhvsetai: Ermes allude alle punizioni che alcuni personaggi del mito scontano nell’aldilà a causa di sacrilegi commessi a danno delle divinità; non tutto, però, viene narrato da Omero: a) il sacrificio di ossa coperte di grasso è l’inganno di Prometeo (personaggio assente in Omero, il suo mito compare per la prima volta in Hes. Th. 535 ss.); b) lo svelamento di segreti indicibili è una delle colpe di Tantalo, ammesso dagli dèi al loro banchetto celeste e reo di aver riferito ai mortali quanto aveva sentito dagli dèi (una fonte greca prodromea, tra l’altro contenente le stesse parole di questo passo, può essere stata Diod. Sic. IV 74, 2 ajphvggelle toi`" ajnqrwvpoi" ta; para; toi`" ajqanavtoi" ajpovrrhta; Tantalo era anche reo di aver fatto gustare ai propri amici il nettare e l’ambrosia, secondo Pd. Ol. I 60 ss.); c) l’innamorarsi di Era, qui definita con uno dei suoi epiteti omerici (e.g. A 611, per la verità non a lei esclusivo) è la colpa di Issione (vd. ancora Diod. Sic. IV 69, 4 hjravsqh me;n th`" ”Hra"). Quanto alle pene: a1) lo stare incatenato al Caucaso è la pena di Prometeo (il rodimento del fegato da parte di un’aquila è già in Hes. Th. 521; l’avvoltoio potrebbe essere una confusione, già della tradizione classica e quindi molto anteriore a Prodromo, con il mito di Tizio narrato in l 578 s.; in ogni caso ne fa menzione Luc. Prom. [23 Mcl.] 20; il nome del Caucaso, invece, non è esiodeo, ma appartiene alla vulgata, cui appunto Prodromo avrà attinto leggendo e. g. Luc. Prom. [23 Mcl.] 1, 2, 9 ecc., dove pure ricorrono il verbo staurovw e il sostantivo staurov", in riferimento a questa pena. Circa il problema di chi per primo tra i Greci abbia nominato il Caucaso vd. Aesch. fr. *193, 28 Radt, sp. p. 307 di quest’edizione); b1) lo stare immerso nell’acqua con un masso incombente sulla testa è la pena di Tantalo (l 582-592 in verità non nomina il masso; sulle varie fonti greche delle due punizioni, vd. Schwenn 1932, col. 2227 s.; basti ricordare che, tra le letture più presenti alla mente prodromea, Plat. Crat. 395d cita il solo masso, onde Prodromo, anche senza aver letto Paus. 10, 31, 12, può aver autonomamente conflato i dati e averli confusamente o volutamente riferiti ad Omero); c1) lo stare legato a una ruota è la pena di Issione (cf. ancora Diod. Sic. 4, 69, 5 tevlo" de; muqologou`si to;n ∆Ixivona dia; to; mevgeqo" tw`n hJmarthmevnwn uJpo; Dio;" eij" troco;n ejndeqh`nai). ajnalovgw"–ajnayhlafhvsei": vuol dire “non andrai più in cerca alla cieca di una pena in proporzione/ per contrappasso”. Il verbo ajnayhlafavw è registrato già in Tgl come voce di autori medio- e tardobizantini; il verbo semplice in Plut. Mor. 765f 8 [amatorius] ei[dwlon aujtou` fantazovmenon diwvkonte" kai; yhlafw`nte". 193 ajphmpovlhtai: questo composto di ejmpolavw forma il pf. allungando la vocale del preverbio ejm-, sentito come parte integrante della parola, denominativa dal sost. ejmpolhv (non quindi raddoppiando la prima sillaba po- in pepo-, che pure è raddoppiamento attestato in Luciano); si spiega dunque la correzione avvenuta in un secondo tempo in interlineo, per opera di mano non diversa dalla prima («il semble que ce soit la variante h au lieu de l’ e à la seconde syllabe, qui soit marquée en rouge dans l’interligne» Du Th.). Si confronti del resto l. 260 infra sunaphmpovlhtai). 195 pevnte talavntwn: Una cifra ragguardevole, se comparata con il prezzo di vendita degli altri: poiché 1 talento = 60 mine, Ippocrate 4 mine = 1/75 di Omero; Euripide 2 mine = 1/150 di Omero; Pomponio e Demostene 1, 5 mine = 1/200 di Omero. La scala di valori di Prodromo è chiara: Omero, ossia la forma letteraria per antonomasia, vince su tutti, proprio perché Prodromo è un letterato; Pomponio e Demostene, ossia la vita civile, stanno molto più sotto. 197 ÔErmagovra" oJ ∆Aqhnai`o": anche qui, come nella Sat. 146 H., il nome è scelto tra quelli usati da Luciano (Iupp. tr. [... Mcl.] 33); esso potrebbe inoltre essere un nomen loquens, essendo composto di Ermes e una radice echeggiante ajgoravzw, connessa per paretimologia alla vendita appena effettuata. 198 gravvfe tou`ton ejpi; th`" kuvrbew": la kuvrbi" o, ordinariamente, le kuvrbei" erano tronchi o tavole di legno piramidali rotanti, su cui erano scritte le antiche leggi di Atene (vd. Aristoph. Av. 1354); in generale poi la parola venne a indicare una qualsiasi tavola di legno iscritta, come quella che si usava per registrare il nome degli schiavi da vendere. CONTROLLA 199-202 navrqhko"–filofronhsavmenon: la battuta, un po’ stiracchiata, significa che al cieco Omero, considerato largo di inutili doni letterari, ci si può anche permettere di dare con disprezzo un vile bastone, per di più usato nelle orgie dionisiache (cfr. Eur. Bacch. 147), come aiuto nel cammino ostacolato dalla sua cecità. 160 L’agg. pacuv" in unione a navrqhx compare in Xen. Cyr. II 3, 17; Hipp. Fract. III 6, 18 e 48, 21 Littré; id. Off. med. III 12, 17; vd. anche Eustath. In Iliad. IV 625, 14. CONTROLLA 203 to;n ejpi; tw`n qraumavtwn: l’espressione “l’addetto alle ferite” è canzonatoria rispetto a quelle burocratiche oJ ejpi; + genitivo dell’area di competenza (vd. LSJ s.v. ejpiv A III 1). 205-206 to; plei`on–prathrivw/: sul verbo uJpotevmnw, vd. Sat. 146 H., 157 supra cum adn. prathvrion = pwlhthvrion vd. LBG s.v. τὸ -ον Verkaufsurkunde: Mich.Att. Diat. 25, 143. Act. Iviron 64, 19 (a.1286). A. Esph. 9,29; 10,19 (a.1301).— Car., (LS, Stam., Andr. Arch.). 206 to;n koinwfelevstaton bivon pollw`n: in V, f. 66v , 21 si legge una parola ripassata, che sembra esser stata inizialmente un pollw`n, ritoccato poi in pwlw`n. Lo scambio è ammissibile secondo la pronuncia e la grafia bizantine (o VS w, geminata VS scempia); ma se da un lato è vero che un superlativo si accompagnerebbe meglio a un pavntwn piuttosto che a pollw`n, dall’altro il pwlw`n non mi pare conferire senso migliore. Tradotto con un enfatico «mentre vendi la vita più utile», non gli si confà il sogg. Ippocrate; se poi si volesse attribuirgli come sogg. Ermes, tutta la frase precedente dovrebbe essere detta da Zeus in riferimento a Ermes; ma allora non si capirebbe perché dovrebbe essere proprio Ermes, e non Ippocrate, a perdere tempo «chiacchierando come quel cieco là». Per il momento preferisco stampare pollw`n e tradurre sottintendendo il verbo pwlou`men; verbo che invece Du Th. ha congetturato e stampato a testo, spiegando in nota: «le Manuscrit porte pollw`n ce qui est probablement une faute de copiste». Viene qui introdotta la figura del medico, nel suo massimo rappresentante Ippocrate, come un ciarlatano che sa di vuota teoria, ma nella pratica è solo un cacciatore di soldi e un boia; una simile polemica si può leggere in Gal. Meth. medendi I 2 (vol. X, p. 4, ll. 17-18 Kühn): οὔκουν οὐχ ὁ κρείττων τὴν τέχνην, ἀλλ’ ὁ κολακεύειν δεινότερος ἐντιμότερος αὐτοῖς ἐστι, καὶ τούτῳ ἅπαντα βάσιμα καὶ πόριμα, καὶ τῶν οἰκιῶν ἀνεῴγασιν αἱ θύραι τῷ τοιούτῳ, καὶ πλουτεῖ τε ταχέως οὗτος καὶ πολὺ δύναται, καὶ μαθητὰς ἔχει τοὺς ἐκ κοιτῶνος πολλοὺς, ὅταν ἔξωροι γένωνται. kaiì tou=to katanoh/saj o( Qessalo\j ἐκεῖνος οὐ τὰ ἄλλα μόνον ἐκολάκευε τοὺς ἐπὶ τῆς Ῥώμης πλουσίους, ἀλλὰ καὶ τῷ μησὶν ἓξ ἐπαγγείλασθαι διδάξειν τὴν τέχνην ἑτοίμως ἐλάμβανε μαθητὰς παμπόλλους. εἰ γὰρ οὔτε γεωμετρίας οὔτε ἀστρονομίας οὔτε διαλεκτικῆς οὔτε μουσικῆς οὔτε ἄλλου τινὸς μαθήματος τῶν καλῶν οἱ μέλλοντες ἰατροὶ γενήσεσθαι δέονται, καθάπερ ὁ γενναιότατος ἐπηγγείλατο Θεσσαλὸς, ἀλλ’ οὐδὲ μακρᾶς ἐμπειρίας χρῄζουσι καὶ συνηθείας τῶν ἔργων τῆς τέχνης, ἕτοιμον ἤδη προσιέναι παντὶ γενησομένῳ ῥᾳδίως ἰατρῷ. «Ad ogni modo non il più bravo nell’arte (medica), ma il più capace nell’adulazione acquista onore tra loro; e per lui tutto diventa accessibile e praticabile; e a un tal individuo s’aprono le porte delle case; e costui diventa ricco in poco d’ora e molto potente; e si trova ad avere come allievi molti impiegati della tesoreria/molti eunuchi della camera da letto/molti uomini di corte, quando abbiano passato l’età (di fare il loro lavoro, cioè siano andati, per così dire, in pensione?).2 E quel famoso tessalo, ben comprendendo ciò, tra l’altro non solo adulava i ricchi prominenti a capo di Roma, ma anche col promettere di insegnare in sei mesi l’arte si procacciava prontamente parecchi allievi. Se, infatti, coloro che si apprestano a diventare medici non hanno bisogno né di geometria, né di astronomia, né di dialettica, né di musica, né di qualunque altra disciplina tra quelle valide, come prometteva il nobilissimo tessalo, ma non hanno bisogno nemmeno di lunga esperienza e confidenza con le opere dell’arte, diventa/diventi ormai cosa a portata di mano ricorrere a una qualsiasi persona destinata a divenire facilmente medico»3 (trad. mia). controlla una qsiasi traduz. Vd. anche l’art. di Malato-Marsili Feliciangeli 1962, interessante solo per la traduzione del passo di questa satira e per la citazione di tre lettere di Prodromo, dalle quali si evince il giudizio negativo sui medici del tempo, che non seppero curarlo adeguatamente della malattia che soffriva, probabilmente il vaiolo; stessa condanna in Sat. 148 H. Dhvmio" h] ijatrov", nella quale invece la malattia descritta è il mal di denti, curato alla bell’e meglio da un cerusico inaffidabile; vd. anche Kazhdan 1984, che riporta i passi di alcuni autori bizantini tra X e XII sec. che toccano argomenti medici, fornendo notizie rilevanti altrimenti mal note. 214 oJkovsoisin: cfr. Hipp. Aphor. II 20 (ed. Littré vol. IV) oJkovsoisin nevoisin ejou`sin aiJ koilivai uJgraiv eijsin, toutevoisin ajpoghravskousi xhraivnontai: oJkovsoisi de; nevoisin ejou`sin aiJ koilivai xhraiv eijsi, toutevoisi presbutevroisi ginomevnoisin uJgraivnontai. 2 Vd. trad. Kühn «huic discipuli multi a cubicoli, ubi jam fuerint exoleti, traduntur». 3 Vd. trad. Kühn «cuivis promptum sit artem aggredi, ceu facile medico futuro». 161 215 makrev: non mi suona molto normale il significato tradizionale di lungo, né nel senso di prolisso nel parlare, né in quello di grande in altezza, spilungone. forse qualche vita di Ippocrate conferma uno dei due? Posto che la lettura di makrev in V è evidentissima, D’Alessandro suggerisce la congettura mavgeire o cuoco, poiché ciò creerebbe un legame con gli strumenti portati da Ippocrate, detti poi esser tipici del macellaio. 217 ejn ajllotrivh/si: cfr. Hipp. Flat. VI 90, § I 2 (Littré VI) tw`n dh; toioutevwn ejsti; tecnevwn, kai; h}n oiJ ”Ellhne" kalevousin ijhtrikhvn: oJ me;n ga;r ijhtro;" oJrh/` te deina;, qiggavnei te ajhdevwn, ejp∆ ajllotrivh/siv te xumforh/`sin ijdiva" karpou`tai luvpa"; Epist. XI 44 sg. (Littré IX) ajll∆ oujk w|de e[cei ta; hJmevtera, w\ dh`me, ouj karpou`mai nouvsou"; Tzetz. Histor. VII, Chiliad. CLV, v. 989 sg. e[legen, ejgnwmavteue tw`n ijatrw`n ta; gevnhÉ ejp∆ ajllotrivai" xumforai`" ijdivai" truga`n luvpa". Citato anche in Sat. 148 H., 188 con la stessa variante ejn e la grafia sun- al posto di xun- (mentre Tzetze rispetta il testo poi stampato da Littré). 218 sumpaqevstato"–ejlelhvqei": ripete l’espressione di l. 127 {Omhro" w]n ejlelhvqei" hjma`". 218-219 ajpov ge tou` kauth`ro"-ejwvkei": la stessa presentazione esteriore del medico macellaio in Sat. 148 H., 130-133 oujk h[rkese tau`ta th/` ajpanqrwvpw/ ejkei`nh/ yuch/`, oujde; dievceiav ti" ejdovqh th/` makelleiva/, pavnth/ de; kako;n kakw/` ejsthvrikto, ei\pen a]n ”Omhro": wJJ" ga;r oujk ajpocrwvsh" th`", h}n e[famen kai; uJmei`" hjkouvsate, turannivdo", kai; to;n kauth`ra kata; tou` uJpoleifqevnto" ejxevkause. 220 pevpona farmakeuvw: l’accostamento dei due termini in Ippocrate compare solo in Epist. IX 372, 16 Littré (tràdito da alcuni mss.); la coppia pevpona–wjmav ricorre anche dopo a ll. 249-250. 224 oJpotevrw/ a]n kai; qeivmhn tw`n ojnomavtwn: il verbo tivqhmai non pare avere al medio-passivo il significato che ha l’italiano rimettersi a qcn/qcs, ossia affidarsi a; ma questo mi sembra il meno lontano da quello locale essere collocato, collocarsi che, per traslato, si potrebbe forzare verso questa sfera semantica; poiché tuttavia il verbo al M. ha anche valore attivo di collocare, si potrebbe qui congetturare la caduta di un complemento oggetto (e.g. pivstin, accus. che pare tuttavia volere soprattutto fevrein e parevcein; ovvero con Malato-Marsili Feliciangeli un se, non so quale dei due nomi appiccicarti ossia lett. a quale dei due nomi collocarti); D’Alessandro emenderebbe la lezione paleograficamente economica e molto soddisfacente peiqoivmhn. 229 ijhtrov": rispetto a L 514, qui manca solo il gavr dopo ijhtrov". 234-235 oJ bivo" bracuv" ktl.: rispetta quasi alla lettera, anche nella grafia ionica, il testo di Hipp. Aphor. I 1 (Littré IV) oJ bivo" bracuv", hJ de; tevcnh makrhv, oJ de; kairo;" ojxuv", hJ de; pei`ra sfalerhv, hJ de; krivsi" calephv; simile cit. in Sat. 148 H., 99 to;n ouj bracu;n crovnon th`/ makrh/` tevcnh/ mh; a]n ejmpodw;n eij" gnw`sin e[cein. 238 ajmelevsh/" melhvsei: sui cgtv. aor. accanto all’indic. fut., vd. Introduzione p. 41. 240 stwmuleuvesqai: il verbo è attestato in autori tardo-antichi come Alciphr. IV 17, 3 (variante dei codici per stwmuvllomai), Clem. Alex. Paedag. III 11, 75, 1, 2; più avanti in Phot. Bibl. 415b; Eustath. In Iliad. III 4, 21. 243-244 ta; toiau`ta–pareiskuklevein: lo stesso costrutto è in Sat. 146 H., 33 hJdonav" tina" kai; aujtovmata qama; tw/` lovgw/ pareiskuklw`n. 244 h]n–nosevonta: cfr. Hipp. De decente habitu XI 1 (Littré IX) ejph;n de; ejsivh/" pro;" to;n nosevonta ktl. 246 yucrorrhmonhvsh/" ktl.: sul cgtv. aor. insieme all’indic. fut., vd. Introduz. p. 41. Il verbo yucrorrhmonevw viene lemmatizzato in Tgl (frigide loquor, donde Demetrakos) con l’unica attestazione del nostro passo; trattassi nondimeno di neoconiazione intelligibile, sul modello di altri composti simili sia sostantivi, sia verbi (e.g. kakorrhvmwn Aesch. Ag. 1155; kompofakelorrhvmwn in Ar. Ran. 839; megalorrhmonevw, ricorrente fra l’altro 6 volte in LXX; aijscrorrhmonevw Stob. IV 2, 24; ajntirrhmonevw in ps.-Atanasio; eujqurrhmonevw in Plut. Demetr. XIV 3. Per ajperantologevw LSJ registra già Strab. XIII 1, 41; LBG (endlos reden) aggiunge Nic. Basil. Or. I, 34. 248 ejn de; th/`si tarach/`si ktl.: parodia di Hipp. Aphor. IV 1, 2 Littré. 253 yucav" proivayen: cfr. A 3; stessa citazione in Sat. 148 H., 168 ejw` ga;r levgein o{sa" me;n ajnqrwvpwn yuca;" “Ai>di proi>vaya" oJ nevo" nekragwgov". 254 uJpo; ga;r qanou`si toi`sin ejlevgcoisin: la preposizione uJpov + D ha anche senso comitativo (e.g. uJp∆ ajnevmw/ con vento) 162 258 w\ Podaleiriavdh: il compratore, in quanto compera un medico, che è un Asclepiade, cioè un figlio di Asclepio (vd. e.g. Nic. Chon. Hist. p. 40 van Dieten), diventa a sua volta un Podaliriade, cioè un figlio del figlio di Asclepio, Podalirio. 262-263 scolh/`` kai; tw`n duei`n priaivmhn to;n ijatrovn: trattasi di medico così vile che senza suppellettili non val nulla; stesso modo di esprimersi in Sat. 140 H., 74-75 oujde; grao;" provswpon ajsbovlh" gevmon/ fronw`n ti" wjnhvsaito ka]n triwbovlou (con comm.) 264 sunapeilhvfqwn: sul verbo plurale con sogg. neutro plurale vd. Introduzione p. 44. 266 to;n gevlwn: stesso accusativo in Sat. 146 H., 52 (q.v.). 268 ejpivtrimma ajgora`": lemmatizzato solo in Demetrakos (e quindi Tgl) sta per perivtrimma, cosa logorata (cfr. Dem. Or. XVIII [Cor.] 127 perivtrimma ajgora`" consumato nella piazza, pellaccia della piazza) 269-273 wJ" ajrgavleon-tw`n kakw`n: è il prologo di Ar. Pl. 1 ss., una delle commedie della triade bizantina. 276 ywlovn se ei\nai: aggettivo ricorente in Aristofane: Eq. 964; Av. 507; Pl. 267. 277 metavsch/": buon esempio di congiuntivo aorusto che potrebbe valere per un classico metavscoi" a[n, ovvero per un futuro metaschvsei"/meqevxei". 278 ouj gavr me tupthvsei" stevfanon e[contav ge: cfr. Ar. Pl. 21. 281 kevcoda tw/` devei, kevcoda: cfr. Ar. Ran. 479 ejgkevcoda; per il dat. devei in Aristofane, cfr. Av. 85 m∆ ajpevkteina" devei. 284 Pa/` bw`… Pa/` stw`… Pa/` kevlsw: cfr. Eur. Hec. 1056. 286-288 oujk e[sti deinovn–ajnqrwvpou fuvsi": è il prologo dell’Oreste di Euripide, con evidente lacuna di oujdevn dopo e[sti(n) parola nel primo trimetro; i tre versi si trovano, sia pur parodiati, anche in Luc. Iupp. Trag. [21 Mcl.] 1 oujk e[stin oujde;n deino;n w|d∆ eijpei`n e[po"É oujde; pavqo" oujde; sumfora; tragw/dikhv,É h}n oujk ijambeivoi" uJperpaivw devvka. 290-297 prw`ta mevn-mevga" povno": cfr. Eur. Hec. 357-360 e 375-378. Il salto della sezione intermedia vv. 361-374 fu previsto da Prodromo o fu dovuto a un suo ms. lacunoso? 299 w\–paideuvmata: Eur. fr. 939 [Aeol.] Kannicht ap. Luc. Iupp. Trag. [21 Mcl.] 1 con la sola variante pagkavkistoi, mentre pagkavkista è lezione dei codici recenziori (secondo Coenen 1977, p. 41 solo del cod. C e del nostro Prodromo). 301 fuvsei–despovta": compare a quanto sembra solo in Hermog. peri; tw`n stavsewn III 19, p. 45, 10 Rabe (con scolio relativo in Rh. Gr. IV 334 Waltz) e in Apostol. XVIII 4b1 Leutsch-Schneidewin, ov’è attribuito a Euripide. Dal punto di vista metrico si noti che la sede di tov, pur occupando un ictus, non è lunga come dovrebbe preferenzialmente essere, segno che trattasi più di dodecasillabo bizantino che di trimetro giambico; esso presenta nondimeno la cesura pentemimere. Douvlo" e despovth" sembrano comparire insieme in Euripide solo in fr. 51 N. dou/louj ga\r ouÉ) kalo\n pepa=sqai krei¿ssonaj tw½n despotw½n; fr. 85 me/testi toiÍj dou/loisi despotw½n no/sou; fr. 529 w¨j h(du\ dou/loij despo/taj xrhstou\j labeiÍnÉ kaiì despo/taisi dou=lon eu)menh= do/moij; Med. 54 xrhstoiÍsi dou/loij cumfora\ ta\ despotw½n. controlla 302 Melitivdh" kai; Kovroibo": cfr. sat. 144 H., 157 oujc ou{tw" ajnohtaivnousin a[nqrwpoi, oujc ou{tw" oJ Phleu;" Melitivdh" wJ" ajnti; Ceivrwno" coivrw/ to;n eJJautou` ejmpisteuvsasqai ∆Acilleva, oujc ou{tw Kovroibo" oJ ∆Alevxandro", wJ" tw/` pantavpasin ajtelei` ajnt∆ ∆Aristotevlou" maqhtia`n (cum comm.). 303-304 th;n mavcairan–th;n ai\ga th`" paroimiva": proverbio spiegato da Suid. s.v. ai[x, aijgov". kai;; paroimivva: hJ ai[x dou`sa th;n mavcairan. Korinqivwn ga;r {Hra/ ∆Akraiva/ quovntwn... oiJ ejn th/` parovcw/ memisqwmevnoi gh/` kruvyante" th;n mavcairan ejskhvptonto ejpilelh`sqai. hJ de; ai[x aujth;n toi`" posi;n ajneskavleuen; ricompare nei paremiografi. 305-307 ajll∆ e[gwge-ajnhrpasmevnou: forse la frase non si riferisce a un personaggio in particolare; penso tuttavia alla giovane Ifigenia in Aulide, circuita con una proposta di matrimonio, dietro alla quale si cela invece il crudele sacrificio; ma anche alla Polissena dell’Ecuba, destinata a morire senza una speranza di nozze, benche fosse destinata alla verginità come sacerdotessa (cfr. Hec. 416 {Po.} aÃnumfoj a)nume/naioj wÒn m' e)xrh=n tuxeiÍn). 163 309 levgon h{kein nekrw`n keuqmnw`na kai; skovtou puvla" lipovn: sono le parole rimaneggiate dell’idolo di Polidoro in Eur. Hec. 1. 311 mnw`n duei`n: Euripide vale svenduto a un prezzo pari a 1/150 di quello di Omero; Aristofane, invece, resta invenduto. 315 ejpaggevlletai: il medio in greco classico significa «proclamo», «faccio professione di» (così LSJ s.v. 5), ma può valere anche «prometto» come l’attivo (cfr. Plat. Prot. 319a tou`tov ejstin... to; ejpavggelma o} ejpaggevllomai). Quanto all’immagine della figliola che deve seguire Euripide nella vendita al nuovo padrone, ravviso un’allusione erotica simile a quella che si legge in Ar. Pac. 712 sgg., dove Opora e Teoria seguono Trigeo. 317 kruvptous∆ a} kruvptein o[mmat∆ ajrsevnwn crewvn: cfr. Eur. Hec. 570. 318 ajlazwvn: chiara e comprensibile la lezione di V, storpiata con un improbabile ajlalazwvn da Podestà (che almeno avrebbe potuto scrivere con accento corretto ajlalavzwn; cfr. anche la traduzione dipendente dall’errore in Sanfilippo 1951-1953 «ma tu che vai vociferando»). 320 ejpi; dikaspoleivwn: il neutro dikaspolei`on, confermato da l. 357 infra ejpi; dikaspolei`a è attestato in Demetrakos come sinonimo mediogreco per dikasthvrion con esempio di Greg. Antioch. II 404, 2. LBG (= Gericht, Gerichtshof) cita anche CAG XX 2, 27, 8; Mich. Chon. I 352, 2 e II, 404, 2; Nic. Chon. Or. 157, 7. Nella seconda occorrenza di l. 357 Podestà legge -liva", che però credo lezione dovuta a fraintendimento dell’ a finale con svolazzo pronunciato piuttosto che a suo conguaglio al femminile dikaspoliva (in effetti la studiosa avrebbe dovuto per coerenza cambiare in -eiw`n anche la prima occorrenza, dando a vedere di intendere dikaspoleiva come una variante grafica foneticamente identica a -iva). 322 levge: le congetture di Du Th. levgem (legem) e levge" (leges) rispondono bene al tiv della domanda precedente, ma non occorre ripristinarle in testo. 326 w\ lovgie: vd. ln. 119 supra. 327 kavvllion h] o{loi Provkloi ktl.: sulle citazioni del nome di Proclo in queste satire e sui plurali generalizzanti vd. Sat. 148 H., 16-18 cum adn. 329 Pompwvnih novmhne: è il latino Pomponii nomine (sulla pronuncia bizantina annotava a questo punto Du Th. «la manière dont ces deux mots sont écrits peut fournir une preuve de plus à ceux qui defendent la prononciation des Grecs modernes»). Su Pomponio vd. Sanfilippo 1951-1953 e T. Giaro s.v. III 3 in NP X, col. 125. Prodromo sceglie come rappresentante della romanità causidica non un più famoso Papiniano o Gaio, ma un meno noto Pomponio, ancora attivo dopo la morte di Antonino Pio (161 d.C.), autore di un Enchiridion, sintesi della storia del diritto e della giurisprudenza romane fino ad Adriano, di cui un lungo brano è riportato in Dig. I 2, 2. Di tale brano, però, che non è stato riprodotto nei greci Basilica, bisognerebbe supporre la conoscenza da parte di Prodromo o tramite un manoscritto autonomo contenente l’operetta e giunto alla corte dei Comneni, o tramite lettura diretta dei Digesta; condizione che risulta arduo postulare per un Prodromo non esperto di latino come furono invece i posteriori Massimo Planude e Demetrio Cidonio. 336 ÔRwmaiv>da: è aggettivo di ristretto utilizzo, dall’età tardo-antica in poi. 342-343 kai; mh;n pollou` klwpiteuvein-filosofhvsanti: l’attribuzione a Pomponio di una competenza de furtis (peri; th`" fouvrti, sc. nomoqesiva"? sulle parole latine grecizzate vd. n. 354 sgg. infra) non pare testimoniata dagli autori latini a noi noti ed è forse semplicemente funzionale alla battuta contro Ermes, protettore dei ladri, e alla caratterizzazione antifrastica di Pomponio, a parole paladino della giustizia, nei fatti ladro patentato a ddanno dei suoi clienti (vd. Sanfilippo 1951-1953, p. 108). 344 ajnafandav: avverbio già in g 221. famovssou: cfr. Phot. Epist. et amphil. amphil. 323 de officiis Romanis (excerpta e Ioannis Lydi libris de magistratibus et de mensibus) 62 Westerink famovson hJ blasfhmiva. Ma vd. anche Steiner 1988 in Trapp 1988, p. 180 s.v. famw`sson Schmägedicht ajpevskwpton ou\n aujto;n wj/dai`" kai; parw/divai" kai; toi`" kaloumevnoi" famwvssoi", dia; th;n th`" Nisivbido" prodosiva" (Suid. II 638, 31). Lampe ha favmouson/ favmoson, tov «plur., slanderous, libellous information»; Sophocles parimenti ha «famosus libellus or famosum carmen» ; Tgl ha favmouson; Du Cange ha favmwsson. Ann. Comn. Alex. ha 6 occorrenze (XIII 1, 6-7-8-9); Tzetze un paio (Hist. XIII, inscr. hist. 489; XIII 481; Epist. ed. Leone 155, 15, 18). 346-347 wJ" douvlw/ pisteuvein lalou`nti kata; despovtou: Ermes fa riferimento ai casi eccezionali in cui un servo, qui Pomponio, può accusare un padrone, qui l’acquirente che lo sta per acquistare a lo ha infamato di furto; casi che debbono essere tuttavia comprovati con la tortura, a significare lo status pur sempre destituito di diritti paritari dello schiavo. La diffamazione non sembra per l’appunto essere 164 contemplata tra codesti casi previsti dal diritto imperiale post-classico e giustinianeo (vd. Sanfilippo 1951-1953 p. 109 n. 16 che elenca la lesa maestà, l’adulterio, la frode alle imposte, la falsa moneta, l’omicidio, l’accaparramento di cereali, la relazione illecita della padrona con uno schiavo), cosicché lo schiavo diventa passibile di morte. A tale giurisdizione l’acquirente si richiamerà più avanti (vd. ll. 370-373) per tutelarsi da eventuali accuse future del suo nuovo schiavo solone. 350 aJlwvnhton: deriva da a{l" + wJnhtov"; è aggettivo rarissimo, ma attestato dai lessicografi (Phot., Hesych., Suid., nonché e.g. Eustath. In Iliad. II 504, 15; cfr. LSJ, Demetrakos e LBG s.v.). 351 tivna–ejnerghsavmeno": se tivna corrisponde a tiv, non ho presente paralleli; se invece è acc. masch., non capisco il senso. 354 sgg. th;n bevrbi"–tou;" patrwvna": lessico giudiziario che i greci presero in prestito dai latini sin dall’età imperiale.4 Sanfilippo scrive nella sua traduzione italiana le parole latine, traslitterate in greco da Prodromo, in alfabeto latino; ma ritenendo che alcune siano deformate, le pone in caso nominativo (verbis, consensus, condicio, curatores, procuratores, infantes, puberes, patroni). A mio parere, però, bisogna lasciare il testo tràdito immutato: si tratta di parole declinate, perché estrapolate dai loro rispettivi contesti: come verbis, così consenso potrebbe essere un ablativo di mezzo (sono preceduti entrambi dall’articolo femminile che sottintende fwnhvn); to;n kondiktivkion (sc. lovgon) è parola di derivazione latina ma in uso nel lessico giuridico greco (vd. TLL s.v. con e.g. Dig. XII 1, 24); gli altri due termini, tou;" ijmfavnti kai; tou;" poubertavti, sono dativi singolari preceduti dall’articolo maschile plurale forse per eco dei due sostantivi immediatamente precedenti, tou;" kouravtwra" kai; tou;" prokouravtwra"; invece ajpeleuvqero" è traduzione per libertus, libertinus, esistente già nel lessico greco classico. Alla l. 354 compare poi un altro latinismo libevllwn, da livbello" o libevllo", ovvero al nt. pl. libevlla, petizione, attestato in greco almeno dal III sec. d.C., sec. LSJ. Per quanto concerne la fonetica di tali parole, si noti che bevrbi" mescola la b /v/ bizantina con la b /b/ classica. Sul latino nel XII sec., età in cui i contatti con l’Occidente si infittiscono notevolmente, vd. anche Zonar. XVII, 5, 24, 3, p. 542 εἶπεν ἄν τις τῇ Λατίνων φωνῇ τὸν ἄνδρα δικτάτορα (detto del protovestiarios Leo, inviato come plenipotenziario da Basilio II a trattare con il ribelle Bardas Scleros; qui Zonara rielabora un passo di Scilitze, p. 320 Thurn). In ogni caso, quel che Zonara sa di storia romana deriva da Plutarco e da Dione Cassio, non da fonti romane (vd. Magdalino 1992, p. 343 e 4 Lo spiega già Du Cange, Gloss. mediae et infimae graecitatis., Praef. pp. XII-XIII, § XVII, in un contributo vecchio di quattro secoli, ma ancora valido, non foss’altro perché rappresenta una delle prime riflessioni teoriche sul fenomeno. Ne riporterò una delle due parti che Du Th. trascrisse in nota a questo passo prodromeo: «Graecae istae Constantinopolitanorum Augustorum Constitutiones ita describi non potuere, quin in iis subinde insererentur formulae romanis iurisconsultis familiares, ut et formalia quae vocant verba vocibus latinis vel in graecam enuntiationem deflexis ac detortis exararentur, cum has haud promptum esset mutare vel in puriorem graecum sermonem convertere, nisi prolixiori aliquo verborum ambitu, qui in praecipui momenti decreta nescio quid ingessisset obscuri et dubii. Neque tamen Graecos aevi iustinianei iurisconsultos hac dumtaxat scribendi ratione usos constat, cum longe antea Herennium Modestinum, Papiniani discipulum, qui sub Alexandri imperio vixit, in libris, quos Paraivthsin ejpitroph`" kai; kouratwreiva", seu de Exscusatione tutorum, inscripsit, hanc observasse legamus, in quibus Ignatii Dextri, cui dicantur, flagitationi satisfacturum se ait, graeceque illo conscripturum, quoad poterit, etiamsi difficile esse agnoscat eiusmodi nomica seu iuridica in graecam linguam transferre: poihvsomai dev, inquit, wJ" a]n oi|ov" te w\/, th;n peri; touvtwn didaskalivan safh`, ajfhgouvmeno" ta; novmima th`/ ÔEllhvnwn fwnh/`, eij kai; oi\da duvsfrasta ei\nai aujta; nomizovmena pro;" ta;" toiauvta" metabolav". Et certe in toto huiusce operis contextu complures voces latinas graeco charactere ac sono descriptas inserit, verbi gratia kouravtwr, ejxkoussativwn, pavtrwn, lhgavton et alias eiusmodi non paucas. Hinc Eustathius, Michael Psellus, Michael Attaliates, Constantinus Harmenopulus, ceterique ex Graecis iurisconsulti, sibi idem quod Modestino licere arbitrati, voces latinas graeco sono interdum descriptas, quandoque etiam latinas ipsas, ut formales, scriptis suis passim inseruerunt, koinolexivan dia; to; pantelw`" eujdiavgnwston amplexi, ut idem loquitur Attaliates. Cum vero rudioribus in re iuridica istiusmodi vocabulorum Graecis ipsis minus nota esset significatio, utpote a Latinis accepta, horum sullogav" graeci iurisconsulti subinde confecerunt, addita explicatione, quae passim habentur in Regia Bibliotheca [sc. in Parisiis], unde eas eruit Carolus Labbeus et in publicum emisit. Alias etiam videre contigit viro clarissimo domino De Chevannes Divionensis patroni beneficio, ex manuscripto Vaticano depromptas, labbeanis meliores et auctiores, sed dimidia fere alphabeti parte mutilas, cum a littera M initium dumtaxat ducant». Forse proprio a questo codice vaticano visto da De Chevannes si riferisce Du Th., quando per la parola bevrbi" rimanda al Vat. gr. 915, f. 235v bevrbi" ejnoch; ejn lovgoi". CONTROLLA CHI NE HA EDITO IL CONTENUTO 165 Ziegler in RE s.v. Zonaras, coll. 728-729). In genere, però, questo gusto per la romanità corrisponde a una tendenza manifestatasi sin dal tempo degli imperatori della dinastia Duca (sp. Michele VII, 1071- 1078); e persino lo stesso Giovanni Tzetze, che doveva compiacersi dell’autodefinizione di Catone l’Uticense redivivo, infarcisce le sue lettere e Chiliades di flosculi romani tolti da Cassio Dione (Magdalino non specifica però quali essi siano). Catone il Vecchio viene citato anche nel dialogo posteriore al X sec., ps.-Luc. Timarion l. 1101 Romano; ma la conoscenza di questo personaggio romano sarà da attribuire alla mediazione di Plutarco (biografia Cato maior) piuttosto che a lettura diretta di qualche autore latino. Il dileggio della giurisprudenza romana da parte di Prodromo può forse riferirsi alla ricerca da parte degli storiografi suoi contemporanei delle radici romane, della giustificazione del potere dell’imperatore bizantino e del confronto dell’antica con la nuova Roma. 359 th`" ejkklhvtou: il riferimento è forse all’epoca non tanto di Pomponio, quanto piuttosto di Prodromo, durante la quale la giurisdizione di appello era affidata al basiliko;n krithvrion o bh`ma, il tribunale che discuteva tutte le istanze d’appello dell’impero bizantino. Tre erano i casi: 1) appello dopo giudizio provvisorio, su relazione di un funzionario (ajnaforav, ujpovmnhsi"), quando il caso era difficile o dubbio; la sentenza definitiva veniva pronunciat a dall’imperatore in persona o da un giudice delegato; 2) appello propriamente detto (e[kklhto"), quando era già stata pronunciata una regolare sentenza di primo grado; 3) appello in forma di supplica (devhsi"), consegnata a un funzionario, senza previa emissione di un giudizio. Sanfilippo rimanda a Bréhier 1949, p. 226 sgg., a Vogt 1908, p. 138 sgg. e a Waltzing 1895-1900, pp. 50-51. Secondo Sanfilippo il Pomponio di Prodromo vuol dare a vedere che l’appellatio, ossia il ricorso, è uno dei metodi più efficaci con cui un avvocato non arrendovole può domostrare la propria tenacia, anche di fronte a una prima sentenza sfavorevole, e di conseguenza guadagnare una reiterata paga per il nuovo giudizio intentato; atteggiamento non molto diverso dalle lungaggini degli odierni causidici che, senza aver letto Prodromo, ne hanno fiutato il vantaggio, indipendentemente dalla dubbia moralità che esso comporta. Il genere femminile forse sottintende di nuovo fwnh`", benché la parola sia in greco anziché nel corrispondente latino appellationis; a meno ché non si sottintenda un sostantivo come ejkklhsiva, ovvero più semplicemente il genere femminile della parola in latino. CONTROLLA 359-360 crusou`–Puqivw/: allude al tesoro degli Ateniesi a Delfi, menzionato da Hdt. ... controlla 361 Kroi`son... h] Mivdan: sono gli arcinoti nababbi dell’antichità, il primo eternato da Hdt. I, il secondo dal mito... controlla 362 movnon ktl.: la serqua di qualità negative e millanterie varie che il giurisperito deve dispiegare, secondo Pomponio, ricalca certo quella poc’anzi esposta da Ippocrate per il suo modelo negativo di medico e rientra nel processo sarcastico e satirico di Prodromo di mettere in cattiva luce le categorie bersagliate. 364 ejmbauv>zein-katacei`n: dall’imperativo si passa qui all’infinito iussivo. Per ejmbauv>zw vd. LBG (= ankläffen), con sola cit. del nostro passo; cfr. il semplice bauv>zw, attestato in Theocr. VI 10, Luc. Merc. cond. [36 Mcl.] 34, Ar. Th. 173, Aesch. Ag. 449. 364 kai; o{la" aJmavxa" loidoriw`n: cfr. Zonar. XVIII 29, 19-25, vol. III, pp. 766-767 Büttner-Wobst, CSHB, Bonnae 1897 καὶ τῶν θεραπόντων τισὶν ἁμάξαις ὅλαις παρεῖχε τὰ δημόσια χρήματα cit. in nota ad Sat. 144 H., 157-161. 366-367 wJ" ajrpavsanta-fushvmato": è la consecutiva all’accus. + infinito come in Sat. 144 H., 79 wJ" eijakevnai-Xenofw`nta. 371-373 th;n mevntoi-ajnakrinoivmhn: l’acquirente vuole accertarsi di avere la legge dalla propria parte, qualora il suo nuovo schiavo Pomponio volesse accusare il padrone, come poco prima (ll. 346-347) ha mostrato di ardire. Propriamente mh;... povrrw nomikh`" ajkribologiva" lett. «non oltre i rigorosi termini di legge». 374-377 e[a tau`ta-prokrimatizomevnw/: l’allusione è alla rescissione della vendita per vizi occulti, con raccomandazione di riportare indietro lo schiavo reo, senza però averlo punito. Tale precisazione si trova nel Dig. XXI 1, 1, 1 = Basil. XIX 10, 1, con commento esattamente di Pomponio (Dig. XXI 1, 23; Ulp. I ad ed. edil. cur.): cum autem redhibitio fit, si deterius mancipium , sive animo sive corpore ab emptore factum est, praestabit emptor venditori... et ideo, inquit Pomponius, et ex quacumque causa deterius factum sit, id arbitrio iudicis aestimetur et venditori praestetur. 166 ejsau`qi": vd. Introduzione p. 38. fulokrinou`nti: nel senso di dokimavzw, distinguo con precisione, vd. Luc. Venditus [54 Mcl.] 4 prokrimatizomevnw/: verbo alquanto raro (LSJ registra Rh. Gr. VII 1123 Waltz). 379 mna`" ktl.: Pomponio vale 1/200 di Omero: certo il diritto non era stimato da Prodromo! 381 oJ rJhvtwr katavbhqi: il nominativo con articolo al posto del vocativo serve a rafforza un ordine (cfr. Schwyzer II, p. 63, con esempi da Aristofane e Platone). Entra in scena Demostene, rappresentante della categoria dei politici propriamente detti; noto a Prodromo non solo per le sue numerose orazioni studiate a scuola, ma anche come soggetto della biografia plutarchea e di un opuscolo lucianeo (Demosth. enc. 58 Mcl.). 381 dhmwfhlhv": senz’altro un gioco di parole con Dhmosqhvnh"; trattasi di aggettivo non molto frequente, la cui prima attestazione per noi è Plat. Phaedr. 227d 2. 382 mixevllhn: mezzo-greco; l’agg. ricorre e.g. in Pol. I 67, 7, nel romanziere Heliod. IX 24, 2 e in una manciata di altri passi; la purezza attica depone a favore anche della lingua, di cui Demostene fu certo nell’apprendimento del greco modello precipuo per molti, Prodromo compreso. 383 mevno" pnevwn ∆Aqhnaivou purov": parodia del verso omerico concernente la chimera, Z 182 deino;n ajpopneivousa puro;" mevno" aijqomevnoio; simile espressione nel dialogo 135 H. (Senedèmo) 25 (detto del filosofo Teocle di Bisanzio) glw`ssan de; plouthvsa" ajttikou` puro;" mevno" pneivousan polu; plevon h] h}n oiJ mu`qoi plavttousi civmairan. 384 tivsi: mi pare interrogativo dat. pl. neutro di mezzo, piuttosto che maschile di vantaggio (per chi?). 385 tou` dhvmou Paianieuv": il genitivo mi suona un po’ strano, ché mi attenderei o un dat. limit. (tw/` dhvmw/ Paianieuv") o il sostantivo del demo (tou` dhvmou Paianiva"); la provenienza di Demostene si ricava dalla sua stessa orazione più famosa De corona XVIII 180 oJ Paianieu;" ejgw; Bavttalo". Tale orazione costituisce per l’appunto il paradigma del modo d’agire di Demostene, subito dopo dipinto, con espressioni tratte proprio da quell’arringa, come pungente accusatore degli altri e disponibilissimo difensore di sé stesso. 387 pavnsemna: aggettivo raro e tardo, ricorrente due volte in Luciano, una proprio in Vit. auct. [... Mcl.] 26. 388-390 ejk ga;r th`" Eujboiva"-ka]n diarragw`siv tine": parafrasi in terza persona di Dem. Or. XVIII 87. 390-393 ajlla; kai; oJ bohqhvsa"-ajfeidw`" didouv": cfr. Dem. Or. XVIII 88; Atene inviò due spedizioni in soccorso a Bisanzio (colonia fondata dai coloni di Megara nel 667 a.C.) nel 340 con Carete, e nel 339, con Cefisofonte e Focione, che costrinsero Filippo ad abbandonare l’assedio. 393-394 kai; hJ povli"-dia; tou`ton: cfr. Dem. Or. XVIII 94 ; nel ringraziare città amiche talora si decideva di incoronare l’intera comunità e non un songolo; spesso ciò era sottolineato da un’immagine in rilievo posta al di sopra della stele onorifica (vd. il celebre decreto degli Ateniesi per i Samii del 403 a.C.). controlla 396 kataprovhtai: l’accentato tràdito sul preverbio di questo congiuntivo può derivare da analogia con verbi simili aventi preverbio plurisillabico (spesso negli ottativi come ejpivqointo nonché l’oscillante provointo/-oi`nto); trattasi comunque di verbo che compare da Polibio in poi; idem dicasi per filovpatri". 397 qhmw`na": termine ricorrente in e 368 e in poche altre occorrenze ellenistiche e tardo-antiche. 397-398 blasfhmei`-ajnalwvsa": cfr. Aesch. Ctes. 218 su; d∆ oi\mai labw;n me;n sesivghka", ajnalwvsa" de; kevkraga" e Dem. Or. XVIII 82 w\ blasfhmw`n peri; ejmou` kai; levgwn wJ" siwpw` me;n labw;n, bow` d∆ ajnalwvsa". 398-399 movli"-Makedovnwn: tra il 347 e il 346 a.C. Demostene fu inviato con Eschine, Filocrate e altri in ambasceria presso Filippo, con cui fu stipulata una pace a questi favorevole detta «di Filocrate». Nel 346 Demostene pronunciò l’orazione Sulla pace, sostenendo l’opportunità di una tregua con i Macedoni, in vista di un riavvicinamento antimacedone a Tebe; accusato dai moderati filomacedoni di Eubulo di atteggiamenti contraddittori e da Eschine di essersi lasciato corrompere, Demostene riprese gli attacchi contro Filippo con la Seconda Filippica (344); con l’orazione Sulla corrotta ambasceria, poi, contraccusò Eschine di essere lui il responsabile delle clausole sfavorevoli agli Ateniesi della pace di Filocrate. faskwvlion è voce che compare due volte in Gal. De anatom. admnistr. II 559-560 Kühn e in altri autori tardo-antichi e primo-bizantini, compresi i lessicografi. 400 ajkatadouvlwton: rarissimo agg. a due uscite, compare in Sch. Eur. Hec. 420, Mich. Attal. Hist. 301, 15 Bekker; LBG cita Zepos I 223 (= nicht unentworfen, unabhängig, frei) e il nostro passo (= unbezwingbar). 167 401 th;n kefalh;n perikeivmeno": il verbo perivkeimai nel senso di essere collocato intorno regge l’acc. della cosa in Luc. Astrol. [48 Mcl.] 3 ai¹eiì ga\r sfe/aj eu)di¿h kaiì galhnai¿h perike/atai. 403-407 hJ povli" ejstefavnwsev me-tw/` dhvmw/: dopo esser stato presentato con brani dal De corona parafrasati da Ermes in terza persona, ecco ora che Demostene comincia a parlare in prima persona, ancora con citazioni letterali dalla medesima orazione; la prima, Dem. Or. XVIII 54, sembra segnata da un saute du même au même, dappoiché manca il tratto dal primo al secondo crusw/ stefavnw/, che qui sottolineo: w¨j aÃra deiÍ stefanw½sai Dhmosqe/nhn Dhmosqe/nouj Paianie/a xrus%½ stefa/n%, kaiì a)nagoreu=sai e)n t%½ qea/tr% Dionusi¿oij toiÍj mega/loij, trag%doiÍj kainoiÍj, oÀti stefanoiÍ o( dh=moj Dhmosqe/nhn Dhmosqe/nouj Paianie/a xrus%½ stefa/n% a)reth=j eÀneka kaiì eu)noi¿aj hÂj eÃxwn diateleiÍ eiãj te tou\j àEllhnaj aÀpantaj kaiì to\n dh=mon to\n ¹Aqhnai¿wn kaiì a)ndragaqi¿aj, kaiì dio/ti diateleiÍ pra/ttwn kaiì le/gwn ta\ be/ltista t%½ dh/m% kaiì pro/qumo/j e)sti poieiÍn oÀ ti aÄn du/nhtai a)gaqo/n, pa/nta tau=ta yeudh= gra/yaj kaiì para/noma ktl. 408-412 kalw` de; tou;" qeouv"-ajnovnhtovn me poih`sai: cfr. Dem. Or. XVIII 141, con adattamenti e tagli. 417-418 aujth;n ajporrivya"-ajnaptuvxeien a[n: come è noto da da Dem. Or. XXI [Mid.] 103, si riferisce all’accusa di diserzione mossa da Euctemone per conto di Midia, poiché Demostene non partecipò alla campagna in Beozia, essendo corego alle Dionisie nella primavera del 350 a.C. Sulla grafia leipotaxivou anziché lipo-, vd. Introduzione p. 41. 420 rJivyaspin: è conio aristofaneo (Nub. 353, Pax 1186), che si ritrova anche in Plat. Leg. 944b; lo stesso dicasi per ajposemnuvnw (Ar. Ran. 703, Plat. Theaet. 168d); si riferisce ai rei di viltà (in Aristofane il più gravato di questa colpa è Cleonimo, ma già Archiloco, fr. 5 West si accusava di ciò). In Atene chi imputava un cittadino di vigliaccheria rischiava di incorrere in una causa per diffamazione, avendo usato una parola ajpovrrhton quale rJivyaspi" (cfr. e.g. Isocr. XX 3); non Aristofane, tuttavia, che godeva di una certa impunità in grazia del socco da lui calzato (vd. il mio cenno al riguardo nell’Introduzione, § Un’idea di Bisanzio, p. 9 ojnomasti; kwmw/dei`n). All’imputato, dal canto suo, era proibito prendere la parola in assemblea (cfr. Lys. X 1) 422 gnwmologou`nto": verbo già usato da Aristot. Rhet. 1394a 21. 423-426 pevra" me;n a{pasi-oJ qeo;" didw/` gennaivw": cfr. Dem. Or. XVIII 97; si noti come dall’originale fevrein d∆ a}n oJ qeo;" didw/` gennaivw" si passi a fevrein d∆ o{ ti a[n oJ qeov" ktl., forse perché il copista o Prodromo stesso non compresero la crasi in a{n di a{ + a[n. 426 megalovyuca: è agg. usato e.g. in Isocr. IX [Euagor] 3, ma non estraneo a Demostene stesso, che impiega soprattutto il sostantivo. 439 dikomacou`nta: verbo raro (recuperato per congettura in Alciphr. II 26, 2, 1; in app. ed. Schepers e{neka dikomacou`nta" Bergl.: e{neken ajdikomacouvntwn B: e{neken ajdikomacouvnta" cett.); LBG (= prozessieren) cita solo il nostro passo. 440 uJpeikavqein: aor. 2 inf. poetico di uJpeivkw (ma non dovrebbe essere uJpeikaqei`n perispomeno come diwkaqei`n? Cfr. in effetti Iul. Apost. XXII 54; a meno che non fosse interpretato come inf. pres. da un analogico uJpeikavqw, come diwkavqein da diwkavqw). 443 to;n ejpi; tw`n muvrwn: ricalca il modulo espressivo di l. 35 supra to;n ejpi; tw`n muvqwn (q.v.). Kuvkukno": va emendato o no in Kuvkno" con Du Th.? non compare la stringa in Tlg on-line toujpivklhn: in Plat. Tim 58d l’avverbio semplice ejpivklhn; in autori più tardi (e.g. Psell. Poem. IX 1162) con l’art. neutro in crasi, forse per analogia con altri avverbi (e.g. toujnteu`qen in seguito Xen. Cyr. VII 1, 147). 444 eij" nevwta: espressione di tempo ricorrente e.g. in Xen. Cyr. VII 2, 13. 445 sunenmpolhqhsovmenon: Tgl registra sotto sunempolavw (= simul vendo) solo il nostro passo. 168 BIBLIOGRAFIA Abel 1885 Aerts 1991-92 Alexandre 1858 Alexiou 1974 Alexiou 1977 Amati Anastasi 1965 Angold 1984 Arrighetti 19732 Arsenius Monenbasiae 1519 Bachmann I-II Bachmann-Dölger 1940 Bandini I-XI Bandini 1961 Barrett 1964 Beaton 1989 Beck 1975 Beck 1978 Bekker 1823 Bekker 1835 Orphica, recensuit E. Abel, Lipsiae-Pragae 1885 W. J. Aerts, Besprechung zu Eideneier 1991, «BZ» 84-85 (1991-92), pp. 519-523 C. Alexandre, Pléthon, Traité des lois, ou recueil des fragments, 1858 (rist. an. 1966; 1983 con intr. di R. Brague, ma senza tutte le appendici della 1° ed.) M. 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Zepos, Ius Graeco-Romanum, Atene 1931 185 186 SOMMARIO      Premessa                      III  Introduzione                      VII    Status quaestionis                  VII    Un’idea di Bisanzio                  VIII    Biografia di Prodromo                 XI    Il milieu storico, sociale, culturale               XVI    Ellenismo negli scrittori del XII sec.              XX    Ellenismo in Prodromo                XXIV    Committenti e destinatari della letteratura bizantina del XII sec.      XXVIII    I codici                     XXXIV    Constitutio textus                  XXXIV      1) Punteggiatura                XXXVII      2) Accenti                  XXXVIII      3) Grafie separate ovvero unite            XL      4) Spiriti e altri segni ortografici            XLI      5) Omofonia di dittonghi e vocali secondo la pronuncia itacista    XLII      6) Scambio di w con o                XLIV      7) Geminazione e scempiamento delle consonanti        XLV  8) Metaplasmi                 XLV  9) Indicativi presenti formati su temi aoristici        XLVI  10) Cambio di coniugazione dei verbi contratti        XLVI  11) Altre grafie dovute alla pronunzia bizantina delle lettere    XLVI  12) Errori probabilmente dovuti a cattiva decifrazione dell’antigrafo   o a lapsus calami nella trascrizione            XLVI  13) Grafie varie                XLVII  14) Soggetto neutro plurale con verbo plurale        XLVII  15) Abbreviature tachigrafiche del ms. incoerenti con la sintassi del   contesto                  XLVII    La traduzione                   XLVII  Conspectus siglorum                    XLIX  Testo, traduzione e note                  1  Textus I (140 H.) Kata; filopovrnou graov"               3  Textus II (141 H.) Kata; makrogeneivou gevronto" dokou`nto" ei\nai dia; tou`to sofou` 19  Textus III (144 H.) ∆Amaqh;" h] para; eJautw`/ grammatikov" 29  Textus IV (148 H.) Dhvmio" h] ijatrov" 51  Textus V (149 H.) Filoplavtwn h] skutodevyh" 69  Textus VI (146 H.) ∆Amavranto" h] gevronto" e[rwte" 83  Textus VII (147 H.) Bivwn pra`si" poihtikw`n kai; politikw`n 127  Bibliografia                       169