E soltanto nella testimonianza del Selvatico che troviamo una soramaria descrizione di co-m'era Caterina: "carnosa ma di ciera diabolica". Bella o brutta che fosse, il "diabolica" pud voler dire, per chi non crede nel diavolo, "affasci-nante". E la memoria ci corre - vaga e la memoria, a volte capricciosa, quasi mai gratuita - alia Lupa del Verga: "Era alta, magra, aveva soltanto un seno fermo e vigoroso da bruna - e pure non era piu giovane - era pallida come se avesse sempre addosso la malaria, e su quel pal-lore due occhi grandi cosi, e delle labbra fresche e rosse, che vi mangiavano." Forse un po' meno magra; ma e possibile che il "carnosa" deLdot-tor Selvatico si riferisce soltanto alia prepotenza del seno. Una Lupa, comunque. "Le donne si fa-cevano la croce quando la vedevano passare, sola come una cagnaccia, con quell'andare ran-dagio e sospettoso della lupa affamata; ella si spolpava i loro figliuoli e i loro mariti in un batter d'occhio, e se li tirava dietro alia gonnella solamente a guardarli con quegli occhi da sata- 49 nasso, fossero stati davanti all'altare di Santa Agrippina." Gli occhi da satanasso: appunto diabolici. E proprio alia Lupa si torna a pensare leg-gendo la deposizione del cocchiere di casa Melzi - "auriga" nell'incipit latino del verbale -quando racconta delle dimostrazioni d'amore che gli faceva Caterina, delle carezze, degli in-viti: "e a volte mi diceva ch'era innamorata dei miei occhi, e che i miei occhi dicevano che ero capace di cavalcare a tutte le ore" (e il cavalcare, inutile spiegarlo agli italiani, non si riferiva al-l'aver a che fare coi cavalli dell"'auriga"). E una volta gli disse che mai lo avrebbe preso per ma-rito, perché sempře avrebbe avuto gelosia e il ti-more che gli facesse "qualche corno". Quando poi cominció a soffrire dei dolori di stomaco, lei lo awerti di guar dar si dai malefizi: quasi a in-tenzione di dirgli che il malefizio veniva da lei e che amandola gli sarebbe stato tolto. "Ma io" -dice il cocchiere - "per rispetto del Padrone non ho mai voluto, né ebbi mai intenzione di aver a far seco." Ma con tutta probabilita mente: la porta della camera di Caterina era ogni notte aperta a chiunque volesse "negoziarla", padrone e servi. E ambiguamente il cocchiere usa l'e-spressione "per rispetto del Padrone": che puó voler dire rispetto a non fornicare sotto il suo tetto, ma puó anche voler dire - usando una metafora che una volta usó Lenin - rispetto a non bere nello stesso bicchiere. Ma a questa seconda ipotesi, che non poteva " non trovar luogo nelle maliziöse menti degli in-quirenti, e di cui certamente qualcosa traluceva nelle domande che gli rivolgevano, il senatore reagisce con una energia e uno sdegno che sarebbe dovuto apparire - come appare - al-quanto sospetto: "La qualitä di questa donna e tale, per essere d'etä di circa cinquant'anni, sporca e di bruttissima fisionomia, che non sol-tanto io, con l'eta che mi trovo ad avere e con l'austeritä che tutti mi conoscono, ma nem-meno un qualsiasi giovane libidinoso la guarde-rebbe, e sicuramente la disprezzerebbe; e perciö poteva fare a meno di farmi quello che mi ha fatto, essendo peraltro io sicuro che per qualsi-voglia fattura malefica non si possa violentare una creatura ad amarne un'altra. Ed e il Demo-nio che inganna con questo fine ad amorem, e fa operare questi maleficii che tormentano poi ad mortem. E ancora voglio dire che non ho mai avuto per lei la minima inclinazione, ne in sogno ne altrimenti; e che anzi mi dispiaceva te-nerla in casa per la sua mala ciera..." Ci sono, in questa excusatio non petita dei senatore ("excusatio non petita, fit accusatio manifesta"), o petita cautamente, con qualche insinuazione, con qualche allusione, delle evi-denti esagerazioni. Intanto, l'eta di Caterina: gli inquirenti la dicono quarantenne; noi, som- 5Q 51 mando gli anni della sua vita cosi comc leiJi scandisce, arriviamo a quarantuno, quarantadue anni. E in quanto alla bruttezza: nessun altro ne parla con la vcemenza e repugnanza del senátore. Abbiamo sentito il Selvatico dirla "carnosa ma di ciera diabolica", che non sta per brutta ma piuttosto, come oggi si direbbe, per "inte-ressante"; né la dice brutta il cocchiere, che ne-gando di essere stato al gioco di lei, e di essere entrato nel suo letto, non dice di esserne stato distolto dalla laidezza, ma dal rispetto che do-veva al padrone. E nemmeno ě credibile che fosse sporca, se Ludovico Melzi ammette che "mentre detta Caterina ě stata in casa nostra ha servito talmente bene in cucinare ed ě stata cosi fedele riguardo alla roba, che niente di meglio si poteva desiderare". Si fossero tenuta a cucinare una donna cosi sporca, vorrebbe dire che la sporcizia allignava in casa Melzi a prescindere dalla presenza di Caterina. Una stranezza di questo processo ě che il senátore Luigi Melzi, vivo e vegeto a quel mo mento, e in piena facoltá ďintendere e di volere, vi compare come testimone e non come principále e diretta parte lesa, qual era secondo la con-fessione di Caterina e per le coliche (ad mortem, come assicuravano i medici) di cui lei lo aveva malefiziato. Forse c'era stata da parte sua, dettata dalla paura che si scoprissero le sue not-turne visite alia serva, una certa resistenza a credere o almeno un tentativo di temporeggiare. Si spiegherebbe cosi la lunga attesa dell'arrivo di Cavagnolo, di quasi venti giorni: e forse con la speranza che Cavagnolo riducesse la consistenza delle rivelazioni di Vacallo o portasse un qual-che elemento che, nella vicenda di Vacallo, desse a Caterina un ruolo marginale, se non ad-dirittura incolpevole. Ed ě facile immaginare che Ludovico sapesse giá delle notturne evasioni del padre dal proprio letto a quello di Caterina, e se ne preoccupasse ancor prima che Vacallo prowidenzialmente arrivasse. Aveva passatí i sessanťanni, il senátore: e c'era il rischio che, anche senza gli stregoneschi incantesimi, re-stasse incantato di piú umano e senile incanta-mento. In simili situazioni sempře i figli hanno visto pericolante, oltre che il senno del padre, e conseguentemente, la roba: e sempre non hanno trovato di meglio che far scomparire dall'oriz-zonte familiäre, con le buone o con le cattive, la donna in cui l'anziano genitore trova le ultime reliquie della gioia di vivere. Preoccupato, dun-que, delle coliche del padre, ma ancor piú del suo quasi sonnambolico approdare al letto di Caterina, Ludovico avrä cominciato ad avere quelle digestioni agre e stentate, in una delle quali Manzoni lo coglie, nel dopodesinare, I'll 52 53 novembre del 1630 (ed ě possibile Manzoni pensasse appunto alle coliche del senátore, nel momento in cui gli veniva alla fantasia e alla penna quel dettaglio sulla deficienza gastrica del figlio che ě diventato 1'indimenticabile attacco del capitolo XIII); e con esultanza avrá accet-tato le rivelazioni di Vacallo. Ma, si puo ancora immaginare che il figlio, temporeggiando il senátore fin okre 1'arrivo di Cavagnolo, avrá voluto metterlo di fronte al fatto compiuto quere-landosi in proprio nome. Dopo di che al senátore non restava che di convincersi di essere vit-tima di una stregoneria, e che Caterina era dav-vero "strega professa". Tutto concorreva a con-vincerlo, e tutti. Ma soprattutto il fatto di star meglio, come dichiara: "Non solo mi sono ces-sati i dolori, ma anche posso dire ďesser quasi risanato di questo male; e mentre prima non potevo dormire, da tre giorni in qua riposo alle ore debite e mi trovo a star moko meglio di prima che il Reverendo mi facesse gli esorci-smi." Visse, infatti, ancora per dodici anni. Ma moři di colica: il 16 luglio 1629. II 30 dicembre cominció Finterrogatorio di Caterina. Raccontó la sua vita, sommariamente, fino a quel punto in cui la fatalita, in casa Melzi, l'a-veva colta e consegnata alla tremenda giustizia che ora la spremeva. La fatalita e il suo deside-rio ďamore, il suo voler essere comunque amata. Era nata a Broni, neU'Okrepo pavese. Maestro di scuola a Pavia, il padre: e perció lei sa-peva leggere e scrivere; e bisogna anche dire che sapeva esprimersi un po' meglio degli altri, se nei verbali le parti in cui ě lei a parlare sono le meno aggrovigliate, le meno Confuse. Sposata a tredici anni con un tale di Piacenza, Bernardino Pinotto di nome. Sei anni dopo, muore il marito. Caterina comincia la sua vita di serva: in casa di čerta Apollonia Bosco, a Pavia, per un anno; poi, ancora per un anno, da un oste, nel Monferrato; poi a Trino, per quattro anni, in casa di un mercante di panni. Passa poi a Occi-miano, dove resta per dodici anni. Entrata come 54 55 serva in casa dcl capitano Giovan Pietro Squar- % ciafigo, ne era diventata la donna: senza pero smettere, si capisce, di esserne la serva. II Cava-gnolo, sempře infaticabile sui fatti altrui, dopo la storia di Vacallo, trovandosi nel Monferrato, andó a Occimiano per informarsi "della qualitá di detta Caterina fantesca": qualitá che gli ri-sultó pessima, a conferma del peggio che giá ne pensava: "Comunemente era tenuta per donna impudica e strega; non maritata, ma aveva par-torito due figlie ad un tal capitano che si rite-neva avesse affascinato; e detto capitano era gentiluomo da cinque a sei mila scudi di en-trata." Caterina, non ci fu bisogno di metterla a confronto di Cavagnolo perché ammettesse il concubinato con Squarciafigo, le due figlie, Vit-toria e Angelica, che il capitano si era tenute e che lei, dopo anni, era andata una volta a tro-vare; e ammise anche di avere, una volta con buon esito, altra volta con fallimento, fatto ope-razioni di magia a che il capitano non la cac-ciasse di casa: ma la seconda volta c'era di mezzo il vescovo di Casale, che al capitano aveva imposto di metter fine a quella peccami-nosa e scandalosa sua vita, cacciando di casa Caterina. Dove si vede che non c'ě magia che valga, di fronte al dettame di un vescovo. Caterina parla anzi, ad un certo punto, di tre creature partorite al capitano: e pare che Squarciafigo 1'abbia cacciata quando la terza era ap- pena nata, misconoscendone violentemente la paternita: "e diceva che io avevo avuto a che far con altri, e che perció 1'ultima creatura non era sua". E che cosa ne fosse poi di questa terza creatura, non lo dice: per sten ti o malattia, o per insieme le due cose, moko probabilmente era morta qualche mese dopo. Venuta a Milano, Caterina si alloga dal conte Filiberto della Somaglia per qualche mese; passa poi a casa Vacallo ("non ci fossi mai andata!") per due anni. Licenziata da Vacallo, andó, secondo Vacallo e Cavagnolo, in casa del conte Alberigo Belgioioso; ma Caterina dice di essere stata per tre mesi in casa di Federico Roma, che lasció per andare a Occimiano, chia-mata da Squarciafigo e per riscuotere del de-naro, "guadagnato col mio sudore", che par di capire aveva dato in prestito. E aggiunge: "e vi andai anche per vedere le mie due figlie". Ci sta due mesi, e torna a Milano. Per undici mesi a servizio da un medico, per tredici dal capitano Carcano (tre capitani nella sua vita: ma questo ě il solo che non ha da dolersene, e le dá anzi le credenziali che la faranno assumere in casa Melzi), per tre da Girolamo Lonato; e in-fine, dalla Madonna di mezz'agosto in poi, dal senátore Melzi. A parte il rammarico di essere andata da Vacallo, che aveva servito con eura e fedeltá e ne era stata compensata con tutto quel che ora si 56 57 trovava a soffrire, nel suo racconto c'ě una sola nota di rimpianto: quando dice di aver lasciato Pavia - evidentemente dopo la mořte del marito - per il poco cervello che aveva. "Mi měno via un giovane milanese": e non dice altro di questa che, tra le sue esperienze, sará stata una delle piú dolorose. In quanto ad aver malefiziato il senátore -"perché detto signor Senátore mi volesse bene e mi negoziasse carnalmente" - Caterina non nega, e torna a raccontare agli inquirenti quel che in casa Melzi aveva giá ripetutamente rac-contato. Tiene perö a dire che il malefizio da lei operato non era propriamente un malefizio, nelle sue intenzioni. Non contraddice medici, esorcisti e inquirenti dicendo che il mal di sto-maco e i vomiti del senátore erano altra cosa, ďaltra natura o naturali: o per prudenza o perché crede ci sia stato una specie di disguido, l'inserirsi di una volontä ad mortem nelle sue intenzioni ad amorem; e probabilmente da parte del demonio stesso, che con inganno si era servi to di lei. E per essere stata strumento del non voluto ma effettuale malefizio, ecco che lei ha rivolto alla Madonna preghiere e rosari, le ha fatto portare come ex voto un cuore ďargento del costo di sette lire, ha fatto dire messe in 58 1 taňte chiese e a tanti altari, ha pregato partico-larmente San Defendente affinché, liberando il senátore dal mal di stomaco, "possa liberare me ancora". Tanto era lontana dalPimmaginare quel che immediatamente l'aspettava e che nei giorni a venire si sarebbe efferatamente molti-plicato. Gli inquirenti fanno di tanto in tanto qual-che domanda o soltanto la esortano a parlare. E Caterina parla, parla: racconta daccapo la sua vita, aggiunge qualche dettaglio, slarga čerti episodi. E, naturalmente, si contraddice: non sulla sostanza dei fatti e nell'ammissione o ne-gazione delle proprie colpe, ma - per sfagli della memoria - sui tempi, sull'ordine temporale dei fatti, dei luoghi, degli incontri. E capite-rebbe anche a noi. Si direbbe che il racconto della sua vita si al-larga e propaga concentricamente: cosi come "per acqua cupa cosa grave" cadendo produce cerchi sempře piú larghi, fino a lambire le sponde e a spegnervisi. Racconta di avere ap-preso i primi rudimenti della stregoneria - soltanto quel che poteva servire a legare a sé un uomo - da una donna di Trino; ma la sua vera maestra era stata la Margherita di Casal Monfer-rato ("qual era meretrice, bella, giovine di ven-tun anni incirca"), anche se poi altra ne aveva incontrato di nome Francesca. E nel suo racconto il diavolo dapprima si affaccia come invo- 59 cato da lei per disperazione, neí moment! di grande stanchezza o quando piů si sentiva og-getto di disprezzo; un diavolo quasi per modo di dire - mi porti via il diavolo! - invocato e inaspettatamente e in tutta disponibilita appa-rendole. Ma man mano che il racconto procede e si ripete e si allarga, il diavolo, i diavoli coí loro nomi - ďinvenzione che si potrebbe dir co-mica, come nel canto ventunesimo átWInferno -sovrastano, dominano, spuntano da ogni luogo e momento della vita di Caterina, ne sono Tes-senza, il gusto, il piacere. Evidentemente Caterina si era accorta che i suoi giudici sul diavolo e le sue prodezze amatorie amavano intratte-nersi: e perció chiama a raccolta nella sua memoria tutto quel che sul diavolo sa, le paurose cose ascoltate da bambina nelle sere ďinverno accanto al fuoco, le storie sentite dai predicatori e quelle sentite dalle sue maestre, i sogni, le estasi dei momenti ďamore umano che era riu-scita a raccattare; e anche le immaginazioni -non ne dubitiamo - suggeritele da quel famoso esorcista forestiero che 1'aveva interrogata in casa Melzi. Tra l'altro, Caterina torna a raccontare del malefizio fatto da Margherita alla contessa Lan-gosco, del suo accompagnarsi a Margherita la notte in cui andö a ungere la contessa di quel-l'immondo unguento. Questo secondo racconto c piü dettagliato del primo, aggiungendovisi anche la descrizione del gentiluomo che aveva dato a Margherita l'infame incarico di malefi-ziare la contessa: "ed era un bei gentiluomo, grande, con barba rossa, bella faccia, begli occhi, di circa quarant'anni, vestito di nero". Ma ad un certo punto, parlando della cavalcata nella notte, su quel nero cavallo che Margherita aveva fatto sortire dal nulla, da una versione di-versa dell'incidente per cui lei si era ritrovata a terra, tra le spine: "Dopo aver camminato sopra detto cavallo un buon miglio in circa, io mi sen-tivo scottare da detto cavallo e dissi 'o Gesü Maria, mi sento scottare': e di colpo scompar-vero Margherita e il cavallo, e io restai in mezzo a un bosco di spine che potevano essere le due ore di notte." Come non pensare che avesse mu- 60 61 tato la ragione del suo invocare Gesü e Maria a compiacenza degli inquirenti, offrendo loro un cavallo che, provenendo dall'inferno, dalle vampe infernali, doveva necessariamente scot-tare come un ferro da stiro? I giudici non notano la contraddizione, forse la mettono in conto della maggiore sinceritä che Caterina sente di dovere a loro e agli argo-menti, agli strumenti, di cui per l'accertamento della verita, dispongono. Ma poco dopo di nuovo si contraddice: poiche - dice - sco-prendo, all'alba di quella famosa notte, di essere vicina a Mortara, vi ando; e da Mortara and6 a Pavia, dove stette tre mesi da suo fratello, per tornare poi a Occimiano, dove Squarciafigo l'a-veva chiamata perche una delle figlie si era scot-tata una gamba. Poiche questa contraddizione non e di vantaggio alia verita - e cioe alia men-zogna - i giudici la colgono. La redarguiscono, si corregge: non a Occimiano era andata, ma a Milano. Ed e evidente che la confusione dei tempi le veniva dalla immediata associazione di un particolare inventato - il cavallo che scotta - a un particolare reale: la scottatura della figlia. E a questo punto Caterina implora: "Signore, sono stanca dello star tanto. in piedi, e per il di-giuno, e per il travaglio; e perciö se mi lascia ri-posare e mi fa dar da mangiare, dirö poi la verita. di quello che so." 62 L'accontentano. Viene riconsegnata agli sbir-ri, che la riportano al carcere. L'indomani l'interrogatorio riprende, alacre e fruttuoso, dal punto in cui era stato interrotto: il sodalizio con Margherita, quel che da Margherita aveva appreso, quel che insieme ave-vano operato. Caterina la descrive ora piu detta-gliatamente: giovane di ventun anni, con due begli occhioni neri e grossi che parevano due prugne, grassa, brunetta, vestita di saglia gialla, maritata forse da un paio d'anni. Ma si intenda il "grassa" nel senso di allora della bianchezza e del colore, della morbidezza e dello splendore delle carni: non magra, insomma; florida, piut-tosto: come allora le donne piacevano e piac-ciono, solo che ora di piacere agli uomini le donne cominciano a infischiarsene. Cosi giovane, Margherita era giá strega di in-defettibile professionalitá (chi ama questa parola oggi in moda - professionalitá - se la tenga anche per la stregoneria di ieri e di oggi). E qui siamo tentati, sul nome di Margherita, di darci a un gioco di citazioni, di richiami, di sugge-stioni. Ma lo risparmiamo al lettore, anche perche puö färselo da sé. Margherita, Caterina la conosceva da prima che insieme andassero alla villa della contessa 63 Langosco per malefiziarla in modo tale che dopo anni non solo la contessa non si era ri-presa ma, conservando intatta la sua virtu, era ormai, per cosi dire, al lumicino. E si erano an-nusate e conosciute, Caterina e Margherita, per - dal demonio eletta e prediletta - affinitä, es-sendo giä, ciascuna per suo conto, State iniziate a pratiche di magiä nefa. E perd Margherita era giä a un grado, come si e detto, di perfetta pro-fessionalitä, al punto da esercitarla anche per conto di una clientela; mentre Caterina era an-cora al livello della curiosita, dello stupore e, in-somma del dilettarsene. A iniziare Caterina ("ecco finalmente la ve-ritä!", avranno pensato i giudici) era stato un certo Francesco, bandito per avere ammazzato un suo zio, che a Occimiano andava a trovare Caterina di notte (e dunque Squarciafigo non aveva poi torto, quando l'accusava di aver a che fare con altri): e una sera, disperata perche Squarciafigo minacciava di cacciarla da casa, al dire di Francesco che l'avrebbe liberata da un tal pericolo, ma lei dicesse quel che era disposta a pagare, Caterina rispose che avrebbe pagato tutto quel che lui volesse: e intendeva di de-naro. Ma Francesco intendeva ben altro prezzo: e tornö infatti otto giorni dopo, e cavando dalla calza una carta e un ago, le disse che si trattava di dar l'anima al demonio; e, fatta la cessione, non solo Squarciafigo se la sarebbe tenuta in casa, ma avrebbe finito con lo sposarla. Caterina non ci stette a pensare: per come Francesco le dettava, si punse un dito della mano sinistra a farne uscir sangue; nel sangue Francesco in-tinse, a modo di penna, Pago e tracció sulla carta cinque lettere; lo passó poi a lei a che trac-ciasse un circolo: ed ecco che in forma d'uomo grande, e di břuttissima ciera, comparve il dia-volo: "ma non mi disse cosa alcuna, e nel tempo di un'Avemaria scomparve; né d'allora in qua ho mai piú visto detto Francesco, anzi ho inteso che ě morto". Le cinque lettere tracciate da Francesco non ricorda quali fossero, del cer-chio da lei disegnato dice fosse consapevole che la obbligava a darsi in anima e corpo al diavolo. In corpo, "come poi feci", dopo che il demonio cominció a comparirle "famigliarmente" e le promise che molte gioie carnali le avrebbe dato: "e io da allora in qua ho poi sempre compia-ciuto della vita mia a chi me ne ha chiamato". In quanto a "negoziare" col diavolo, ammette di averlo fatto una volta sola, e con molto gusto ("assai piu gusto sentivo quando mi negoziava il Demonio che quando mi negoziavano gli uo-mini"). E di quell'amplesso dá una descrizione che puó apparire peregrina, ma che si puó quasi esser certi che proviene dal favoleggiarne tra fattucchiere, se nón addirittura da qualche manuále inquisitoriale. E puó anch'essere sua fantasia, suo sogno, suo delirio: ma ě certo che questa, come taňte akre cose che racconta, a noi incredibili e repugnanti, per gli inquirenti sicu-ramente verosimili e godute, son frutto della paura, del terrore e del dolore. ^ Si era stabilita, e spécialmente in quel secolo, una funesta circolaritá: antiche fantasie e leg-gende, antiche meraviglie e paure che erano credenze del mondo popolare, per la Chiesa catto-lica a un certo punto si configurarono come un pericolo, come elementi di una religione del male che appunto a quella cattolica - del bene -si opponesse. E quelľantico favoleggiare si configure), fu configurato, come pericolo: per l'ov-via ed eterna ragione che ogni tirannia ha biso-gno di crearsene uno, di indicarlo, di accusarlo di tutti quegli effetti che invece essa stessa produce di ingiustizia, di miseria, ďinfelicitá tra gli assoggettati. E certo quelle credenze avevano diffusione: ma a misura in cui ingiustizia, miseria e infelicitá erano dal sistema dominante in maggiore quantitä e con accelerazione prodotte. Come a dire: provata la religione del bene, che tanti mali ci apporta, proviamo se ci va meglio quella del male. Che puô sembrare battuta ba-nale o grossolana, ma ě tutt'akro che priva di veritá: a rendere quel che accadeva a livello di psicologia individuale, o di ristrette collettivitá. Caterina Medici, infatti, si rivolge al diavolo nei momenti di grande stanchezza e disperazione, quando non ne puó piú. Lo invoca a che la porti via, nel suo regno che irride a quelPaltro cui pure lei crede ma di cui non trova un segno, una risposta, un barlume di grazia nella dolorosa sua vita. Coke nella tradizione popolare e nel farneti-care di alcuni, queste credenze venivano da dotti religiosi accuratamente catalogate e descritte, passavano ai predicatori, ritornavano al popolo autenticate, certificate: e ancor piu cosi si dif-fondevano. Una perversa e dolorosa circolaritá. Dice il Manzoni nel capitolo XXXII, met-tendo la credenza negli untori alia pari di quella nelle magie: "Citavano cenťaltri autori che hanno trattato dottrinalmente, o parlato inci-dentalmente di veleni, di malie, d'unti, di pol-veri: il Cesalpino, il Cardano, il Grevino, il Sa-lio, il Pareo, lo Schenchio, lo Zachia e, per fi-nirla, quel funesto Delrio, il quale, se la rino-manza degli autori fosse in ragione del bene e del male prodotto dalle loro opere, dovrebb'es-sere uno de' piú famosi; quel Delrio, le cui ve-glie costaron la vita a piu uomini che l'imprese di qualche conquistatore, quel Delrio le cui Di-squisizioni Magiche (il ristretto di tutto ció che gli uomini avevano, fino a' suoi tempi, sognato in quella materia), divenute il testo piu autore-vole, piú irrefragabile, furono, per piu di un se- 66 67