Simona Baldanzi, Maldifiume 2016 Ancora non lo sapevo, ma il primo momento in cui ho iniziato a pensare a un viaggio lento lungo l'Arno, e stato Ii, su quel tavolo in Uruguay, a migliaia di chilometri di terre e mari lontano da casa. Quel Rio Negro che mi ave- va accolta a quel modo, bagnata e risvegliata, mi pone- va tante domande. Cosa e per me il fiume? Cosa e l'Ar- no? Cosa e diventato? Come e cambiato? Noi italiani che mettiamo tutto nei barattoli, che siamo bravi a conserva- re, cosa ce ne facciamo oggi del fiume? Come viviamo il fiume che passa paesi, parchi, cittä, che si muove vicino a ferrovie, autostrade, che sibila sotto i ponti, che divi- de comunitä in due rive, che attrae e spaventa insieme? Le domande aumentavano, ma io non guardavo fuori, cercavo l'intimita, la mia storia, i miei fiumi. (•••) II fiume, da Capo d'Arno a Bocca d'Arno, e lungo piü di 240 chilometri e ha un bacino di oltre 8200 chilome- tri quadrati. Sergio e Marinella hanno srotolato di fronte a casa mia una carta che sarä stata lunga tre metri e larga quasi uno. E tutto l'Arno? chiedo ingenua. No, sono solo dieci chilometri. Li mi e presa l'ansia di non farcela. Non ho ferie, non ho soldi, come facciamo? Bisogna scegliere delle tappe e avere un mezzo di appoggio. Sergio si e offerto di mettere a disposizione l'auto, di guidare e di fare da base mobile per tutto il percorso. E un grosso sacrificio per chi ha fatto del cammino una scelta di vita. Sergio ha un ginocchio che non si risistema con delle iniezioni. All'operazione non ci vuole pensare, dice che si invecchia, che non siamo fatti di pezzi di ri- cambio, che bisogna accettarlo. Ci ha raggiunto Davide, che domani camminerä con noi. E un camminatore e un lavoratore culturale. Sergio gli ha commissionato di documentarsi sulla Via dei Legni. «Se vieni con noi, nel primo tratto, ci devi raccontare». Fuori piove, chiudiamo tutte le imposte di legno. Stiamo davanti al fuoco. Davide inizia parlando del paesaggio che non e una cartolina, e fatto di relazioni. E piuttosto come un teatro, cosi come racconta Eugenio Turri, geografo, scrittore e viaggiatore. «E fatto di mate- ria, del legno consumato del palco, del panno nero del- le quinte, dei cieli e degli arlecchini, della platea, dei palchi e delle barcacce dell'intero edificio che Ii contiene. E il luogo in cui vanno in scena delle recite, dove uomini e donne come attori e spettatori agiscono e nel contempo assistono a delle storie in cui si rappresentano. II paesaggio e fatto di natura e di storie che raccontano il rap- porto che uomini e donne hanno avuto con il territorio, a volte come spettatori a volte come attori. L'attore agisce, fa, condiziona, cambia il teatro, lo spettatore guarda. I momenti migliori per il paesaggio sono quelli in cui si e attori e spettatori insieme. II contadino lo e: di giorno e attore e di sera e spettatore. II camminatore in qual- che modo pure, e attore e spettatore insieme. II miglio- re paesaggio italiano e nato cosi, da questa mescolanza di lavoro e di sguardo». (...) I ghiri e l'acqua hanno smesso il baccano. Fuori c'e il sole e odore di terra bagnata. II cammino inizia in salita. L'ini- zio e una sensazione di inadeguatezza, di basculamenti, di sguardi bassi per non inciampicare. Ogni parte del corpo e concentrata nel movimento, nel prendere coscienza del proprio tempo. Cammino in un bozzolo tutto mio, risve- glio piano ogni muscolo, ogni cartilagine, ogni osso, ogni organo. L'inizio e fatica e ricerca di abitudine, e sintoniz- zare uno schermo che balla, una radio che frigge. L'inizio e fastidioso e il cuore mi batte nel petto, come a saltare fuo- ri. Se accolgo il fastidio sarö un corpo nuovo e vedro tutto intorno e ne godrö. Succede, e me ne stupisco ogni volta. Esco dal bozzolo e sono un corpo nuovo, come un pule- dro che esce dalla placenta e subito si rizza in piedi. Cam- mino da un bei po', ma ora sono viva e tutto intorno é vi- vo. II bosco arriva dopo, ma arriva. Ora 10 vedo. C'é anco- ra ľinverno nelľaria, nelle chiazze di neve. Gli alberi trac- ciano colonne di ombre eppure non sono cancelli, non c'é chiusura. I colori prendono il loro nome, il marrone e il rosso delia terra, il verde del muschio, ľazzurro del cielo. (...) Sentire il tuo rumore, uno sfrigolio friggente che taglia il silenzio, vederti collana d'acqua, rigagnolo trasparente adornato di pietre incastonate nel muschio e nella terra, stare chinata con la mano immersa e guardare le grinze di acqua che si sfaldano fra le dita é stato tutt'uno. Ogni passo fatto era per te, per arrivare da te, per toccarti. Gli spiriti non mi disturbano. L'Arno qui non ha nome. É acerbo. Tiro su ľacqua con una mano. Ricade e si confonde. Non riesco a staccarmi da te, eppure tu giä te ne vai. Nasci e te ne vai. Sei sorgente e prosegui, acqua che parte e non si stanca, cosi per chilometri fino al mare. Eppure sto qui e ho ľidea che non ci sia domani, ehe non ci sia futuro, che tu non finisca in mare. Tu sei qui e continua- mente ti rigeneri. Da questo piccolo cumulo di sassi, nasci di continuo. «L'acqua che tocchi de' fiumi é l'ultima di quella che andô e la prima di quella che viene. Cosi il tempo presente». Lo ha scritto Leonardo da Vinci, nel Codice Thvulziano. Bisogna proseguire. Camminare é il presente. Mi rialzo, quasi inciampo. Allora mi chino di nuovo, quasi mi siedo. Ti bevo. Qualcuno, prima di partire mi aveva chiesto scherzando: «Lo metterai in un'ampolla alla sorgente e lo porterai al mare?». No. Avevo giä in testa che il fiume non sta in un barattolo. II fiume te lo porti dentro. II fiume, qui, dove comincia, é un mistero come lo siamo tutti, alľorigine. L'inizio é sempre un luogo oscuro e forse cercare le storie é come provare a muoversi fra ombre e apparenze che continuamente si rigenerano e scorrono come l'acqua. Si deve proseguire. II bosco ha il suo sentiero un po' distante. Ho appena cominciato a conoscerti che giä devo staccarmi da te. 11 bosco, passo dopo passo, cambia stagione. Dai toni del grigio, del bianco e del marrone, si passa a quelli del marrone piú caldo e del timido verde, via, via piú acce- so e maturo. Mi fermo per verificare con le mani la te- nerezza di quelle foglie. É il primo verde che sboccia, le foglie sembrano insalata. Lo dico e gli altri ridono, for- se é la fame. Forse. Eppure é come se queste chiazze di verde che si accendono al passaggio mi dissetassero e mi sentissi rinnovata. Facciamo le foto intorno al masso posato sull'erba con su inciso Monte di Gianni. II sole ci mette del suo e ora lo sguardo é pieno di verde, non piú a chiazze. Ritro- viamo anche Sergio. Marinella gli racconta un po' il giro che abbiamo fatto. In quel momento mi accorgo di ave- re una Scarpa slabbrata. La punta pare un becco di ana- tra. Succede alle scarpe vecchie e pure a quelle poco uti- lizzate. Tutto il vigore che avevo preso ingoiando il ver- de si ritira nella vergogna del sentirmi inadatta. E ades- so? Sergio e Marinella sorridono. Tirano fuori un laccio giallo lungo, di quelli da scarpe e mi aiutano a girarlo intorno alla punta, fra le sporgenze della suola a carrarma- to, intrecciandolo alle stringhe dello scarpone, che ades- so pare un piccolo dono col fiocco. Buffo, ma funziona. Cammino a fianco di Sergio verso la piccola chiesa in pietra di Vallucciole. Prima di partire, insieme a Marinel- la, mi ha regalato un libro di Andrea Speranzoni, l'awo- cato che ha difeso familiari delle vittime, enti pubblici e l'ANPI nei principáli processi italiani per crimini nazifa- scisti. Si intitolaj4 partire da Monte Sole. Stragi nazifasci- ste, tra silenzi di Stato e discorso sul presente. Sergio e Ma- rinella gli avevano raccontato dei nostri cammini lungo ľAppennino e lui mi ha scritto una dediča ehe mi esorta a «guardare nei sentieri oltre il segno battuto perché le verita fuori strada vanno raccontate». Eccolo qua dove dormiremo, un piccolo appartamento ristruttura- to con ľingresso di fronte al vecchio mulino. Eccola qua la lapide per Pio Borri, il partigiano maremmano ucci- so qualche mese prima delľeccidio di Vallucciole. Ecco il monumente alla memoria delia Resistenza e l'Arno che scorre e va, e ľacqua che ho toccate chissä a che punto giä sarä. Le storie mi sciaguattano in testa. Penso ehe varieta di geni, indice biologico, bassa densitä siano belle parole con cui lavorare e progettare il futuro. Devo ricordarmi di riempire la borraccia per domani. Per ora appoggio lo zaino sul letto. Claudio Bucchi e sua moglie Carla ci aspettano. Ho sistemato le ghette, ho chiuso la mantella e l'ho le- gata ai lembi per non inciampare, ho guardato il laccio giallo sullo scarpone infangarsi e poi, dopo pochi passi, ha smesso di piovere. II sentiero e quello che conduce a Rondine, dentro la Riserva naturale di Ponte a Buriano e quella della Valle dell'Inferno e Bandella. II verde intor- no e imbevuto d'aequa, tutto e lucidato ed effervescente. L'Arno sta alte sulle rive. La striscia d'aequa color sab- bia scura riempie ogni spazio e tocca ovunque la vegeta- zione. Scorre possente e fiera. Come si fosse in un tratto di foresta tropicale, non si vede altro che verde e acqua, pure il cielo, di un bianco grigio senza sfumature, pare uno sfondo insignificante rispetto al resto. Noi avanzia- mo attenti al terreno seivoloso, a scansare le frasche, a farci snodabili fra lo stretto. A un certo punto lo sguar- do si apre. II fiume e largo, una lastra piatta che sta qua- si immobile. Paolo si ferma a fare qualche foto. Io guar- do l'acqua e penso ai pesci che ci nuotano, al perche non esista un mostro famoso di fiume, tante piecole leggende si, ma uno come Loch Ness, per dire, perche non c'e? II fiume e giä una bestia da solo, e un serpente reale che si rigenera continuamente, da capo a coda. Anzi l'Arno da capo a bocca, stranissimo animale. II sentiero torna stretto. Scendiamo aggrappandoci a una corda e mentre sto per scivolare su un masso reso Ii- scio dalla pioggia, guardo il laccio giallo come a un amu- leto. E sporco di fango, ma resiste. «Qua non si prose- gue» dice Marinella. Paolo e io la raggiungiamo di fronte al guado impraticabile. C'e una cascata che cade giü per qualche metro in un continuo ribollio di schizzi. Guar- do quella forza, una corposa stoffa d'aequa che copre la strada, mi rimbomba, mi scopre arresa. Non possiamo farci niente, dobbiamo arrampicarci, ritrovare i campi e poi la strada asfaltata. Affondo, seivolo, mi aggrappo a qualche ramo sottile, sento il fango che da sotto le un- ghie mi mangia le mani, si infila in me come un verme, come tanti vermi. Cammino e sono verme. Siamo vermi. Samuele agguanta il binocolo. Proprio sotto il Ponte Romita, punta le lenti. Poi ce lo passa a tutti, ci dice dove guardare, un puntino rispetto a tutta l'arcata. Ě la prima volta che vedo un falco pellegrino. Sta dove passa tutto il rumore del nostra paese diretto da sud a nord e da nord a sud, li nel punto piü alte. Mi fa sentire la sua indifferen- za e maestositä, la miseria e la solitudine che ci portiamo dentro, la nostra relativita e i nostri limiti. Si sente uno stridulo, poi un altro, rotoli di striduli. Ě un attimo, ma Samuele, riconoscendoli, mi awerte in tempo. Tre martin pescatori passano a pelo d'aequa a pochi metri dalla Bandellina. Neanche loro sono acquerelli. Sono nitidi, veloci, eleganti. II piumaggio ě un carnevale elettrico di arancione e blu, sono la teeno dei pennuti. Samuele ci spiega che il nome della loro societa, Alcedo, ě il nome in latino del martin pescatore. Mi scopro a riconoscerne la voce, a vederne un altro, a individuarlo da sola. Garzette, cavalieri d'Italia, aironi, nitticore e svassi maggiori. Ě come quando impari le lettere e le parole e stordisci tutti leggendo ad alta voce ogni fräse, ogni cartello che vedi, ogni scritta. Imparo un'altra lingua lungo l'Arno, lenta e netta, fatta di acqua che si increspa poco, di conta dei nidi sugli alberi, di condomini di aironi ci- nerini e aironi guardabuoi in un'ansa, di canti, di piume che si agitano al nostro passaggio, di becchi che battono, di fiori aggrappati alle rive come unghie. Muo- vo passi e finalmente il duro asfalto finisce. Ci conquista un cartello scritto a pennarello: «A piedi non ě vietato». Accarezzo l'erba alta da una parte e le spighe di gra- no ancora verdi dall'altra. Mi awicino a te, Arno. Come era quando eri ricco di rena? Come era quando l'affare era portare via la rena? Una corsa all'oro per la terra, a scavarti, a portarti via il fondo, il letto, la via. Ho sfoglia- to molti libri con le foto dei renaioli. Ho visto gli sguar- di di uomini al lavoro: l'orgoglio e la fatica in molte to- nalita di grigio. Anche in quella sera fredda a Rignano ascoltai i rac- conti. «Come facevano? Bene, facevano. Sulla barca ave- vano una cucchiaia di ferro che calavano, la inclinava- no e la tiravano su. Era sabbia pulita. Oppure avevano la concessione di scavo lungo alcuni tratti a riva. Quelli che facevano le buche erano i bucaioli. Ti immagini l'iro- nia?». Tu acqua, muovendoti nei secoli avevi create ter- ra preziosa. In poco tempo te l'abbiamo portata via tut- ta. Sabbia, rena, calce. Sei duro come le palle d'Arno, si diceva. Si faceva riferimento ai ciottoli bianchi tipici del fiume. Sparite le palle, sparito il detto. «Era rena buona, le case non sono crollate. I renaioli scavavano, caricava- no i barrocci e poi la trasportavano col trenino a vapo- re da San'Ellero a Vallombrosa a costruire case e alber- ghi. Tornavano in giu a piedi perché non potevano per- mettersi il biglietto del treno di ritorno. La fatica invece, non costava niente. Rientro nel mio corpo, ritorno a una normale gravita. Muovo passi in un mondo familiäre: il parco fluviale, la gente a spasso, gli orti, le sedie sotto una pensilina. L'Ar- no e vicino a noi, increspato di luce. Per arrivare alle Gualchiere, bisogna fare un po' di strada asfaltata. Dobbiamo raggiungere Sergio che ci aspetta lä. La striscia bianca sul grigio delimita il nostro andare, la seguo per proteggermi dalle automobili, insie- me al laccio giallo dello scarpone. Sono come ipnotizza- ta, un esercizio di resistenza. Arriviamo alia localita I Renai, nel comune di Bagno a Ripoli. Un pugnello di case, di piante grasse nei vasi, di rose che sbucano dalle reti. Eccoti la dietro, linguae- cia bagnata che ci fai una smorfia, oltre la casetta sull'al- bero, con tanto di balconcino e fiori appesi. Qua vivo- no bambini felici che si affacciano sull'Arno imbastendo storie fantastiche. Oggi la cittä non e un impegno di lavoro, una visita ai parenti, una mostra da visitare con le amiche, un con- certo tanto atteso. Oggi la citta e il suo fiume, un lungarno da fare un passo dopo l'altro. Mi fermo a guarda- re una ragazza che ti dipinge. E vestita degli stessi colori che riproduce, si mimetizza con te e con gli alberi intorno. Lungo l'Arno in citta, si puö camminare e prendere un caffe al bar, si puö camminare e guardare una scolaresca che fa giochi sulla sabbia poco prima della Biblioteca Nazionale, si puö camminare di fianco a te e scansa- re traffico e confusione e velocita. Si puö cosi notare un airone, un ciuffo di fiori rosa cresciuti lungo il bastione, si possono contare le gru dei lavori o i germani in acqua. Sento intorno i turisti come pruni dalle siepi. Sento il fastidio del corpo quando non e dove vuole essere. Ci sono parti di Firenze che i suoi abitanti non frequentano piü perche sono solo vetrine e turisti. Devo tornare da te e scansiamo tutti e tutto. Evitiamo pure il Ponte Vecchio, stracolmo di gente, e attraversiamo il Ponte Santa Trini- tä, ricostruito pezzo su pezzo dopo i bombardamenti te- deschi. In Arno ci finirono anche le quattro statue delle stagioni. Furono ripescate, ma maneava una testa, quella della primavera, che fu ritrovata da un renaiolo negli anni Sessanta. Eriberto raeconta. II fiume in citta e un raeconto immenso e infinite. Noi ascoltiamo e camminiamo. Tu ti appiattisci come il dorso di un cane che vuol ricevere solo carezze. Quando ho cominciato a cercare contatti per costrui- re questo viaggio ho iniziato da amici e conoscenti che vivevano lungo il fiume. L'Arno? Chi vive vicino al ma- re, anche se non ha la terrazza con vista, lo sente presen- te sempře, se lo porta dentro, ě gente di mare. Chi vive vicino al fiume spesso se ne dimentica. Eppure bašta un accenno e qualcosa si risveglia, e ognuno si riscopre un po' rana e un po' pesce di acqua dolce e si fa acqua piú di quanto ammetterebbe, si sente parte di una comuni- tä ehe non aveva mai pensato cosi estesa e vasta, diventa messaggi in bottiglia verso il mare. Sul sentiero sempře piú bianco e sabbioso incrociamo delle carrozze a cavalli. Possiamo scendere. II cielo ě an- cora grigio, ma a parte qualche goccia si mantiene spento. Camminiamo fra sabbia e dune di macchia, con l'odore di elicrisio che ci awolge come borotalco. Eccolo il mare, ě calmo, ě ďargento. Chiediamo alia guida di la- sciarci qui almeno per qualche minuto. Non avevo dubbi che nello zaino di Simone ci fosse qualcosa per festeggiare. Tira fuori Vin santo e cantucci- ni: si brinda, ci si abbraccia, si fanno le foto. Tito mi aiuta a trovare sulla sabbia un piccolo legno levigato dalľacqua. Ci si sente tutti Pinocchi sghembi, in salvo, risputati dal pescecane, dal Colombre o dalla balena volante sulla spiaggia del Gombo. Guardo a sinistra. Tu sei lontano, ma da qua ti scorgo come lo sbuffo di un capidoglio. Non ho bisogno di guardarti. Ho il maldifiume, la bellezza da vertigine, lo sbandamento da trasformazione, lo stupore per la crescita e per la condivisione ehe mi hai mostrato nei riflessi e sulle rive e ti penso ancora che rinasci dal Capo, in questo e in ogni istante portando in ogni goccia le nostre sto- rie e la tua in una confluenza eterna, e ogni parte di te di- venta Bocca e mangi il mare e ti fai pelle nuova e salata. Vecchio, nuovo, morto, vivo sono tutti aggettivi con cui ti puoi mascherare per prenderci in giro e somigliarci. Appoggio lo zaino sulla sabbia. Sfilo le scarpe da gin- nastica, chiedo agli amici viandanti di fare lo stesso. Arrotolo i pantaloni, cammino sulla sabbia, immergiamo i piedi nel mare. Alziamo le braccia al cielo. Sfioro con la mano ľacqua. Non mi faccio vedere da nessuno. Mi ciuccio il dito.